Rivista di Diritto SocietarioISSN 1972-9243 / EISSN 2421-7166
G. Giappichelli Editore

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Note sulla responsabilità del socio ex art. 2476, 7° comma, c.c. (nota a Trib. Salerno, 9 marzo 2010) (di Carlo Limatola)


(Artt. 2476, 7° comma, c.c.)

 

Al fine di dimostrare l’intenzionalità della condotta ai sensi dell’art. 2476, 7° comma, c.c. occorre verificare, anche presuntivamente, che i soci hanno perseguito con il loro voto l’intento di cagionare un danno mediante l’induzione dell’amministratore all’inadempimento dei suoi doveri, o almeno la piena consapevolezza della contrarietà dell’atto a norme di legge, dell’atto costitutivo oppure ai princìpi di corretta amministrazione e della sua potenziale lesività. Non potendo essere richiesto ai soci lo stesso grado di diligenza cui sono tenuti gli amministratori, costoro non possono essere ritenuti responsabili se hanno votato in assenza di effettiva consapevolezza dei possibili effetti dannosi della decisione, perché male informati o superficiali e distratti nella valutazione delle circostanze (4).

Il Tribunale (omissis)

visto il ricorso per reclamo al collegio proposto in data 8 settembre 2009 da R.L., N.L. E C.L. (in proprio e quali eredi di M.C.) nei confronti del FALLIMENTO ARREDAMENTI LADIR S.R.L. avverso l’ordinanza resa dal Giudice designato in data 10 agosto 2009, con cui è stata accolta la domanda di sequestro conservativo del Fallimento nei loro confronti, mentre è stata rigettata quella avanzata nei confronti della PARAVIA INTERNATIONAL S.R.L.;

sentite da ultimo le parti all’udienza del 23 febbraio 2010 e sciogliendo la riserva di pronuncia ivi assunta, osserva quanto segue.

Il Fallimento ARREDAMENTI LADIR S.R.L. ha azionato un credito risarcitorio ex art. 2476 comma 7 c.c. nei confronti dei singoli soci della società fallita sul presupposto della nullità o simulazione delle deliberazioni della Arredamenti Ladir s.r.l. del 26 ottobre 2005 e della Elle Ufficio S.r.l. del 4 novembre 2005; in particolare, con la prima delibera (quella del 26 ottobre 2005) si sarebbe illecitamente disposto il ripianamento delle perdite di esercizio 2004 e 2005 della partecipata Elle Ufficio s.r.l. e la rinunzia al diritto di opzione in sede di ricostituzione del capitale sociale; in subordine il Fallimento, a sostegno della pretesa cautelare di sequestro, ha dedotto l’inef­fi­cacia e la revocabilità degli atti di trasferimento di beni materiali ed immateriali in favore di Paravia International s.r.l. e della rinuncia al diritto di opzione, avendo appunto la stessa Paravia International s.r.l. sottoscritto la quota di capitale della Elle Ufficio s.r.l. in seguito al mancato esercizio del­l’opzione stessa spettante a ARREDAMENTI LADIR S.R.L.

Il reclamo risulta tempestivo pure alla luce del termine di dieci giorni previsto dal comma 5 dell’art. 23 D. lgs. n. 5/2003, qui ancora applicabile ai sensi del comma 6° dell’art. 54 della legge 18 giugno 2009, n. 69, trattandosi di procedimento cautelare già pendente alla data di entrata in vigore della stessa legge 69/2009 (4 luglio 2009). La comunicazione dell’ordinanza reclamata effettuata presso il codifensore degli attuali reclamanti Avvocato Mancuso il 24 agosto 2009 appare invero nulla, avendo gli stessi eletto domicilio con la memoria del 5 agosto 2009 presso lo studio dell’Avvocato Bisogno.

Va subito detto che l’ordinanza reclamata ha affermato (pagina 4) che l’illiceità dell’oggetto delle due delibere assembleari potrebbe discendere soltanto dall’inesistenza del presupposto delle perdite di esercizio della partecipata ELLE UFFICIO che hanno giustificato l’utilizzo dei finanziamenti dei soci, e dunque dalla falsità del bilancio di questa società terza, invocando l’ausilio di una futura consulenza tecnica. Lo stesso provvedimento ora reclamato ha invece ritenuto sussistente già la probabile fondatezza dell’azione revocatoria esperita in subordine, qualificando la delibera del 26 ottobre 2005 come atto a titolo gratuito.

Dunque, il fumus ravvisato dal primo giudice è proprio quello relativo alla subordinata azione revocatoria delle delibere con cui la assemblea di Arredamento Ladir s.r.l. prima decise di ripianare le perdite della partecipata Elle Ufficio S.r.l. mediante utilizzazione dei finanziamenti in conto aumento capitale e poi rinunziò al diritto di opzione in sede di ricapitalizzazione della stessa Elle Ufficio S.r.l.

