Rivista di Diritto SocietarioISSN 1972-9243 / EISSN 2421-7166
G. Giappichelli Editore

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La partecipazione di fatto di società di capitali in società di persone. Profili sostanziali (nota a Trib. Santa Maria Capua Vetere, 8 luglio 2008; App. Bologna, 11 giugno 2008; App. Napoli, 15 maggio 2009) (di Agostino Di Febo)


TRIBUNALE DI SANTA MARIA CAPUA VETERE, Sez. fall., 8 luglio 2008 – Presidente e Relatore Di Nosse, Suime S.r.l. c. S.d.f. tra L.M., V.F., D.R.P. e La Duchessa S.r.l.

 

Società – Società di capitali – Partecipazione in società di fatto – Ammissibilità

(Artt. 147 legge fall., art. 2361 c.c.)

È ammissibile una società di fatto tra persone fisiche e società di capitali alla luce dell’art. 147, primo comma, l. fall., che espressamente ammette l’estensione della procedura concorsuale ai soci illimitatamente responsabili anche quando non siano persone fisiche, e dell’art. 2361 c.c., che consente la partecipazione di società di capitali a società di persone, tale essendo sicuramente la società di fatto (1).

 

Il Tribunale (omissis).

Letto il ricorso presentato in data 1 febbraio 2008 dalla S.r.l. SUIME – Suinicola Meridionale, la quale ha chiesto che venga dichiarato il fallimento della società di fatto esistente tra: l) L.M., titolare dell’impresa individuale La Duchessa di L.M., con sede in (omissis); 2) V.F., titolare dell’impresa individuale La Duchessa 2 con sede in (omissis); 3) D.R.P., domiciliato in (omissis); 4) S.r.l. La Duchessa, in persona del legale rapp.te, con sede in (omissis);

considerato in fatto e in diritto che:

in base all’esposizione dei fatti da parte della ricorrente, ed in virtù degli atti prodotti, nonché a seguito delle in-formazioni acquisite a mezzo della GdF, è emerso che effettivamente sussiste una soci di fatta tra L.M. V.F. e la S.r.l. La Duchessa;

fino alle recenti riforme in materia societaria e fallimentare si è dubitato in dottrina e giurisprudenza sulla possibilità di affermare l’esistenza di una società di fatto tra persone fisiche e società, in particolare di capitali; oggi tale problematica appare definitivamente risolta alla luce della novellata normativa in materia; in particolare l’art. 147, primo comma, l.fall. espressamente ammette l’estensione della procedura concorsuale ai soci illimitatamente responsabili, anche quando non sono persone fisiche, mentre l’art. 2361 c.c. consente la partecipazione di società di capitali a società di persone, e tale è sicuramente la società di fatto;

gli elementi probatori raccolti sono idonei e sufficienti a dimostrare l’esistenza di una s.d.f. tra i soggetti suddetti, avente ad oggetto l’acquisto e la vendita di suini.

Invero è emerso che gli imprenditori individuali L.M., V.F. e la S.r.l. La Duchessa svolgono tutti la medesima attività commerciale di compravendita e commercializzazione di suini; hanno la medesima sede d’impresa in (omissis).

La Gdf ha riferito che: l’attività svolta dai soggetti sopra indicati non è quella di allevamento di suini, quale oggetto d’impresa dichiarato formalmente, bensì ed in concreto è quella della commercializzazione, ossia l’acquisto e la vendita diretta di suini vivi; nessun dubbio può sussistere quindi sulla natura dell’attività che è sicuramente commerciale; al riguardo la GdF ha accertato che la ditta La Duchessa 2 di V.F. non ha nemmeno una sede dove far stazionare gli animali, atteso che la sede sita in (omissis), a pochi metri dalla sede della S.r.l. La Duchessa è fatiscente, in completo stato d’abbandono ed in attesa di ristrutturazione; L.M. titolare della ditta La Duchessa ha concesso in locazione dal 2007 la propria sede alla S.r.l. La Duchessa; è evidente che non ricorre nella specie alcuna attività di allevamento di animali, ma solo un’attività commerciale; i resistenti hanno dichiarato alla GdF che tutto ciò che concerne l’aspetto fiscale e amministrativo delle ditte individuali, come la fatturazione, i contatti con i clienti e con i fornitori, viene svolto negli uffici della S.r.l. La Duchessa.

Ha evidenziato la ricorrente che le forniture richieste dal V. venivano eseguite presso La Duchessa di L.M.; è emerso altresì che, in sede di esecuzione del provvedimento cautelare ottenuto dalla ricorrente nei confronti dei titolari delle ditte individuali, risultò che presso le loro aziende esercitava la propria attività la S.r.l. Duchessa; inoltre, il legale rapp.te della S.r.l. Duchessa per evitare il sequestro nei confronti del V. e della L. pagò il credito azionato con un proprio assegno di c.c. «per con to di V.F. e L.M.» a parziale copertura del debito; conclusivamente è stato accertato che i soggetti indicati svolgono congiuntamente l’attività di compravendita di suini, con la stessa denominazione “La Duchessa” (con insignificanti e irrilevanti varianti), nella stessa sede legale, amministrativa ed operativa; adoperando la medesima organizzazione d’impresa e lo stesso opificio, ché le stesse attrezzature e strutture; non provati gli elementi tipici del contratto sociale, e cioè i conferimenti in natura e personali eseguiti da ciascun socio, la volontà di svolgere la medesima attività commerciale in comune, con partecipazione ai guadagni e alle perdite. I vincoli di parentela e di coniugio fra i resistenti dimostra ancor più che vi è stata una commistione tra i patrimoni delle imprese individuali, i cui costi vengono indistintamente suddivisi tra tutti i partecipanti, i quali congiuntamente gestiscono l’unica attività commerciale sopra descritta.

Infine la condotta tenuta dai predetti ha comunque generato nei terzi la convinzione che l’impresa commerciale venga gestita in forma collettiva, per cui nei confronti dei terzi che hanno avuto rapporti commerciali con i resistenti si è manifestata una società apparente la quale ha gestito gli affari e creato rapporti giuridici imputabili alla società di fatto.

È palese lo stato d’insolvenza della società di fatto, dimostrato dal mancato pagamento del credito azionato dagli altri elementi i acquisiti, per cui se ne deve dichiarare il fallimento;

allo stato non appare sufficientemente provata la partecipazione del resistente D.R.P. alla S.d.f., nei cui confronti successivamente potrà eventualmente essere estesa la dichiarazione di fallimento, qualora ne saranno provati i presupposti;

rilevato che è stata disposta la comparizione delle parti davanti al giudice delegato ed è stato esercitato dai resistenti il diritto alla difesa;

ritenuto inoltre che:

il presente ricorso è stato depositato successivamente all’entrata in vigore delle disposizioni contenute nel D.Lgs. n. 5/06 e del D.Lgs. “correttivo” n. 169/2007, per cui la presente sentenza e la conseguente procedura fallimentare dovranno essere regolate dalla legge fallimentare modificata dai citati decreti legislativi.

Ricorrono nella specie i requisiti di cui all’art. 1 del D.Lgs. n. 169/2007, che ai fini della declaratoria di fallimento sancisce che non sono soggetti alle disposizioni sul fallimento gli imprenditori esercenti un’attività commerciale, i quali dimostrino il possesso congiunto dei seguenti requisiti:

a) aver avuto negli ultimi tre esercizi un attivo patrimoniale annuo non superiore a trecentomila euro;

b) aver realizzato, negli ultimi tre esercizi, ricavi lordi per un ammontare complessivo annuo non superiore a duecentomila euro;

c) avere debiti anche non scaduti non superiori a cinquecentomila euro.

