Rivista di Diritto SocietarioISSN 1972-9243 / EISSN 2421-7166
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Amministratori di società privi di deleghe e l´obbligo di agire informati (di Alessandro di Majo)


CASSAZIONE CIVILE, I Sezione, 31 agosto 2016, n. 17441 – Bernabai Presidente – M. Di Marzio, Relatore – Ceroni, P.M.

 

Società di capitali – Amministratori c.d. non operativi – Responsabilità verso la società – Generale obbligo di vigilanza – Esclusione – Obbligo di agire informati – Sussistenza

 

(Artt. 2381, 2392 c.c.)

 

In virtù della modifica dell’art. 2392 c.c. avvenuta a seguito della riforma delle società di capitali del 2003, gli amministratori privi di deleghe (c.d. non operativi) non sono più sottoposti ad un generale obbligo di vigilanza, tale da trasmodare di fatto in una responsabilità oggettiva, per le condotte dannose degli altri amministratori, ma rispondono solo quando non abbiano impedito fatti pregiudizievoli di quest’ultimi in virtù della conoscenza – o della possibilità di conoscenza, per il loro dovere di agire informati ex art. 2381 c.c. – di elementi tali da sollecitare il loro intervento alla stregua della diligenza richiesta dalla natura dell’incarico e dalle loro specifiche competenze. (1)

 

 

 

MOTIVI DELLA DECISIONE

 

  • 6. – Il ricorso principale proposto da (omissis), (omissis) e(omissis) (omissis)contiene due motivi.
  • 6.1. – Il primo motivo è svolto da pagina 11 a pagina 51 del ricorso sotto la rubrica: «Sulla responsabilità del signor(omissis)e degli altri convenuti costituiti, signori (omissis) e (omissis): contraddittoria e/o insufficiente e/o omessa motivazione ex articolo 360, comma 1, numero 5 c.p.c. circa fatti controversi e decisivi per il giudizio; violazione di norme di diritto ex articolo 360, comma 1, numero 3, c.p.c.».

Il motivo è volto a sostenere che la Corte territoriale:

  1. i) avrebbeerrato,violando il precetto dell’art. 2392 c.c., ed addebitando al (omissis) un generale obbligo di vigilanza, nel non avvedersi che la domanda attrice era priva di supporto probatorio e nel non ammettere la consulenza tecnica d’uf­ficio richiesta, affidando la decisione ad una consulenza tecnica di parte redatta per il Fallimento e priva di valore probatorio;
  2. ii) avrebbe errato nel non attribuire il dovuto significato ad atti penali dai quali emergeva l’e­sclusiva responsabilità del (omissis) nella vicenda oggetto di lite;

iii) avrebbe errato nel ritenere che fosse stato provato il pagamento della residua parte del prezzo da parte della società poi fallita a (omissis) S.r.l.;

  1. iv) avrebbe errato nel valutare taluni elementi (l’evidente responsabilità del (omissis); la breve durata della partecipazione del (omissis) e anche degli altri originari convenuti, alla società ed al suo consiglio di amministrazione; la mancata approvazione del bilancio 2004; l’impiego delle carte di credito da parte del (omissis)).

 

  • 6.2. – Il secondo motivo è svolto da pagina 51 a pagina 58 del ricorso sotto la rubrica:

«Sulla determinazione del quantum: contraddittoria e/o insufficiente e/o omessa motivazione ex articolo 360, comma 1, numero 5, c.p.c., circa fatti controversi e decisivi per il giudizio; violazione di norme di diritto ex articolo 360, comma l, numero 3, c.p.c.».

Secondo i ricorrenti la Corte d’appello avrebbe reso una motivazione contraddittoria ed insufficiente, per un verso riconoscendo che la consulenza tecnica di parte fatta eseguire dal Fallimento era priva di valore probatorio, e poi impiegandola nondimeno ai fini della liquidazione, per altro verso dando per accertato il pagamento del saldo di € 1.360.959,00.

