Rivista di Diritto SocietarioISSN 1972-9243 / EISSN 2421-7166
G. Giappichelli Editore

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Uno sguardo (appena un po' indiscreto) sui pagamenti, diversi da quelli di cui parla l'art. 2389 c.c., della s.p.a. in favore dei propri amministratori (di Andrea Pisani Massamormile)


  
SOMMARIO:

1. Principi di vertice ed obiettivi di analisi - 2. Individuazione dei possibili 'pagamenti' in favore degli amministratori: il compenso e la remunerazione ex art. 2389 c.c. - 3. (Segue). Il corrispettivo per eventuali 'incarichi particolari' interni - 4. (Segue). Incarichi esterni e relativi pagamenti - 5. Le ragioni di un'indagine sui pagamenti di cui non parla l'art. 2389 c.c. - 6. I 'particolari incarichi'. Fenomeno organizzativo interno - 7. (Segue). La giustificazione - 8. La disciplina del pagamento dei particolari incarichi - 9. (Segue). L'applicazione dell'art. 2391 c.c. - 10. (Segue). Sull'applicabilità a questo corrispettivo del comma 3° dell'art. 2389 c.c. - 11. I compensi per prestazioni esterne alla funzione amministrativa - 12. (Segue). Criteri per il discernimento delle prestazioni esterne - 13. (Segue). Ricerca in concreto e parametri di riferimento - 14. La disciplina societaria degli incarichi esterni. Applicazione dell'art. 2391 c.c. - 15. (Segue). Inapplicabilità del comma 3° dell'art. 2389 c.c. - 16. (Segue). Il ruolo dei sindaci e dei comitati endoconsiliari. Inapplicabilità del comma 2° dell'art. 2389 c.c.


1. Principi di vertice ed obiettivi di analisi

 È necessario svolgere rapidamente due premesse che, in verità, richiederebbero ben altro spazio, sospese come sono fra cognizioni tecniche e convinzioni personali. È allora obbligatorio chiedere scusa in anticipo per le lacune che la sintesi comporterà. I. Credo che il dibattito ora in atto sul tema della remunerazione degli amministratori di società per azioni, si ispiri ad alcuni principi di vertice e si proponga alcuni obiettivi di analisi. Degli uni e degli altri mi sembra opportuna (forse doverosa) un’integrazione. I principi di vertice alla luce dei quali sempre più frequentemente (e correttamente) si tende a leggere la disciplina della accennata remunerazione sono quelli della ragionevolezza e della trasparenza; propongo di integrarli con i valori dell’etica e della lealtà. Gli obiettivi di analisi ai quali sono normalmente diretti i contributi della dottrina e sui quali è chiamata a pronunziarsi la giurisprudenza, sono quelli del quantum della remunerazione e del chi ne è legittimato a decidere il riconoscimento e la misura. Propongo di integrare il primo obiettivo con quello dell’an (i quesiti, cioè, sul se la remunerazione, aldilà della sua entità, sia meritata, dovuta, utile) ed il secondo con quello del chi (e come) possa (o debba) verificare, ex ante ed ex post, la corrispondenza o, meglio, la coerenza fra remunerazione riconosciuta e prestazioni da ciascuno rese. II. Altri si sono interessati e si stanno molto autorevolmente interessando degli aspetti più attuali che il tema (ora scottante) della remunerazione degli amministratori solleva: l’ammissi­bilità, i limiti e le possibili correzioni dei meccanismi di remunerazione variabili ed incentivanti, specie quelli in vario modo collegati alla crescita di valore delle azioni, agli utili prodotti o ad altri parametri (livello del fatturato o delle vendite, ad esempio) di natura economica. Dedicherò allora queste pagine ad aspetti diversi e sugli argomenti appena accennati mi limiterò alle seguenti, telegrafiche osservazioni: – i temi predetti sono sì attuali, ma l’interesse per essi è purtroppo tardivo, perché i guasti di oggi (ché di guasti sociali, prima che giuridici, si tratta) sono frutto della disattenzione di ieri; – è il momento [continua ..]


2. Individuazione dei possibili 'pagamenti' in favore degli amministratori: il compenso e la remunerazione ex art. 2389 c.c.