La legge pone espressamente a carico del debitore l’one­re di dimostrare la sussistenza di tutti i requisiti suddetti, ai fini dell’esenzione dal fallimento; la resistente non ha fornito alcuna prova al riguardo, per cui si deve concludere che non è stata superata la presunzione di legge e che la società debitrice è assoggettata alla normativa fallimentare.

L’ultimo comma dell’art. 15 l.fall. esclude la possibilità di dichiarare il fallimento se i debiti scaduti e non pagati risultano, all’esito dell’istruttoria prefallimentare, inferiori a trentamila euro.

Tale limite risulta superato nel caso di specie, atteso che il credito azionato è superiore al suddetto ammontare (omissis).

 

CORTE D’APPELLO DI BOLOGNA, 11 giugno 2008 – Presidente Vecchio, Relatore Drudi – M.G. ed altri c. Fallimento in estensione della s.d.f tra Demm Srl – Scaut Srl

 

Società – Società di capitali – Partecipazione in società irregolare – Inammissibilità

Fallimento – Soggetti – Applicabilità dell’art. 145, 5° co., l. fall. all’ipotesi di fallimento dell’imprenditore collettivo – Esclusione

(Artt. 147 legge fall.; artt. 2267, 2297, 2361, 2384 c.c.)

L’art. 2361 c.c., ammettendo che le società di capitali possano essere socie illimitatamente responsabili di società di persone purché l’assunzione della partecipazione venga espressamente deliberata dall’assemblea, non può che riferirsi alle sole ipotesi di società regolare, con conseguente inammissibilità, nel nostro ordinamento, di una società di fatto tra società di capitali (2).

 

Pur ammettendo una società di fatto cui partecipi una società di capitali, il fallimento resterebbe comunque escluso in virtù della formulazione letterale dell’art. 147, quinto comma, l. fall., che testualmente prevede che l’estensione del fallimento ai soci illimitatamente responsabili possa conseguire unicamente al fallimento di un imprenditore individuale (3).

 

La Corte (Omissis)

Va, innanzitutto disatteso, il pregiudiziale motivo di reclamo in rito, avanzato nell’interesse di M.G. in ragione della dedotta nullità della notifica della sentenza dichiarativa di fallimento, quale avvenuta – dopo semplice comunicazione telefonica del nominato Curatore – in data 20.2.2008 presso il domicilio eletto, ma mediante consegna di copia in realtà indirizzata a M.M. (legale rappresentante di U.F. S.p.a.) e di altra copia indirizzata a M.A., già legale rappresentante di Scaut S.r.l., ma non più tale (per essere stato nel frattempo nominato un liquidatore giudiziale) alla data della notifica in discussione.

Sul punto vanno, invero, senz’altro condivise le argomentazioni del Fallimento resistente: a) la sentenza di fallimento “produce i suoi effetti dalla data della pubblicazione” (art. 16, 2° comma, L.F.), con ogni conseguente irrilevanza della mera, e doverosamente immediata, comunicazione informale (telefonica) del Curatore del fallimento; b) la notifica della sentenza rileva, ai sensi dell’art. 18, 4° comma, L.F., ai soli fini della decorrenza dei termini per la proposizione del reclamo, nella specie ritualmente proposto con ogni conseguente efficacia sanante.

L’intervenuta costituzione di Scaut S.r.l., che non ha proposto alcun motivo di specifico reclamo sul punto, priva di ogni rilevanza l’ulteriore doglianza alla stessa riferibile e già priva, ex sé, di uno specifico interesse del M.G.

Poiché strettamente collegate, vanno poi affrontate congiuntamente l’ulteriore questione pregiudiziale di rito, afferente la contestata legittimazione del Curatore alla presentazione dell’istanza di fallimento in estensione ex art. 147, 5° comma, L.F., e la questione preliminare di merito, concernente l’ammissibilità di una società di fatto partecipata da società di capitali.

Pare opportuno sottolineare che è evidente a tutte le parti in causa ed in primo luogo è stato tenuto presente dal primo giudicante, il quale si è fatto carico di una ampia e completa motivazione sui predetti controversi aspetti, che il giudizio finale discende da opzioni interpretative diverse, rispetto alle quali, tuttavia, questa Corte ritiene di dover andare di contrario avviso (in adesione ai precedenti editi di cui a Tribunale Torino 4.4.2007 e Corte d’Appello Torino 30.7.2007, citati agli atti) rispetto alla scelta effettuata con la sentenza qui reclamata.

È innanzitutto pacifico che il disposto di cui al primo comma del novellato art. 147 L.F. è senz’altro coerente con il già riformato primo comma dell’art. 2361 C.C.: quest’ultimo, espressamente consentendo allo stato la partecipazione regolare, in qualità di soci, di società di capitali in società di persone, comporta, infatti, che possono fallire anche le prime in quanto (appunto) soci illimitatamente responsabili: la previsione in parola riguarda indubbiamente le società di persone regolari (costituite solo da società di capitali o anche da persone fisiche).

Che tale disposizione possa applicarsi anche ad una eventuale situazione societaria irregolare e/o di mero fatto fra società di capitali, oppure che – ai sensi del 4° comma dell’art. 147 L.F. – dopo il fallimento di una società di persone regolare possa conseguirne il fallimento anche di socio di fatto/società di capitali (così come ritenuto dal primo giudicante partendo proprio dall’ipotesi da ultimo indicata), appare testualmente da escludersi proprio alla luce del disposto del 5° comma del richiamato art. 147 L.F. con il quale è previsto che l’estensione al fallimento societario e degli ulteriori soci illimitatamente responsabili possa conseguire unicamente all’iniziale fallimento di un imprenditore “individuale” – con espressione formalmente riferibile appunto al solo imprenditore persona fisica.

Ciò significa che non è consentito estendere – come nella specie – il fallimento iniziale di una società di capitali ad una società di fatto, sia essa formata solo da società di capitali o anche da persone fisiche e, per evidente linearità logica, che, dichiarato il fallimento di un imprenditore individuale, neppure è ammissibile il fallimento di una società di fatto così composta.

In prima analisi, dunque, (non potendosi attribuire al legislatore, in sede di meditata riforma, una aprioristica irrazionalità dispositiva), pur essendo astrattamente ipotizzabile una società di fatto cui, altrettanto irregolarmente, partecipi una società di capitali, l’art. 147, 5° comma, L.F. formalmente ne esclude fa possibilità di fallimento.

D’altra parte, trattandosi di norma di sicura valenza eccezionale l’eventuale superamento interpretativo di tale ineludibile dato testuale deve, d’altra parte, tenere ben presenti i limiti che separano tale operazione ermeneutica da una applicazione meramente analogica della norma in commento.

E, sul punto, non può che evidenziarsi fin d’ora (ma v. anche infra) che le deduzioni contenute nella pronuncia reclamata e negli atti difensivi dei fallimento in ordine all’irra­gio­nevolezza da cui la conclusione sopra richiamata sarebbe affetta per l’evidente disparità di trattamento dì situazioni sostanzialmente sovrapponibili, trova primaria argomentazione contraria proprio nel differenziato trattamento offerto dal diritto societario e dell’impresa all’imprenditore persona fisica, alle società di persone ed, appunto, alle società di capitali.