  • 7.Il ricorso del (omissis) contiene quattro motivi.
  • 7.1. – Il primo motivo è svolto sotto la rubrica: «Violazione dell’articolo 2381, terzo e quinto comma, c.c., in combinato disposto con l’articolo 2392, primo comma, c.c., rilevante quale “falsa applicazione di norme di diritto” ai sensi e per gli effetti dell’articolo 360, primo comma, numero 3, c.c.».

Secondo il ricorrente incidentale la Corte d’ap­pello non si sarebbe avveduta che, nel quadro di applicazione dell’articolo 2392 c.c., nel testo applicabile ratione temporisla responsabilità degli amministratori non potrebbe essere riconnessa ad una condotta di mera omissione di attività di vigilanza, giacché gli amministratori non operativi, quale era esso (omissis) avrebbero il compito di valutare l’andamento della gestione svolta dagli amministratori operativi, sulla base delle informazioni da questi ricevute, informazio­ne in questo caso artefatte dal (omissis) di modo che egli, in mancanza di segnalazioni ovvero altri indici esteriormente percepibili, non avrebbe a­vuto alcuna concreta possibilità di avvedersi della situazione in cui la società effettivamente versava, tanto più che nell’arco temporale in cui aveva ricoperto la carica, il consiglio di amministrazione non era stato neppure convocato per valutare un intervento quale quello ipotizzato dalla Corte d’appello e volto a neutralizzare gli effetti del contratto di acquisto del pacchetto azionario di (omissis) (omissis) S.p.A.

 

7.2. – Il secondo motivo è svolto sotto la rubrica: «Violazione dell’articolo 2381, sesto comma, c.c., in combinato disposto con l’articolo 2392, secondo comma, c.c., rilevante quale “violazione o falsa applicazione di norme di diritto” (articolo 360, primo comma, numero 3, c.p.c.)».

Sostiene il (omissis) che la Corte d’appello avrebbe ulteriormente errato non avendo compreso che egli mancava di poteri di intervento, ovvero di ricerca e verifica preventiva di Informazioni, in assenza di segnali di rischio provenienti dagli organi delegati o anche dal collegio sindacale. Quanto all’acquisto di (omissis) S.p.A., l’addebito contenuto nella sentenza impugnata di non aver impedito il compimento o eliminato o attenuato le conseguenze dannose dell’atto, non aveva fondamento, in mancanza della conoscenza dei fatti pregiudizievoli e della possibilità di svolgere un qualche intervento. Secondo il ricorrente incidentale, d’altro canto, l’obbligo di agire in formati di cui all’articolo 2381, sesto comma, C.C., si realizzerebbe attraverso le informazioni che pervengono in seno al consiglio di amministrazione dal presidente ovvero dal­l’amministratore delegato sicché, in mancanza di detta informazioni, non solo il consiglio di amministrazione non avrebbe potuto agire in modo informato, ma neppure avrebbe potuto esercitare quel potere di chiedere agli organi delegati informazioni relative alla gestione della società di cui al sesto comma dell’articolo 2381 c.c., considerata la mancanza di segnali di allarme.

In tale quadro nessun rilievo avrebbe potuto attribuirsi anche alla mancata partecipazione alla riunione del consiglio di amministrazione del 21 dicembre 2004, così come alla mancata partecipazione all’approvazione del bilancio, tenuto con­to che l’attività di richiesta di chiarimenti era stata poi rivolta al (omissis) pochi mesi dopo, nel maggio 2005.

 

  • 7.3. – Il terzo motivo è svolto sotto il titolo: «Omesso esame delle risultanze del procedimento penale e del decreto diarchiviazione,rilevante quale “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti” ai sensi e per gli effetti dell’articolo 360, primo comma, numero 5 c.p.c.».

Si sostiene, in buona sostanza, che, come risultante dagli atti penali citati in rubrica, l’integrale responsabilità della vicenda fosse da attribuire esclusivamente al (omissis) il quale aveva fatto in modo da celare la reale situazione della società.

 

  • 7.4. – Il quarto motivo è svolto sotto il titolo:«Violazione e falsa applicazione degli articoli 2697, 2729, comma primo, c.c. con contestuale violazione degli articoli 115 e 116 c.p.c. ai sensi e per glieffetti dell’articolo 360, primo comma, numeri 3 e 4, c.p.c.».