Scopo principale di queste pagine è quello di distinguere, alla luce dei principi di vertice che, come già accennato, reggono la materia, i diversi tipi di “pagamenti” (mi si consenta, per ora, di utilizzare questo termine neutro e volutamente generico) che possono essere legittimamente riconosciuti agli amministratori di società per azioni e, quindi, quello di ricostruire i tratti essenziali della disciplina di ciascuno di questi tipi di “pagamento”, tenendo conto degli obiettivi, cui pure si è fatto cenno, che appaiono in proposito maggiormente interessanti. Premesso che mi riferirò, come scenario di fondo, al modello tradizionale di amministrazione e controllo, sono quattro i pagamenti che possono essere riconosciuti dalla società agli amministratori, in corrispondenza di quattro distinti “titoli”, talvolta esplicitamente enunziati dalla legge, talvolta invece implicitamente deducibili ed infatti, nella prassi, frequentemente ricorrenti. Un primo pagamento è il compenso che trova radice nei primi due commi dell’art. 2389 c.c. e che definirei, prescindendo dalle modalità in cui può articolarsi (pagamento fisso e stabilito ex ante, con versamenti annuali, mensili o diversamente rateizzati nel tempo; partecipazione agli utili o al fatturato o ad altri indici economici; stock options; forme miste e così via), la remunerazione “base” che spetta agli amministratori (ed a tutti gli amministratori) in quanto tali ed a fronte dei compiti loro obbligatoriamente spettanti: vale a dire, in un consiglio privo di organi delegati, l’intero potere gestorio ed il compimento di ogni operazione necessaria all’attuazione dell’oggetto sociale (a mente dell’art. 2380-bis, comma 1°, c.c.); laddove, in un consiglio che presenti al suo interno organi delegati, i compiti “minimi ed indefettibili” di ogni amministratore sono quelli che il disegno di cui all’art. 2381 c.c. attribuisce al plenum del collegio (comma 3°), quelli non delegabili (comma 4° e richiami ivi contenuti), nonché quello dell’“agire informato” (comma 6°), nei limiti e con le modalità (gli uni e le altre non ancora del tutto pacifici in dottrina) in cui può e deve svilupparsi. Come i compiti predetti divengono obbligatori in seguito all’accettazione della [continua ..]


3. (Segue). Il corrispettivo per eventuali 'incarichi particolari' interni

Un terzo pagamento, che non è esplicitamente previsto dalla legge, ma è (ed è stato) di sicuro affermabile sulla scorta del sistema e dei principi generali, è il corrispettivo spettante a fronte di “particolari incarichi” endoconsiliari. Trattandosi di fattispecie non nominata dalla legge e di terminologia del tutto convenzionale (ed in parte personale), occorrono subito due precisazioni. La prima è appunto di ordine terminologico e si fonda sulla diversa valenza che mi sembra possibile sottintendere alla “carica” da un lato ed all’“incarico” dall’altro: col primo termine, infatti, intendo identificare una valenza organizzativa dei compiti attribuiti all’amministratore, col secondo una valenza meramente funzionale. La carica riporta dunque ad una collocazione stabile della figura all’interno dell’organizza­zione del consiglio e della stessa società (si pensi appunto al presidente od all’amministratore delegato), come tale riconoscibile all’esterno ed i cui compiti e natura trovano radice nella legge e solo un’eventuale integrazione nell’autonomia statutaria e nella volontà consiliare ed assembleare. L’incarico, viceversa, riporta a determinati compiti da svolgere, che prescindono da una specifica collocazione endoconsiliare, sono in linea generale solo occasionalmente attribuiti e, se anche non prevedono un termine, non presuppongono alcuna garanzia, né alcuna esigenza di stabilità. La seconda precisazione prende spunto invece dalla considerazione che dottrina e giurisprudenza identificano, come accennato, pressocché unanimemente le “particolari cariche” con il presidente del consiglio di amministrazione, l’amministratore delegato ed il comitato esecutivo (paiono superabili i dubbi talvolta emessi in ordine a quest’ultimo), vale a dire, appunto, con organi stabilmente inseriti nell’organizzazione societaria, la cui presenza è esplicitamente prevista dalla legge ed i cui compiti ugualmente sono in gran parte direttamente ricavabili dalle norme e per il resto abbastanza chiaramente desumibili dal sistema. Tuttavia è certo che, a prescindere dal ruolo del presidente e dalla presenza o meno di organi delegati, il corretto ed esauriente adempimento delle funzioni affidate all’organo di gestione può [continua ..]