Ed, in realtà, come poi correttamente individuato anche dal primo giudicante, il secondo termine di confronto interpretativo è appunto rappresentato proprio dalla disciplina di cui ai novellato art. 2361 C.C., che ha introdotto ex novo nel nostro ordinamento, la partecipazione delle società di capitali, in qualità di soci, in società di persone, regolandola, tuttavia, come segue: “l’assunzione di partecipazioni in altre imprese comportante una responsabilità illimitata per le obbligazioni delle medesime deve essere deliberata dall’assemblea; di tali partecipazioni gli amministratori danno specifica informazione nella nota integrativa del bilancio” (art. 2361, 2° comma, cit.).

Secondo la sentenza reclamata, poiché la concreta configurazione di una società di fatto fra società di capitali consegue necessariamente a comportamenti concludenti dell’organo amministrativo, la mancanza degli adempimenti così individuati non si sottrarrebbe al disposto di cui all’art. 2384 C.C., quale norma esprimente un principio di carattere generale attraverso il quale riguardare tutte le condotte, .anche illegittime, degli amministratori: questi hanno la rappresentanza generale della società (1° comma) e le limitazioni ai loro poteri “non sono opponibili ai terzi, anche se pubblicate” (2° comma).

Senonché va preso atto che l’art. 2384, 2° comma, C.C. è a sua volta riferito unicamente alle “limitazioni che risultano dallo Statuto o da una decisione degli organi competenti”, ovvero alle sole limitazioni c.d. convenzionali, sicché la tesi qui opposta (idoneità della norma a ricomprendere anche tutte le ipotesi di limitazioni “legali”) richiede anche in tal caso – come già in sede di lettura dell’art. 147, 5° comma – un ulteriore salto interpretativo di un apparentemente diverso dato testuale e l’attribuzione al legislatore di entrambe le riforme (fallimentare e societaria) di una costante ed immeditata “imprecisione” terminologica.

Nell’ipotesi considerata dall’art. 2361 C.C. non può negarsi, infatti, che gli adempimenti ivi considerati (a chiara tutela dei soci e dei creditori della società) vanno diversamente riguardati.

Invero, la chiara attribuzione esclusiva all’assemblea dei soci della delibera (e non di una mera autorizzazione), avente ad oggetto la partecipazione in società a responsabilità illimitata, non solo rappresenta un limite direttamente posto dal legislatore, ma si pone su un piano diverso rispetto a quello della mera “limitazione legale” dei poteri gestori dell’organo amministrativo attribuitigli in via esclusiva con gli effetti di cui al ricordato art. 2384, 2° comma, C.C.

In realtà, infatti, il legislatore – esigendo la previa delibera dei soci – ha chiaramente ricondotto l’oggetto di che trattasi alla “competenza” dell’assemblea (art. 2364 n. 5 – ove è palesemente chiara al legislatore la differenza fra oggetti attribuiti dalla legge alla competenza dell’as­sem­blea e “autorizzazioni eventualmente richieste dallo statuto per il compimento di atti amministrativi” – e 2365, 1° comma, C.C.), sottraendolo alla competenza gestoria del­l’organo amministrativo e, dunque, all’operatività dell’art. 2384, 2° comma, cit.

In altri termini l’art. 2361 cit. incide – come condivisibilmente osservato dai reclamanti – non già come limitazione al potere gestorio degli amministratori, bensì sulla distribuzione delle competenze esclusive tra i vari organi della società.

Ne consegue che l’art. 2361 cit., ammettendo che la società di capitali possa essere socia illimitatamente di una società di persone, purché l’assunzione di tale partecipazione venga deliberata dall’assemblea e, quindi, sia esplicitamente dichiarata, non può che riferirsi alle sole ipotesi di società stipulata nella forma di società regolare.

E, se l’assunzione della partecipazione deve sempre essere espressa, deve ovviamente escludersi che la stessa passa desumersi dal comportamento concludente degli amministratori, con conseguente inammissibilità per il nostro ordinamento di una società di fatto fra società di capitali

L’opzione interpretativa qui avallata consente di riconciliare il contenuto di tutte le norme sopra richiamate, senza necessità di estenderne gli effetti ad ipotesi testualmente non considerate ed, in particolare, consente di rafforzare la conclusione che il riferimento al solo “imprenditore individuale”, di cui ai 5° comma del novellato art. 147 L.F., si riferisce, appunto, al solo imprenditore/persona fisica e tutto l’im­pianto di tale disposizione (ivi compresi il 1° ed il 4° comma) regola organicamente, per quanto concerne le società di capitali ed in fedele coerenza con il disposto di cui all’art. 2361 C.C., il solo fenomeno delle società di persone regolari.

Non vi è, quindi, necessità di ricercare in parte qua e nell’intero sistema (v. sentenza reclamata) un principio di generale opponibilità delle “limitazioni legali” alternativo e contrario a quello posto dall’art. 2384, 2° camma, C.C.

Da quanto in premessa discende, con eguale coerenza sistematica, il rigetto di tutte le contrarie osservazioni riproposte nella presente sede dalla difesa del fallimento dovendosi, in primo luogo, disattendere quelle che si fondano sulla pretesa incostituzionalità dell’interpretazione qui seguita per l’inam­missibile diversità di trattamento fra persone fisiche e persone giuridiche nonché sul principio della sufficienza – ai fini della dichiarazione di fallimento ed a tutela dell’affidamento dei terzi – della mera “apparenza” del vincolo sociale.

Alla prima, invero, basti in contrappunto rilevare che – secondo la linea di pensiero così proposta – dovrebbe ritenersi incostituzionale anche la limitazione della responsabilità concessa – diversamente da quanto accade nelle società personali – ai soci di società di capitali e addirittura al socio unico di S.r.l. (nella misura in cui abbia osservato le forme di pubblicità imposte e comunque con apparente sottrazione al fallimento poiché l’art. 147, 1 ° comma, L.F. si riferisce formalmente solo alle società di persone).

Ma è evidente, in ogni caso, che la pregnante disciplina di pubblicità imposta alle società di capitali, sia in sede costitutiva che gestionale, ed ignota alle società personali rappresenta di per sé motivo sufficiente di una diversa regolamentazione anche dei profili in esame.

Né vi è motivo di irragionevole contrasto della tesi qui aderita con la teoria dell’“apparenza” collegata al principio di “effettività” dell’attività di impresa, in materia desunta anche dalla conservazione degli atti compiuti da società di capitali nulla ex art. 2332 C.C., con conseguente ed inammissibile prevalenza delle esigenze di tutela dei soci e dei creditori della società rispetto a quelle di tutela dell’affidamento dei terzi che con essa entrino in contatto e principalmente espresse proprio dalla disposizione di cui all’art. 2384 C.C.

Ed, invero, i suddetti principi non trovano spazio applicativo ove sia lo stesso ordinamento normativo ad escluderli, essendo evidente che nessun affidamento può essere posto dal terzo in presenza di una norma che elimina in radice la possibilità di attribuire ai comportamenti dell’or­gano amministrativo di una società di capitali valenza di estrinsecazione, giuridicamente tutelabile, della partecipazione della società di capitali amministrata ad una società di mero fatto, con ogni evidente ed ulteriore irrilevanza, sul punto, del disposto di cui all’art. 2384. 2° comma, C.C.