Il motivo concerne la prova del pagamento del residuo prezzo dell’acquisto di (omissis) (omissis) (omissis) S.p.A., prova che, secondo il (omissis) non sarebbe stata fornita.

 

  1. – Il ricorso di (omissis) (omissis) contiene quattro motivi.
  • 8.1. – Il primo motivo è svolto sotto iltitolo:«Illegittimità della sentenza ex articolo 360 comma i numero 5 c.p.c. circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio„ ovvero che à risultato dagli atti processuali che la consulenza tecnica del professor (omissis) allegata dalla Curatela del Fallimento nell’atto di citazione non ha confermato l’avvenuto pagamento del saldo del debito verso (omissis) pari a  1.360.959,00 per l’acquisto delle quote del 77% della (omissis) tra il 14 ottobre 2004 ed il 31 dicembre 2004; nonché circa un altro fatto controverso e decisivo per il giudizio, ovvero che, dal procedimento penale a carico del signor (omissis) era emerso, senza dubbio, che l’unico responsabile delle condotte fosse stato proprio il (omissis) che non aveva informato gli amministratori del suo operato, così rappresentando loro una situazione contabile e finanziaria non reale e alzata nelle sue poste di bilancio».

 

  • 8.2. – Il secondo motivo è svolto sotto il titolo: «Illegittimità della sentenza ex articolo 360 comma I numero 3 c.p.c. per violazione e/o falsa applicazione dell’articolo 2697 c. c. in punto di onere della prova per avere laCorted’appello posto a base della decisione di condanna, quale unica fonte di prova, la consulenza tecnica del professor (omissis) allegata dalla Cura Della del Fallimento nell’atto di citazione, non riconoscendo alcun valore probatorio alle risultanze del procedimento penale R.G. n.r. 14.415/08 incardinato dalla Procura di Roma contro il signor (omissis) giusta documentazione esibire dalla difesa del convenut(omissis) nel corso del giudizio di primo grado».

 

  • 8.3. – Il terzo motivo è svolto sotto iltitolo:«Illegittimità della sentenza ex articolo 360 comma 1 numero 3 c.p.c. per violazione e/o falsa applicazione degli articoli 2381, 2384 e 2392 c.c. in combinato disposto con l’articolo 2697 c.c. per avere la corte d’appello di Roma addebitato al (omissis) una responsabilità omissiva, senza aver svolto alcuna indagine atta ad approfondire la sussistenza della conoscenza in capo agli amministratori del dissesto finanziario della società fallita».

Si sostiene nel motivo che il (omissis) sarebbe stato “turlupinato” dalle capacità istrioniche del (omissis), sicché lo stesso (omissis) non avrebbe potuto essere ritenuto responsabile di omissioni, dal momento che detta responsabilità avrebbe potuto insorgere soltanto se egli non avesse mai visto documenti come previsto dall’articolo 2381, sesto comma, c.c., contravvenendo al suo obbligo di informarsi, mentre egli era stato vittima della falsità dei documenti forniti dal (omissis).

D’altro canto non era pensabile che il (omissis) potesse impugnare il contratto di cessione già concluso in quanto trattavasi di operazione che poteva essere effettuata solo con la chiusura del bilancio, non ancora avvenuta. Inoltre il bilancio al 31 dicembre 2004 era stato approvato dal solo (omissis) quando il (omissis) non era più amministratore. La circostanza che egli avesse partecipato alla riunione del consiglio di amministrazione del 21 dicembre 2004 non poteva costituire ele­mento di responsabilità in quanto il (omissis) aveva documentato le esigenze di ricapitalizzazione della partecipata (omissis) (omissis) (omissis).

Analoghe considerazioni potevano farsi con riguardo alla circostanza che il (omissis) non aveva partecipato all’approvazione del bilancio del 2004.