4. (Segue). Incarichi esterni e relativi pagamenti

Un quarto ed ultimo pagamento che la società può trovarsi a corrispondere al proprio amministratore è l’onorario a questi eventualmente spettante a fronte di attività professionali affidategli o, più generalmente, il corrispettivo dovuto per un’opera o un servizio compiuti (art. 2222 c.c.) o il compenso relativo ad un mandato eseguito (art. 1720 c.c.) dall’amministratore in adempimento di un contratto concluso con la società. Non avrei dubbi a distinguere questo pagamento da quello innanzi ricordato (il corrispettivo per i particolari incarichi), perché ne è diverso il titolo: si tratta qui di remunerare prestazioni svolte da chi è sì consigliere di amministrazione di una società, ma che sono e restono per loro natura estranee ai compiti rientranti nel “mandato” ad amministrare e, per così dire, esterne al perimetro delle attività per legge rientranti nelle funzioni dell’organo gestorio ed, anzi, alla stessa organizzazione societaria. La distinzione, sufficientemente chiara in teoria, rischia tuttavia di sfumare nelle concrete applicazioni ed una sua definitiva affermazione richiederebbe la previa definizione dei compiti rientranti nella funzione gestoria per poi ricavarne a contrario (tenuto conto, però, degli altri, specifici doveri dalla legge posti a carico degli amministratori) il vasto territorio delle prestazioni lavorative non rientranti in quell’ambito. Ferma restando l’esigenza di un ulteriore approfondimento, il problema può forse sdrammatizzarsi rilevando che non ci troviamo più sul piano dei rapporti interni al “gruppo” organizzato, ma sul piano dei rapporti (che inevitabilmente occorre instaurare) fra il “gruppo” unitariamente considerato ed i terzi. Ed è probabile che per questo via la distinzione possa essere più agevolmente affrontata e risolta anche nella pratica. È chiaro e noto, in altri termini, che qualunque società, nel corso della sua azione, deve necessariamente ricorrere a professionisti e collaboratori a vario titolo, stipulando con questi, di volta in volta, contratti di prestazione d’opera intellettuale, di lavoro autonomo o di mandato e non vi è dubbio che nulla vieta sul piano generale (e salva l’osservanza delle regole sugli “interessi” degli amministratori, quelle [continua ..]


5. Le ragioni di un'indagine sui pagamenti di cui non parla l'art. 2389 c.c.

 Definito così il quadro complessivo dei diversi pagamenti che la società può (e in un caso, il primo, normalmente deve) riconoscere ai propri amministratori, così come dei diversi titoli che rispettivamente li giustificano, vorrei ora soffermarmi sul terzo e quarto di essi, per alcune considerazioni che di seguito provo a riassumere. Intanto, i pagamenti innanzi ricordati sono privi di una specifica disciplina di diritto societario ed uno di essi, anzi, il terzo, è privo tout court di disciplina (esplicita e tipica). In secondo luogo, si tratta di fattispecie poco studiate in dottrina e raramente (e spesso confusamente) affrontate dalla giurisprudenza, benché siano di abbastanza frequente applicazione concreta e coinvolgano, sul piano teorico, temi interessanti e di non lieve portata, quale quello della ripartizione endoconsiliare dei compiti e delle cc.dd. deleghe “atipiche” o quello del contenuto e dei limiti del potere gestorio e quindi dell’individuazione dei compiti spettanti sul piano generale al componente del consiglio di amministrazione di una società per azioni. Pure a prescindere da ciò, sia i corrispettivi pagati a singoli consiglieri a fronte di prestazioni endoconsiliari per così dire “atipiche”, sia gli onorari (e gli altri compensi) pagati, nuovamente a singoli consiglieri, ma a fronte di prestazioni extraconsiliari, sono per così dire sospesi fra due estremi: possono cioè produrre, secondo le circostanze, o un vantaggio o un danno per la società (e di riflesso per i suoi stakeholders) e meritano dunque di essere indagati affinché se ne possa avere consapevolezza (prima) e se ne possa (poi) adeguatamente apprezzare l’utilizza­zione in senso conforme all’interesse sociale (e, perché no, ai canoni dell’etica d’impresa) o censurarne l’utilizzazione in senso a tutto ciò difforme. Si può infatti notare che sia le une, sia le altre prestazioni possono indubbiamente contribuire a migliorare l’efficienza e la qualità dei lavori dell’organo gestorio, potenziando ed affinando l’utilità ed i compiti dei singoli amministratori, oppure rivelarsi ipotesi di non corretta amministrazione (e magari di abusi), perché viziata da comportamenti opportunistici ed interessi “corporativi”, fonte [continua ..]


