Rivista di Diritto SocietarioISSN 1972-9243 / EISSN 2421-7166
G. Giappichelli Editore

indietro

stampa articolo indice fascicolo leggi articolo leggi fascicolo


Brevi considerazioni in tema di (ir)ragionevolezza del compenso degli amministratori ed annullabilità della relativa delibera (nota a Cass., 3 dicembre 2008, n. 28748) (di Ignazio M. Cerasa)


CORTE DI CASSAZIONE, 3 dicembre 2008, n. 28748 – Vitrone Presidente – Rodorf Relatore – M.A.M.M. c. R.A. e R.C., SAT s.r.l.

Società – Società per azioni – Determinazione compenso amministratori – Delibera assembleare – Conflitto di interessi – Eccessività – Pregiudizio interesse sociale – Annullabilità

(Artt. 2373, 2377, 2389 c.c.)

È annullabile per conflitto di interessi la delibera assembleare di determinazione del compenso degli amministratori, assunta con il voto determinante del socio amministratore in conflitto di interessi, allorché la retribuzione sia eccessiva e, come tale, pregiudichi l’interesse sociale.

Ciò indipendentemente dalla circostanza che il contenuto della delibera discenda da patto parasociale. (1)

Il compenso dell’amministratore non deve essere eccessivo in relazione al fatturato annuo e alla dimensione economica e finanziaria dell’impresa sociale. (2).

 

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

I sigg.ri A. e R.C., già soci della G.M.S. s.r.l. (in seguito divenuta SAT s.r.l.), unitamente alla M.L.G. s.r.l., alla quale la loro partecipazione sociale era stata frattanto ceduta, con atto notificato il 19 e 22 ottobre del 2000 citarono in giudizio dinanzi al Tribunale di Alessandria la medesima G.M.S. ed i restanti SOCI di questa, sigg.ri A. e M.M.. Gli attori riferirono che, con Delib. assembleare assunta in data 22 luglio 2000, grazie soltanto al voto favorevole dei predetti sigg.ri M., era stato attribuito a questi ultimi, per la loro carica di amministratori della società, un compenso del tutto sproporzionato, ammontante a L. 300.000.000 per il sig. M. A. ed a L. 30.000.000 per la sig.ra M.M..

Chiesero quindi che la menzionata deliberazione assembleare fosse annullata per conflitto di interessi e che i sigg.ri M. fossero condannati a restituire il compenso percepito.

Instaurato il contraddittorio, i convenuti sigg.ri M. (nella contumacia della società G.M.S.) si difesero facendo riferimento al contenuto di un accordo transattivo, da essi stipulato il 3 luglio 2000 con i sigg.ri R. per definire i dissidi insorti in seno alla G.M.S., nel quale, oltre alla futura cessione a questi ultimi delle quote sociali dei medesimi sigg.ri M., era stato previsto il diritto di costoro di prelevare un certo numero di ben specificati crediti della società e si era espressamente stabilito che dovesse essere convocata un’assemblea dei soci per deliberare l’attribuzione ai predetti sigg.ri M. di un compenso pari all’ammontare dei crediti da incassare; ciò che, appunto, era accaduto.

I convenuti, pertanto, proposero anche domanda riconvenzionale volta ad ottenere la condanna degli attori e della società G.M.S. al pagamento di quanto ancora loro dovuto in esecuzione della citata transazione del 3 luglio 2000 e della deliberazione assembleare del 22 luglio 2000.

Il Tribunale rigettò la domanda con cui gli attori avevano chiesto la condanna dei convenuti alla restituzione delle somme percepite a titolo di compenso per l’amministra­zione, osservando che tale pretesa restitutoria avrebbe potuto essere esercitata soltanto dalla società G.M.S.. Accolse invece la domanda di annullamento della deliberazione assembleare impugnata, e respinse la domanda riconvenzionale proposta dai convenuti.

Il gravame proposto dai sigg.ri M. fu rigettato dalla Corte d’appello di Torino con sentenza depositata il 22 dicembre 2004.