In tale contesto la Corte d’appello non aveva fatto corretta applicazione dell’articolo 2392 che individua la responsabilità degli amministratori solo se chi agisce per il risarcimento del danno fornisce la prova che l’amministratore fosse a conoscenza della reale situazione della società. In ogni caso, atteso il limite di delega del (omissis) ad operazioni finanziarie non superiori a E 10.000,00 non si comprenderebbe perché mai lo stesso dovrebbe essere responsabile a risarcire in solido con gli ha altri amministratori un danno milionario.

 

  • 8.4. – Il quarto motivo è svolto sotto il titolo:«Illegittimità dellasentenza ex articolo 360 comma uno numero 3 c.p.c. per violazione e/o falsa applicazione dell’articolo 2697 nonché dell’arti­colo 1226 c.c. per aver omesso la Corte d’appello di Roma di accertare l’esistenza del nesso di causalità tra causa ed azione per aver operato l’iden­tificazione automatica del danno in via equitativa in 1.421.000,00 con riferimento alla somma costituente il pagamento di E 1.360.959,00 per il saldo del 77% di azioni del capitale sociale della (omissis) moderata con un importo pari al passivo della società fallita». Secondo il ricorrente, la Cor­te d’appello, cosi operando la liquidazione, avrebbe disatteso il motivo svolto da esso (omissis) secondo cui il quantum avrebbe dovuto essere calcolato per differenza tra l’attivo e passivo e, così, nell’importo di € 172.080,92. La Corte territoriale, inoltre, non si era avveduta del difetto di prova del pagamento dell’importo di € 1.360.959,00.

 

  • 9. – I ricorsi sono fondati nei limiti che seguono.
  • 9.1. – Tutti e tre i ricorsi denunciano un vizio di violazione di legge essenzialmente riferito al­l’articolo 2392 c.c., nel testo vigente: quello del (omissis) in modo chiaro ed organico, gli altri attraverso motivi compositi in cui detto vizio sì sovrappone e talora si confonde con una denuncia di vizio motivazionale, ma è pur sempre sufficientemente delineato ed individuabile.

Occorre, sul tema, in generale dire che gli am­ministratori possono essere chiamati a rispondere per i danni cagionati alla società amministrata se siano venuti meno ai propri doveri, così da cagionare, per li rami del nesso di causalità, un pre­giudizio alla società. Tale responsabilità ha natura contrattuale (Cass. 20 settembre 2012, n. 15955; Cass. 11 novembre 2010, n. 22911; Cass. 22 ottobre 1998, n. 10488; Cass. 22 giugno 1990, n. 6278), con tutto quanto ne deriva sul piano del riparto degli oneri probatori: in particolare, la società (o il Curatore nell’ipotesi del­l’azione intentata ai sensi dell’articolo 146 della legge fallimentare) è onerato della deduzione delle violazioni, nonché della deduzione e prova del danno e del nesso di causalità tra violazione e danno. Incombe per converso sugli amministratori l’one­re di dimostrare la non imputabilità a sé del fatto dannoso, fornendo la prova positiva, con riferimento agli addebiti contestati, del­l’osservanza dei doveri e del­l’adem­pimento degli obblighi loro imposti (in questi termini Cass. 11 novembre 2010, n. 22911 in motivazione).

I doveri degli amministratori, dalla cui violazione può generarsi responsabilità, si individuano per il tramite dell’articolo 2392 c.c., che trova nel caso di specie applicazione nel testo derivante dal decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 6, applicabile con decorrenza dal 1° gennaio 2004 (la condotta addebitata al (omissis) (omissis) e (omissis) muove temporalmente dal loro ingresso nella società nel luglio 2004). Tale norma, come soprattutto la difesa del (omissis) ha osservato, è stata significativamente modificata dal menzionato intervento di riforma.

Ferma l’applicazione della business judgement rule, la quale – prima e dopo la riforma – si risolve in ciò, che le scelte gestionali compiute dagli amministratori sono in se stesse Insindacabili (a partire da Cass. 12 novembre 1965, n. 2539 per arrivare fino a Cass. 12 febbraio 2013, n. 3409, e da ultimo a Cass. 2 febbraio 2015, n. 1783), salvo non si tratti di operazioni che, se valutate ex ante, si rivelino manifestamente avventate ed imprudenti, il vecchio testo dell’articolo 2392 c.c. contemplava l’obbligo degli amministratori di adempiere i propri doveri con la diligenza del mandatario, con conseguente responsabilità solidale in ipotesi di inadempimento (eccettuato il caso di funzioni proprie del comitato esecutivo o di uno o più amministratori), ed imponeva un generale obbligo di vigilanza che faceva ricadere solidalmente sugli amministratori non operativi il pregiudizio cagionato dall’altrui condotta, quando fosse loro addebitabile la violazione di detto obbligo.