6. I 'particolari incarichi'. Fenomeno organizzativo interno

Ho detto in precedenza che oggetto degli “incarichi” in discorso sono prestazioni diverse da quelle oggetto (oltre che delle funzioni del presidente) delle attribuzioni rimesse agli organi delegati di cui all’art. 2381, comma 2°, c.c. (amministratore delegato e comitato esecutivo), ma in questi termini resta l’insoddisfazione delle ricostruzioni (e, ancor peggio, delle definizioni) operate esclusivamente “in negativo”. Tuttavia, prima di tentare un’individuazione in positivo del fenomeno in esame, vorrei osservare che, a rigore, non vi è qui alcuna delega propriamente intesa (da qui la scelta di accantonare le espressioni “deleghe interne” o “deleghe atipiche”): non vi è cioè (contrariamente a quel che accade nel rapporto tra plenum consiliare ed organi delegati nel canovaccio di cui all’art. 2381, comma 2°, c.c.) alcun trasferimento, neppure provvisorio, di attribuzioni e poteri del consiglio ad uno o più dei soci componenti. All’amministratore “incaricato”, in altri termini, non si attribuisce un potere del consiglio, ma si affida un compito (interno) funzionale ai lavori del consiglio stesso e, quindi, all’eser­cizio di poteri che restano in capo all’organo nella sua completezza. Sicché di “atipicità” si può parlare, ma non come definizione della delega (posto che quest’ultima, più semplicemente, nella specie non sussiste), bensì in riferimento al rapporto tra il collegio (l’organo consiliare nella sua interezza) ed uno o più dei suoi componenti privi di deleghe: in quel rapporto si inserisce convenzionalmente un contenuto che non è esplicitamente previsto e tanto meno tipizzato dalla legge. Ancor meno calzante, riguardo al nostro fenomeno, sarebbe l’espressione “deleghe non autorizzate”, poiché con essa si intende in dottrina richiamare l’ipotesi (della cui legittimità, tuttavia, è lecito dubitare pur dopo e forse soprattutto dopo la riforma del 2003), di delega di una o più delle attribuzioni del consiglio di amministrazione (secondo il canovaccio del comma 2° dell’art. 2381), ma senza l’“autorizzazione” (la legge parla di consenso) dello statuto o del­l’assemblea. Nel nostro caso, viceversa, la sussistenza [continua ..]


7. (Segue). La giustificazione

Sul piano dell’organizzazione interna al consiglio di amministrazione, dunque, il discorso può poggiarsi su alcune premesse. a) “Collegialità” (delle decisioni) non significa anche (necessariamente) “congiuntività” delle attività attinenti alle attribuzioni dell’organo, né quindi dei comportamenti di ciascun componente di quest’ultimo. b) La società per azioni è “forma organizzativa” idonea ad applicarsi e di fatto applicata a fenomeni economicamente e socialmente molto eterogenei e se l’enfatizzazione dell’autono­mia statutaria è funzionale a tutto ciò, non vi è dubbio che l’autonomia deve sussistere anche, direi anzi a maggior ragione ed ancor più ampiamente, sul piano delle prassi organizzative interne all’organo “motore” della società, il consiglio di amministrazione, massimamente interessato dalla regola di efficienza. Non vi è dubbio, peraltro, che nelle società di ampie dimensioni ed in quelle che esercitano attività di impresa di particolare difficoltà e rilievo, il consiglio di amministrazione può essere ed anzi sempre più è investito (anche per effetto della legislazione speciale) di una vastissima e complessa mole di lavoro (qualche volta anche con riflessi pubblicistici), spesso da svolgere entro scadenze e termini prefissati e vincolanti o comunque in tempi ristretti. c) L’obbligo dell’“agire informato”, che gioca sul piano del funzionamento e che si riflette (più o meno pesantemente, secondo le diverse concezioni, ma mai in modo indolore) su quello della responsabilità, obbliga (in certi limiti) e rende opportuno acquisire informazioni idonee a deliberare consapevolmente. A tal fine deve coordinarsi, quanto meno in determinate realtà, con la complessità, appunto, della funzione gestoria e con la necessaria rapidità delle decisioni. Discende da questo quadro l’esigenza di coniugare approfondimento e tempestività, efficienza ed informazione dell’organo gestorio. Il punto di equilibrio fra queste diverse e talvolta opposte esigenze, inevitabilmente “mobile” in relazione alle contingenze, può essere, se non assicurato, almeno più agevolmente perseguito affidando appunto ai componenti dell’organo compiti [continua ..]