Detta corte ritenne che il collegamento ravvisabile tra l’attribuzione del compenso agli amministratori sigg.ri M. da parte dell’assemblea, in cui gli stessi sigg.ri M. avevano votato con effetti determinanti, e la transazione precedentemente stipulata tra i soci, stesse a dimostrare come la deliberazione assembleare era stata strumentalmente diretta a realizzare gli scopi personali perseguiti dai votanti, ma in danno della società. Aggiunse che, in ogni caso, il deliberato compenso degli amministratori appariva effettivamente sproporzionato, in relazione alla dimensione economica e finanziaria dell’impresa sociale, essendo pari al 30% del fatturato annuo. Quanto, poi, alla domanda riconvenzionale, la corte torinese osservò che, per riconoscimento degli stessi appellanti, la reiezione di tale domanda non poteva non essere consequenziale all’annulla­mento della deliberazione assembleare di cui s’è detto; e che, comunque, la pretesa creditoria dei sigg.ri M. era carente di adeguato fondamento probatorio, non essendo stato prodotto in giudizio il contratto definitivo di cessione delle quote sociali sul quale essa si basava.

Per la cassazione di tale sentenza hanno proposto ricorso i sigg.ri M., formulando quattro motivi di censura, illustrati poi anche con memoria.

Hanno resistito, con separati controricorsi, la società M.L.G. (frattanto divenuta s.p.a.) ed il sig. R.A..

Nessuna difesa hanno svolto in questa sede gli altri intimati.

 

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Col primo motivo i ricorrenti lamentano la violazione degli artt. 1362 e 1363 c.c., oltre che vizi di motivazione dell’impugnata sentenza. Essi sostengono che la corte d’appello, ravvisando nella deliberazione assembleare attributiva del compenso agli amministratori il perseguimento di un interesse estraneo alla società, e nel trarre tale convincimento dal tenore letterale di un passaggio della transazione precedentemente sottoscritta dai soci, sarebbe incorsa in errore, ed avrebbe comunque motivato in modo perplesso e contraddittorio siffatto convincimento. Secondo i medesimi ricorrenti, infatti, l’interpretazione sistematica di detta transazione dimostrerebbe come l’impugnata deliberazione fosse sì finalizzata a consentire ai sigg.ri M. l’incasso di alcuni crediti che la società vantava nei confronti di terzi, ma non perché si volesse accollare alla società una parte del prezzo di vendita delle quote degli stessi sigg.ri M., bensì come semplice modalità di liquidazione del compenso a costoro spettante per la loro pregressa attività di amministrazione, in un contesto nel quale essi si accingevano ad uscire dalla compagine sociale ed occorreva definitivamente fissare le caratteristiche ed il contenuto della situazione patrimoniale della società.

Contraddittoria con la ricostruzione operata sarebbe poi – sempre secondo i ricorrenti – la successiva affermazione dell’impugnata sentenza secondo cui i sigg.ri M. avrebbero "furbescamente" anticipato la convocazione dell’assemblea per tentare di riscuotere una parte del prezzo di cessione delle loro quote sociali prima della scadenza contrattualmente pattuita.

2. Il secondo motivo di ricorso, con cui ci si duole dalla violazione di molteplici disposizioni di legge e nuovamente di vizi di motivazione, è volto a sostenere che, ove pure la deliberazione assembleare di cui si discute fosse affetta dal vizio di eccesso di potere ravvisato dalla corte di merito, non ne deriverebbe altro che la sua annullabilità, come tale però non rilevabile d’ufficio. Ma, avendo gli attori originariamente dedotto solo che detta deliberazione era invalida per essere stata assunta dai soci di maggioranza in situazione di conflitto di interessi con la società, e non essendo consentita in corso di causa alcuna mutatio libelli in difetto di accettazione del contraddittorio ad opera della controparte, non avrebbero potuto il tribunale, prima, e la corte d’appello, poi, accogliere la domanda sotto il diverso profilo dell’asserito eccesso di potere.

