Rivista di Diritto SocietarioISSN 1972-9243 / EISSN 2421-7166
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Responsabilità degli amministratori e soggettività delle società di persone (nota a Cass., 17 gennaio 2007, n. 1045 e 25 luglio 2007, n. 16416) (di Rosario Criscuolo  )


CORTE DI CASSAZIONE, 17 gennaio 2007, n. 1045 – De Musis Presidente – Rordorf Estensore – Pozzi c. Nencini e altro

 

Società di capitali – Amministratori – Responsabilità in genere – Azione del socio e del terzo danneggiato – Danni arrecati ai soci dall’amministratore – Responsabilità personale dell’amministratore – Sussistenza – Principio estensibile alle società di persone

Società di capitali – Amministratori – Responsabilità in genere – Comportamenti illeciti degli amministratori – Onere della prova dell’attore – Contenuto

 

(Artt. 2260, 2392, 2395, 2697 c.c.)

 

Posto che nelle società di persone (e, con esse, nelle società di fatto) è configurabile la responsabilità dell’amministratore nei confronti dei singoli soci oltre che nei confronti della società, l’attore che esperisca azione di responsabilità sociale nei confronti dell’amministratore al cospetto di comportamenti che non siano in sé vietati dalla legge o dallo statuto ha l’onere di provare non soltanto il compimento delle condotte censurate, ma anche gli elementi dai quali sia possibile dedurre la violazione dei doveri di lealtà e di diligenza (1).

 

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Omissis Il sig. P.R., con atto notificata nel gennaio del 1990, citò in giudizio dinanzi al Tribunale di Prato i sigg. F. P. e N.M., che con lui erano stati soci della società di fatto Filatura Silvia di Pozzi Renato & C. (in prosieguo indicata solo come Filatura Silvia), ma ne erano poi receduti.

L’attore lamentò che i convenuti avessero mal gestito la società, appropriandosi di somme ad essa spettanti e concedendo indebite agevolazioni commerciali ad una società terza di cui erano partecipi. Chiese perciò al tribunale che i convenuti medesimi fossero condannati al risarcimento dei danni in favore di esso attore.

Il tribunale accolse la domanda proposta nei confronti del sig. F., che condannò al pagamento di L. 201.457.080 (oltre agli accessori ed alle spese), ma non anche quella rivolta contro il sig. N., che ritenne estraneo ai fatti di mala gestio lamentati dall’attore.

La Corte d’appello di Firenze, pronunciandosi sui contrapposti gravami delle parti, con sentenza depositata il 6 marzo 2003, in parziale riforma della decisione di primo grado, ridusse a L. 7.205.700 l’entità della condanna al risarcimento dei danni inflitta al sig. F. e condannò il sig. P. al rimborso delle spese di entrambi i gradi del giudizio in favore del sig. N.

Osservò in particolare la corte fiorentina – quanto ai profili che ancora in questa sede interessano – che l’azione era stata proposta dall’attore per conseguire il risarcimento di danni da lui personalmente subiti, onde doveva inquadrarsi nella previsione dell’art. 2395 c.c. e non in quella dell’art. 2393 c.c. (norme implicitamente ritenute applicabili anche alle società di persone);

che tale inquadramento avrebbe potuto aver rilievo, limitatamente all’addebito consistente nell’aver concesso ingiustificati benefici ad una società terza, solo ai fini della decorrenza della prescrizione; che, peraltro, quell’adde­bito non era sorretto da adeguate evidenze probatorie, in quanto il mero fatto di aver praticato ad un cliente condizioni di favore rispetto alla prassi commerciale non basta ad integrare un’ipotesi di mala gestio, ove non risulti provata la concreta possibilità di trattare invece i medesimi affari con altro cliente a condizioni più favorevoli; che pertanto appariva superfluo ammettere le prove testimoniali articolate dalla difesa del sig. F. per dimostrare che il sig. P. era stato sempre al corrente della conduzione degli affari sociali e mai vi si era opposto, trattandosi, del resto, di circostanza abbastanza ovvia, dal momento che il medesimo sig. P. era coamministratore della società.

Avverso tale sentenza ricorre per cassazione il sig. P., prospettando quattro motivi di doglianza.

Ha partecipato alla discussione, pur senza depositare controricorso, il difensore delle sigg.re N.P.M., S., So. e Fa.Sa., eredi del sig. F., deceduto dopo la notifica del ricorso.