Così come è del pari irrilevante il diverso richiamo all’art. 2332 C.C., nell’ambito del quale la ragione della tutela dei terzi (e della conservazione degli atti) è prevista solo per gli atti successivi all’intervenuta iscrizione della società – nonostante la nullità – al Registro delle Imprese (“la dichiarazione di nullità non pregiudica l’efficacia degli atti compiuti in nome della società dopo l’iscrizione nel registro delle imprese”) in ossequio alla generale disciplina pubblicitaria che, per l’appunto, presiede l’agire giuridicamente rilevante delle società di capitali.

Le osservazioni di cui in premessa consentono, d’altra parte, di disattendere il rilievo della difesa del Fallimento resistente quanto al dedotto passaggio in giudicato della sentenza in esame, per non essere stato espressamente reclamato il capo motivazionale della stessa, che si fondava sulla predetta argomentazione e, dunque, sulla conservazione degli effetti comunque prodotti da un contratto di società nullo: la dedotta inammissibilità in radice di una società di fatto fra società di capitali ovviamente assorbe e contiene anche ogni ulteriore deduzione sul punto.

Ed è, dunque, anche in base a tale ineludibile prospettiva che vanno valutate le ulteriori deduzioni del Fallimento resistente quanto all’alternativa tutela dei comportamenti di abuso della personalità giuridica, affermata dalle controparti in ragione della disciplina sanzionatoria offerta dagli artt. 2497 C.C. in tema di “attività di direzione e coordinamento di società...in violazione dei principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale”, con estensione della responsabilità a chiunque abbia preso parte del fatto lesivo.

Se è vero, infatti, che per l’attivazione della predetta responsabilità nei confronti dì “società ed enti” il rapporto di direzione e coordinamento deve essere esso stesso manifestato all’esterno secondo i modi individuati dall’art. 2497 bis C.C., ciò conferma la premessa pubblicitaria che informa il diritto delle società di capitali, l’omissione dei cui incombenti è comunque sanzionata, anche nel confronti dei terzi, con la responsabilità per danni a carico degli amministratori (art. 2497 bis, 3° comma, C.C.).

Anche tale disciplina appare, pertanto, coerente con l’opzione interpretativa qui avallata, non senza rimarcare che la pur eventuale insufficienza dell’attuale sistema giuridico a sanzionare “tutte” lei possibili ipotesi di “abuso della personalità giuridica” non può costituire criterio per l’assoggettamento alla disciplina fallimentare delle società di fatto fra società di capitali in un’ottica interpretativa “ultra legem”, non potendosi in ogni caso disattendere – al di fuori di problemi di costituzionalità quali sopra evidenziati e ritenuti irrilevanti – la spettanza a solo legislatore della scelta delle modalità di concreto intervento sanzionatorio.

A fronte di quanto in premessa, del tutto inidonei ad incidere sull’affermata conclusione sono gli ulteriori richiami normativi operati con la sentenza reclamata ovvero dal difensore del Fallimento resistente nella presente sede:

– l’art. 2380 bis C.C., in base al quale il potere gestorio degli amministratori è, per l’appunto, limitato ex lege alle sole “operazioni necessarie per l’attuazione dell’oggetto sociale”, ed è purtuttavia soggetto alla regola di cui all’art. 2384 C.C., non solo incide sul piano delle competenze fra organi societari, ma è evidentemente correlato all’indivi­duazione convenzionale dell’oggetto sociale di cui allo Statuto;

– gli artt. 2391, 3° comma – 2383, 5° comma – 2486, 2° comma, C.C. (i quali fanno salvi i diritti acquistati dai terzi in ipotesi, rispettivamente, di deliberazioni del C.d.A. assunte in conflitto di interessi, di nullità e/o annullabilità della nomina degli amministratori, di operazioni poste in essere dagli amministratori in caso di sussistenza di una causa di scioglimento della società) si pongono essi stessi sul piana delle limitazioni inopponibili ai terzi ex art. 2384 C.C., e non su quello di distribuzione delle competenze fra gli organi della società;

– quanto alta configurabilità del c.d. “amministratore di fatto”, tale argomentazione, correlata alle teorie dell’“affi­damento” e dell’“apparenza” (v. supra) è senz’altro estranea al tema del contendere;

– né può, infine, certamente trarsi un principio di carattere generale dagli artt. 2357 C.C. (acquisto di azioni proprie o di società controllate) e 2343 bis C.C.,(acquisto di beni di promotori, fondatori ecc.), sia perché, prefigurando mere ipotesi autorizzatorie da parte dell’assemblea e conseguenze specifiche, sono in realtà derogatorie rispetto ai disposto di cui all’art. 2384 C.C. e comunque non sono direttamente coordinabili con quanto stabilito dall’art. 2361 C.C., sia perché “trattasi di disposizioni in sé concluse e dettate per specifiche esigenze” (v. Corte d’Appello Torino cit.), anch’esse correlate al regime della pubblicità conseguente agli acquisti ivi considerati.

Alla luce di tutti i rilievi di cui in premessa deve, pertanto, ritenersi l’inammissibilità di una società di fatto partecipata da società dì capitali, con ogni conseguente effetto quanto alla revoca del fallimento sociale qui oggetto di reclamo nonché, senz’altro, dei dipendenti fallimenti in proprio dei reclamanti M.G. e U.F. S.p.a.

Quanto a M.G., infatti, è incontestato che l stesso è stato dichiarato fallito unicamente come socio illimitatamente responsabile della ritenuta società di fatto partecipata in primo luogo da Demm S.r.l. e, dunque, non quale “società” o “ente” o titolare di holding individuale (v. comparsa Fallimento, p. 19).

Ciò comporta l’assorbimento di ogni questione in fatto sulla “effettiva”, ma giuridicamente irrilevante, sussistenza degli elementi costitutivi della ritenuta società di fatto fra tutti i soggetti coinvolti.

Senonché il Fallimento resistente, sulla base della omessa proposizione di reclamo da parte della società Scaut S.r.l., ha espressamente posto il problema (v. comparsa costitutiva, p. 4) delta eventuale definitività della pronuncia “quanto meno” in ordine all’esistenza della società di fatto fra Demm S.r.l. e Scaut S.r.l., con ogni conseguente effetto in ordine alla salvezza parziale della declaratoria fallimentare relativa alla società di fatto fra le indicate società e a quello dipendente di Scaut S.r.l.

In nominato Liquidatore giudiziale di quest’ultima, in sede di costituzione, si è rimesso a giustizia sull’esito dei reclami formalizzati da M.G. e U.F. S.p.a., ma ha, a sua volta, ritenuto di essere stato “convenuto unitamente in giudizio affinché faccia stato” anche “nei suoi confronti una eventuale sentenza di accoglimento...”.

Né il Fallimento né Scaut S.r.l. hanno formalizzato tali divergenti prospettazioni (prive, peraltro, di maggior supporto motivazionale) nelle proprie conclusioni, ma le questioni poste rientrano comunque. nel giudizio demandato al presente riesame dai reclamanti, i quali hanno comunque chiesto innanzitutto l’integrale revoca della sentenza di fallimento della società di fatto, quale presupposta dai rispettivi fallimenti in proprio.