8. La disciplina del pagamento dei particolari incarichi

La legittimità ed anzi l’opportunità, la meritevolezza, per così dire, sul piano organizzativo, dei “particolari incarichi” si riflette senz’altro su quello economico, giustificando pienamente il pagamento, agli am­mi­nistratori cui siano affidati i detti incarichi, di un compenso da un lato ulteriore rispetto a quello “base” (percepito cioè da tutti gli amministratori in quanto tali) e dall’altro adeguato alla natura (ed al contenuto) dell’incarico e dunque, se del caso, di entità disomogenea. Rientrando in thesi anche le prestazioni oggetto di questi incarichi nell’ambito delle funzioni per legge (e per statuto) di competenza degli amministratori, vale pure per esse la presunzione di onerosità di cui all’art. 1720 c.c., sicché il relativo diritto si matura pur nel silenzio dell’atto costitutivo e della stessa delibera consiliare di conferimento dell’incarico. Occorre anzi precisare che, in virtù dei principi generali (l’onerosità del mandato e, prima ancora, la parità di trattamento che impone discipline diseguali di vicende disuguali), gli amministratori titolari di “particolari incarichi” hanno diritto, salvo un esplicito patto contrario, ad un compenso aggiuntivo rispetto a quello di cui godono i colleghi privi di incarichi, la cui entità, ove non stabilita nell’atto di conferimento, potrà essere successivamente decisa dal giudice, così come avviene, secondo l’opinione prevalente, per quel che è stato innanzi definito il compenso base spettante ad ogni amministratore. Tuttavia, a prescindere dal caso patologico appena ricordato, a questo corrispettivo potrà applicarsi la disciplina di cui al comma 3° dell’art. 2389 c.c., in forza di un’interpretazione estensiva della norma: siamo infatti, in un caso e nell’altro, dinanzi a compensi da pagare ad amministratori, a fronte di prestazioni che si diversificano rispetto a quelle richieste agli altri componenti dell’organo (per le “cariche particolari” in relazione al tipo di attività richiesta, non di mera valutazione, come per i deleganti, ma di gestione attiva; per gli “incarichi particolari” in ordine al livello di approfondimento), ma che non esulano dalle funzioni e dai compiti attribuiti al consiglio di [continua ..]


9. (Segue). L'applicazione dell'art. 2391 c.c.

L’affidamento di un “particolare incarico” interno deve avvenire, come già accennato, con delibera consiliare, cui deve applicarsi la disciplina di cui all’art. 2391 c.c. Credo, però, che possa in proposito sdrammatizzarsi l’aspetto relativo alla “notizia” (comma 1°): vi sia o meno l’interesse di colui cui l’incarico è conferito (interesse che può fondarsi sul corrispettivo o su ragioni di prestigio personale), vi è anche, in thesi, l’interesse della società a procedere in tal senso e, soprattutto, il fatto oggetto dell’interesse non è noto solo al consigliere (presunto) interessato, ma a tutti i componenti del consiglio (almeno a quelli che non si assopiscono, come può malauguratamente accadere). Tutti i componenti dell’organo gestorio, in altri termini, sanno (e devono sapere) che oggetto della decisione da prendere è un “particolare incarico” endoconsiliare da affidare ad un componente del consiglio e tutti sanno (e devono sapere) le ragioni che, nell’interesse della società, depongono a favore (od eventualmente a sfavore) di siffatta decisione, vi sia o meno altresì un interesse di colui cui l’incarico deve essere conferito: l’assunzione della delibera consiliare significherà, appunto, che l’organo (all’unanimità od a maggioranza) avrà condiviso le ragioni favorevoli al conferimento dell’incarico e positivamente valutato la conformità di esso all’interesse della società (salvi naturalmente i casi patologici che, appunto, i precetti dell’art. 2391 c.c. possono contribuire a smascherare). Centrale è invece la “motivazione” (comma 2°) che dovrà essere senz’altro accurata e riguardare sia l’incarico, sia la misura del corrispettivo. Bisognerà chiarire quali specifiche esigenze organizzative si intende affrontare, quali compiti si vuole perciò affidare all’incaricato, quali obiettivi si intende perseguire; perché si sceglie quell’amministratore; a quali parametri è legato il corrispettivo (magari con riferimento, quando possibile, ad esperienze analoghe od alle condizioni di mercato per prestazioni simili a quelle oggetto dell’incarico) ed insomma far comprendere agli azionisti ed ai terzi che si sta correttamente [continua ..]


10. (Segue). Sull'applicabilità a questo corrispettivo del comma 3° dell'art. 2389 c.c.

