Rivista di Diritto SocietarioISSN 1972-9243 / EISSN 2421-7166
G. Giappichelli Editore

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Modelli di amministrazione e controllo nelle società quotate. Aspetti comparatistici e linee evolutive (di Simone Alvaro, Doina D’Eramo, Giorgio Gasparri)


Il presente lavoro, dopo avere compiuto un’analisi della disciplina italiana in tema di sistemi di amministrazione e controllo delle società quotate, riper­cor­rendone il processo evolutivo e delineando i principali nodi problematici, procede a una ricognizione di carattere comparatistico dei sistemi di diritto societario di taluni importanti Paesi europei (Germania, Francia, Regno Unito e Spagna), al fine di evidenziare analogie e differenze con il nostro ordinamento e trarne spunti di riflessione e soluzioni, in vista di possibili ipotesi di riforma dirette, in ultima analisi, a promuovere la tutela degli investitori e il buon funzionamento dei mercati.

Tra le proposte d’intervento legislativo dirette a rendere più efficiente e sistematicamente coerente l’assetto normativo italiano viene, in particolare, presa in considerazione quella relativa al superamento dell’attuale disciplina dei modelli alternativi di amministrazione e controllo (monistico e dualistico), oggi connotata da un abbondante uso della tecnica normativa del rinvio, che ha finito per deprimere il potenziale innovativo di tali modelli, appiattendone le specificità sul modello tradizionale. Secondo le analisi svolte, la definizione di un corpo normativo autosufficiente contribuirebbe a rendere più chiaro e stabile il quadro regolatorio, rendendo più agevole ed effettiva la libertà – riconosciuta sin dal 2003 alle società italiane – di scegliere il modello più confacente alle proprie esigenze, eventualmente variandolo in relazione all’evoluzione delle stesse e dei rispettivi assetti societari.

Il lavoro osserva altresì che il modello monistico, oltre a rappresentare un modello di governance capace di rendere più competitive le imprese sui mercati dei capitali internazionali, potrebbe implicare una configurazione degli assetti organizzativi interni particolarmente adeguata ed efficace per la gestione e il controllo delle società quotate.

Sempre al fine di promuovere il raggiungimento di obiettivi di maggior efficienza nell’operatività ed efficacia dei controlli interni, lo studio considera la possibilità di ridefinire in termini più analitici – sull’esempio della più recente legislazione spagnola – la disciplina del funzionamento del consiglio di amministrazione, precisando il riparto di funzioni interno allo stesso.

Con particolare riferimento alla riduzione del numero dei soggetti coinvolti nella funzione di controllo interno, si potrebbero ipotizzare talune semplificazioni, strumentali al raggiungimento di una maggiore economicità, efficienza ed efficacia nello svolgimento delle attività di monitoring: da un lato, affidando poteri e competenze dell’OdV al responsabile della funzione di internal audit o allo stesso organo di controllo; dall’altro lato, ripartendo tra gli amministratori delegati, l’organo di controllo e la funzione di revisione interna i compiti certificativi e gestionali attualmente rimessi al dirigente preposto.

 

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SOMMARIO:

1. Il lungo (e incompiuto) processo italiano di riforma delle società di capitali - 1.1 La governance interna delle società di capitali dal codice civile del 1942 alla Riforma organica del diritto delle società del 2003 - 1.2 Le finalità dell’introduzione in Italia nel 2003 dei modelli al­ternativi di amministrazione e controllo (monistico e dualistico) - 1.3 Le ragioni del ripensamento della nozione e della disciplina dei controlli interni - 1.4 Idati odierni sulla scarsa adozione dei modelli alternativi - 1.5 Le ragioni dell’insuccesso dei modelli alternativi in Italia - 1.6 Il fenomeno di overshooting regolamentare italiano del sistema dei controlli interni societari e la conseguente minore flessibilità organizzativa e competitività delle imprese italiane - 1.7 L’assenza di una normativa primaria volta a disciplinare le attribuzioni e le funzioni del consiglio di amministrazione di una grande impresa quotata - 2. L’analisi comparata dei sistemi di amministrazione e controllo nei principali Paesi europei quale punto di par­tenza per una possibile riscrittura delle norme - 2.1 La disciplina tedesca - 2.1.1 L’Aufsichtsrat - 2.1.2 Il Prüfungsausschuss - 2.2 La disciplina francese - 2.2.1 Imodelli di amministrazione e controllo - 2.2.2 Differenze e similitudini tra le possibili configurazioni - 2.3 La disciplina inglese - 2.3.1 La centralità del board of directors - 2.3.2 Il ruolo del management - 2.3.3 Il ruolo dell’internal audit - 2.4 La disciplina spagnola - 2.4.1 Sintesi del tessuto normativo e autodisciplinare di riferimento - 2.4.2 I controlli interni nella disciplina spagnola - 2.4.3 Il consejo de administración e i consejeros externos - 2.4.4 Le comisiones de supervisión y control - 3. Ipotesi di semplificazione e razionalizzazione del sistema ita­liano dei controlli interni - 3.1 Dalla riscrittura della disciplina dei modelli alternativi al loro utilizzo in relazione alle diverse esigenze delle imprese nel corso del loro sviluppo - 3.2 L’ipotesi di integrazione della disciplina del consiglio di am­ministrazione del modello “tradizionale” per la società quotata - 3.3 Le proposte della Consob per la semplificazione del sistema dei controlli interni - 3.4 Il sistema monistico come modello maggiormente affermato sui mercati finanziari internazionali - 3.5 Il sistema monistico come modello ottimale per la razio­na­liz­zazione del sistema dei controlli interni delle società quotate? - 4. Conclusioni - Bibliografia - Recenti pubblicazioni - NOTE


1. Il lungo (e incompiuto) processo italiano di riforma delle società di capitali

1.1 La governance interna delle società di capitali dal codice civile del 1942 alla Riforma organica del diritto delle società del 2003

La disciplina italiana della governance interna delle società per azioni, e in particolare del consiglio di amministrazione, a partire dal codice civile del 1942, è sostanzialmente rimasta immutata per più di sessanta anni (ossia fino agli anni 2003-2005[1]. Infatti, né la c.d. mini-riforma delle società del 1974 (l. 216/1974)[2], con cui venne istituita la Consob, né la versione originaria del Testo Unico della Finanza (d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, di seguito anche “TUF”), che pur conteneva norme sul collegio sindacale[3], dedicavano previsioni relative alle funzioni e alla struttura del consiglio di amministrazione[4]. La ragione tecnica della mancata riforma da parte del TUF di quello che può essere definito il “cuore” della corporate governance, ossia della funzione gestoria, va individuata nella formulazione della delega parlamentare, che incaricò il Governo a riformare la disciplina delle società quotate, «con particolare riferimento ai poteri delle minoranze, al collegio sindacale, secondo criteri che rafforzino la tutela del risparmio e degli azionisti di minoranza». Tale formulazione, a sua volta, rifletteva il dibattito giuridico ed economico sviluppatosi all’epoca in Italia, maggiormente focalizzato sul problema della tutela delle minoranze azionarie, piuttosto che su una ridefinizione della governance interna delle società quotate[5]. Ciononostante, fu proprio nell’ambito dei lavori preparatori al TUF che si rese evidente la necessità di un intervento sistematico di riforma del diritto delle società di capitali (Titolo V del codice civile), che dotasse l’Italia di un ordinamento moderno e flessibile. Per tale ragione, a pochi mesi dall’approvazione del TUF, con decreto 24 luglio 1998, il Ministro di Grazia e Giustizia (di concerto con il Ministro del Tesoro, Bilancio e Programmazione Economica) istituì una Commissione di Studio (la c.d. Commissione Mirone), con il compito di predisporre uno schema di disegno di legge delega per la riforma organica del diritto societario, al dichiarato fine di rispondere «ai problemi, non più eludibili conseguenti alla inadeguatezza della disciplina del codice rispetto alla […] realtà economica del Paese e al necessario coordinamento con la […] riforma contenuta nel Testo Unico delle disposizioni in materia di [continua ..]