Nessuna difesa ha svolto invece in questa sede il sig. N.

 

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Invia preliminare deve dichiararsi l’inammissibilità del ricorso proposto nei confronti del sig. N. Egli infatti, nei due gradi di merito, è stato assolto da ogni domanda contro di lui avanzata, ma è stato evocato dal ricorrente anche nel presente giudizio di legittimità senza, peraltro, che sia stata formulata alcuna censura riferibile al capo di sentenza che specificamente lo riguarda.

2. È invece certamente ammissibile il ricorso proposto nei confronti del sig. F., ricorso col quale il sig. P. lamenta tanto violazioni di legge – e precisamente dell’art. 2697 c.c. (primo e terzo motivo), artt. 115 e 116 c.p.c. (terzo motivo), artt. 2392 e 2395 c.c. (quarto motivo) – quanto vizi di motivazione dell’impugnata sentenza su punti decisivi del contendere (secondo e terzo motivo).

3. Tra i diversi profili di doglianza in tal modo prospettati, conviene prendere le mosse da quello esposto nel quarto motivo, che attiene all’inquadramento giuridico della fattispecie in esame e consente perciò alcune puntualizzazioni logicamente preliminari.

Si tratta, peraltro, di una doglianza inammissibile.

S’è già ricordato in narrativa come la corte territoriale abbia ricondotto l’azione risarcitoria proposta dal sig. P., socio di una società di fatto in precedenza costituita con i convenuti, alla previsione dell’art. 2395 c.c., dissentendo sul punto dalla valutazione del tribunale, che vi aveva invece scorto un’azione proposta ai sensi dell’art. 2393 c.c.

La premessa logica di entrambi tali decisioni è, ovviamente, quella per cui, costituendo le società di persone pur sempre un centro di imputazione di situazioni giuridiche distinte da quelle dei soci, ancorché dette società non siano dotate di autonoma personalità giuridica, è configurabile con riguardo ad esse una responsabilità degli amministratori nei confronti dei singoli soci, oltre che verso la società, in termini sostanzialmente analoghi a quanto prevedono, in materia di società per azioni, i citati artt. 2393 e 2395 c.c. (cfr., in tal senso, Cass. 28.03.1996, n. 2846). Su tale premessa, che il ricorrente non mette in discussione, non occorre ulteriormente soffermarsi.

Neppure la conclusione cui è pervenuta la corte d’ap­pello in ordine alla riconducibilità della fattispecie in esame alla figura dell’azione di responsabilità proposta contro gli amministratori sociali dal socio per il risarcimento di danni da lui direttamente subiti (ex art. 2395, cit.) è censurata dal ricorrente (che peraltro afferma trattarsi di questione scarsamente meritevole di attenzione);

né dall’intimato, il quale in questa sede si è limitato a confutare nella discussione orale gli argomenti dedotti dalla controparte.

Esula perciò dall’ambito del presente giudizio lo stabilire se l’affermazione della corte d’appello su questo punto sia o meno corretta, pur essendo evidenti i riflessi che essa ha sulla legittimazione stessa dell’attore, giacché anche e proprio al fine di accertare tale legittimazione la medesima corte d’appello si è espressamente pronunciata sulla natura dell’azione, nei termini sopra ricordati, ed, in difetto d’impugnazione, si è formato al riguardo un giudicato interno non più rimuovibile.

In effetti, ciò di cui il ricorrente ora si duole non è, come impropriamente indicato nell’intestazione del motivo di ricorso, la violazione dei citati artt. 2393 e 2395 c.c., quanto piuttosto il fatto che, nel qualificare l’azione di responsabilità esperita come riferibile alla seconda di tali norme, la corte fiorentina abbia fatto riferimento (oltre che al già accennato tema della legittimazione) anche all’inci­denza che tale qualificazione avrebbe potuto avere sull’ec­ce­pita prescrizione di detta azione. Incidenza che, viceversa, secondo il ricorrente non vi sarebbe. A suo dire, in un caso come quello in esame, si dovrebbe infatti attribuire natura contrattuale anche all’azione di responsabilità per danno diretto del socio, e perciò ritenere che anche tale azione sia soggetta al termine ordinario di prescrizione decennale.

Ma, prospettata in questo modo, la doglianza risulta – come si anticipava – inammissibile.