In tale quadro questa Corte ribadiva che «l’ar­ticolo 2392 c.c., che pone a carico degli amministratori il dovere di vigilare sul generale andamento della gestione di s.p.a., deve essere interpretato nel senso che ciascuno dei componenti del consiglio di amministrazione è tenuto ad attivarsi allo scopo di esercitare un controllo effettivo sull’operato degli altri, sicché l’affidamento di singoli e specifici compiti di amministrazione diretta ad alcuni soltanto degli amministratori non esclude la responsabilità degli altri; ne consegue che il componente del consiglio di amministrazione di una società di capitali, chiamato a rispondere come coobbligato solidale per omissione di vigilanza, non può sottrarsi alla responsabilità adducendo che le operazioni integranti l’ille­cito sono state poste in essere, con ampia autonomia, da un altro soggetto» (così Cass. 21 luglio 2004, n. 13555, in motivazione; analogamente Cass. 27 aprile 2011, n. 9384; Cass. 15 febbraio 2005, n. 3032; Cass. 29 agosto 2003, n. 12696; Cass. 11 aprile 2001, n. 5443).

La riforma del 2003 ha però come si diceva modificato i termini della disciplina applicabile.

Per un verso gli amministratori operativi rispon­dono non già quali mandatari, bensì in ragio­ne della «diligenza richiesta dalla natura del­l’incarico e dalle loro specifiche competenze» (così il nuovo testo dell’articolo 2392, primo comma, c.c.), il che nella sostanza equivale a dire che la diligenza esigibile dall’amministratore è quella del secondo comma dell’articolo 1176 c.c., ragguagliata alle circostanze del caso.

Per altro verso gli altri amministratori non risultano più sottoposti ad un generale obbligo di vigilanza. E non è senza ragione rammentare che tale scelta legislativa concernente la responsabilità di tali amministratori è stata motivata dall’in­tento di «evitare sue indebite estensioni che, soprattutto nell’esperienza delle azioni esperite da procedure concorsuali, finivano per trasformarla in una responsabilità sostanzialmente oggettiva, allontanando le persone più consapevoli dall’ac­cettare o mantenere incarichi in società o in situazioni in cui il rischio di una procedura concorsuale le esponeva a responsabilità praticamente inevitabili» (tanto si legge nella Relazione di accompagnamento al decreto legislativo numero 6 del 2003). Ed infatti, secondo l’attuale articolo 2392 c.c., «in ogni caso gli amministratori, fermo quanto disposto dal comma terzo dell’articolo 2381, sono solidalmente responsabili se, essendo a conoscenza di fatti pregiudizievoli, non hanno fatto quanto potevano per impedirne il compimento o eliminarne o attenuarne le conseguenze dannose». La norma uscita dalla riforma richiama dunque l’articolo 2381, terzo coma, che pone a carico degli amministratori, tra l’altro, l’obbligo di valutare l’adeguatezza dell’assetto amministrativo, organizzativo e contabile della società «sulla base delle informazioni ricevute», e l’andamento della gestione «sulla base della relazione degli organi delegati». Ma il rinvio è da intendersi necessariamente esteso anche al sesto comma del­l’articolo 2381 c.c., secondo il quale «gli amministratori sono tenuti ad agire in modo informato; ciascun amministratore può chiedere agli organi delegati che in consiglio siano fornite informazioni relative alla gestione della società».

Insomma, la responsabilità degli amministratori privi di specifiche deleghe operative non può oggi discendere da una generica condotta di omessa vigilanza, tale da trasmodare nei fatti in responsabilità oggettiva, ma deve riconnettersi alla violazio­ne del dovere di agire informati, sia sulla base delle Informazioni che a detti amministratori devono essere somministrate, sia sulla base di quelle che essi stessi possono acquisire di propria iniziativa.