1.2 Le finalità dell’introduzione in Italia nel 2003 dei modelli al­ternativi di amministrazione e controllo (monistico e dualistico)

È in tale contesto giuridico e culturale che, qualche anno più tardi, vide la luce la Riforma organica della disciplina delle società di capitali e società cooperative (d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6) [11], la quale, per ciò che attiene agli aspetti di governance interna che qui interessano, era improntata alla ricerca di una maggiore flessibilità organizzativa rispetto a quella in precedenza consentita nell’ambito del tipo s.p.a. (pur nella tutela degli shareholders e degli stakeholders, attraverso norme di carattere imperativo) [12]. L’equilibrio tra regole imperative ed autonomia statutaria nella materia della governance societaria è stata raggiunta attraverso varie modalità. Da un lato, sono state cristallizzate in norme imperative le regole che (i) stabiliscono la tipicità dei modelli societari, (ii) definiscono chiaramente e precisamente i compiti e le responsabilità degli organi sociali e (iii) assegnano un ruolo centrale alla informazione e alla trasparenza, sia come canone dell’agire del buon amministratore (e del buon controllore) sia come strumento di ‘tracciabilità’ dei comportamenti [13]. Dall’altro, è stata, invece, riconosciuta una maggiore flessibilità organizzativa alla società, ad esempio, in materia di organo di amministrazione, in tema di articolazione interna, funzionamento, deleghe, circolazione delle informazioni fra i componenti dell’or­gano amministrativo e gli organi e i soggetti deputati al controllo. Al di là di tale contrapposizione concettuale tra norme imperative e autonomia statutaria, la Riforma, pur mantenendo, nella scelta dei tipi di società, la tradizionale previsione di due modelli di base (la società per azioni e la società a responsabilità limitata) [14], compì una duplice importante scelta di fondo: (i) offrire la possibilità di scegliere tra tre diversi sistemi – che l’art. 2380 c.c. definisce di «amministrazione e controllo», ma che, in realtà, appaiono come veri e propri sistemi complessivi di organizzazione interna, implicando anche un diverso ruolo dell’assem­blea [15] – e cioè, il sistema tradizionale (integrato e rivisitato e automaticamente applicabile in mancanza dell’adozione statutaria di uno dei sistemi [continua ..]


1.3 Le ragioni del ripensamento della nozione e della disciplina dei controlli interni

Il Legislatore del 2003, come accennato, pur riconoscendo ampia flessibilità organizzativa alle società per azioni, soprattutto per ciò che riguarda l’organo amministrativo, ha però mostrato anche l’esigenza di garantire che la gestione della società si muova in modo tale da contemperare l’efficienza dell’attività di amministrazione con la correttezza dei momenti rilevanti dell’attività gestoria, e quindi con la possibilità di conoscere e valutare in qualsiasi istante questa attività. Il ragionamento compiuto dal Legislatore del 2003 prese sostanzialmente le mosse dalla constatazione del fatto che, storicamente, il modello tradizionale di amministrazione e controllo nacque in Italia oltre 130 anni fa, ossia allorquando il Codice di commercio del 1882 – ispirato dall’esempio francese dei commissaries aux comptes – assegnò, per la prima volta, al collegio sindacale due specifici compiti: «la sorveglianza delle operazioni sociali» e «la revisione del bilancio» (cfr. art. 183, comma 1, cod. comm. 1882)[24]. Tale funzione di controllo dei sindaci sulla regolarità contabile e sulla legalità delle operazioni societarie fu mantenuta e, anzi, ampliata dal codice civile del 1942, il quale attribuì al collegio sindacale il compito di controllare l’ammini­stra­zione della società, vigilare sull’osservanza della legge e dell’atto costitutivo ed accertare la regolare tenuta della contabilità sociale, la corrispondenza del bilancio alle risultanze dei libri e delle scritture contabili (cfr. art. 2403 c.c.). In sostanza, nel sistema delineato dal codice civile del 1942, il controllo del collegio sindacale tendeva ad essere un controllo societario, ossia sulla società e sulla sua organizzazione[25], per garantire l’equilibrio e l’armonia tra gli interessi in contrasto in sede di esecuzione del contratto di società[26] (e non anche sulla impresa e sul dipanarsi della sua attività)[27], nonché un controllo successivo (ex post) rispetto ad atti o a comportamenti già posti in essere[28]. Tale originaria impostazione dei controlli interni, che connotava il modello italiano tradizionale, è stata superata da una nuova concezione degli stessi, che si sono evoluti nel tempo da controlli sull’organizzazione societaria [continua ..]


1.4 Idati odierni sulla scarsa adozione dei modelli alternativi

Volendo svolgere, a oltre undici anni dalla sua introduzione, alcune considerazioni e valutazioni sugli effetti prodotti dalla Riforma del diritto societario in materia di modelli di amministrazione e controllo e di controlli interni occorre, innanzitutto, partire da una prima constatazione: gli obiettivi di semplificazione della disciplina delle società, di ampliamento dell’autonomia privata e di adeguamento dei modelli societari alle esigenze delle imprese perseguiti dalla Riforma del diritto societario del 2003 non paiono essere stati raggiunti. In primo luogo, per quanto riguarda l’adozione dei modelli alternativi di amministrazione e controllo, i dati empirici dimostrano che, in Italia, l’utilizzo degli stessi, a partire dalla loro introduzione nel 2003 e sino ad oggi, è stato molto limitato tanto nelle società quotate quanto in quelle non quotate. In alcuni casi, società che avevano adottato uno dei sistemi alternativi hanno, successivamente, deciso di tornare al modello tradizionale[52]. Per quanto riguarda le società quotate, in base al Rapporto Consob 2014 sul governo societario delle società quotate[53], le stesse attualmente adottano, in assoluta prevalenza, il sistema di amministrazione e controllo tradizionale. Infatti, su 244 società quotate sul Mercato Telematico Azionario (MTA) di Borsa Italiana, 237 (pari a circa il 97%) adottano il modello tradizionale, mentre solo 7 adottano sistemi alternativi di governance [di cui, in particolare, 2 adottano il modello monistico (pari a circa l’1% del totale)[54] e 5 il modello dualistico (pari a circa il 2%)[55]]. Per quanto riguarda, invece, le società per azioni non quotate, in base ad una ricerca sviluppata sulla base dei dati dell’Osservatorio sul diritto societario della Camera di Commercio di Milano, disponibili al 1° marzo 2013 (dati raccolti dalla rete delle Camere di Commercio italiane, “Infocamere”)[56], risulta che in Italia: (i) alla fine del 2006 (anno di prima rilevazione), su un totale di 60.631 società per azioni[57], 196 società (pari allo 0,323%) avevano adottato il sistema monistico, 119 (pari allo 0,196%) il sistema dualistico e il restante 99,5% circa aveva adottato il modello tradizionale; (ii) a marzo 2013 su un totale di 48.033 società per azioni, 180 società (pari allo 0,374%) avevano adottato il modello monistico, 119 (0,247%) il sistema [continua ..]


1.5 Le ragioni dell’insuccesso dei modelli alternativi in Italia

La scarsa diffusione in Italia dei modelli alternativi di amministrazione e controllo può essere ascrivibile ad una pluralità di fattori [60]. Tra essi, certamente figurano, secondo parte della dottrina, da un lato, un generale atteggiamento di prudenza dell’imprenditore (oltre che una sorta di resistenza culturale), tale per cui lo stesso, prima di adottare “nuovi” modelli di governance, sarebbe stato indotto ad attenderne l’adozione da parte di altri prima di lui (di talché, il “problema della scelta” si sarebbe risolto in una sorta di “dilemma del prigioniero”) [61]; dall’altro, una diffusa lacuna conoscitiva [62], che avrebbe determinato un «“appannato” o frainteso impiego» [63] dei modelli alternativi, che tuttora persiste, sebbene siano passati ormai più di undici anni dalla loro introduzione. In ogni caso, come è stato rilevato nel tempo dalla dottrina [64] e come è emerso nel­l’ambito dei Tavoli di consultazione in materia di concorrenza fra sistemi e regole di vigilanza e semplificazione regolamentare, istituiti dalla Consob nel 2011 [65], quella che pare essere la principale ragione della mancata adozione dei modelli alternativi di governance consiste nel fatto che le disposizioni legislative contenute sia nel codice civile sia nel TUF, relative ai sistemi alternativi di amministrazione e controllo, non costituiscono un corpus normativo autonomo e ben articolato, ma si caratterizzano per l’utilizzo della tecnica normativa di rinvio al sistema tradizionale. Per tale ragione, il compito di chi si proponga di ricostruire e interpretare il corpus normativo proprio dei modelli alternativi è stato reso particolarmente difficile e incerto da tale struttura normativa, che traccia le competenze dell’organo di amministrazione e controllo, tanto del sistema monistico quanto del sistema dualistico, attraverso disposizioni scarne e rinviando, il più delle volte, a norme già previste per il modello tradizionale, disposizioni talora dichiarate applicabili «in quanto compatibili» [66]. Tale tecnica di rinvio al modello tradizionale si ritrova anche nel Codice di Autodisciplina per le società quotate, il quale (al Principio 10.P.1) suggerisce alle società di attenersi, in linea generale, al principio secondo cui: «le [continua ..]