La corte d’appello ha accennato al tema della prescrizione in forma di mero obiter dictum, senza in alcun modo statuire sulla relativa eccezione e neppure sulla durata del relativo termine; ma si è limitata ad affermare, con specifico riguardo al più grave degli addebiti mossi dall’attore agli amministratori convenuti, che la riconducibilità dell’azione al parametro dell’art. 2395 c.c. (anziché 2393 c.c.) avrebbe potuto avere in astratto rilevanza “in ordine al momento di decorrenza della eccepita prescrizione”.

Tuttavia, questa rilevanza in concreto la questione poi non la ha avuta affatto, nell’economia dell’impugnata sentenza, giacché la medesima corte d’appello (non importa a questi fini se a torto o a ragione) ha reputato assorbente la considerazione dell’infondatezza nel merito di quell’adde­bito, e solo su questo ha deciso. Donde il carattere inammissibilmente astratto ed ipotetico della censura formulata dal ricorrente in tema di prescrizione.

4. Le ulteriori censure si appuntano tutte contro il giudizio con cui la corte d’appello ha negato esser stata fornita una prova sufficiente degli illeciti denunciati dal ricorrente nella gestione del rapporto commerciale della società Filatura Silvia con altra società, denominata Manifattura Fa.La.Ne., della quale il sig. F. era socio.

Nessuna di tali censure coglie, però, nel segno.

4.1. È da escludere, in primo luogo, che la corte d’ap­pello sia incorsa in violazione di legge nel ripartire l’onere della prova tra i litiganti, a norma dell’art. 2697 c.c.

Non v’è dubbio che, in caso di azione di responsabilità promossa contro un amministratore sociale, competa all’at­tore l’onere di dimostrare l’illiceità dei comportamenti che egli addebita all’amministratore convenuto. Ma quando, come è frequente, non si tratta di comportamenti in sé vietati dalla legge o dallo statuto sociale, bensì di attività commerciali naturalmente rientranti nella gestione dell’im­presa, la loro pretesa illiceità dipende dal contesto in cui essi sono stati compiuti. È solo da tale contesto che può ricavarsi se l’amministratore avrebbe dovuto invece astenersi da quei comportamenti, o attuarli in altra forma, perché così gli imponevano il dovere di lealtà, essenzialmente riassunto nel precetto di non agire in conflitto di interessi con la società da lui amministrata, o quello di diligenza, consistente nell’adottare tutte le misure necessarie alla cura degli interessi sociali a lui affidati. Non è, cioè, in simili casi, il mero fatto storico di avere l’amministratore compiuto (o omesso di compiere) un certo atto ad integrare gli estremi dell’illecito, bensì la violazione da parte sua, con quell’atto, dell’uno o dell’altro dei suaccennati doveri: di talché l’onere della prova dell’illecito, gravante sull’attore in responsabilità, non si esaurisce nella dimostrazione del­l’at­to compiuto dall’amministratore, ma necessariamente investe anche quegli elementi di contesto dai quali (magari anche in via di presunzione) è possibile dedurre che quell’atto implica violazione dei suaccennati doveri. Elementi, questi, che appartengono a pieno titolo al novero dei fatti costituenti il fondamento della domanda, cui si riferisce il primo comma del citato art. 2697, e non invece a quello dei fatti estintivi, modificativi o impeditivi, rientranti nella previsione del secondo comma; così come altrettanto evidentemente appartengono al novero dei fatti da provare dall’attore quelli che servono a dimostrare l’esistenza e l’entità del danno derivato dai comportamenti eventualmente illegittimi posti in essere dal convenuto.

La corte d’appello, nel valutare come insufficiente, ai fini dell’affermazione di responsabilità, la sola circostanza che alcune operazioni commerciali della società fossero state compiute a condizioni di favore per un cliente, e nel rilevare che sarebbe occorsa anche la prova che quel trattamento di favore era davvero contrario all’interesse sociale, sussistendo anche altre e più favorevoli condizioni di negoziazione, non si è in alcun modo discostata dai principi sopra richiamati e non è incorsa quindi nella denunciata violazione di legge.

4.2. Le censure del ricorrente investono però anche la logicità e la sufficienza della motivazione in base alla quale la corte territoriale ha ritenuto non adeguatamente dimostrata l’illi­ceità del comportamento dell’amministratore sig. F. nei rapporti commerciali intercorsi con la società Manifattura Fa.La.Ne.