In definitiva gli amministratori (i quali non abbiano operato) rispondono delle conseguenze dannose della condotta di altri amministratori (i quali abbiano operato) soltanto qualora siano a conoscenza di necessari dati di fatto tali da sollecitare il loro intervento, ovvero abbiano omesso di attivarsi per procurarsi gli elementi necessari ad agire informati.

Ne discende che, nel contesto normativo attuale, gli amministratori non operativi rispondono per non aver impedito «fatti pregiudizievoli» dei quali abbiano acquisito in positivo conoscenza (anche per effetto delle informazioni ricevute ai sensi del terzo comma dell’articolo 2381 c.c.) ovvero dei quali debbano acquisire conoscenza, di propria iniziativa, ai sensi dell’obbligo posto dall’ultimo comma dell’articolo 2381 c.c.: per il che occorre che la semplice facoltà di «chiedere agli organi delegati che in consiglio siano fornite informazioni relative alla gestione della società» sia innescata, cosi da trasformarsi in un obbligo positivo di condotta, da elementi tali da porre sull’avviso gli amministratori alla stregua della «diligenza richiesta dalla natura dell’incarico e dalle loro specifiche competenze»altrimenti si ricadrebbe nella configurazione di un generale obbligo di vigilanza che la riforma ha invece volutamente eliminata.

Poste le premesse in iure, occorrono poche parole per constatare l’effettiva sussistenza della violazione di legge denunciata dai tre ricorrenti, vero essendo che la Corte d’appello, la quale ha omesso di individuare il precetto normativa posto dall’articolo 2392 c.c. nel testo vigente (ed anzi ha ritenuto di trarne il significato da una pronuncia del Tribunale di Milano del 20 febbraio 2003 evidentemente riferita al vecchio testo), ha però ragionato sull’evidente presupposto che la norma ponesse a carico degli amministratori una «attività di vigilanza»quale esplicazione di «obblighi di verifica dell’attività gestionale», tale da comportare a carico degli originari convenuti «l’assenza di qualsiasi controllo» sull’atti­vità della società.

È dunque del tutto palese che il giudice di merito è pervenuto alla sua decisione muovendo dal presupposto, non conforme al dato normativo, che la norma ponesse a carico degli amministratori un obbligo di vigilanza, mentre, al contrario, essa stabilisce un obbligo di agire informati, avvalendosi delle informazioni ricevute e, se del caso, di quelle acquisite motu proprio in presenza di segnali di allarme tali da indurre a ricercare dati informativi ulteriori altrimenti non disponibili.

Occorreva allora che la Corte d’appello indagasse, sulla base degli addebiti loro rivolti dal fallimento, nel contesto del riparto degli oneri probatori di cui si è detto in apertura di paragrafo, quali fossero le informazioni che (omissis) (omissis) e (omissis) avevano effettivamente a disposizione e se vi fossero elementi tali da richiamare la loro attenzione, tenuto conto delle informazioni loro fornite e della apparente plausibilità di esse, si da verificare se la condotta di inerzia, che la Corte d’appello risulta aver loro addossato nella sua mera oggettività, fosse invece connotata da colpa. Ed in tale quadro era dunque necessario esaminare l’intero materiale i­strut­torio disponibile, ritualmente offerto dalle parti, per i fini dell’accertamento, sotto il profilo della condotta, della responsabilità alla stregua del vigente articolo 2392 c.c.

Dopodiché – una volta ipoteticamente accertata la violazione da parte di (omissis) (omissis) e (omissis) degli obblighi gravanti su di essi quali amministratore – bisognava ulteriormente verificare se ed in quali eventuali limiti potesse concretamente essere predicata la sussistenza del nesso eziologico tra detta condotta ed il pregiudizio arrecato alla società, considerando per un verso che i tre avevano fatto ingresso nella società quando il contratto (omissis) S.p.A. (omissis) (omissis) S.r.l. era stato già concluso, e chiarendo in quali termini, ed avvalendosi di quali strumenti giuridici, i medesimi – come la Corte d’appello ha affermato – potessero ottenere che il contratto fosse annullato o in qualche modo ridiscusso.