1.6 Il fenomeno di overshooting regolamentare italiano del sistema dei controlli interni societari e la conseguente minore flessibilità organizzativa e competitività delle imprese italiane

Successivamente all’approvazione della Riforma organica del diritto societario – ultimo vero intervento di sistema del diritto societario – l’Italia ha vissuto (soprattutto nella materia del sistema dei controlli interni) una lunga stagione di interventi normativi non organici e ritenuti spesso occasionali, talvolta caratterizzati da una discutibile tecnica legislativa, altre volte consistenti nell’acritico “trapianto” di principi ed istituti derivati da sistemi stranieri[79]. Come è stato rimarcato, non è «revocabile in dubbio […] che a monte vi siano interventi legislativi talora non collegati, talora non attivati né sviluppati nella consapevolezza del contesto normativo già esistente»[80]. Tali interventi – che hanno inciso significativamente sulla fisionomia dei controlli endosocietari – sono spesso stati la risposta legislativa a fallimenti di grandi imprese quotate[81], che, seppur aggravati dalla generale crisi dei mercati, sono stati da più parti attribuiti proprio a specifiche carenze dei meccanismi di controllo interno. Il risultato è stato che, in tema di controllo societario, il sistema italiano (che comprende sia norme primarie e secondarie sia best practices di autoregolamentazione) risulta oggi connotato da molteplici regole frammentate e disorganiche[82], che hanno spesso generato inefficienze e sovrapposizioni delle funzioni affidate ai vari organi deputati ai controlli interni, imponendo vincoli e costi eccessivi alle imprese[83]. Come noto, anche il numero degli attori protagonisti della funzione di controllo interno nell’ambito del modello tradizionale di governo societario delle società quotate si è accresciuto notevolmente[84]. Al riguardo, si consideri, in primis, il ruolo del consiglio di amministrazione. Se, da un lato, la legge attribuisce a tale organo l’esclusività della funzione gestoria (art. 2380-bis c.c.), lo stesso è altresì investito, nel suo plenum, di funzioni di controllo sull’operato dei delegati, nel caso di delega di proprie attribuzioni ad un comitato esecutivo oppure ad uno o più dei suoi componenti. Sulla base delle informazioni ricevute dagli stessi organi delegati, il consiglio valuta l’adeguatezza del­l’assetto organizzativo, amministrativo e contabile della società, nonché, sulla base delle relazioni [continua ..]


1.7 L’assenza di una normativa primaria volta a disciplinare le attribuzioni e le funzioni del consiglio di amministrazione di una grande impresa quotata

Il lungo processo italiano di riforma delle società di capitali pare essere incompleto anche da un altro punto di vista: quello della disciplina delle attribuzioni e delle funzioni del consiglio di amministrazione di una grande impresa quotata. All’interno di ogni persona giuridica deve essere possibile distinguere l’organo al quale è affidata la determinazione delle direttive generali dell’ente, quello a cui è affidata la sua amministrazione e rappresentanza e quello, infine, cui è affidato il controllo della gestione[97]. Questa semplice regola organizzativa interna ha rappresentato, anche per le società anonime, il principio di base del modello di amministrazione affermatosi in Italia (secondo il noto schema assemblea-consiglio di amministrazione-collegio sindacale), così come in Europa e negli stati Uniti, e che prevede, per quanto qui più interessa, che la società sia gestita, in tutto e per tutto, da un consiglio di amministrazione (o da un consiglio di gestione nel modello dualistico). Nella realtà internazionale delle grandi imprese, stante la complessità e la dimensione delle stesse, questa tripartizione interna delle funzioni ha richiesto una diversa articolazione, in quanto la funzione di gestione dell’impresa viene in esse realizzata principalmente da managers professionali: il chief executive officer e gli executives officers (ossia dal senior management della struttura societaria). In altre parole, la realtà delle grandi imprese – a prescindere dal modello di amministrazione e controllo adottato e dal nome attribuito ai diversi organi societari – ha reso necessaria una diversa articolazione delle tradizionali funzioni di amministrazione e controllo in tre diverse funzioni: (i) l’alta amministrazione (o supervisione strategica), (ii) la gestione ordinaria e (iii) il controllo direzionale. È principalmente per questa ragione, come già accennato, che, a partire dagli anni ’70, negli Stati Uniti la corporate governance ha abbandonato l’idea che le grandi imprese (con modello monistico e con azionariato diffuso) potessero essere gestite dal consiglio di amministrazione (board), per prendere atto di un’evolu­zione societaria fondata su un modello in base al quale, all’interno del consiglio di amministrazione, la gestione spetta ai soli amministratori esecutivi e agli executive officers, [continua ..]


2. L’analisi comparata dei sistemi di amministrazione e controllo nei principali Paesi europei quale punto di par­tenza per una possibile riscrittura delle norme

Come rappresentato nel primo capitolo, sin dal 1998 fu ravvisata in Italia la forte necessità di dotare il Paese di un ordinamento moderno e flessibile per favorire la nascita, la crescita e la competitività delle imprese, oltre che l’accesso al mercato dei capitali da parte delle piccole e medie imprese. Secondo le intenzioni del Legislatore, tale necessità avrebbe dovuto essere soddisfatta con la Riforma organica del diritto societario del 2003, che aveva come obiettivo, tra l’altro, di adeguare la disciplina dei modelli societari alle esigenze delle imprese, nonché di aumentare le possibilità per le società e i loro soci di scegliersi l’assetto organizzativo più confacente ai propri interessi. La possibilità offerta alle imprese dal Legislatore della Riforma di scegliere fra tre diversi modelli di amministrazione e controllo (tradizionale, monistico e dualistico), tuttavia, non pare essersi realizzata appieno. Come detto, infatti, i dati empirici dimostrano che in Italia l’utilizzo dei sistemi alternativi di amministrazione e controllo, sia nelle società quotate che non quotate, è stato molto limitato (il 97% delle società quotate e oltre il 99% delle non quotate adotta ancora oggi il modello tradizionale)[134]. Se astrattamente le ragioni della scarsa diffusione in Italia dei modelli alternativi di amministrazione e controllo sono ascrivibili ad una pluralità di fattori, non vi è dubbio che, come prima illustrato, la principale ragione della loro mancata adozione – individuata, come detto, anche dalla Consob e condivisa dalla pressoché unanime dottrina – consiste nel fatto che le disposizioni normative contenute nel codice civile in tale ambito non costituiscono un corpus normativo autonomo e ben articolato, ma si caratterizzano per l’utilizzo della tecnica normativa di rinvio al sistema tradizionale. Ciò avrebbe determinato, da un lato, la dominanza del modello tradizionale e, dall’altro, si sarebbe risolto in un appiattimento delle specificità dei sistemi alternativi sull’archetipo del modello tradizionale, rendendo più apparente che reale l’alternatività tra i tre modelli. Parrebbe, quindi, evidente che, per raggiungere più proficuamente l’obiettivo della Riforma del diritto societario del 2003 di dotare l’Italia di un ordinamento moderno e [continua ..]