Nella specie, come il Tribunale ha già osservato nel­l’or­dinanza con cui è stato deciso altro reclamo avverso lo stesso provvedimento, la revoca avrebbe ad oggetto il diritto di opzione relativo all’aumento del capitale sociale della s.r.l. Elle Ufficio, risultante dalla ricostituzione dello stesso dopo il ripianamento delle perdite di esercizio 2004 e 2005. Ora, tra i presupposti che condizionano l’espe­ri­mento dell’azione revocatoria vi è quello relativo alla natura ed al contenuto dell’atto di cui si chiede l’inefficacia, nel senso che sono soggetti all’azione stessa soltanto quegli atti i quali importano una modificazione giuridico – economica della situazione patrimoniale del debitore. Tale requisito è configurabile in riferimento non solo agli atti di alienazione che importino una diminuzione attuale del patrimonio del debitore, ma altresì a quelli che possono comprometterne eventualmente la consistenza in futuro, come gli atti di rinunzia, le assunzioni di debito e la concessione di garanzie personali o reali. Tuttavia, per gli atti abdicativi è necessaria una distinzione, occorrendo accertare se essi si ricollegano ad una posizione giuridica già potenzialmente acquisita, nei suoi elementi costitutivi, al patrimonio del rinunziante o se, invece, si concretano nella rinunzia ad una facoltà, per effetto della quale non resta, comunque, modificato, né attivamente né passivamente il compendio patrimoniale quo ante del debitore. Nel primo caso (rinunzia all’eredità, rinunzia alla prescrizione) l’azione revocatoria è senza dubbio ammissibile, mentre nel secondo caso (rinunzia ad un compromesso d’acquisto) il comportamento del debitore non consente l’esercizio dell’azione revocatoria, perché il futuro incremento del suo patrimonio non si pone come conseguenza immediata della omessa rinunzia, ma è collegato all’ulteriore adempimento dell’obbligo, da parte del compratore, di corrispondere il relativo prezzo. Ond’è che, di fronte ad una situazione giuridica ancora in fieri, il mancato acquisto del bene non può mai assumere il valore e la portata di un atto dispositivo, ma può giustificare tutt’al più il tempestivo esercizio dell’azione surrogatoria (Cass., 21.7.1966, n. 1979, Mass. Foro it., 632). Andrà quindi accertato, con gli opportuni approfondimenti istruttori di seguito indicati nel corso del giudizio di merito, se tale diritto di opzione avesse un valore economico in sé, già attuale ed indipendente dal­l’e­ven­tuale sottoscrizione dell’aumento di capitale cui esso si riferisce. Il valore di tale diritto andrebbe commisurato al patrimonio della società e potrebbe essere monetizzato attraverso l’alienazione del diritto di opzione in sé, che ha un suo autonomo valore di mercato.

Il diritto di opzione è disciplinato nell’ambito della società per azioni dall’art. 2441 c.c. e, per quanto concerne la società a responsabilità limitata, dall’art. 2481 bis c.c. nella disciplina successiva alla riforma societaria di cui al D.Lgs. n. 6 del 2003.

L’art. 2481 bis, comma 1, nell’affermare che spetta ai soci il diritto di sottoscrivere l’aumento del capitale sociale in proporzione delle partecipazioni da essi possedute, eccezion fatta per le diverse previsioni dell’atto costitutivo, consente ai soci di mantenere invariata la loro partecipazione nonostante l’aumento del capitale sociale della società. Nel caso in cui il socio non possa esercitare il suo diritto, egli potrebbe limitare il danno derivante dalla conseguente riduzione o esclusione della partecipazione, alienando il diritto di opzione a favore di chi fosse in grado di esercitare tale diritto in sua vece. Di qui l’indiscussa conclusione che il diritto di opzione nelle società di capitali assume un valore economico in sé, potendo essere oggetto di disposizione a favore di terzi. La cessione del diritto di opzione non può peraltro incontrare limiti maggiori di quelli previsti per il trasferimento delle azioni o delle quote. La libera trasferibilità delle quote per atto tra vivi, sancita dall’art. 2469, comma 1, c.c., comporta, in difetto di diversa disciplina statutaria, la piena possibilità per il socio che non intendesse esercitare il diritto di opzione di cederlo. Tuttavia la più marcata impronta personalistica della disciplina della società a responsabilità limitata rispetto a quella della società per azioni, implica che siano pienamente valide ed efficaci, in virtù della stessa disciplina dettata dall’art. 2469 c.c., le clausole che vietano il trasferimento delle quote per atto inter vivos o che limitavano tale possibilità di trasferimento in favore dei soli soci, clausole di frequente adozione nella pratica statutaria.