Sul punto deve osservarsi che la sentenza che dichiara il fallimento della società e dei soci contiene una pluralità di statuizioni con presupposti autonomi, poiché il fallimento della società concerne l’esistenza del vincolo sociale è lo stato di insolvenza della stessa, mentre quello del singolo socio concerne tale sua qualità ed è automatica conseguenza del fallimento della società.

Occorre, pertanto, far riferimento al concreto contenuto del reclamo, poiché, ove le stesso coinvolga solo la posizione personale del singolo socio, senza possibilità di ricadute sulla dichiarazione di fallimento della società, la revoca del fallimento del socio o preteso socio non comporta affatto la revoca del fallimento della società e degli altri soci illimitatamente responsabili; al contrario, ove l’opposizione sia accolta perché fondata sulla inesistenza tout court della società, tale pronuncia travolge l’intera decisione, “anche se l’opposizione è stata proposta da uno solo dei pretesi soci di fatto” (Cass. 2.8.1990 n. 7760 e, a conferma indiretta, Cass. 27.11.1999 n. 13246; Cass. 6.2.2003 n. 1751).

Ed, infatti, fra la pronuncia di fallimento della società e quella dei soci illimitatamente responsabili, “esiste un rapporto di dipendenza unidirezionale”, nel senso che, anche se non è vero il contrario, “la dichiarazione di fallimento del socio trova il suo presupposto nella dichiarazione di fallimento della società, la cui nullità travolge anche l’altra dichiarazione” (Cass. 1751/2003 cit.).

Consegue a quanto in premessa che, avendo ad oggetto entrambi i reclami la stessa ammissibilità/esistenza giuridica di una società di mero fatto fra società di captali, l’acco­glimento di tale motivo di opposizione comporta la caducazione della pronuncia di fallimento della ritenuta società di fatto nel suo complesso e, conseguentemente – in ragione della inscindibilità dei suoi effetti – di tutti i fallimenti da essa dipendenti e pur non reclamati da parte dei soggetti direttamente coinvolti.

La sentenza reclamata va, pertanto, globalmente revocata (omissis).

 

CORTE DI APPELLO DI NAPOLI, 15 maggio 2009 – Presidente Gallo, Relatore de Donato – D. s.r.l. ed altri (avv.ti G.e G. Megale) c. Curatela Fallimento s.d.f. tra D. s.r.l. ed altri nonché dei soci illimitatamente responsabili L.M., V.F., e D. s.r.l. (avv. L. Caravella) e S. s.r.l. (avv. F. Pepe).

 

Società – Società di capitali – Partecipazione in società di persone in assenza degli adempimenti ex art. 2361, 2° co., c.c. – Illegittimità – Fallimento della società in estensione – Esclusione

(Artt. 147 legge fall., art. 2361 c.c.)

La tutela dell’interesse dei soci e dei creditori impongono di ritenere che la partecipazione di società di capitali a società di persone sia ammissibile solo quando vi sia stata la preventiva autorizzazione dell’assemblea (o la successiva ratifica espressa dall’operato degli amministratori), ed a ciò faccia poi seguito l’esteriorizzazione della partecipazione con la specifica indicazione nella nota integrativa (4).

 

La Corte (Omissis)

1. Il primo motivo di reclamo ad un esame più meditato di quello, al quale si è fatto cenno con l’ordinanza del27.1.09, appare fondato nei termini che seguono.

Non è esatto quanto sostengono in prima battuta i reclamanti, secondo i quali il testo riformato dell’art. 147 l. f. non consentirebbe l’estensione del fallimento di una società di persone ad una società di capitali, che sia venuta a far parte della compagine sociale, mentre il testo riformato dell’art. 2361 c.c. continuerebbe a non consentire la partecipazione di una società di capitali ad una società di persone. Invero, come tutti i commentatori della riforma del diritto societario unanimemente ritengono, il nuovo testo degli artt. 2361 c.c. e 111/duodecies disp. att. c.c., ha risolto in senso positivo ed in modo netto la questione dell’ammissibilità della partecipazione di società di capitali ad una società di persone, superando il tradizionale orientamento negativo della giurisprudenza, fondato, com’è noto, sull’asserita incompatibilità strutturale tra i due tipi di società (Cass., ss.uu., 5636/88, richiamata dai reclamanti a sostegno della loro tesi, alla quale si è uniformata tutta la giurisprudenza seguente), il quale già si scontrava con il contrario avviso di parte prevalente della dottrina. L’art. 2361, c. 2°, c.c., dettato in tema di S.p.a., dispone che “lassunzione di partecipazioni in altre imprese comportante una responsabilità illimitata per le obbligazioni delle medesime deve essere deliberata dall’as­semblea”, aggiungendo che di tali partecipazioni deve essere data specifica informazione nella nota integrativa del bilancio, ed in tal modo, disciplinandone le modalità di attuazione, senza alcun dubbio consente la partecipazione delle S.p.a. a società di persone. L’art. 111/duodecies disp. att. c.c., poi, precisa che“qualora tutti i loro soci illimitatamente responsabili, di cui all’art. 2361, c. 2°, del codice, siano società per azioni, in accomandita per azioni o società a responsabilità limitata, le società in nome collettivo o in accomandita semplice devono redigere il bilancio secondo le norme previste per le società per azioni ed in tal modo fa intendere, senza margini di dubbio, che il legislatore della riforma non ha inteso limitare alle sole S.p.a. la possibilità di partecipare a società di persone, ma ha attribuito alla norma dettata nell’art. 2361, cpv., c.c. la portata di principio applicabile a tutte le società di capitali. Del resto, a livello sistematico, non troverebbe alcuna giustificazione la limitazione di tale facoltà di partecipazione alle società, in cui è massima l’espressione del carattere capitalistico, quali le S.p.a., e la sua esclusione per società, quali le S.r.l., che la riforma del diritto societario ha connotato di molteplici elementi personalistici, avvicinandole sensibilmente alla disciplina delle società di persone.

In perfetta consonanza con l’opzione operata dal legislatore della riforma societaria, il nuovo testo dell’art. 147 l.f. dispone che “la sentenza che dichiara il fallimento di una società appartenente ad uno dei tipi regolati nei capi III, IV e VI del titolo V del libro V del codice civile, (società in nome collettivo, società in accomandita semplice e società in accomandita per azioni: n.d.r.) produce anche il fallimento dei soci, pure se non persone fisiche, illimitatamente responsabili”. Con il che si ribadisce la possibilità che le società di persone possono avere tra i propri soci illimitatamente responsabili altre società, (anche di capitali per quanto disposto dall’art. 2361, cpv., c.c.) e che anche le società partecipanti sono esposte all’estensione del fallimento al pari dei soci persone fisiche. L’espressa indicazione dei tipi di società, in luogo della generica locuzione utilizzata dal testo originario (società con soci a responsabilità illimitata), ha, poi, la funzione di escutere che l’esten­sione del fallimento possa aversi anche nell’ipotesi di società di capitali, nelle quali il capitale sia concentrato o sia stato concentrato per un certo periodo nella titolarità di un solo socio, con le conseguenze di cui agli artt. 2325, cvp., e 2462, cvp., c.c.

Non può, dunque, che concordarsi con l’affermazione del Tribunale, secondo cui la nuova disciplina della materia consente la partecipazione di società di capitali alle società di persone, anche come di socie illimitatamente responsabili, e che, in tal caso, il fallimento di queste implica il fallimento delle partecipanti, al pari di ogni altro socio illimitatamente responsabile.