D’altronde, sempre secondo i ricorrenti, essendo la deliberazione in esame coerente con quanto concordemente stabilito da tutti i soci col patto parasociale contenuto nella transazione già più volte menzionata, e non risultando in alcun modo pregiudicata la posizione dei terzi creditori (come l’analisi dei dati di bilancio svolta nelle difese di merito, ma trascurata dalla corte d’appello, varrebbe a confermare), nessun vizio né di eccesso di potere né per conflitto di interessi sarebbe in realtà ravvisabile nella specie.

3. Violazioni di legge e vizi di motivazione sono denunciati anche nel terzo motivo del ricorso, che si sofferma sull’asserita sproporzione tra l’ammontare del compenso attribuito dall’assemblea agli amministratori ed i valori in gioco nella società. Sproporzione che, a parere dei ricorrenti, erroneamente la corte d’appello ha desunto dal paragone tra il compenso medesimo ed il fatturato annuo dell’impresa, giacché detto compenso si riferiva non già ad un solo anno bensì ad un triennio di attività. Apodittica sarebbe, inoltre, l’affermazione dell’impugnata sentenza secondo cui il compenso era eccessivo se posto a raffronto con "l’importanza economica e finanziaria della società". La corte d’appello avrebbe invece dovuto tener conto del fatto che il deliberato compenso era coerente con quanto dalla totalità degli stessi soci era stato previsto nel menzionato patto parasociale, alla luce del quale si sarebbe anzi dovuto escludere che i sigg.ri R. avessero un adeguato interesse ad impugnare la deliberazione assembleare in questione.

4. L’ultimo motivo di ricorso, anch’esso destinato a denunciare vizi di motivazione dell’impugnato provvedimento, si riferisce al mancato accoglimento della domanda riconvenzionale a suo tempo proposta dai sigg.ri M., i quali lamentano che la corte abbia frainteso il contenuto delle loro difese in sede di merito e sostengono che il credito di cui era stato chiesto il pagamento era ampiamente provato dalla documentazione prodotta in causa.

5. I primi tre motivi, che possono essere esaminati congiuntamente, non colgono assolutamente nel segno.

5.1. È anzitutto opportuno chiarire (anche in tal senso rettificando alcune imprecisioni che emergono dal testo della sentenza impugnata e dallo stesso ricorso) che la deliberazione assembleare contestata dagli attori (attuali controricorrenti) non è stata dichiarata nulla, bensì annullata dal tribunale, perché adottata in una situazione di conflitto di interessi. La corte d’appello ha confermato tale decisione, espressamente ribadendo in motivazione che detta deliberazione fu diretta al soddisfacimento di interessi extrasociali, in danno della società. È quindi indiscutibile che la fattispecie ravvisata da entrambi i giudici di merito sia riconducibile alla previsione dell’art. 2373 c.c..

5.2. Ciò premesso, si deve ricordare che, esclusa l’appli­cazione analogica del secondo comma dell’art. 2373 c.c., la prevalente dottrina, gran parte della giurisprudenza di merito e la giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. 21 marzo 2000, n. 3312) non sono inclini a considerare annullabile per conflitto d’interessi la deliberazione determinativa del compenso dell’amministratore per il mero fatto che essa sia stata adottata col voto determinante espresso dallo stesso amministratore che abbia preso parte all’assemblea in veste di socio, se non ne risulti altresì pregiudicato l’inte­resse sociale. E lo stesso principio – si noti – è stato applicato anche in un caso in cui la validità di una siffatta deliberazione era stata vagliata sotto il diverso profilo del­l’even­tuale vizio di eccesso di potere, ritenendosi comunque essenziale l’accertamento della sproporzione del compenso attribuito (v. Cass. 17 luglio 2007, n. 15942).