Tali vincoli incidono ovviamente anche sul diritto di opzione, perché la cessione del diritto di opzione ed il suo successivo esercizio da parte del cessionario produce gli stessi effetti del trasferimento della quota, vale a dire modifica il novero dei soci ed incide sulla quota di partecipazione di ciascuno al capitale sociale.

Ne deriva che il diritto di opzione non è consentito quando sia prevista statutariamente l’intrasferibilità delle quote, e che nei casi in cui lo statuto ammetta il trasferimento soltanto a favore dei soci ovvero preveda un diritto di prelazione a favore di questi ultimi, la cessione del diritto di opzione può avvenire soltanto nel rispetto dei limiti alla libera circolazione delle quote. Si è pertanto affermato in dottrina che nella società a responsabilità limitata il valore del diritto di opzione, ove sussistano limitazioni alla circolazione delle quote, si riduce e sovente si annulla, non rimanendo al socio altra pratica alternativa che la sottoscrizione dell’aumento o la perdita del diritto di opzione.

Vi è dunque una netta differenza tra la disciplina del diritto di opzione nella società per azioni e nella società a responsabilità limitata. Mentre nel primo tipo di società alla libera circolazione delle azioni segue la possibilità, in caso di mancato esercizio dell’opzione da parte dei soci, di provvedere all’alienazione del diritto stesso sul mercato, essendo consentita ai terzi la sottoscrizione dell’aumento di capitale, nella società a responsabilità limitata in cui l’e­lemento personale connesso alla qualità del socio che partecipa alla società assume connotati di gran lunga più rilevanti, l’esistenza stessa (in questo caso pacifica in causa) ed il contenuto del diritto di opzione sono legati alla disciplina in concreto dettata dallo statuto sociale.

Pertanto, a differenza di quanto avviene per la società per azioni, per la società a responsabilità limitata il diritto di opzione non ha automaticamente un valore patrimoniale autonomo, perché tale valore discende dalla disciplina in concreto adottata in ordine alla circolazione delle quote nel­l’ambito dello statuto sociale, statuto che, come si è detto, può sia vietare la circolazione della quota per atto inter vivos sia sottoporla a vincoli più o meno rigorosi, vincoli che incidono sulla trasferibilità ai soci o ai terzi del diritto di opzione.

Ne deriva che l’assoggettamento a revocatoria dell’atto di rinuncia o del mancato esercizio di tale diritto, essendo diretto alla declaratoria d’inefficacia dell’atto abdicativo ed all’assoggettamento del diritto all’azione esecutiva da parte del creditore del socio, comporta la dimostrazione che il bene oggetto della rinuncia sia sottoponibile all’azione esecutiva secondo la legge di circolazione delle quote così come stabilita in concreto dallo statuto sociale.

Nel caso in esame la Curatela del Fallimento Arredamento Ladir s.r.l. prospetta che il diritto di opzione in relazione al capitale della Elle Ufficio S.r.l. avesse un valore in sé, di cui sarebbe stata depauperata la società fallita, ma non deduce che esso fosse alienabile sul mercato, né ha allegato, neppure nel corso del giudizio di merito, che tale valore di mercato corrispondesse alla disciplina statutaria in concreto adottata dalla Elle Ufficio S.r.l. Tale dato sarà approfondito invero nella CTU che il Giudice relatore ha proposto di espletare nel decreto di fissazione udienza del 25 gennaio 2010 in atti.

Deve allora al momento ribadirsi che la rinuncia o il mancato esercizio del diritto di opzione non è suscettibile di revoca ai sensi degli artt. 64 o 67 R. D. 16 marzo 1942, n. 267, né dell’art. 2901 c.c., se non quando l’opzione costituisca un bene in sé, dotato di autonomo valore di mercato. Nella specie, avendosi riguardo alla disciplina della società a responsabilità limitata, la revoca rimane subordinata alla dimostrazione che il diritto di opzione sia suscettibile di alienazione secondo la legge di circolazione delle quote stabilita dallo statuto sociale (Cassazione civile, sez. I, 11 maggio 2007, n. 10879 [cit. in nota]).