2. Il Tribunale, in base alle considerazioni che le società di fatto non sono che società in nome collettivo irregolari, ha tratto dalla prima affermazione la conseguenza che deve ammettersi anche la possibilità della costituzione di una società di fatto, alla quale partecipi (insieme ad altre società o a persone fisiche) una società di capitali.

L’affermazione è posta in discussione in modo molto sfumato dai reclamanti i quali, nelle loro argomentazioni, accennano anche al fatto che non può considerarsi ammissibile la partecipazione di società di capitali ad una società di fatto. L’assenza di più specifiche critiche all’assunto del primo giudice non rende tuttavia inammissibile tale tema d’indagine, posto che, abbandonando (anche per coerenza formale con il rito camerale, che connota il procedimento prefallimentare) lo schema dell’appello (cui era collegato il principio della necessaria specificità dei motivi di gravame) ed adottando quello del reclamo, il decreto correttivo della riforma del diritto fallimentare, ha certamente inteso assicurare un più pieno effetto devolutivo al mezzo d’impu­gnazione della sentenza dichiarativa di fallimento, consentendo al giudice del reclamo di esaminare tutti i temi d’in­dagine oggetto di doglianza, anche in assenza di specifiche critiche alla decisione di primo grado.

2.1. Osserva la Corte che il giudice di primo grado non si è posto il problema del rilievo da attribuire alla previsione dell’art. 2361, cpv., (che certamente, per il richiamo all’operato dell’art. 111/duodecies disp. att. c.c., vale anche per le S.r.l.) secondo cui la partecipazione da cui derivi la responsabilità illimitata per le obbligazioni della società partecipata “deve essere deliberata dall’assemblea”. Secondo la più autorevole dottrina tale norma introduce una limitazione legale al potere di rappresentanza degli amministratori e sottrae il tema di tali partecipazioni al potere di gestione degli stessi, attribuendolo alla competenza del­l’assemblea. È, tuttavia, controverso se il difetto della previa autorizzazione dell’assemblea comporti l’inefficacia del negozio d’acquisto della partecipazione o degli atti concludenti attraverso cui la volontà di partecipazione sia stata manifestata dagli amministratori.

Una parte della dottrina, argomentando dal nuovo testo dell’art. 2384, c. 1°, c.c. (cui corrisponde per le S.r.l. l’art. 2475/bis, c. 1, c.c.), che attribuisce agli amministratori il potere generale di rappresentanza della società, senza più collegarlo con l’oggetto sociale e senza più ricordare le limitazioni che derivano dalla legge o dall’atto costitutivo (come faceva il testo originario), nonché dall’eliminazione dell’art. 2384/bis c.c. (che disciplinava gli effetti del compimento di atti estranei all’oggetto sociale), sostiene che non sono opponibili ai terzi neppure i limiti del potere di rappresentanza che derivano dalla legge e che, quindi, salva la responsabilità degli amministratori verso la società ed i suoi creditori, l’acquisto di partecipazioni operato senza la previa deliberazione dell’assemblea è efficace ed in particolare determina l’esposizione della società di capitali al fallimento come conseguenza dell’insolvenza della società partecipata. Corollario di tale impostazione è che non vi sono ostacoli al riconoscimento dell’ammissibilità della partecipazione di società di capitali a società di fatto, non essendovi d’ostacolo la circostanza che, trattandosi di partecipazioni non formalizzate, per definizione difetta la (necessaria) deliberazione dell’assemblea e la specifica indicazione della nota integrativa del bilancio.

2.2. Altra parte della dottrina sostiene, invece, che mentre l’incoerenza con l’oggetto sociale e l’eventuale violazione di limiti statutari sono ormai del tutto inopponibili ai terzi, onde non possono incidere sulla validità ed efficacia degli atti compiuti dagli amministratori, altrettanto non vale per i limiti del potere di rappresentanza posti direttamente dalla legge, atteso che, trattandosi di limiti che derivano direttamente dall’ordinamento, per i quali vige il principio di conoscenza della legge da parte di ogni consociato, non v’è alcun motivo di tutela per l’affidamento di coloro che hanno trattato con gli amministratori fidando nell’ampiezza dei loro poteri (che costituisce la ratio delle modificazioni introdotte dalla norma in esame) e deve darsi prevalenza alle esigenze proprie dell’organizzazione societaria, che sono sottese alle limitazioni legali, ritenendo sempre opponibili ai terzi le violazioni di tali limitazioni. D’altra parte il fatto che l’attuale testo degli artt. 2384 e 2475/bis c.c. non richiami i limiti del potere di rappresentanza derivanti dalla legge può ben considerarsi il frutto di una tecnica di redazione tendente ad evitare l’uso di proposizioni superflue, essendo ovvio che non può considerarsi consentito agli amministratori (in base alla norma generale che disciplina i loro poteri) ciò che una norma speciale (come l’art. 2361, cpv., c.c.) impedisce loro di fare senza la previa autorizzazione dell’assemblea.

Da ciò il corollario che non può ritenersi ammissibile (a causa della inefficacia degli atti in tal senso posti in essere dagli amministratori, opponibile ai terzi) la partecipazione di una società di capitali ad una società di fatto, che, proprio per il suo carattere informale, quasi per definizione non può essere preceduta dall’autorizzazione dell’assem­blea, né accompagnata dalla specifica indicazione nella nota integrativa del bilancio.

2.3. La giurisprudenza edita aderisce a tale secondo orientamento, onde giunge ad escludere che il fallimento di un imprenditore individuale (o di una società regolare, oppure di una di fatto da imprenditori individuali), con cui una società di capitali abbia collaborato, nei termini che in linea generale consentono di ritenere sorto in via di fatto il rapporto societario, possa determinare anche il fallimento della società di capitali, che non può essere considerata socia di fatto dei falliti (App. Bologna 11.6.08, in Giur. It. 09, 652; App. Torino 30.7.07, in Giur. It. 07, 2218; Trib. Torino 4.4.07, in Giur. It. 07, 1442).

La Corte ritiene convincenti gli argomenti esposti a sostegno di tali decisioni, che fa propri e riepiloga, in aggiunta a quelli sopra sintetizzati sub 2.2. nell’esporre la tesi dottrinale alla quale si aderisce.

Il fenomeno della costituzione di una società di fatto tra persone fisiche è connotato solo dall’assenza di formalizzazione (difetto di un atto costitutivo scritto, che non è richiesto ad substantiam; difetto di iscrizione al registro delle imprese), ma per il resto naviga in un ambito di piena legittimità, trovando anche un’espressa disciplina legislativa nell’art. 2297 c.c. Altrettanto non può dirsi per la partecipazione ad una simile società di una società di capitali, nel difetto (coessenziale al fenomeno, connotato proprio dalla mancanza di formalizzazioni) della deliberazione di autorizzazione dell’assemblea; in tal caso, infatti, il fenomeno si tingerebbe di illegittimità, per violazione dei filtri che l’ordinamento societario ha inteso porre (delibera o decisione dei soci e specifica informazione nella nota integrativa del bilancio) onde evitare che l’attività di gestione degli amministratori possa esporre la società alle conseguenze dell’insolvenza della società partecipata, senza che i soci abbiano avuto modo di apprezzare tale rischio ed anche senza che i creditori abbiano potuto valutare l’affidabilità della società anche alla luce della partecipazione in esame e dei suoi riflessi sulla fallibilità della società debitrice.