Resta da domandarsi se il corrispettivo aggiuntivo spettante agli amministratori investiti di “particolari incarichi” interni possa rispondere in tutto o in parte alle tecniche previste dal comma 2° dell’art. 2389, c.c. ed alle altre analoghe ritenute legittime. Se cioè possa essere strutturato in modo incentivante e legato al conseguimento di determinati obiettivi. Il codice di autodisciplina dispone che gli amministratori non esecutivi non possono essere remunerati, se non per una parte non significativa, mercè il riferimento ai risultati economici conseguiti dalla società ed il criterio appare condivisibile anche per le società non quotate. In linea di massima (e comunque per quanto qui interessa) gli amministratori investiti di “incarichi particolari” rientrano fra i non esecutivi (avendo soprattutto il compito di approfondire le informazioni, magari anche quelle provenienti dai delegati, in funzione di una consapevole delibera del plenum) ed è opportuno che siano altresì indipendenti. Tuttavia, la ratio sottesa al divieto per i non esecutivi di essere remunerati in proporzione ai risultati economici conseguiti dalla società, potrebbe non essere o non essere sempre calzante per gli amministratori investiti degli incarichi in oggetto: i compiti loro affidati, infatti, ben possono migliorare il tasso di efficienza endosocietario (ed anzi è questo l’obiettivo di fondo per cui gli incarichi in esame vengono conferiti) e dunque contribuire più o meno direttamente alla crescita degli utili. D’altra parte, se è comprensibile e corretto che non possa essere remunerato in proporzione agli utili il non esecutivo chiamato a far parte del comitato per il controllo interno, per le remunerazioni o per le nomine, non è detto che non possa esserlo chi, ad esempio, propone al consiglio motivate delibere di transazione di rapporti litigiosi, così riducendo spese legali e costi di personale e magari ottenendo significativi recuperi sulle previsioni di perdita stimate. In definitiva, tutto quel che mi sentirei di dire è che, prima di legare il corrispettivo aggiuntivo promesso agli amministratori con incarichi particolari al conseguimento di risultati economici, sarà prudente verificare di volta in volta il contenuto dell’incarico e la distanza che esso impone rispetto ai compiti degli amministratori [continua ..]


11. I compensi per prestazioni esterne alla funzione amministrativa

 La seconda fattispecie di pagamento dalla società ad uno o più dei propri amministratori sulla quale vorrei qui soffermarmi è quella riguardante prestazioni esterne ai compiti rientranti nella funzione amministrativa ed oggetto invece, come si è già detto in precedenza, di specifici contratti di mandato o di lavoro autonomo. Come già accennato, la ricostruzione di questa fattispecie richiede di accertare quando la prestazione (chiesta a e) resa da un componente del consiglio di amministrazione possa ritenersi ciò nonostante esterna alla funzione amministrativa e quindi da un lato non compresa fra i compiti che per legge l’amministratore è tenuto a svolgere in favore della società e dall’altro (e conseguentemente) meritevole di un autonomo pagamento, vale a dire diverso ed ulteriore rispetto a quello che la società riconosca, ai sensi dell’art. 2389, comma 1°, c.c., a tutti gli amministratori in quanto tali (prescindo perciò dal tema dell’amministratore-dipendente, dove il problema si sposta e si risolve sostanzialmente nella ricerca dell’elemento della subordinazione). La linea di demarcazione, agevole da tracciare in astratto, è invece di complessa individuazione in concreto e la difficoltà nasce dalla duplice considerazione che la funzione amministrativa nella società per azioni ha un perimetro molto vasto (ricomprendendo sia l’attività gestoria, sia quella organizzativa), per giunta ulteriormente ampliabile dall’autonomia statutaria, e che, pur essendo l’at­ti­vità gestoria rimessa in via esclusiva agli amministratori (art. 2380-bis, c.c.) e dunque caratterizzante il loro ufficio, il contenuto fattuale della stessa (l’individuazione, cioè, degli atti in cui si risolve) da un lato non è determinabile ex ante, né in via assoluta, dall’altro non è tipizzato (né potrebbe esserlo) dalla legge, rientrando invece nelle competenze della scienze aziendali. Ricercare nelle norme i criteri generali su cui fondare la selezione è dunque indagine non agevole, ma senz’altro opportuna e forse doverosa: perché (se mi si consente di ribadire considerazioni già svolte circa gli incarichi particolari) non sarebbe corretto (e forse neppure lecito) consentire che, grazie soltanto alla affermazione del consiglio di [continua ..]