 

  • 9.2. – Vanno pertanto accolti, nei limiti della motivazione che precede, il primo motivo svolto da (omissis), (omissis) e (omissis)(omissis)i primi tre motivi spiegati dal (omissis) ed i primi tre motivi del ricorso (omissis)
  • 10. – Il secondo motivo del ricorso principale, il quarto motivo del ricorso (omissis) ed il quarto motivo del ricorso (omissis). Tutti collocati dal versante delquantumdebeatur, sono assorbiti.

 

  • 11. – La sentenza è cassata in relazione ai motivi accolti ed è rinviata alla Corte d’appello di Roma in diversa composizione, che si atterrà ai principi dianzi enunciati.

 

PER QUESTI MOTIVI

 

accoglie nei limiti indicati in motivazione il primo motivo svolto da (omissis) (omissis) (omissis) e (omissis) i primi tre motivi spiegati dal (omissis) ed i primi tre motivi del ricorso(omissis), assorbiti gli altri, cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia anche per le spese alla Corte d’appello di Roma in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 9 giugno 2016.

SOMMARIO:

1. Il caso - 2. La soluzione della Corte di Cassazione - 3. Il commento - NOTE


1. Il caso

Il Curatore del Fallimento di una società per azioni (R. holding spa) aveva promosso un’azione di responsabilità contro gli amministratori della stessa, come prevista dal­l’art. 146 legge fall. La causa principale del fallimento è stata una operazione di investimento (l’acquisto del 77% del capitale azionario di un’altra società), operazione ritenuta esorbitante, non giustificata dal valore economico del pacchetto azionario acquistato e tale da assorbire l’intero capitale sociale della società acquirente. Gli amministratori sostenevano invece che, essendo la gestione della società fallita affidata interamente al presidente della stessa, non avrebbero potuto impedire l’ope­ra­zione incriminata, nonostante i controlli effettuati. Il Tribunale di Roma, con sentenza del 2 settembre 2011, ritenuta la responsabilità di tutti gli amministratori, ha condannato in solido gli stessi e gli eredi di uno degli amministratori al pagamento, in favore della curatela, della somma di 2.696.781,25 euro, con interessi e spese. In seguito la Corte di Appello di Roma, con sentenza del 17 gennaio 2013, ha parzialmente accolto l’appello, limitatamente al quantum, condannando gli amministratori e gli eredi di uno di questi ultimi al pagamento della minor somma di 1.421.000,00 euro. La Corte territoriale ha sostenuto che la condotta degli amministratori, i quali avevano evidenziato che la gestione della società era per intero nelle mani del presidente, finiva per trasformarsi in un’ammissione di responsabilità, derivante dall’aver omesso qualunque attività di vigilanza o controllo, così da realizzare una tacita complicità, quantunque ascrivibile semplicemente a colpa, con lo stesso presidente. D’altro canto, il danno addebitabile agli appellanti am­ministratori non poteva essere liquidato, co­me aveva fatto il Tribunale, in misura pari all’ammontare dello stato passivo ossia in 2.500.000,00 euro, secondo quanto risultante da un accertamento affidato dal Fallimento ad un proprio consulente, dal momento che tale accertamento recava una mera previsione non suffragata da altri elementi, tanto più che dalla medesima consulenza risultavano crediti per 1.308.919,08 euro. Ai fini della liquidazione del quantum, occorreva viceversa tener conto del pagamento del re­siduo prezzo [continua ..]