2.1 La disciplina tedesca

La struttura giuridica sottesa alle società azionarie di diritto tedesco, nelle sue caratteristiche essenziali, trova fondamento, segnatamente con riguardo al sistema dei controlli interni, nel Codice generale tedesco di Commercio (Allgemeines Deutsches Handelsgesetzbuch – ADHGB, 1861), che accolse per la prima volta nel­l’ordinamento tedesco il Consiglio di Sorveglianza (Aufsichtsrat), precisandone competenze e poteri. Tale disciplina generale, successivamente riformata per effetto della Legge supplementare sulle azioni (Aktiennovelle, 1870-1884), che rese obbligatoria l’istituzione dell’Aufsichtsrat sancendone la precipua funzione di vigilanza sulla gestione, venne completata dal vigente Codice di Commercio (Handelsgesetzbuch – HGB, 1897)[135]. All’HGB si è poi affiancata la codificazione autonoma del diritto azionario tedesco, rappresentata dalla Legge speciale sulle società per azioni (Aktiengesetz – AktG, 1937-1965), che ha meglio definito i limiti di competenza degli organi sociali, soprattutto dell’Aufsichtsrat, al quale venne riconosciuta la fondamentale funzione di controllo sulla gestione. Sull’organizzazione dei controlli endosocietari hanno inciso anche talune leggi successive, finalizzate a modificare e integrare l’AktG: si tratta della Legge sul controllo e la trasparenza delle imprese (Gesetz zur Kontrolle und Transparenz im Unternehmen – KontraG, 1998), della Legge sulle azioni nominative e sulla facilitazione dell’esercizio del diritto di voto (Gesetz zur Namensaktie und zur Erleichterung der Stimmrechtsausübung – NaStraG, 2001), della Legge sulla trasparenza e la pubblicità (Transparenz– und Publizitätsgesetz – TransPuG, 2002) e della Legge sull’adeguatezza del compenso del Consiglio di Gestione (Gesetz zur Angemessenheit der Vorstandsvergütung – VorstAG, 2009). Sin dal 2002 un importante ruolo di integrazione delle previsioni normative è, poi, svolto dal Codice di Autodisciplina tedesco (Deutscher Corporate Governance Kodex – DCGK), originariamente elaborato da una commissione governativa (la Cromme Kommission) e aggiornato annualmente (la sua ultima riformulazione risale al maggio 2013). Il DCGK, applicabile alle società “aperte” (quotate o facenti ricorso al mercato del capitale di rischio: § 161 AktG), mira a rendere il sistema tedesco di corporate [continua ..]


2.1.1 L’Aufsichtsrat

Si è detto che, nell’ordinamento tedesco, l’attività di controllo sulla gestione è rimessa all’Aufsichtsrat, autentico Kontrollorgan sull’operato del Vorstand[146]. Invero, l’Aufsichtsrat, nominato e revocato dall’Assemblea Generale (§ 101 AktG), a sua volta «nomina, sorveglia e fornisce consulenze ai membri del Vorstand ed è direttamente coinvolto nelle decisioni di fondamentale importanza per l’impresa»[147]; lo stesso § 111, Abs. 1, AktG stabilisce che l’Aufsichtsrat vigila sulla gestione imprenditoriale (Geschäftsführung) della società[148]. Come si vede, l’ambito di operatività della funzione di controllo non risulta precisamente circoscritto: dal dato letterale della norma citata non emerge né la portata né il contenuto dell’Überwachungspflicht che da essa discende[149]. Deve, peraltro, escludersi che la discrezionalità rimessa alla valutazione del­l’Aufischtsrat sia piena e illimitata: la netta separazione di funzioni propria dell’or­ganizzazione di governance tedesca impone di salvaguardare la capacità operativa del Vorstand. L’attività di verifica dell’Aufischtsrat dovrebbe, pertanto, concentrarsi sulle attività idonee a incidere, direttamente o indirettamente, sulla redditività e sulla liquidità della società[150]. Secondo criteri di elaborazione dottrinale, l’attività del Vorstand andrebbe valutata sulla base di un giudizio di legalità, economicità e adeguatezza, formulato rispetto al programma d’impresa concordato e ai risultati gestionali attesi[151]. Come riconosciuto dalla dottrina tedesca[152], l’attività dell’Aufsichtsrat può essere distinta in attività di controllo preventiva e attività di controllo successiva al compimento di atti gestorii da parte del Vorstand. Il controllo preventivo tende a fissare gli obiettivi essenziali della gestione, indirizzando l’operato del Vorstand al perseguimento di politiche imprenditoriali virtuose, che possano rivelarsi efficaci anche in un’ottica di medio-lungo periodo. In questo senso, l’attività di orientamento dell’azione del management avrà ad oggetto le decisioni di maggior rilievo strategico per la società, le politiche di coordinamento tra [continua ..]


2.1.2 Il Prüfungsausschuss

L’istituzione da parte dell’Aufsichtsrat, nell’esercizio della sua potestà autorganizzativa, di comitati interni ad esso (Ausschüsse), per lo svolgimento di specifiche funzioni, è consentita dall’AktG[165] e raccomandata dal DCGK[166]. L’AktG ha cura di precisare che tali comitati, funzionali al miglioramento delle capacità di supervisione dell’Aufsichtsrat, non possono sostituirsi ad esso nello svolgimento delle sue funzioni a rilevanza gestoria, le quali risultano, pertanto, indelegabili ex lege. Onde agevolare l’efficace svolgimento dei compiti dell’Aufsichtsrat, i presidenti dei comitati interni dovranno riferire periodicamente al plenum circa le attività intraprese e i risultati delle medesime. Tra le varie tipologie di comitati ristretti, è opportuno ricordare, ai fini che qui interessano, che il § 107, Abs. 3, AktG consente (e il § 5.3.2 DCGK raccomanda) all’Aufsichtsrat di dar vita al Prüfungsausschuss (Comitato controllo interno), specificamente adibito: alla supervisione delle procedure contabili; alla verifica del­l’ef­ficienza del sistema di controllo interno, dei sistemi di gestione dei rischi e di audit interno; alla revisione del bilancio d’esercizio (con particolare riferimento all’accertamento dell’indipendenza del revisore, agli eventuali servizi non di revisione forniti alla società, al conferimento dell’incarico di revisione, alla fissazione degli obiettivi della revisione e al compenso riconosciuto allo stesso revisore)[167]. Il DCGK raccomanda che il presidente del Prüfungsausschuss sia indipendente e possieda conoscenze ed esperienze specifiche nell’applicazione dei princìpi contabili e nell’implementazione delle procedure di controllo interno.


2.2 La disciplina francese

Nell’ordinamento francese la normativa primaria sui sistemi di amministrazione e controllo per le sociétés anonymes (S.A.) è dettata dalla loi n. 537/1966 sur les sociétés commerciales (modificata poi con successivi interventi normativi) e prevede sostanzialmente due modelli alternativi: il primo è quello “à conseil d’admi­nis­tration”[168], mentre il secondo è quello cosiddetto “à directoire et conseil de surveillance”. Prima di analizzare in dettaglio i due modelli, è il caso di rilevare come, sebbene i riferimenti più appropriati per il sistema “à conseil d’administration” e per quello “à conseil de surveillance” siano rappresentati, in via di prima approssimazione, rispettivamente, dal sistema monistico e da quello dualistico della nostra recente esperienza legislativa, due recenti interventi di riforma – nel 2001 con la loi n. 420/2001 (Loi sur les nouvelles régulations économiques, “loi NRE”) e nel 2003 con la loi n. 706/2003 (Loi de sécurité financière: LSF) – hanno introdotto modifiche tali da rendere il primo modello, almeno in una sua “variante”, tendenzialmente assimilabile al secondo, come sarà meglio illustrato di seguito.