Tale rilievo impone di tenere distinte le due ipotesi e di ritenere che, mentre la prima non incontra limiti, riguardo alla seconda il contrasto tra le forme imposte dall’art. 2361, cpv., c.c. ai fini della partecipazione e l’assenza di formalizzazione che caratterizza la società di fatto sia di tale portata da precluderne l’ammissibilità, posto che la tutela dell’interesse dei soci e di quello dei creditori, cui è preordinata tutta la disciplina relativa alla veridicità e correttezza dei dati di bilancio, intesi (insieme alle note integrative) come fondamentali strumenti di controllo della garanzia patrimoniale offerta dalla società debitrice, impongono di ritenere che la partecipazione di società di capitali a società di persone sia ammissibile solo quando vi sia stata la preventiva autorizzazione dell’assemblea (o la successiva ratifica espressa dall’operato degli amministratori), ed a ciò faccia poi seguito l’esterio­rizzazione della partecipazione con la specifica indicazione nella nota integrativa.

Né tale soluzione lascia del tutto priva di disciplina il fenomeno, salva l’ipotesi limite di cooperazione tra una società di capitali ed una persona fisica, posto che la collaborazione tra più società (una delle quali sia costituita in via di fatto), al fine di conseguire risultati imprenditoriali comuni, che non si esteriorizzi in una formale partecipazione, trova la sua disciplina nell’art. 2497 c.c., che è formulato in modo da prescindere dal concetto di controllo di cui all’art. 2359 c.c. e da trovare applicazione in ogni ipotesi di attività di direzione o coordinamento, quale che ne sia la fonte ed anche se esercitate in assenza di controllo in senso tecnico.

Di qui, appunto, l’opinione legislativa per l’introduzione di un limite legale al potere di rappresentanza degli amministratori, che, per le considerazioni di carattere generale sopra esposte (par. 2.2.) e per i principi ispiratori della disciplina delle società di capitali, volti a tutelare l’affida­mento dei soci e dei terzi attraverso la trasparenza e la conoscibilità della gestione, deve ritenersi opponibile ai terzi, anche se gli artt. 2384 e 2475/bis c.c. non menzionano più espressamente le limitazioni legali di tale potere.

Depone in tal senso anche il secondo comma dell’art. 2384 c.c. (cui corrisponde il secondo comma dell’art. 2475/bis c.c.), il quale dispone che “le limitazioni ai poteri degli amministratori che risultano dallo statuto o da una decisione degli organi competenti non sono opponibili ai terzi, anche se pubblicate …” e dal quale si deduce a contrariis che le limitazioni che derivano direttamente dalla legge (che non hanno ovviamente bisogno di essere pubblicate e si presumono note ai consociati) sono invece opponibili ed incidono sull’efficacia degli atti posti in essere in loro violazione.

Più radicalmente può giungersi a ritenere, con la Corte felsinea, che la portata dell’art. 2361, cpv., c.c. è ancora maggiore, nel senso che non solo pone un limite al potere di rappresentanza degli amministratori, ma incide anche sui loro poteri gestori, nel senso che, esigendo la previa deliberazione dell’assemblea, il legislatore ha inteso attribuire la relativa competenza all’assemblea (art. 2364, n. 5, c.c., che appunto distingue tra gli altri oggetti attribuiti dalla legge alla competenza dell’assemblea e le autorizzazioni eventualmente richieste dallo statuto per il compimento di determinati atti d’amministrazione), sottraendo tale oggetto al generale potere di gestione degli amministratori.

2.4. All’applicazione al caso di specie della soluzione adottata non osta il fatto che la D. S.r.l. sia una società unipersonale e che la sua amministrazione sia affidata alla sua unica socia.

Premesso, infatti, che non emerge l’adozione da parte di tale società di una formale decisione di partecipazione alla società di fatto esistente tra la L. ed il V. e che dall’esame della nota integrativa del bilancio al 31.12.07 si evince che di tale partecipazione non è data alcuna (neppure generica) informazione (il che rafforza la conclusione che non vi è mai stata un’adesione formale, che del resto sarebbe in contraddizione con il carattere di fatto e non formalizzato della società di fatto), va osservato che è inconcepibile l’adozione di deliberazioni assembleari o di decisioni dei soci adottate per fatti concludenti, mentre, in assenza dei requisiti formali minimi richiesti per le deliberazioni (il verbale sintetico con indicazione almeno della data e dell’oggetto, ai sensi dell’art. 2379 c.c.) o per le decisioni (consultazione scritta o consenso chiaramente espresso per iscritto, con indicazione dell’og­getto, ai sensi dell’art. 2479 c.c.), queste sono da considerare inesistenti per mancanza dei requisiti essenziali per la loro riconoscibilità. Ciò tanto più ove si consideri che la formale adozione della deliberazione o decisione e l’espli­cita­zione della partecipazione con la specifica informativa nella nota integrativa al bilancio sono richiesti anche nel preminente interesse dei creditori della società, che verrebbe compromesso se si ritenesse ammissibile l’autorizzazione per comportamenti concludenti.

2.5. Concludendo sul punto, deve affermarsi che, non essendo consentito neppure dal nuovo ordinamento societario la partecipazione di una società di capitali ad una società di fatto, a causa del difetto dell’autorizzazione dell’assemblea richiesta come condizione di efficacia degli atti di acquisto della partecipazione posti in essere dagli amministratori, la sentenza di primo grado deve essere riformata nella parte in cui ha ritenuto estesa anche a la D. s.r.l. la società di fatto, che ha accertato sussistere tra la L. ed il V., imponendosi la revoca del fallimento per estensione pronunziato, ai sensi dell’art. 147 l.f. nei confronti della ridetta S.r.l. (omissis).

(1-4) La partecipazione di fatto di società di capitali in società di persone. Profili sostanziali.

  
SOMMARIO:

1. Il caso - 2. Normativa di riferimento - 3. Precedenti giurisprudenziali; dottrina - 4. Commento - NOTE


1. Il caso

Le decisioni in epigrafe risolvono in senso contrastante l’interrogativo concernente la configurabilità e l’assoggettabilità al fallimento di una società di fatto partecipata anche da società di capitali [1]. L’occa­sione per tornare sull’argomento, per vero assai frequentato dalla dottrina e dalla giurisprudenza più e meno recenti [2], è fornita alle corti capuana e felsinea da vicende soltanto parzialmente coincidenti. Nella fattispecie esaminata dal Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, a quanto è possibile desumere dai riferimenti disponibili, è il creditore a presentare istanza per la dichiarazione del fallimento della società di fatto a suo avviso esistente tra il proprio debitore, un imprenditore individuale, ed altri imprenditori, uno dei quali costituito in forma di s.r.l., senza passare attraverso la fase «intermedia» dell’avvio della procedura nei confronti del primo. La Corte d’Appello di Bologna si occupa invece, in sede di reclamo [3], dell’ipotesi più comune, in cui l’accerta­mento (dell’esistenza e dell’insolvenza) della società di fatto venga richiesto dal curatore di un fallimento già dichiarato al fine di ottenere, passando per l’in­solvenza della società di fatto medesima, l’esten­sione degli effetti della procedura nei confronti di altri imprenditori, legati al fallito da rapporti economici astrattamente configurabili in termini societari. Identica è tuttavia la finalità economica sottesa alle istanze da cui entrambi i giudizi trovano origine: l’ampliamento della base richiamabile ai fini della definizione dell’attivo fallimentare nei confronti di soggetti formalmente estranei al debitore e alla sua impresa, ma a questi legati da rapporti di collaborazione stabili e di intensità tale da giustificarne il coinvolgimento nelle relative sorti imprenditoriali. Identico è pure lo strumento giuridico prescelto per la realizzazione di tale risultato, individuato per l’ap­punto nella richiesta del fallimento di un ente societario non dichiarato, in vista del conseguente fallimento «a cascata» di quanti abbiano di fatto esercitato, mediante lo stesso, un’attività economica in comune. Il primo dei provvedimenti in esame si pronuncia in senso favorevole [continua ..]