2. La soluzione della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione ha affermato che la responsabilità degli amministratori di una società per azioni, privi di delega, non può ad oggi fondarsi su una generale omissione di vigilanza, tale da tramutarsi nei fatti in una responsabilità oggettiva, ma deve necessariamente riconnettersi alla “violazione del dovere di agire informati, sia sulla base delle informazioni che a detti amministratori devono essere somministrate, sia sulla base di quelle che essi possono acquisire di propria iniziativa”. La Cassazione richiama le norme quali l’art 2392 c.c. e l’art. 2381 c.c. Nella prima norma (art. 2392, 2° comma) non è previsto l’obbligo di vigilanza in capo agli amministratori non delegati. Il testo della norma statuisce che «In ogni caso gli amministratori, fermo quanto disposto dal comma terzo dell’art. 2381, sono solidalmente responsabili se, essendo a conoscenza di fatti pregiudizievoli, non hanno fatto quanto potevano per impedirne il compimento o eliminarne o attenuarne le conseguenze dannose». L’art. 2381, 6° comma, c.c. sancisce che «Gli amministratori sono tenuti ad agire in modo informato; ciascun amministratore può chiedere agli organi delegati che in consiglio siano fornite informazioni relative alla gestione della società». In definitiva, gli amministratori (i quali non abbiano operato) rispondono delle conseguenze dannose della condotta di altri am­ministratori (i quali abbiano operato) sol­­tanto qualora siano a conoscenza di necessari dati di fatto, tali da sollecitare il loro intervento, ovvero abbiano omesso di attivarsi per procurarsi gli elementi necessari ad agire informati. Pertanto, da tali disposizioni la Corte di Cassazione ha dedotto che gli amministratori privi di deleghe sono responsabili per non aver impedito i “fatti pregiudizievoli”, esclusivamente laddove fossero a conoscen­za di tali fatti (e della pericolosità degli stessi), ovvero laddove avrebbero potuto acquisirne conoscenza, esercitando il proprio potere/dovere di richiedere informazioni sulla gestione della società. V’è quindi un obbligo positivo di condotta, in base ad elementi tali da porre sull’avviso gli amministratori alla stregua della “diligenza richiesta dalla natura dell’incarico e dalle loro specifiche competenze”: altrimenti si ricadrebbe nella [continua ..]


3. Il commento

La sentenza in esame merita attenzione, in quanto viene chiarita una questione sorta a seguito della riforma del diritto societario del 2003 [1]. Difatti, nel sistema pre-riforma, l’art. 2392, 2° comma, c.c. prevedeva un generale obbligo di vigilanza in capo a tutti gli amministratori, anche se non forniti di delega, i quali, pertanto, erano “in ogni caso” solidalmente responsabili dei danni cagionati alla società per omessa vigilanza. Invece, ai sensi della norma attualmente in vigore (art. 2392 c.c.), essendo scomparso l’obbligo generale di vigilanza, specie a carico degli amministratori privi di delega e cioè non operativi, residua principalmente solo per questi ultimi l’obbligo di “agire in modo informato” (art. 2381, 6° comma, c.c.). In tal modo viene assicurato un costante flusso informativo anche nei riguardi dei c.d. amministratori non operativi, a tal punto che anch’essi vengano posti in grado di poter operare. Il principio è interessante perché, in linea generale, quanto ai c.d. obblighi informativi, si è sempre ritenuto che è il soggetto a dovere essere da altri informato e non esso a doversi informare presso terzi. Il 6° comma dell’art. 2381 c.c. viene così interpretato, con la previsione dell’“agire informato”, così che l’amministratore diventa quasi sog­getto obbligato nel senso di doversi attivare per ottenere da altri informazioni e non più solo creditore dell’informazione. Ad esso può dunque rimproverarsi di non avere adem­piuto ad un dovere di comportamento ad es­so spettante (obbligo positivo di condotta). Si sottolinea in dottrina come l’obbligo di tenersi informati da parte degli amministratori “è una specificazione del dovere di diligenza tipico dell’amministratore: vale a dire, la diligenza è quella professionale del gestore d’impresa, dunque a conoscenza delle nor­me tecniche della buona gestione e delle con­crete circostanze dell’opera­zio­ne” [2]. È vero che, dal tenore della norma (art. 2381, 6° comma, c.c.), sembra evincersi una sorta di attenuazione di responsabilità degli amministratori non operativi, rispetto al più generale dovere di vigilanza sulla gestione ad essi prima spettante. Ma ora tuttavia si introduce quasi una [continua ..]


NOTE