In questa ottica, il riferimento alla transazione che ha preceduto la deliberazione impugnata ha unicamente il significato di conferma dell’esistenza di un interesse extrasociale sottostante alla delibera di determinazione del compenso; e tale significato appare del tutto logicamente individuato dall’impugnata sentenza, la cui motivazione non può dirsi sul punto né perplessa né contraddittoria. Il fatto stesso che detta attribuzione di compenso fosse menzionata nella transazione mediante la quale si era convenuta la cessione delle quote dei soci-amministratori, e quindi la loro uscita dalla società, è stato logicamente considerato dalla corte territoriale idoneo a far reputare che quell’at­tribuzione di compenso aveva in realtà formato oggetto del bilanciamento degli interessi alla cui composizione la transazione era volta: cioè che la determinazione del compenso non era tanto funzionale ai compiti amministrativi svolti dai sigg.ri M., quanto alla definizione del diverso assetto pro­prietario che la società andava ad assumere. Che poi la determinazione del compenso sia stata o meno “furbescamente” anticipata è questione affatto marginale nell’eco­nomia della motivazione e della conseguente decisione as­sunta dal giudice d’appello.

5.3. È poi da escludere, per quanto già dianzi rilevato, che nel caso in esame si possa parlare di rilievo d’ufficio della nullità della deliberazione, e neppure di mutatio libelli. È la contrarietà della deliberazione in discorso all’in­teresse sociale – non la prevaricazione in danno della minoranza l’elemento viziante rilevato dalla corte d’appello, la cui statuizione non si discosta perciò affatto dal petitum originario della causa.

L’accertamento dell’irragionevolezza del compenso (di cui infra), che costituisce fattore decisivo di illegittimità della deliberazione, sta d’altronde a dimostrare che il patrimonio sociale fu pregiudicato; e tanto basta a legittimare i soci dissenzienti all’esercizio dell’azione impugnatoria.

Né ha pregio l’assunto secondo il quale la conformità della deliberazione stessa al contenuto degli accordi parasociali sottoscritti anche dai soci di minoranza escluderebbe l’interesse di costoro all’impugnazione, implicando una promessa del fatto del terzo il cui inadempimento ricadrebbe sugli stessi promettenti (come si afferma nel terzo motivo di ricorso): perché, se anche il patto parasociale davvero contenesse la promessa del fatto della società, e non soltanto l’impegno a votare in un determinato modo in assemblea, una promessa implicante l’attribuzione agli amministratori– soci di un compenso sproporzionato, al fine di attribuire loro valori patrimoniali appartenenti alla stessa società, si porrebbe in evidente antitesi con le regole inderogabili che disciplinano i flussi economici tra la società di capitali ed i propri soci e risulterebbe, perciò, sicuramente nulla (ed in passato, infatti, è stata esclusa la compromettibilità in arbitri dell’azione con la quale un socio aveva chiesto l’annullamento della deliberazione con cui ai soci di maggioranza, aventi la veste di amministratori, venivano attribuiti compensi sproporzionati e non coerenti con la situazione economica della società, proprio in quanto una simile controversia concerne la violazione di norme poste a tutela di un interesse non disponibile: Cass. 30 marzo 1998, n. 3322).

5.4. La questione dell’eccessività del compenso è come s’è detto – centrale nella fattispecie in esame.

Essa, inevitabilmente, si sostanzia in un giudizio di valore, in quanto tale non sindacabile in sede di legittimità. A tal proposito autorevole dottrina ha parlato di un “giudizio di legittimità attraverso il merito”, per segnalare appunto come al giudice sia affidata una valutazione che è diretta non ad accertare, in sostituzione delle scelte istituzionalmente spettanti all’assemblea dei soci, la convenienza o l’opportunità della deliberazione per l’interesse della società, bensì ad identificare, nell’ambito di un giudizio di carattere relazionale, teso a verificare la pertinenza, la proporzionalità e la congruenza della scelta, un eventuale motivo di illegittimità desumibile dalla irragionevolezza della misura del compenso stabilita in favore dell’amministratore.