12. (Segue). Criteri per il discernimento delle prestazioni esterne

Nella non frequente dottrina che ha prestato attenzione a questa peculiare fattispecie (e che non si affidi alla mera affermazione dell’estraneità delle prestazioni rispetto alle funzioni amministrative), sono sostanzialmente emersi due criteri di discernimento: l’uno che si fonda sugli speciali titoli o qualità professionali richiesti per quelle prestazioni; l’altro che invece fa leva sull’“occa­sio­nalità” della collaborazione richiesta. Entrambi i criteri non convincono. Non il primo per due motivi: perché gli speciali titoli o qualità professionali ben potrebbero costituire la ragione sottostante alla nomina di quella persona nel consiglio di amministrazione e le prestazioni conseguenti potrebbero dunque essere attese e compensate a mente dell’art. 2389, comma 1°, c.c.; e perché, al contrario, possono senz’altro esserci prestazioni esterne alla funzione amministrativa, che però non richiedano speciali titoli o qualità professionali. Non il secondo, perché se non si vuol cedere all’ipocrisia, la scelta di affidare una collaborazione esterna a chi fa parte del consiglio di amministrazione, trova generalmente in questa appartenenza (se non la sua causa) la sua precisa ragione e non una mera “occasione”: a seconda dei casi, poi, una ragione “meritevole” (si conoscono direttamente le qualità della persona; sono più facili le comunicazioni; si auspica un qualche “riguardo” in termini di attenzione o di costi) o “immeritevole” (compiacenza, convivenza, alleanze impropriamente attuate). Il criterio dell’“occasionalità”, inoltre, non convince anche sotto un altro punto di vista: perché, oggettivamente, la vicenda o i fatti in relazione ai quali può rivelarsi opportuna o necessaria una collaborazione esterna potrebbero essere (e normalmente sono) non isolati, ma continuativi (si pensi all’assistenza tributaria od al recupero dei crediti), e perché soggettivamente (e conseguentemente) nulla vieta di attribuire stabilmente (per un periodo di tempo più o meno lungo) ad un componente dell’organo amministrativo un incarico che comporti prestazioni esterne, specie quando la scelta è guidata dalle ragioni “meritevoli” di cui si è fatto cenno (non vi è insomma correlazione [continua ..]


13. (Segue). Ricerca in concreto e parametri di riferimento

La verità è che occorre rinunziare all’individuazione di una linea di demarcazione valida in assoluto: proprio perché la funzione amministrativa ha un contenuto variabile e non tipizzato, proprio perciò non è possibile dire, una volta per tutte, ciò che in essa è ricompreso e ciò che invece le è estraneo. La ricerca va dunque effettuata in concreto e con riferimento ad ogni specifica realtà societaria: ciò non significa, tuttavia, rinunziare a cercare parametri generali cui affidarsi e neppure che non si possa poi, anche sulla base dell’esperienza, provare a considerare unitariamente fattispecie caratterizzate da indici analoghi o similari. Ci si può fondare, a mio avviso, su due ordini di criteri di valutazione, uno oggettivo, l’al­tro soggettivo. Da un lato, infatti, potranno considerarsi, per individuare in concreto il perimetro ed il contenuto della funzione amministrativa (e più in particolare di quella gestoria), l’at­tività esercitata dalla società (non però quella indicata nella clausola statutaria dedicata al­l’oggetto sociale, ma quella effettivamente svolta), le dimensioni della società (e della o delle aziende di cui è titolare), la sua articolazione territoriale, il mercato di riferimento, la governance e le modalità amministrative adottate, la presenza o meno di direttori generali, le caratteristiche dell’organizzazione interna e così via; dall’altro lato, non potrà farsi a meno di tener presente, come si è già accennato, le specifiche qualità personali e professionali e l’esperienza delle persone chiamate a comporre il consiglio di amministrazione. Direi anzi, benché anche qui possa giocare un ruolo importante la business judgment rule e dunque la discrezionalità dell’azione imprenditoriale, che proprio la coerenza fra i due ordini di criteri innanzi richiamati possa costituire la chiave di volta per stabilire, in concreto, ciò che esula dalla funzione per legge rimessa agli amministratori di una s.p.a.: perché, fondamentalmente, la nomina di un qualcuno in un consiglio di amministrazione di una s.p.a., tenuto conto della delicatezza e della difficoltà dell’ufficio, nonché della rilevanza (anche “sociale”) delle decisioni e degli [continua ..]