2.2.1 Imodelli di amministrazione e controllo

Nel primo modello, il conseil d’administration rappresenta l’organo collegiale composto dagli amministratori designati dall’assemblea degli azionisti e incaricato di determinare gli orientamenti dell’attività della società, di vigilare sulla loro attuazione e di controllare l’azione del directeur général[169]. Il conseil d’admi­nistration, come organo collegiale, ha essenzialmente una funzione d’indirizzo stra­tegico, d’impulso e di controllo[170], mentre la gestione operativa spetta al directeur général, che può anche non far parte del conseil d’administration né essere azionista della società. L’art. L. 225-51-1 del Code de commerce stabilisce, invero, che la direzione generale della società è assunta, sotto la sua responsabilità, da «una persona fisica designata dal conseil d’administration con la qualifica di directeur général». Il directeur général, a sua volta, può essere coadiuvato da uno o più directeurs généraux délégués, il cui numero è fissato dallo statuto (e, comunque, non può essere superiore a cinque) e la cui nomina, unitamente alla remunerazione, è decisa dal conseil d’administration (art. L. 225-53). Il ruolo centrale di controllo direzionale e supervisione strategica del conseil d’administration è sancito nel suo potere di revoca ad nutum del directeur général o dei suoi délégués, ai sensi dell’art. L. 225-55 del Code de commerce, salvo il riconoscimento del diritto al risarcimento del danno (dommages-intérêts) per l’even­tuale insussistenza di giusta causa. Nel modello a conseil d’administration si realizza dunque una netta separazione fra la funzione di alta amministrazione, supervisione strategica e controllo direzionale, affidata esclusivamente al conseil d’administration, e le funzioni gestionali operative di competenza esclusiva directeur général e dei suoi délégués. Come detto, quest’ultimo può ovviamente fare parte del conseil d’administration, in tal modo consentendo a tale organo una maggiore efficienza e immediatezza nell’accesso ai flussi informativi relativi all’andamento della gestione operativa che [continua ..]


2.2.2 Differenze e similitudini tra le possibili configurazioni

Venendo al modello dualistico puro, in cui il directoire esercita le sue funzioni sotto il controllo di un conseil de surveillance, che ha rappresentato sicuramente una delle maggiori innovazioni della legge di riforma del 1966 (in cui figurava agli artt. 118 ss., fino alla relativa confluenza in seno agli artt. L. 225-57 ss. del Code de commerce, in conseguenza della codificazione “à droit constant” operata in Francia nel 2000) [189], si evidenzia in primo luogo come l’art. L. 225-68 del Code de commerce stabilisca che il conseil de surveillance «esercita il controllo permanente della gestione della società da parte del directoire». La missione del conseil de surveillance comprende, dunque, non solamente il controllo della regolarità delle deliberazioni del directoire in relazione alle disposizioni normative e statutarie, ma altresì la valutazione dell’opportunità di tali deliberazioni con riguardo alla politica generale dell’impresa, un giudizio, quindi, su vantaggi e svantaggi che possono derivarne per la società [190]. Lo statuto può subordinare all’autorizzazione preventiva del conseil de surveillance alcune operazioni di gestione compiute dal directoire (c.d. clause catalogue), il quale, a sua volta, è tenuto a presentare un rapporto trimestrale al conseil de surveillance. Quest’ultimo, inoltre, può esperire, in ogni tempo, i controlli e le verifiche, anche di ordine contabile, che reputi opportuni e può richiedere i documenti che ritenga utili alla realizzazione della sua funzione [191]. Il président del conseil de surveillance ha le stesse prerogative del président (dissocié) del conseil d’administration [192]. Da questi primi elementi emergono alcune importanti differenze tra il modello dualistico puro e quello a conseil d’administration con président (dissocié), nel senso che pur avendo quest’ultimo un’impostazione tendenzialmente “dualistica”, il ruolo del conseil d’administration è naturalmente più ampio rispetto a quello conseil de surveillance, avendo esso anche un ruolo di alta amministrazione e di indicazione delle linee strategiche, ruolo che non compete al conseil de surveillance. Quest’ultimo ha sicuramente un ruolo di controllo, anche di merito e di opportunità, sulle scelte gestionali e [continua ..]


2.3 La disciplina inglese

2.3.1 La centralità del board of directors

Il modello di governance diffuso tra le società inglesi è quello monistico (“one-tier board model”)[205], comune anche agli Stati Uniti, ed al quale spesso viene associato con la denominazione di modello “anglosassone”, in cui domina il ruolo del consiglio di amministrazione. Per quanto riguarda la disciplina, il sistema inglese, rispetto agli altri paesi europei, si caratterizza per la sostanziale assenza di norme imperative di rango primario in materia di assetto e funzionamento dei controlli interni, essendo quasi tutta la materia demandata a regole di autodisciplina. Le best practices inglesi in materia di organi di controllo e amministrazione e di controlli interni sono attualmente contenute in tre testi elaborati dal Financial Reporting Council (di seguito, “FRC”)[206]: i) il UK Corporate Governance Code (di seguito anche, “UK CGC”, “Codice di Autodisciplina inglese” o “Codice”)[207], che tratta il tema del sistema dei controlli interni nella sezione C.2 (“Risk Management and Internal Control”); ii) la Turnbull Guidance del 2005 (di seguito, “TG”)[208], che suggerisce gli strumenti pratici per l’applicazione della sezione C.2 del Codice; iii) la Guidance on Audit Committees del 2010 (di seguito, “GAC”)[209], che meglio definisce ruoli e responsabilità degli amministratori indipendenti che compongono i comitati audit endoconsiliari. L’illustrazione che segue riprenderà, dunque, i tratti salienti delle norme di autodisciplina contenute in tali documenti. Il sistema inglese vede, come detto, quale organo centrale il board of directors, nominato dall’assemblea degli azionisti. In quanto organo delegato dagli stessi azionisti, esso ha il potere di vincolare con i propri atti la società nei confronti dei terzi e può esercitare tutti i poteri sociali con le sole limitazioni derivanti dallo statuto o da specifiche delibere assembleari. In base al UK CGC, ogni società deve essere guidata da un consiglio efficace e responsabile collegialmente del successo della stessa nel lungo termine[210]. A tale scopo, il ruolo del consiglio è quello di garantire la leadership imprenditoriale della società in un quadro di controlli prudenti ed efficaci, in maniera da poter valutare e gestire i rischi[211]. Il consiglio deve fissare gli obiettivi strategici della società, [continua ..]


2.3.2 Il ruolo del management

Se, da un lato, è compito del board individuare i rischi dell’attività d’impresa e definire gli interventi per ridurne l’impatto sugli obiettivi di business, il management ha il ruolo di attuare le policies decise dal board in materia [271]. Nel­l’a­dem­pimento dei propri compiti, il management dovrà individuare e valutare i rischi che si trova ad affrontare la società e programmare, condurre e monitorare un sistema adeguato di controllo, in attuazione delle politiche adottate dal consiglio di amministrazione [272], con conseguente responsabilità nei confronti del board per il monitoraggio e le informazioni trasmesse [273]. In tal senso, il management ha il compito di fornire al board informazioni corrette e il board deve, a sua volta, assicurarsi di ricevere e verificare i reports periodici sui controlli interni. Il consiglio deve comunicare al management le finalità, la frequenza e il contenuto dei reports sul controllo interno, ma il management deve altresì fornire tali informazioni in modo spontaneo. Le informazioni contenute nei reports del management sono fondamentali per le scelte di policy e le decisioni sulla valutazione del rischio da parte del consiglio, nonché ai fini della relazione annuale. In particolare, l’obiettivo principale dei reports è fornire al board una valutazione equilibrata dei rischi significativi, dettagli su eventuali difetti o debolezze nel sistema di controllo e delle misure adottate per fronteggiare tali inadeguatezze. In base alle raccomandazioni contenute nella TG, è essenziale che vi sia una comunicazione aperta e trasparente tra il management e il consiglio in materia di rischi e controlli interni. A tale riguardo, la Guidance include in appendice un elenco di questioni che il board dovrebbe discutere con il management nella valutazione dell’efficacia dei processi di controllo e rischio [274]. Dunque, mentre il board e i comitati endoconsiliari sono principalmente responsabili della supervisione di alto livello, il management è incaricato di svolgere un ruolo di tipo operativo per l’attuazione delle procedure programmate e decise dagli amministratori [275]. Ciò detto, tuttavia, la GAC rileva, in relazione al ruolo del comitato audit, che, occasionalmente, la funzione di supervisione di alto livello può articolarsi in livelli di maggiore dettaglio ove [continua ..]