La motivazione della corte d’appello in argomento, ancorché sintetica, si muove appunto lungo tali direttive, e non appare né monca né intrinsecamente contraddittoria. Il raffronto tra il compenso ed il fatturato annuo è in se stesso perfettamente logico, e ad esso nulla toglie il fatto che si tratti di un compenso determinato su base triennale. Del pari logico è l’aver fatto riferimento al più generale parametro della dimensione economica e finanziaria dell’impresa sociale, che naturalmente si riflette sulla dimensione dell’impegno richiesto a chi deve gestirla; né la mancata specifica indicazione, in termini numerici, della suaccennata dimensione – che neppure gli stessi ricorrenti affermano, d’altronde, essere di particolare entità – vale ad inficiare la motivazione, essendo a tal fine sufficiente che il giudice abbia dato atto di aver preso in considerazione quel parametro.

5.5. Privo di consistenza è anche l’ultimo motivo del ricorso, che non evidenzia vizi di motivazione della sentenza impugnata, quanto piuttosto sollecita un diverso giudizio sulle risultanze istruttorie acquisite, avendo la corte territoriale correttamente argomentato che, in mancanza di prova dell’avvenuto perfezionamento dell’accordo traslativo delle quote sociali, gli appellanti non potevano pretendere la corresponsione del prezzo. La richiesta di accertare che, viceversa, l’anzidetta prova avrebbe ben potuto esser ricavata dalle risultanze di causa implica uno sconfinamento nelle valutazioni di merito in questa sede non ammissibile.

6. Il ricorso deve, pertanto, essere rigettato, con conseguente condanna dei ricorrenti al rimborso, in favore dei controricorrenti (la cui posizione difensiva può essere a tal fine unitariamente considerata), delle spese del giudizio di legittimità, che si liquidano in Euro 5.000,00 (cinquemila) per onorari e Euro 200,00 (duecento) per esborsi, oltre alle spese generali ed agli accessori di legge.

P. Q. M.

La corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 5.000,00 (cinquemila) per onorari e Euro 200,00 (duecento) per esborsi, oltre alle spese generali ed agli accessori di legge.

 

(1-2) Brevi considerazioni in tema di (ir)ragionevolezza del compenso degli amministratori ed annullabilità della relativa delibera

 

SOMMARIO:

1. Il caso - 2. Normativa di riferimento - 3. Orientamenti di dottrina e giurisprudenza - 4. Commento - NOTE


1. Il caso

Con atto di citazione notificato il 19/22 ottobre 2000 alcuni soci della s.r.l. G.M.S. convenivano in giudizio quest’ultima ed i restanti soci per sentir annullare, per conflitto di interessi, l’assemblea del 22 luglio 2000, con la quale era stato deliberato il compenso degli amministratori, ritenuto eccessivo; delibera assunta con il voto determinante dei soci-am­mi­nistratori destinatari del compenso. I convenuti eccepivano che la delibera era la conseguenza di un accordo transattivo, con il quale era stato accertato il loro diritto di credito ed era stata sta­bilita l’attribuzione di un compenso pari all’am­mon­tare dei crediti, dei quali, in via riconvenzionale, chie­devano il pagamento. Il Tribunale, rigettate tutte le diverse domande dirette e riconvenzionali, ha accolta la domanda principale ed ha annullato la delibera assembleare ai sensi e per gli effetti dell’art. 2373 c.c. L’appello inoltrato dai convenuti è stato respinto dalla Corte di Appello di Torino, che ha sottolineato la strumentalità della delibera assembleare, diretta a realizzare gli scopi personali dei votanti e l’effettiva sproporzione del compenso deliberato rispetto al fatturato annuo ed alla dimensione economica e finanziaria. Avverso la sentenza di secondo grado è stato proposto ricorso in Cassazione.


2. Normativa di riferimento

Ai sensi del combinato disposto degli artt. 2373 e 2377 c.c., così come novellati dalla riforma societaria, è annullabile la delibera assembleare di una società per azioni, allorché la stessa sia stata adottata con il voto determinante di un socio in conflitto di interessi, a condizione che la delibera stessa arrechi pregiudizio all’interesse sociale. Con la delibera in esame i soci di una società per azioni avevano stabilito, così come previsto dall’art. 2389 c.c., il compenso degli amministratori e la delibera era stata adottata con il voto determinante di un socio amministratore; compenso ritenuto eccessivo e, come tale, arrecante pregiudizio all’interesse sociale.