14. La disciplina societaria degli incarichi esterni. Applicazione dell'art. 2391 c.c.

Bisogna ora affrontare il tema della disciplina degli incarichi esterni. All’esecuzione degli stessi ed ai diritti e doveri delle parti si applicherà naturalmente, in linea generale, la disciplina dei tipi contrattuali (mandato, lavoro autonomo, opera intellettuale) in cui gli incarichi in esame di volta in volta si risolveranno. La disciplina societaria, viceversa, riguarderà prevalentemente i momenti dell’attribuzione e del pagamento, vale a dire le relative decisioni da assumere, appunto, in sede societaria e quindi, normalmente (atteso il disposto dell’art. 2380-bis, comma 1°, c.c.), con delibera del consiglio di amministrazione. Non può allora dubitarsi, a mio avviso, dell’applicazione dell’art. 2391 c.c. e tuttavia anche qui può sdrammatizzarsi l’aspetto relativo alla “notizia” (comma 1°), per le stesse ragioni esposte in tema di particolari incarichi interni: è in gioco qui non solo e non tanto l’interesse dell’amministratore cui l’incarico (qui esterno) dovrebbe essere affidato, quanto e soprattutto quello sociale, sicché tutti i componenti dell’organo gestorio conoscono (e devono conoscere) i termini della decisione da assumere e sono (devono essere) in grado di valutare se risponde o meno all’interesse della società (sussista o meno anche quello del collega prescelto) conferire quel tipo di incarico e conferirlo a quella persona. Di nuovo, invece, mi sembra centrale la “motivazione” di cui all’art. 2391, comma 2°, c.c., al fine di verificare l’effettività e la genuinità dell’interesse sottostante all’incarico: bisognerà invero che da essa emergano (così potendosi nella specie compendiare “le ragioni e la convenienza” della delibera) sia la tipologia dei compiti da affidare e la loro estraneità rispetto alla funzione amministrativa, sia i motivi della scelta del collega consigliere anziché di altri e magari di uno dei (presumibilmente) tanti o tantissimi soggetti in possesso di analoghi titoli professionali (la platea dei “papabili” sarà ovviamente ancora più ampia qualora non occorrano specifici titoli per svolgere quell’incarico), sia infine le condizioni (specie quelle economiche) che per quell’incarico il consigliere sia disposto ad accettare. Questo non vuol dire che si [continua ..]


15. (Segue). Inapplicabilità del comma 3° dell'art. 2389 c.c.

 Dunque, il conferimento degli incarichi esterni è di competenza consiliare e di competenza consiliare sono anche le decisioni sul pagamento (l’accettazione del quantum e delle altre condizioni; l’effettivo versamento degli eventuali acconti e del saldo del corrispettivo dovuto). Ciò in applicazione, come si è accennato, piuttosto del criterio generale di cui all’art. 2380-bis, comma 1° che non della norma specifica di cui all’art. 2389, comma 1°. Invero, l’art. 2389, comma 1°, riguarda molto evidentemente il momento dell’instaurazione del rapporto organico, come è reso evidente dal riferimento alla nomina degli amministratori, che è appunto l’atto tipico (art. 2383 c.c., sin dalla sua rubrica) mercè il quale (in uno alla successiva accettazione) qualcuno assume l’ufficio di amministratore della società. Proprio perché di norma l’instaurazione del rapporto organico di amministrazione spetta all’assemblea (art. 2383, comma 1°, c.c.), l’art. 2389, comma 1°, prevede che la stessa assemblea (ma in alternativa al consiglio di amministrazione) possa altresì stabilire il compenso da attribuire agli amministratori nominati. Di conseguenza, escluderei ogni competenza dell’assemblea in tema di conferimento ed ancor più di pagamento degli incarichi esterni: non è applicabile l’art. 2389, comma 1°, poiché non si versa in tema di instaurazione e remunerazione di un rapporto organico e si è invece, in presenza di un tipico atto di gestione, spesso anche di carattere routinario, restando irrilevante su questo piano che l’incaricato sia anche componente dell’organo amministrativo. A maggior ragione si deve escludere che il “tetto” eventualmente stabilito dall’assemblea a mente dell’art. 2389, comma 3°, seconda parte (la prima parte del comma 3° riguarda gli amministratori “investiti di particolari cariche” e dunque, come è chiaro, tutt’altra vicenda) per “la remunerazione di tutti gli amministratori” possa ricomprendere anche quel che occorrerà pagare per gli incarichi esterni ora in esame: non solo perché qui si considera l’incaricato (che è anche amministratore) in quanto professionista o comunque portatore di determinate competenze e non come [continua ..]


16. (Segue). Il ruolo dei sindaci e dei comitati endoconsiliari. Inapplicabilità del comma 2° dell'art. 2389 c.c.