2.3.3 Il ruolo dell’internal audit

La funzione di internal audit, che, oltre al ruolo di controllo finanziario, svolge altresì una funzione chiave di verifica indipendente sul sistema di controllo interno e, più in generale, sulla gestione del rischio, viene considerata come un’attività di consulenza concepita per aggiungere valore e migliorare le attività di una società. Tale funzione favorisce il raggiungimento degli obiettivi di business con l’apporto di un approccio organizzato e disciplinato, al fine di determinare e migliorare l’ef­ficacia dei processi di gestione del rischio, controllo interno e governance [276]. La supervisione dell’internal audit è affidata al comitato audit interno al board [277]. Tale organo deve possedere i requisiti e le risorse necessarie per prestare consulenza al board e al management sui processi di controllo interno, sottoponendo a verifica i reports trasmessi al board. Le best practices richiedono che l’inter­nal audit pianifichi la propria attività sulla base di un approccio risk-based. Non compete, invece, a tale funzione assumere o attuare decisioni di gestione del rischio o stabilire la policy di rischio della società, funzioni proprie del board. Le modalità di organizzazione della funzione di audit interno da parte del consiglio dipenderà da diversi fattori, quali la natura della società, le dimensioni, il capitale, la tipologia di attività, il settore, la complessità e l’area geografica di riferimento [278]. Il consiglio potrebbe altresì esternalizzare alcune o tutte le funzioni del­l’internal audit, piuttosto che impiegare risorse interne alla società, in base alle esigenze del business. Particolare attenzione dovrà essere prestata dal comitato audit nel caso in cui talune funzioni dell’internal audit vengano attribuite ai revisori esterni [279]. Perché la funzione di internal audit sia efficace, essa deve essere integrata con le altre funzioni dell’organizzazione della società, ricoprendo un posto di rilievo al­l’interno dell’organizzazione stessa. Inoltre, il comitato audit e il board, in generale, devono poter contare su un adeguato livello di indipendenza e obiettività di tale funzione. A tale scopo, la GAC stabilisce specifiche misure, al fine di garantire un ruolo significativo all’internal audit [continua ..]


2.4 La disciplina spagnola

2.4.1 Sintesi del tessuto normativo e autodisciplinare di riferimento

La struttura delle sociedades anónimas (SA) di diritto spagnolo, nei suoi lineamenti essenziali, trova fondamento nel Código de Comercio del 1885 e nella ley n. 24/1988 del Mercado de Valores (LMV), fra l’altro istitutiva della Comisión Nacional del Mercado de Valores (CNMV), l’organismo deputato alla vigilanza e al­l’ispezione del mercato finanziario e alla verifica delle operazioni ivi realizzate. Le norme primarie delineano un sistema di amministrazione e controllo che ricalca sostanzialmente il modello monistico, come sarà illustrato più in dettaglio di seguito. Avviato al termine della dittatura franchista, nel 1975, il processo di modernizzazione del diritto spagnolo delle società azionarie, in particolare quotate, è relativamente recente e non può ancora dirsi concluso [280]. Sin dall’instaurazione del regime democratico, a seguito dell’entrata in vigore della nuova Costituzione nel 1978, si è avuta una decisa stratificazione normativa in materia societaria, dovuta alla necessità di incrementare l’efficienza dei mercati e del sistema produttivo e imprenditoriale spagnolo. Nel 1989 è intervenuto il Real decreto legislativo n. 1564, con il quale è stato approvato il texto refundido della ley de sociedades anónimas (LSA), in sostituzione dell’ormai superata ley de régimen jurídico de las sociedades anónimas del 1951. La LSA ha, in particolare, sancito la distinzione, nell’ambito del consejo de administración, tra consejeros delegados e amministratori non esecutivi (cc.dd. consejeros no ejecutivos o externos), definendo le basi di un sistema di governance caratterizzato dalla concentrazione dell’attività di supervisione in capo alla componente non esecutiva del board. Nel 1998 la ley n. 37 ha riformato la LMV, intensificando, in particolare, i poteri di controllo della CNMV, e nel 2002 la ley n. 44 [281] ha provveduto a riformare ulteriormente il sistema finanziario, imponendo la costituzione, in seno al consejo de administración delle società quotate, di un comité de auditoría composto in prevalenza da amministratori privi di deleghe. Al fine di rafforzare la trasparenza delle SA quotate, tanto la LSA quanto la LMV sono state, quindi, modificate e integrate nel 2003, con la promulgazione della Ley n. 26 [282] sulla [continua ..]


2.4.2 I controlli interni nella disciplina spagnola

Come in altri ordinamenti europei, l’assemblea degli azionisti (junta general de accionistas) delle SA spagnole ha poteri di nomina e revoca del consejo de administración e dei revisori contabili esterni (auditores de cuentas), occupandosi altresì della definizione delle politiche di remunerazione del management. Detiene, inoltre, competenze deliberative in merito alle modificazioni essenziali della società (quali fusioni, scissioni, modificazioni statutarie, scioglimento), oltre ad approvare il bilancio di esercizio. Il ruolo della junta general trova giustificazione, in un mercato tuttora caratterizzato dalla concentrazione degli assetti proprietari, nella considerazione dei soci-azionisti quali soggetti titolari dell’impresa collettiva, legittimati, pertanto, a esercitare pregnanti poteri di controllo sulla gestione. Naturalmente, l’influenza che la junta esercita sulla gestione non assorbe in via principale la funzione di controllo dell’operato del management, che, in conformità del modello monistico di amministrazione e controllo a cui è riconducibile l’e­spe­rienza spagnola [286], compete principalmente al consejo de administración, segnatamente alla sua componente non esecutiva. Il board, infatti, oltre a occuparsi della gestione della società, con facoltà di delegare a una o più comisiones especializadas l’attuazione del programma imprenditoriale (art. 529-terdecies, LSC), detiene poteri di direzione e vigilanza sull’andamento della gestione. Le competenze del consejo de administración concernono, in particolare, l’indirizzo della gestione aziendale, la supervisione dell’attività del management esecutivo e l’interazione e lo scambio di informazioni con la junta general. Le più importanti funzioni di com­petenza del consejo trovano recente specificazione nel nuovo art. 529-ter, LSC, che definisce il ruolo dello stesso consejo, sancendo l’indelegabilità da parte del medesimo delle funzioni di approvazione dei piani strategici, degli obiettivi di gestione, delle politiche finanziarie, di controllo e gestione dei rischi della società, di supervisione dei sistemi interni di informazione e controllo, di definizione dell’infor­mazione finanziaria oggetto di pubblica diffusione. A tal fine, assume grande rilevanza il flusso informativo di cui sono destinatari gli [continua ..]


2.4.3 Il consejo de administración e i consejeros externos

Si è visto che, secondo le previsioni della LSC riformata (art. 529-ter) e le raccomandazioni del CUBG, un compito fondamentale e inalienabile del consejo de administración nel suo complesso è rappresentato dalla definizione delle strategie e degli obiettivi imprenditoriali della società. Si tratta, in sostanza, delle attività di predisposizione e di monitoraggio delle strategie e dei piani di sviluppo imprenditoriale e finanziario elaborati dal management aziendale, nonché della sorveglianza del sistema informativo e dell’intera struttura di controllo interno. Tale función general de supervisión comprende, in particolare, l’attività di guida e di impulso della politica imprenditoriale della società (responsabilidad estratégica), il monitoraggio della gestione al fine di garantire il perseguimento degli obiettivi fissati (respondabilidad de vigilancia) e il mantenimento dei rapporti con gli azionisti (responsabilidad de comunicatión) [288]. Al consejo de administración è altresì delegata la ratifica di specifiche decisioni del management, come la nomina o la rimozione degli alti funzionari della società. Inoltre, in presenza di società controllate o collegate, il consejo de administración della capogruppo è invitato a prestare particolare attenzione all’organizzazione del gruppo societario, evitando, ove possibile, la costituzione e il mantenimento di strutture artificiali o eccessivamente complesse e vigilando sulla trasparenza del gruppo. Quale componente essenziale della sua funzione di vigilanza, il consejo è, poi, tenuto a conoscere eventuali circostanze idonee a determinare potenziali conflitti di interessi, in modo da intervenire tempestivamente a tutela della trasparenza societaria, nonché ad autorizzare le operaciones con partes vinculadas, vigilando sul loro compimento. Con riguardo alla composizione del consejo de administración, particolarmente rilevante è la già evocata distinzione tra consejeros internos ed externos [289], questi ultimi distinti in independientes [290] e dominicales (rappresentativi degli azionisti con partecipazioni legalmente “significative” nella società) (art. 529-duodecies, LSC). La società è chiamata a garantire un efficiente equilibrio tra amministratori con e senza deleghe, fermo [continua ..]