3. Orientamenti di dottrina e giurisprudenza

Sul problema se il compenso degli amministratori, fissato in modo eccessivo dall’assemblea di una società per azioni, integri gli estremi del pregiudizio dell’interesse sociale e, quindi, legittimi l’impugna­tiva ex art. 2373 c.c. a fronte di voto determinante in conflitto di interessi, dottrina e giurisprudenza evidenziano una evoluzione nella direzione dell’eccesso del compenso come elemento costitutivo della fattispecie illegittima. Per un primo orientamento, ai fini dell’impu­gnativa di una delibera assembleare che determinava l’emolumento al socio amministratore si è ritenuto determinante il solo voto di quest’ultimo in conflitto di interessi perché la delibera fosse di per sé idonea ad arrecare danno alla società [1], configurandosi così le condizioni poste per l’impugnazione ai sensi dell’art. 2373 c.c. Altro orientamento ha posto in rilievo la meritevolezza di un interesse comune al­l’am­ministratore e alla società per garantire il giusto impegno allo svolgimento della funzione amministrativa [2], ammettendo la possibilità che il socio amministratore possa partecipare alla deliberazione relativa al proprio compenso, anche nel caso in cui il suo voto risulti determinante; ai fini dell’impu­gna­tiva si è ritenuto necessario il verificarsi del pregiudizio sociale, specificamente di fronte ad un compenso irragionevolmente elevato [3]. Ancora, ai fini dell’impugnazione si è assunto l’irragionevolezza del compenso [4] come presupposto necessario, ed anzi è stata esclusa l’automatica sussistenza di un conflitto di interessi a fronte della mera partecipazione al voto dell’amministratore, anche con voto determinante, ritenendosi comunque essenziale il ricorrere dell’ingiusta sproporzione del compenso deliberato [5]. Dall’analisi degli orientamenti citati risulta che un compenso eccessivo è stato individuato come l’ele­mento essenziale della fattispecie illegittima, laddove il voto in situazione di conflitto di interessi ha assunto un rilievo di per sé non idoneo a configurare un pregiudizio alla società. La sentenza in commento rappresenta un ulteriore passo nell’analisi della congruità di valore del compenso agli amministratori. La pronuncia, rifacendosi espressamente [continua ..]


4. Commento

Alla luce di quanto osservato appare che gli sforzi prodotti a livello normativo ed interpretativo siano maggiormente tesi a configurare un sistema di cautele preventive, di trasparenza e di indirizzo per la determinazione dei compensi. Si avverte però correttamente che le regole ed i criteri per garantire la ragionevolezza del compenso non devono essere lasciati solo all’interpretazione, bensì devono essere esplicitati con norma primaria che precisi il concetto di “prestazione” ed i criteri per la sua valutazione [17]. Una normativa che identifichi una precisa e puntuale griglia valutativa, ed in questo senso la sentenza acquista ulteriore significato, evidenziando la necessità di agganciare la retribuzione dell’amministratore a precisi parametri proporzionati alla performance, anche nell’ottica di una chiara ed univoca interpretazione processuale. Gli azionisti e gli organi di controllo avrebbero così a disposizione elementi valutativi di riferimento ex lege e l’esistenza di una norma consentirebbe, o costringerebbe, il giudice ad entrare nel merito dell’accordo o della valutazione. In difetto di apposita normativa si potrebbe applicare al contratto la normativa sui vizi del consenso e sull’eccessiva onerosità e, più in generale, sull’inter­pretazione del contratto, così come si potrebbero invocare, ricorrendone i presupposti, le responsabilità degli amministratori che abbiano perseguito obiettivi scorretti sotto il profilo gestionale [18].    


NOTE
Fascicolo 4 - 2010