Motivazione che il ricorrente critica per non avere la corte fiorentina tenuto conto del fatto che il predetto sig. F. era, al tempo stesso, anche socio ed amministratore di quest’ultima società, onde appariva evidente la situazione di conflitto d’interessi in cui egli ha operato.

Ma tale rilievo, di per sé solo, non è idoneo a scalfire la motivazione della sentenza impugnata. Il dedotto intreccio di cariche amministrative in capo al sig. F. non esime dal valutare se, nelle concrete operazioni commerciali che hanno interessato le due società da lui amministrate, si sia davvero profilato un conflitto di interessi e se, in conseguenza di ciò, la società Filatura Silvia abbia subito pregiudizi. È invece proprio sotto questo aspetto che la corte di merito ha reputato insufficiente il materiale probatorio acquisito, e non tale da persuaderla che le operazioni commerciali di cui si tratta erano state dannose per detta società.

Il ricorso non deduce l’esistenza di ulteriori risultanze istruttorie il cui esame avrebbe dovuto condurre, sotto il profilo da ultimo richiamato, a conclusioni diverse: onde esso non appare idoneo a porre in evidenza vizi logici della motivazione dell’impugnata sentenza.

4.3. Inammissibile è, infine, la censura con cui, lamentando di nuovo la violazione del citato art. 2697 c.c., unitamente a quella degli artt. 115 e 116 c.p.c., nonché ancora difetti di motivazione della sentenza impugnata, il ricorrente si duole del fatto che la corte territoriale abbia considerato come accertata (definendola “abbastanza ovvia”) la conoscenza da lunga data, da parte del medesimo ricorrente, del modus operandi del sig. F. quale amministratore della società.

Siffatto rilievo, basato sulla considerazione che lo stesso ricorrente era anch’egli compartecipe della funzione amministrativa, non ha avuto un peso determinante nell’eco­no­mia della decisione del giudice d’appello, come ben chiarito nella stessa motivazione del provvedimento impugnato. Escluso che l’attore avesse fornito una prova adeguata dell’illiceità e della dannosità della condotta da lui ascritta al convenuto, la questione se l’attore medesimo fosse o meno al corrente dei comportamenti tenuti dall’al­tro amministratore non rivestiva più, evidentemente, alcun rilievo; e puntualmente, perciò, la corte d’appello ha osservato che il discorso poteva chiudersi lì, senza la necessità di stabilire se fosse o meno vero che il sig. P. – come la controparte aveva chiesto di provare – era stato da sempre a conoscenza delle vicende amministrative dedotte in lite. L’ulteriore osservazione, secondo cui tale conoscenza appariva peraltro abbastanza ovvia, ha quindi un valore meramente incidentale, e le censure che su di essa il ricorrente appunta sono palesemente prive di decisività.

5. Il ricorso proposto nei confronti del sig. F., pertanto, deve essere rigettato, ed a ciò fa seguito la condanna del ricorrente al rimborso delle spese del giudizio di legittimità in favore della controparte costituita, che vengono liquidate in Euro 3.000,00 (tremila) per onorari e Euro 100,00 (cento) per esborsi, oltre alle spese generali ed agli accessori di legge.Omissis

 

CORTE DI CASSAZIONE, 25 luglio 2007, n. 16416 – Losavio Presidente – Schirò Estensore – Bonato c. Castegnaro

 

Società di persone – Società in nome collettivo – amministrazione – Doveri degli amministratori – Violazione – Azione individuale di responsabilità promossa dal socio – Lesione del patrimonio sociale – Non sufficienza – Lesione del valore della quota – Necessità – Fattispecie

(Artt. 2043, 2260, 2301, 2395 c.c.)

L’azione diretta del socio contro gli amministratori di società di persone, coesiste con l’azione concessa all’ente per ottenere il ristoro dei danni subiti a causa dell’inadempimento dei doveri statutari o legali; tuttavia, la natura extracontrattuale ed individuale dell’azione del socio, fondata sull’art. 2043 c.c. ed in applicazione analogica dell’art. 2395 c.c., esige che il pregiudizio non sia il mero riflesso dei danni eventualmente recati al patrimonio sociale, ma si tratti di danni direttamente causati al socio come conseguenza immediata del comportamento degli amministratori (2)

 

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Omissis 1. Con atto notificato il 3 febbraio 1988 C.S., premesso di essere stata socia al 50% con B.B. della società Uni-Vent, esponeva che, successivamente alla cessazione dell’attività ed alla liquidazione delle quote societarie, aveva rinvenuto nella documentazione sociale sette fatture relative a pagamenti effettuati in favore del B. per complessive L. 65.559.000, a titolo di provvigioni maturate per imprecisate operazioni commerciali, nonché altri documenti che provavano esborsi fatti dalla società a favore del medesimo B., o pagamenti fatti a terzi per servizi o merci forniti non alla società ma al B. personalmente.