2.4.4 Le comisiones de supervisión y control

L’ampiezza dei poteri che la legge e lo statuto attribuiscono al consejo de administración giustificano la delega di alcune funzioni a comisiones endoconsiliari. Il corretto esercizio del fondamentale ruolo di vigilanza e controllo suggerisce, in particolare, che il consejo deleghi a specifiche comisiones, eventualmente supportate da esperti esterni, l’esercizio di funzioni relative a talune materie. Tali comitati, secondo il CUBG, sono rappresentati, da un lato, da una o più comisiones delegadas, dotate di poteri di gestione operativa, e, dall’altro lato, da comisiones definite di «supervisión y control» (la comisión de auditoría e una o due comisiones separate «de nombramientos y retribuciones»), composte da consejeros externos e presiedute da un independiente [293]. Queste ultime comisiones proiettano la loro attività sul team esecutivo, al quale, poi, spetta il compito di valutarne le proposte e le relazioni nell’ambito del plenum. A tal fine, alle relative riunioni possono prendere parte anche i consejeros internos, incaricati della gestione operativa. In dettaglio, la comisión de auditoría, i cui membri (mediamente nel numero di 3,5) il CUBG raccomanda che siano designati tra i consejeros externos [294] in possesso di adeguate conoscenze ed esperienze in materia di contabilità e revisione, è chiamato a supervisionare il funzionamento del sistema di controllo interno della società e la qualità dei sistemi di gestione dei rischi. Esso è tenuto, in sostanza, a monitorare la funzione di revisione interna della società, svolgendo altresì un ruolo di supporto nella gestione e nella valutazione dei rischi (operativi, tecnologici, finanziari, legali, reputazionali) connessi all’esercizio dell’attività d’impresa. Al comité sono delegate le funzioni di overview della «función de auditoría interna», di vigilanza su «los sistemas internos de información y control», la gestione dei rapporti con gli auditores de cuenta, il monitoraggio dell’elaborazione e dell’integrità delle informazioni finanziarie e la verifica della corretta applicazione dei princìpi contabili. Il comité è, inoltre, responsabile della creazione e gestione di una “casella” per la denuncia interna [continua ..]


3. Ipotesi di semplificazione e razionalizzazione del sistema ita­liano dei controlli interni

3.1 Dalla riscrittura della disciplina dei modelli alternativi al loro utilizzo in relazione alle diverse esigenze delle imprese nel corso del loro sviluppo

Come si è visto nel primo capitolo, in materia di modelli di amministrazione e controllo e di controlli interni, la Riforma del diritto societario del 2003 aveva avuto come principale obiettivo quello di eliminare i costi e le rigidità strutturali ed operative delle società, al fine di renderne competitiva l’operatività anche sul piano internazionale. Una riforma che, soprattutto per le società quotate fisiologicamente aperte agli investimenti stranieri, avrebbe dovuto servire a garantire alle stesse un maggior grado di concorrenza. Come è stato detto, infatti, i corsi azionari riflettono non solo la frazione di patrimonio che rappresentano, ma anche il valore dei diritti amministrativi incorporati e, più in generale, la struttura organizzativa della società [296]. Tale obiettivo – che avrebbe dovuto realizzarsi essenzialmente mediante la semplificazione della disciplina delle società, l’ampliamento dell’autonomia privata, nonché l’adeguamento dei modelli societari alle esigenze delle imprese – non è stato raggiunto. Nel corso degli anni, infatti, da un lato, come detto nel primo capitolo, l’utilizzo dei modelli alternativi di amministrazione e controllo è stato estremamente limitato (a causa, in primo luogo, della mancanza di un corpus normativo autonomo e ben articolato), dall’altro l’Italia ha vissuto una lunga stagione (soprattutto nella materia del sistema dei controlli interni) di interventi normativi non organici, che, in qualche modo, hanno interpretato la corporate governance ed il sistema dei controlli interni più come un obiettivo “in sé” che come uno strumento per fare raggiungere alle imprese italiane maggiore efficienza e competitività, tradendo così in modo significativo lo spirito della Riforma organica del diritto societario del 2003. Per realizzare gli obiettivi che si era posta, ormai undici anni fa, la citata Riforma [297] pare allora, in primo luogo, necessario riscrivere la disciplina dei modelli monistico e dualistico di amministrazione e controllo senza rinvii alla disciplina del modello tradizionale italiano. La realizzazione di plessi normativi autonomi e completi (eventualmente non circoscritti, come oggi, alla sola sezione VI-bis del capo V del libro V del codice civile, dedicata all’amministrazione e al controllo) [298], [continua ..]


3.2 L’ipotesi di integrazione della disciplina del consiglio di am­ministrazione del modello “tradizionale” per la società quotata

Un aspetto che pare meritare particolare attenzione in una eventuale opera di razionalizzazione del sistema italiano di governance interna delle società per azioni quotate è la disciplina delle attribuzioni e delle funzioni del consiglio di amministrazione. Come visto nel primo capitolo [304], l’organizzazione di una grande impresa prevede necessariamente un “doppio grado” di amministrazione: (i) una alta amministrazione (di definizione degli indirizzi e degli obiettivi aziendali strategici, di controllo e gestione del rischio di impresa, ecc.), attribuita all’organo amministrativo nel suo plenum (e soprattutto agli amministratori non esecutivi), e (ii) una gestione operativa ordinaria, ossia una conduzione dell’operatività aziendale volta a realizzare gli indirizzi strategici dell’alta amministrazione, assegnata a managers interni (amministratore delegato o chief executive officer) o esterni al board (dirigenti appartenenti alla struttura aziendale, quali i direttori generali). L’adozione e l’esecu­zione delle decisioni gestionali sono sostanzialmente di competenza del management operativo e la vigilanza sulle stesse decisioni (nonché la scelta degli stessi managers) è di competenza dell’organo amministrativo nel suo insieme (nel sistema dualistico anche del consiglio di sorveglianza). Da questo punto di vista, risulta abbastanza anomalo il fatto che la normativa primaria italiana, che dedica moltissime regole (seppur, come visto, frammentate e disorganiche) alle funzioni affidate ai vari attori protagonisti dei controlli interni societari, non detti, invece, alcuna regola specifica per quello che può considerarsi il cuore della governance della società per azioni, ossia il funzionamento e le attribuzioni del consiglio di amministrazione, limitandosi piuttosto a regolamentarne la sola composizione, con la previsione della figura degli amministratori di minoranza (art. 147-ter, comma 3, TUF), degli amministratori indipendenti (art. 147-ter, com­ma 4, TUF) e dei rappresentanti delle quote di genere (art. 147-ter, comma 1-ter, TUF). Tant’è che oggi, in Italia, le funzioni proprie del consiglio di amministrazione di una grande impresa quotata sono disciplinate dalle stesse (scarne) norme di diritto comune contenute nel codice civile (all’art. 2381), che regolano quelle di una qualunque piccola o piccolissima società [continua ..]