Quanto all’ulteriore contenuto delle delibere impugnate del 26 ottobre 2005, laddove per la ricostituzione del capitale della Elle Ufficio S.r.l. si stabiliva di utilizzare i finanziamenti in conto aumento capitale (pari per la socia Arredamento Ladir s.r.l. ad euro 974.213,95), si è pure già osservato dal Tribunale nella precedente ordinanza sul reclamo della Curatela come i versamenti effettuati dai soci della società in conto di futuro aumento di capitale (o con altra analoga dizione indicati), pur non determinando un incremento del capitale sociale e pur non attribuendo alle relative somme la condizione giuridica propria del capitale (onde non occorre che siano conseguenti a una specifica deliberazione assembleare di aumento del predetto capitale), hanno una causa che, di norma, è diversa da quella del mutuo ed è assimilabile invece a quella di capitale di rischio; con la conseguenza che essi non danno luogo a crediti esigibili nel corso della vita della società e possono essere chiesti dai soci in restituzione solo per effetto dello scioglimento della società e nei limiti del­l’eventuale residuo attivo del bilancio di liquidazione. Ciò non esclude, tuttavia, che tra la società ed i soci possa essere convenuta l’erogazione di un capitale di credito e che, quindi, i soci possano effettuare versamenti in favore della società a titolo di mutuo. Lo stabilire, in concreto, la natura del versamento, è questione di interpretazione, che, in difetto di una chiara manifestazione di volontà, ben può essere ricavata dalla terminologia adottata nel bilancio, poiché questo è soggetto all’approvazione dei soci e le qualificazioni che i versamenti hanno ricevuto diventano determinanti per stabilire se si controverta, appunto, di un finanziamento o di un conferimento (13 agosto 2008, n. 21563 [Foro it., 2009, I, 1829]; Cass. 31 marzo 2006, n. 7692 [Foro it., 2007, I, 3217]). Di tal ché prima facie, nell’ambito di un’operazione di ricapitalizzazione di una società a responsabilità limitata, appare pienamente legittima la delibera di ripianamento delle perdite adottata mediante imputazione del fondo “finanziamento in conto aumento capitale sociale” risultante da apposita posta di bilancio; anzi, tali versamenti dei soci in conto di futuro aumento di capitale, non solo possono, ma debbono essere utilizzati a copertura delle perdite, in coerenza con la loro essenziale e primaria funzione di riserve, e cioè di strumenti di protezione del capitale sociale.

Lo stesso decreto di fissazione dell’udienza del 25 gennaio 2010 ha ritenuto la rilevanza dell’assunzione delle prove testimoniali all’uopo dedotte dalla Curatela, nonché della CTU finalizzata proprio a dare conforto istruttorio alla ipotesi di una minusvalenza patrimoniale cagionata in danno della ARREDAMENTI LADIR per effetto di trasferimento di beni e risorse verso la ELLE UFFICIO s.r.l., ovvero di una perdita della capacità occupazionale e del valore di avviamento economico del complesso produttivo, o di trasferimento di know how, sempre in favore di ELLE Ufficio s.r.l., o in genere per effetto del conferimento del­l’asset non sorretto da adeguato corrispettivo. Tali dati sono al momento rimessi alle mere prospettazioni della difesa dal Fallimento attore e devono ricevere adeguato supporto probatorio mediante la complessa istruttoria da compiersi.

Occorre da ultimo ribadire che l’ordinanza reclamata aveva ravvisato il fumus di fondatezza del credito garantito con il concesso sequestro in relazione all’esperimento del­l’azione revocatoria, sulla cui attuale consistenza si è finora soffermato il collegio. Tuttavia, il Fallimento Arredamento Ladir, sub 6) delle conclusioni proposte nella citazione introduttiva del pendente giudizio di merito, ha richiesto la condanna di R.L., N.L. e C.L. “al risarcimento ex art. 247[6] VI co. c.c.”. Già l’ordinanza resa dal giudice di prime cure aveva riqualificato la pretesa risarcitoria riferendola correttamente piuttosto al comma VII dell’art. 2476 c.c. Non risulta pertanto espressamente dedotta in giudizio dal­la Curatela la responsabilità dell’amministratore R.L. quale ragione di danno per l’inosservanza dei doveri a lui imposti dalla legge e dall’atto costitutivo per l’am­mi­nistrazione della fallita Arredamento Ladir, ai sensi del comma I dello stesso art. 2476 c.c.

Occorre certamente tener conto dei rapporti tra le preclusioni del merito e la strumentalità della giurisdizione cautelare, nel senso che, visto che il procedimento cautelare introdotto il 17 aprile 2009 si è sviluppato quando era già pendente il giudizio di merito, i poteri delle parti di allegare i nova in funzione della cognizione cautelare devono risentire delle preclusioni in ordine al thema decidendum ormai maturate nel procedimento di cognizione piena a seguito della notificazione dell’istanza di fissazione dell’udienza (art. 10, comma 2°, D.lgs. n. 5/2003), non potendosi prospettare nell’uno profili di fatto o di diritto non più deducibili nell’altro, sicché gli elementi di fatto e le ragioni di diritto da porre ad ammissibile fondamento del­l’istanza cautelare sono quelli contenuti nella citazione del 12 febbraio 2009, poi precisati nella memoria di replica.