2. Normativa di riferimento

L’art. 2361, 2° comma, c.c. dispone che «l’assun­zione di partecipazioni in altre imprese comportante una responsabilità illimitata per le obbligazioni delle medesime deve essere deliberata dall’assemblea; di tali partecipazioni gli amministratori danno specifica informazione nella nota integrativa del bilancio» [7]. La norma, introdotta ex novo dalla riforma del diritto delle società di capitali, affronta per la prima volta in sede normativa il nodo, vivacemente dibattuto in passato, della partecipazione di società di capitali in società di persone. In realtà, la portata della disposizione risulta essere assai ampliata, sul piano oggettivo, dal riferimento all’acquisto di partecipazioni in altre imprese tout court, che rende di fatto applicabile la disciplina ad ogni ipotesi di acquisto di cointeressenze comportanti l’esposizione a responsabilità illimitata per le obbligazioni dell’im­presa partecipata. È tuttavia presumibile che l’in­tento primario del legislatore fosse quello di fornire un principio di risoluzione della problematica in esame [8] e che il riferimento ad altre ipotesi partecipative si giustifichi in ragione di esigenze di equità sostanziale, anche al fine di prevenire eventuali e future incertezze interpretative sul punto [9]. In quale misura la novella sia riuscita nell’intento di dissipare le incertezze in materia è messo in luce dalle decisioni in esame e dalle analoghe vicende all’origine delle già numerose pronunce susseguitesi in argomento negli ultimi anni. Il nuovo dettato normativo risulta infatti privo di qualsiasi riferimento alle conseguenze dell’inosservanza dei precetti elaborati. Di modo che, se da un canto sono chiari i canoni di legittimità dell’operazione di acquisto, da parte di società di capitali, di partecipazioni a responsabilità illimitata, restano tuttora da definire le forme di reazione disponibili nell’ipotesi in cui la partecipazione medesima sia acquisita indipendentemente da una conforme delibera assembleare e della stessa non sia data notizia nella nota integrativa al bilancio [10]. Non è chiaro in particolare se, trattandosi di precetti posti a tutela dell’interesse dei soci e dei terzi, siano soltanto questi legittimati ad agire nei confronti della società [continua ..]


3. Precedenti giurisprudenziali; dottrina

Prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 6/2003, in assenza di riferimenti normativi espliciti al fenomeno della partecipazione di società in società, dottrina e giurisprudenza avevano affrontato la problematica alla luce di principi generali dell’ordinamento societario. Questi venivano tuttavia asserviti da giudici e studiosi al conseguimento di obiettivi di giustizia sostanziale di diversa natura e tra loro confliggenti. Così, il dibattito sviluppatosi in questo periodo risultava caratterizzato, da un lato, dalla ferma negazione da parte delle corti, anche e soprattutto di legittimità, della facoltà per le società di capitali di divenire socie di società di persone e, dall’altro, nella decisa avversione della dottrina alle conclusioni della giurisprudenza [15]. Tale contrasto si era originariamente manifestato in relazione ad ipotesi di partecipazioni comportanti l’integrale esposizione al rischio del patrimonio sociale [16]. In tale quadro – al di là delle più antiche suggestioni riguardanti la presunta incompatibilità tra la natura collettiva dell’ente societario e l’intuitu personae caratterizzante la partecipazione in società non personificate [17] – la preoccupazione principale della giurisprudenza risiedeva nella tutela dell’inte­resse dei soci e dei creditori sociali, occasionalmente coincidente, al contenimento dei rischi di insolvenza della società [18]. In seguito, la Corte di Cassazione estese, con la nota sentenza n. 5636/1988, l’orienta­mento preclusivo anche all’assunzione della qualità di socio limitatamente responsabile, ed in particolare di socio accomandante di s.a.s. [19]. Con questa decisione, fortemente criticata dai commentatori [20], la Suprema Corte pose al centro delle proprie argomentazioni l’esigenza di impedire all’organo gestorio l’arbitraria sottrazione di una parte del patrimonio sociale alle regole in materia di amministrazione e controllo e di bilancio, previste per le società di capitali e non per quelle di persone. Il dissenso della dottrina rispetto alla soluzione giurisprudenziale non impedì il consolidarsi del­l’orienta­mento presso le corti di legittimità e di merito [21]: ancora alla vigilia della riforma del diritto societario la partecipazione di [continua ..]


4. Commento

4.1. Gli interrogativi concernenti la legittimità e l’assoggettabilità al fallimento della società di fatto partecipata da società di capitali vengono di solito considerati, l’uno rispetto all’altro, in rapporto di pregiudizialità. Questo avviene non soltanto da parte di quanti àncorano il rifiuto della liquidazione concorsuale dell’ente di fatto alla stessa impossibilità giuridica di considerarlo esistente, ma anche da parte di coloro che dapprima si pongono l’interrogativo concernente la validità della partecipazione in esame, per domandarsi soltanto in seguito se, data la risposta affermativa, il fallimento della cd. supersocietà [32], e la sua estensione in confronto dei soggetti coinvolti, siano subordinati o meno alla verifica del­l’insolvenza dell’ente. Si tratta tuttavia di un equivoco dal quale è opportuno sgomberare il campo. In realtà, quello del fallimento della società (di persone) nulla è un problema tuttora aperto [33]. Questo a dimostrazione della sensibilità degli interpreti rispetto all’esigenza di individuare, tra gli strumenti messi a disposizione dall’ordinamento, quelli maggiormente idonei ad assicurare la ricomposizione degli effetti del negozio giuridico invalido, allorquando quest’ultimo non si esaurisca nella nozione di atto, ma abbia dato luogo all’esercizio di un’attività. Naturalmente, la scelta dipende anche, ed in principal modo, dalla prevalenza che si voglia accordare a taluno degli interessi coinvolti dalla fattispecie presa in considerazione rispetto agli altri attorno ad essa gravitanti, opzione da svolgere alla luce delle indicazioni fornite, in maniera più o meno manifesta, dall’ordinamento giuridico stesso. È vero, infatti, che spetta al legislatore, e non all’interprete, il compito di operare la selezione degli interessi ritenuti meritevoli di tutela, in vista della predisposizione di idonei presidi giuridici [34]. È altrettanto vero, però, che in mancanza di inequivocabili, per quanto implicite, indicazioni normative al riguardo, sarà cura proprio dell’interprete – cui il sistema affida, tra gli altri, il delicato compito di scongiurare il pericolo della lacuna normativa – l’elaborazione di una soluzione in grado di realizzare il più equo [continua ..]


NOTE
Fascicolo 1 - 2010