3.3 Le proposte della Consob per la semplificazione del sistema dei controlli interni

Se la realizzazione di plessi normativi autonomi e moderni garantisce alle imprese la reale possibilità di scegliere il modello ritenuto più confacente alle proprie esigenze, ciò, in ogni caso, non risolve l’ulteriore e, forse, più importante problema, che affligge il sistema italiano di governance e di controlli interni, soprattutto per le società quotate: l’eccesso di regolamentazione e la conseguente proliferazione del numero degli attori protagonisti della funzione di controllo interno. Un tema, questo, che pare potersi ascrivere al più vasto problema della complessa e stratificata normativa esistente in Italia, che ha determinato un grave ritardo competitivo per le nostre imprese, come ha evidenziato recentemente anche la Banca Mondiale nel suo rapporto annuale intitolato Doing Business 2015 [309]. Il citato rapporto esamina le normative nazionali dal punto di vista della loro idoneità a favorire la nascita e lo sviluppo delle imprese e dal quale risulta che l’Italia si colloca al ventitreesimo posto nella lista dei ventotto paesi europei. Tale problema potrebbe essere risolto, come ha evidenziato sin dal 2012 l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) nel suo rapporto sulla Better Regulation in Italia [310], solo attraverso la gestione della normativa esistente, semplificandola, razionalizzandola e valutando la percorribilità di “alternatives to regulation”, quali, ad esempio, la “self-regulation” [311]. Da questo punto di vista, la Consob, sin dal 2011, consapevole del fatto che, anche in materia di corporate governance e di controlli interni, la complessità delle regole non ha aiutato lo sviluppo del sistema finanziario né lo ha reso concorrenziale rispetto a quello degli altri paesi europei (e, più in generale, ad economia avanzata), si è impegnata a semplificare la regolamentazione secondaria e a proporre modifiche alla normativa primaria, volte a ridurre i costi di compliance per le imprese (per non svantaggiarle rispetto ai concorrenti esteri) e avvicinarle al mercato dei capitali mantenendo invariati i livelli di tutela degli investitori. Nel febbraio 2011, la Consob ha istituito tre Tavoli di confronto fra Autorità, industria e risparmiatori, aventi ad oggetto, tra l’altro, la concorrenza fra sistemi di regole e di vigilanza e la semplificazione [continua ..]


3.4 Il sistema monistico come modello maggiormente affermato sui mercati finanziari internazionali

La semplificazione della normativa e la riscrittura dei modelli alternativi di amministrazione e controllo sono certamente strumenti efficaci per realizzare l’o­biettivo – già indicato dalla Riforma delle società del 2003 – di eliminare costi e rigidità strutturali del sistema italiano di governance interna della società per azioni e di rendere maggiormente competitive le imprese italiane. Il tema della competitività delle imprese italiane, ed in particolare di quelle quotate in borsa, merita però ulteriore attenzione, stante la loro naturale attitudine all’apertura al mercato e agli investimenti stranieri. Se, infatti, come visto, la scelta del modello di amministrazione e controllo non dovrebbe avere alcuna incidenza sulla efficacia dei controlli interni – dato il postulato secondo cui i modelli devono necessariamente essere funzionalmente alternativi tra di loro –, occorre, in ogni caso, chiedersi se tali modelli per le società quotate siano altrettanto fungibili tra loro da un punto di vista concorrenziale. In altre parole, la domanda che occorre porsi è se la postulata neutralità del modello rispetto all’obiettivo dell’efficacia dei controlli interni significa anche per le società quotate italiane, una indifferenza della scelta del modello per ciò che concerne la loro capacità di concorrere a livello internazionale, oppure se esista un modello di amministrazione e controllo maggiormente efficace di un altro per ciò che riguarda la vocazione della società quotata a reperire capitali sui mercati internazionali. Pertanto, il discorso che si intende sviluppare non è un ragionamento astratto circa la tendenza evolutiva dei sistemi e delle regole di governance dell’impresa quotata nel mondo [318], quanto piuttosto un discorso concreto di comparazione del­l’efficienza dei modelli per le imprese italiane in termini di concorrenzialità e di funzionalità rispetto allo sviluppo del mercato dei capitali [319]. Ciò in linea con l’i­dea che lo scopo primario del diritto societario consista (anche per il nostro ordinamento) nel fornire «a legal framework for those who wish to undertake business activities efficiently, in a way they consider to be best suited to obtain success. Company law should firstly of all facilitate the running of efficient [continua ..]


3.5 Il sistema monistico come modello ottimale per la razio­na­liz­zazione del sistema dei controlli interni delle società quotate?

Il modello monistico, oltre a rappresentare un assetto di governance che potrebbe rendere più competitive le imprese sui mercati dei capitali internazionali, secondo una parte della dottrina potrebbe anche rappresentare un assetto organizzativo adeguato ed efficace per la gestione e il controllo delle società quotate [338], ciò per via della «connaturata, positiva compenetrazione fra organo amministrativo e di controllo, che dovrebbe garantire una gestione ed una vigilanza maggiormente consapevoli ed efficaci» e «che sembra oggi costituire un punto fermo nelle riflessioni in tema di governance societaria» [339]. In particolare, il sistema monistico – eventualmente “corretto” con taluni accorgimenti già oggi adottabili alla luce del diritto vigente [340], ma eventualmente anche implementabili in una prospettiva de jure condendo [341] – potrebbe garantire una commistione positiva fra gestione e controllo, assicurando una sorveglianza continua tanto sulla legittimità quanto sul merito dell’operato degli amministratori [342]. In particolare, anche alla luce di una «visione evolutiva dei controlli societari» [343], il fatto che i membri del comitato per il controllo sulla gestione siano (anche) amministratori della società tenuti a deliberare sulle scelte gestionali, sarebbe un fatto in grado di assicurare agli stessi la possibilità di esercitare la funzione di controllo in forma più ampia di quanto consentito oggi al collegio sindacale i cui membri, pur potendo partecipare alle sedute del consiglio di amministrazione, non possono, invece, influire sulle scelte degli amministratori. Tale circostanza, oltre ad implicare il fatto che il controllo che eserciterebbe il comitato per il controllo sulla gestione potrebbe legittimamente interessare anche il merito delle scelte gestionali, comporterebbe anche il fatto che l’attività di controllo, anziché essere effettuata ex post, sia compiuta ex ante, ossia sin dal momento del compimento delle scelte gestionali. Inoltre, in tale prospettiva, il modello monistico, garantendo il massimo grado di coesione nell’azione amministrativa, annullerebbe altresì ogni distanza fra controllori e controllati, evitando così il rischio che all’organo di controllo possa sfuggire il disegno complessivo perseguito dagli amministratori [continua ..]


4. Conclusioni

La disciplina italiana della governance interna delle società per azioni e, in particolare, del consiglio di amministrazione è sostanzialmente rimasta quella delineata dal codice civile del 1942 per oltre sessanta anni. Si è evidenziato nel corso del primo capitolo come tale disciplina, da un lato, non dedicava alcuna disposizione alle attribuzioni e alle funzioni del consiglio di amministrazione e, dall’altro lato, assegnava al collegio sindacale un controllo di tipo societario (ossia sulla società e sulla sua organizzazione e non anche sulla impresa e sul dipanarsi della sua attività), nonché un controllo successivo (ex post) rispetto ad atti o a comportamenti già posti in essere. Con la Riforma del diritto societario del 2003 (unica vera riforma organica italiana della governance societaria), il Legislatore si era dato come obiettivi primari (chiaramente individuati all’art. 2 della Legge delega del 3 ottobre 2001, n. 366) quelli di: a) semplificare la disciplina delle società, al fine di eliminarne i costi e le rigidità strutturali ed operative e di renderle competitive sul piano internazionale; b) comprimere il tasso di imperatività dell’ordinamento ampliando gli ambiti dell’autonomia privata e statutaria; c) aumentare le possibilità per le società di scegliere l’assetto organizzativo più confacente ai propri interessi. In particolare, tra le principali scelte effettuate dalla Riforma vi fu quella di offrire alle imprese organizzate in forma di società per azioni la possibilità di adottare sistemi alternativi di amministrazione e controllo (i cc.dd. modelli monistico e dualistico), in linea con i modelli europei dominanti ritenuti strumenti organizzativi dell’attività sociale particolarmente adatti a consentire alle imprese italiane – soprattutto alle società quotate e alle multinazionali – di rispondere efficacemente alle nuove e diversificate esigenze di un mercato dei capitali ormai globalizzato. Ad oltre undici anni dalla sua introduzione, gli obiettivi di semplificazione della disciplina delle società, di ampliamento dell’autonomia privata e di adeguamento dei modelli societari alle esigenze delle imprese perseguiti dalla Riforma del diritto societario del 2003 non paiono essere stati raggiunti. In primo luogo, per quanto riguarda l’adozione dei modelli [continua ..]


Bibliografia

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