Escluso pertanto che il credito da cautelare col concesso sequestro conservativo discenda al momento con sufficiente consistenza dalle domande restitutorie connesse alle azioni che allegano l’invalidità o l’inefficacia delle deliberazioni assembleari di cui si è detto, l’effetto pienamente devolutivo del reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c. induce a verificare altresì se abbia invece adeguata probabile fondatezza la istanza risarcitoria verso i soci basata sul disposto del comma VII dell’art. 2476 c.c.

La disposizione dell’art. 2476, comma 7, c.c., introdotta dal legislatore del 2003 nell’ambito della disciplina della responsabilità degli amministratori di s.r.l., prevede che, in ipotesi di mala gestio, i soci che hanno intenzionalmente deciso o autorizzato il compimento di atti dannosi siano solidalmente responsabili con gli amministratori verso la società, i singoli soci e i terzi. Si tratta invero di azione che può essere esercitata altresì dal Curatore fallimentare ai sensi del nuovo art. 146, comma 2, lett. b, l. fall.

Il comma 7 dell’art. 2476 c.c. costituisce il corollario, sotto il profilo della responsabilità, della varietà di articolazioni che la funzione amministrativa può assumere, in seguito alla riforma del 2003, nella s.r.l. e, in particolare, della maggior contiguità tra potere gestorio e posizione dei soci in detto tipo sociale. In sostanza, la facoltà di attribuire competenze relative all’amministrazione della società ai soci, tanto in sede di redazione dell’atto costitutivo (ex art. 2479, comma 1, prima parte, o art. 2468, comma 3, c.c.), quanto nel concreto svolgimento dell’attività d’impresa per volontà di un numero qualificato di soci o di uno o più amministratori (art. 2479, comma 1, seconda parte), trova bilanciamento nella previsione di una responsabilità dei soci medesimi per i danni che il loro comportamento abbia concorso a cagionare. In realtà, l’art. 2476, comma 7, sembra collegare la responsabilità dei soci a situazioni di fatto nelle quali l’effettivo potere di amministrare risiede nelle mani di uno o più soci, a prescindere dalla formale investitura di poteri gestori e dalla formale ripartizione delle competenze tra costoro e gli amministratori. La speciale ipotesi di responsabilità dei soci torna applicabile quindi in situazioni di effettiva ingerenza dei soci stessi nella gestione della società. La responsabilità dei soci ai sensi dell’art. 2476, comma 7, è comunque circoscritta al pregiudizio derivante da operazioni alla cui concreta realizzazione abbiano partecipato gli amministratori; partecipazione che può consistere, a seconda dei casi, nell’assunzione di una determinata decisione, rispetto alla quale i soci abbiano espresso la loro approvazione, o nell’esecuzione di una decisione assunta, autonomamente oppure di concerto con loro, dai soci stessi.

Nel caso in esame, l’ingerenza dei soci nella gestione dell’impresa e nelle scelte di indirizzo e pianificazione strategica attinenti ai rapporti con la ELLE UFFICIO s.r.l., da cui la curatela vorrebbe far discendere la propria aspettativa risarcitoria, si sarebbe manifestata attraverso deliberazioni assembleari, e ciò pone in astratto anche la necessità di superare i tradizionali assunti dell’irresponsabilità dell’as­sem­blea per le decisioni prese, dell’insindacabilità del voto del socio e della irrisarcibilità dei danni cagionati da atti corporativi nelle società di capitali. Chiamare a risarcire i danni i soci che si siano pronunciati in assemblea in senso favorevole ad una opzione gestionale postula però almeno che la loro manifestazione di voto sia il risultato di un’ef­fettiva e consapevole partecipazione al relativo processo decisionale.

La fattispecie presa in considerazione dal legislatore è comunque inquadrabile nella responsabilità da concorso necessario nella gestione, nel senso che il profilo della concorrente responsabilità degli amministratori ne costituisce tratto irrinunciabile e caratterizzante. In altre parole, la responsabilità dei soci prevista dall’art. 2476, comma 7, ha carattere accessorio rispetto a quella degli amministratori e non è configurabile in assenza di quest’ultima. Nel caso in esame, pertanto, la responsabilità dei soci R.L., N.L. e C.L. non sarà accertabile ove manchi una espressa domanda rivolta ad accertare la responsabilità dell’amministratore R.L. per l’amministrazione della fallita Arredamento Ladir, ai sensi della comma I dello stesso art. 2476 c.c.

Altro requisito implicitamente richiesto ai fini dell’ap­pli­cabilità dell’art. 2476, comma 7, è poi che il socio ingeritosi nella gestione non sia anche un amministratore della società: ciò perché l’amministratore (nella specie, R.L.) risponderebbe dei danni cagionati dalla sua condotta già ai sensi dell’art. 2476, comma 1, (responsabilità verso la società) e dell’art. 2476, comma 6, (responsabilità verso il singolo socio o un terzo), in forza della titolarità del potere/dovere di amministrazione. Non vi sarebbe alcuna ragione di applicare una distinta ed autonoma previsione normativa, il cui ambito di applicazione risulta oltretutto sensibilmente circoscritto rispetto a quello delle norme sulla responsabilità propria dell’amministratore.

Certamente, i soci non possono essere ritenuti responsabili soltanto per il fatto di non aver adeguatamente vigilato sull’attività di gestione posta in essere dall’amministratore. Una tale condotta omissiva non rientra invero nelle fattispecie contemplate dall’art. 2476, comma 7, che richiedono un coinvolgimento diretto dei soci nell’assunzione di scelte gestorie pregiudizievoli. Non sarebbe logico imporre ai soci i medesimi comportamenti, in termini di diligenza e di informazione, esigibili dagli amministratori, ovvero l’os­ser­vanza continuativa di obblighi e modalità di condotta tipici dell’esercizio di un’attività professionale.

Infine, perché possa essere applicato l’invocato art. 2476, comma 7, non basta che il socio abbia partecipato, nei limiti delineati, all’attività dannosa; il suo comportamento deve altresì connotarsi in termini di “intenzionalità”. Tale elemento soggettivo dell’agire del socio rientra nell’ambito degli elementi costitutivi della fattispecie illecita, della cui esistenza deve dare prova chi vuole avvalersi in giudizio della previsione normativa ai sensi dell’art. 2697 c.c. e ciò pure a prescindere dalla qualificazione, come contrattuale o ex­tracontrattuale, della relativa responsabilità. È significativo il confronto fra l’art. 2476, comma 7, e l’art. 2476, comma 1, ultimo periodo, il quale fa invece ricadere in capo agli amministratori che vogliano andare esenti da responsabilità l’onere di dimostrare la loro assenza di colpa.

La Curatela attrice dovrà dunque fornire la prova che i soci cogestori abbiano perseguito con il loro voto espresso nella delibera del 26 ottobre 2005 l’intento di cagionare specifiche lesioni patrimoniali alla società fallita o a terzi mediante l’induzione dell’amministratore all’inadem­pi­mento dei suoi doveri, o, quanto meno, che gli stessi soci convenuti fossero pienamente consapevoli della contrarietà dell’atto in questione a norme di legge o dell’atto costitutivo, o ai principi di corretta amministrazione, nonché delle sue possibili conseguenze dannose.

Sarà dunque ancora necessaria l’istruzione da compiersi – sempre salvo l’ostacolo pregiudiziale eventualmente frapposto dalla mancata proposizione di domanda ex art. 2476 co. 1, c.c. verso l’amministratore – per verificare, sia pure presuntivamente, lo stato soggettivo dei soci convenuti circa l’inosservanza dei doveri imposti dalla legge e dall’atto costitutivo per la corretta amministrazione della società.

Lo specifico ruolo che il requisito dell’intenzionalità riveste nella fattispecie astratta di cui al comma 7° dell’art. 2476 c.c. è qui ingigantito dal dato che l’influenza dei soci sul comportamento gestionale dell’amministrator[e] si sarebbe concretata nell’assunzione di una delibera assemblea­re. È invero agevole escludere dalla categoria dei soggetti responsabili quei soci che abbiano espresso il loro voto assembleare in assenza di effettiva consapevolezza circa i possibili effetti dannosi della decisione assunta, perché, ad esempio, male informati o semplicemente superficiali e distratti nella valutazione delle circostanze del caso concreto. Altrimenti, la posizione del socio verrebbe a essere equiparata a quella dell’amministratore, al quale si chiede di agire in modo informato nell’esecuzione del proprio incarico e al quale si imputano le conseguenze pregiudizievoli di ogni comportamento anche solo negligente.

Per tutte queste ragioni, appare da escludere l’attuale sufficiente fondatezza della pretesa creditoria azionata dal Fallimento Arredamento Ladir s.r.l. nei confronti della Paravia International s.r.l., al fine di essere autorizzata a sequestro conservativo in danno di quest’ultima.

Il reclamo va pertanto accolto e revocata l’ordinanza concessiva del sequestro, rimettendo per le spese del procedimento ex art. 669 terdecies c.p.c. la liquidazione al giudice del merito.

P.Q.M.

letti gli artt. 669-terdecies, 669-quater, e 671 c.p.c.,

il Tribunale di Salerno, I sezione civile, accoglie il reclamo proposto in data 8 settembre 2009 da R.L., N.L. E C.L. (in proprio e quali eredi di M.C.) nei confronti del FALLIMENTO ARREDAMENTI LADIR S.R.L. e revoca l’ordinanza resa dal Giudice designato in data 10 agosto 2009 di autorizzazione del sequestro conservativo.

(omissis)

 

(3-4) Note sulla responsabilità del socio ex art. 2476, 7° comma, c.c.

SOMMARIO:

1. Il caso e la normativa di riferimento. - 2. Lo stato della questione in dottrina ed in giurisprudenza - 3. Il commento. L''intenzionalità' come presupposto del comportamento rilevante - 4. Segue. Responsabilità del socio ed effetti giuridici del dolo - NOTE


1. Il caso e la normativa di riferimento.

I soci di una s.r.l. decidono, con delibera assembleare, di ripianare le perdite di una società partecipata, attraverso la ricostituzione del capitale mediante l’utilizzo di una riserva costituita con “finanziamenti in conto futuro aumento capitale”; tuttavia rinunciano al diritto di sottoscrizione delle quote di nuova emissione [1]. Verificatosi il dissesto dell’ente e dichiaratone il fallimento, il curatore agisce nei confronti dei soci, ai sensi dell’art. 146, 2° comma, lett. b), legge fall. – che gli intesta la legittimazione al­l’azio­ne prescritta dall’art. 2476, 7° comma, c.c. – affinché sia dichiarata la loro responsabilità per il danno conseguito all’operazione. L’esito della manovra sopra descritta sarebbe stato, infatti, un depauperamento mero della società, in quanto all’im­pu­tazione a capitale delle somme iscritte a riserva nel bilancio della partecipata non è conseguita l’at­tri­buzione delle quote di nuova emissione, sottoscritte, invece, da un terzo [2]. A cautela della pretesa risarcitoria è richiesto il sequestro conservativo sui beni dei soci, a motivo dell’illiceità della delibera di ripianamento delle perdite e, in subordine, della revocabilità della rinuncia al diritto di sottoscrizione. Il giudice di prime cure accoglie l’istanza, in quanto qualifica l’operazione come atto a titolo gratuito, ma a diversa conclusione giunge il collegio, secondo cui né la disciplina delle riserve, né quella del diritto di sottoscrizione possono fondare i motivi posti a sostegno della misura cautelare; il reclamo dei soci è, così, accolto ed il sequestro revocato [3]. Il provvedimento si inserisce nell’alveo delle pronunce giurisprudenziali, invero non numerose, che si soffermano sui problemi di interpretazione ed applicazione dell’art. 2476, 7° comma, c.c., benché le relative riflessioni siano contenute in un ampio obiter [4]. Il Tribunale ripercorre i profili più significativi della fattispecie e si sofferma sui rapporti tra la responsabilità del socio e quella dell’amministratore, nonché sulla delicata questione relativa all’inter­pre­tazione del presupposto soggettivo. Si rileva, in particolare, che la prima ha carattere accessorio rispetto alla seconda, [continua ..]


2. Lo stato della questione in dottrina ed in giurisprudenza

Da un rapido sguardo al panorama dottrinale e giurisprudenziale in materia di responsabilità del socio di s.r.l. ai sensi dell’art 2476, 7° comma, c.c. affiora un’evidente contrapposizione tra l’esiguità delle pronunce giudiziali specifiche – dalle quali non è possibile desumere un vero e proprio orientamento, ma solo spunti di riflessione – ed una significativa produzione scientifica, dalla quale, dopo alcune pri­me oscillazioni, si è formato un orientamento maggioritario attestato su posizioni condivise. Nei rari provvedimenti editi – oltre ad essersi esclusa, come ovvio, l’applicabilità della norma alle condotte poste in essere prima dell’entrata in vigore della riforma [15] – si è rimarcata la differenza tra la fattispecie in esame e quella in cui il socio si in­ge­risce sistematicamente nell’amministrazione, esau­to­randone i centri decisionali ufficiali [16]. I risultati interpretativi ottenuti in tema di amministratore di fatto dovrebbero condurre ad escludere che sia applicabile l’art. 2476, 7° comma, c.c., in quanto la norma di riferimento è quella posta in tema di responsabilità dei gerenti di diritto (art. 2476, 1° comma, c.c.) [17]. L’op­posta ricostruzione si espone, del resto, a diversi ordini di obiezioni [18], motivo per il quale, dopo al­cu­ne iniziali adesioni, è stata su­pe­rata [19]. Ancora incerta è, invece, la questione relativa all’appli­ca­zio­ne analogica alla s.p.a. [20]. La rilevanza del compimento anche di un singolo atto, invece, sembra consentire di distinguere la fattispecie dalla diversa responsabilità che incombe su chi esercita una più complessa ed articolata “attività” di direzione e coordinamento, ai sensi dell’art. 2497, 1° comma, c.c. [21]. Da un rapido raffronto delle due fattispecie emerge che entrambe si distinguono sotto il profilo qualitativo [22]: la valenza organizzativa del fenomeno di gruppo implica che ogni decisione della società-madre deve essere valutata avendo riguardo al risultato complessivo dell’attività di eterodirezione [23]. In altri termini, non si può prescindere dal peculiare “modello organizzativo” che caratterizza siffatte realtà [continua ..]


3. Il commento. L''intenzionalità' come presupposto del comportamento rilevante

La scelta del legislatore di far dipendere la responsabilità del socio dalla ricorrenza di un elemento soggettivo ne rende, come è evidente, incerti e sfumati i confini e per questo potrebbe apparire prima facie inadeguata. Da una rapida lettura della norma si ha l’im­pres­sione che la funzione dell’inciso «intenzionalmente» sia di operare un temperamento tra due esigenze: da un lato, non disincentivare il coinvolgimento dei soci nella gestione, che si verificherebbe mediante un’ar­bitraria generalizzazione della responsabilità, incompatibile con la protezione accordata con lo sche­rmo societario [39]; dall’altro, evitare che siano perpetrati abusi nel nome della duttilità dell’orga­niz­zazione interna [40]. La limitazione dell’estensione del­­la responsabilità al socio ai soli casi di condotta intenzionale ne rimarca, altresì, il carattere eccezionale rispetto alla regola per la quale gli amministratori sono gli esclusivi responsabili della gestione, e spetta loro la diligente esecuzione dell’incarico ricevuto [41]. La difficoltà di fornire un’interpretazione soddisfacente del concetto di intenzione, proprio perché riferito ad un particolare stato psicologico, determina la necessità di rinvenire parametri oggettivi di riferimento, che ne costituiscano indice presuntivo: l’e­la­­bo­razione della giurisprudenza di merito, al riguardo, può fornire un contributo determinante [42]. L’opzione normativa di rapportare determinate conseguenze giuridiche ad un mero stato soggettivo non è, tuttavia, inedita: in particolare, gli artt. 1993, 2° comma e 2384, 2° comma, c.c. (ai quali va aggiunto l’art. 2475-bis, c.c.) si riferiscono a fattispecie nelle quali ricorre un comportamento intenzionale. Un breve raffronto con le soluzioni affermatesi in questi contesti può, allora, risultare utile ai fini del­l’in­terpretazione della norma in esame. Con la prima disposizione, come noto, il legislatore ha introdotto una deroga alla disciplina generale dei titoli di credito, in base alla quale si consente al debitore di opporre al terzo possessore anche le eccezioni fondate su rapporti personali con i precedenti prenditori – il che, di regola, gli sarebbe precluso – a condizione che costui abbia agito [continua ..]


4. Segue. Responsabilità del socio ed effetti giuridici del dolo

Contro l’estensione di questi risultati interpretativi all’art. 2476, 7° comma, c.c. potrebbe obiettarsi che le norme esaminate presentano caratteri e finalità in­conciliabili con la disciplina della responsabilità del socio, perché costituiscono espressione dell’ex­cep­tio doli [55]. In un caso, l’intenzionalità è presupposto per consentire ad un soggetto di sottrarsi all’a­dem­pimento di un’obbligazione; nell’altro, invece, opera in senso inverso, come fondamento di una pretesa risarcitoria. Il rilievo può essere, peraltro, superato sulla base del tradizionale insegnamento che l’istituto costituisce una manifestazione (forse la principale) del carattere antigiuridico del dolo [56], anzi, disciplinerebbe un peculiare effetto giuridico del comportamento doloso, ossia una reazione dell’ordinamento all’uso speculativo di strumenti posti a garanzia di interessi meritevoli di tutela. Il dolo si presenta, infatti, come un fenomeno, benché multiforme e complesso, in buona sostanza unitario, che si manifesta nell’atto di cagionare in modo cosciente e volontario un torto ad altri [57]. Anche a prescindere dalla possibilità di individuare un principio generale (fraus omnia corrumpit), si può osservare che in diverse circostanze l’ordinamento dispone determinati effetti giuridici in conseguenza di una condotta dolosa. Così, talora è causa di invalidità del negozio (art. 1439 c.c.) [58] o di inopponibilità del vizio di annullabilità [59], altre volte legittima una pretesa risarcitoria (art. 1440 c.c.) [60], oppure, come nel caso dell’exceptio, rende inoperante una disciplina che, a stretto rigore, sarebbe applicabile [61]. L’elemento psicologico (l’animus) è intimamente legato ad una componente materiale, identificato, secondo l’antico brocardo, con la calliditas, fallacia, machinatio e che ne costituisce la manifestazione esteriore nelle forme della scorrettezza, del comportamento malizioso e fraudolento, disonestà o condotta abusiva [62]: da questi comportamenti è possibile risalire ai meccanismi psicologici che ne sono alla base. La volontà o consapevolezza della condotta, pur se costituisce qualcosa di intangibile, “lascia tracce di sé” nel fattivo modo di [continua ..]


NOTE
Fascicolo 4 - 2011