L’attrice, dopo aver altresì dedotto che agli esborsi fatti dalla società in favore del convenuto non potevano corrispondere crediti di questo per provvigioni, non essendo il B. terzo rispetto alla società, conveniva pertanto davanti al Tribunale di Vicenza B.B., chiedendone la condanna al rimborso del 50% degli importi di cui sopra, per la somma complessiva di L. 32.779.500.

1.a. Il convenuto si costituiva in giudizio e – premesso di essere stato socio al 15% della s.n.c. Uni-Vent, della quale era socio all’85% il suocero C.P., e che con atto del 13 novembre 1986 la società era stata trasformata in società a responsabilità limitata e poi, nel gennaio del 1987, era stata alienata a terzi – esponeva di essere stato amministratore di detta società dal 1984 in poi e che tuttavia l’ammini­strazione era stata curata dall’attrice C.S. e da C.R. (moglie dell’esponente), le quali avevano regolarmente contabilizzato le fatture emesse e i pagamenti effettuati per le prestazioni da lui svolte in favore della società e per le quali aveva maturato provvigioni.

1.b. Con altra citazione davanti allo stesso Tribunale, notificata il 6 aprile 1988, la C.S. chiedeva la condanna del B. a rimborsarle l’ulteriore importo di L. 5.177.735 per ulteriori pagamenti dalla società Uni-Vent in favore del convenuto.

2. Riunite le cause, il Tribunale di Vicenza rigettava le domande della C.S., la quale proponeva appello chiedendo la riforma della sentenza appellata.

Costituitosi il contraddittorio con il B., che chiedeva il rigetto del gravame, la Corte di Appello di Venezia, con sentenza n. 214 pubblicata in data 11 febbraio 2002, in riforma della sentenza appellata condannava il B. alla restituzione della complessiva somma di L. 34.980.000, oltre a rivalutazione monetaria e interessi legali dai singoli prelievi fino al saldo effettivo, e al pagamento delle spese del doppio grado di giudizio.

A fondamento della decisione, la Corte territoriale affermava che:

2.a. l’art. 2260 c.c., che concede alla società di persone la facoltà di agire contro gli amministratori per rivalersi del danno subito a causa del loro inadempimento ai doveri fissati dalla legge e dall’atto costitutivo, non esclude, in difetto di previsione derogativa, il diritto di ciascun socio di pretendere il ristoro del pregiudizio direttamente ricevuto in dipendenza del comportamento doloso e colposo degli amministratori medesimi in base alle disposizioni generali dell’art. 2043 c.c., o in applicazione analogica dell’art. 2395 c.c., oppure delle regole sulla responsabilità contrattuale, ove si verta in violazione degli obblighi posti con il mandato ad amministrare e con ulteriori accordi;

2.b. nella specie la qualità di socia della C.S. era dimostrata in atti e comunque pacifica e l’azione esercitata doveva essere configurata, non come richiesta di reintegra a favore della società di eventuali utili da distribuire, bensì di responsabilità ex art. 2395 c.c., e di risarcimento danni ex art. 2043 c.c., nei confronti del B., a titolo esclusivamente personale per illegittime sottrazioni da questo compiute, che avevano depauperato il valore della quota della C.S.;

2.c. risultavano in atti, anche attraverso l’espletata consulenza tecnica d’ufficio, le prove concrete di illegittimi prelievi da parte del B. per sue prestazioni come agente, risultate indimostrate o provate insussistenti;

2.d. in particolare la consulenza d’ufficio aveva posto in evidenza un illegittimo prelievo di L. 36.725.000, mentre attraverso indizi gravi e concordanti erano state accertate spese estranee all’oggetto sociale per L. 11.348.091;

2.e. dalla consulenza d’ufficio era inoltre emerso con chiarezza che il B. non aveva avuto con la società di cui era amministratore alcun rapporto di agenzia, essendo al riguardo irrilevanti gli elenchi di clienti visitati, elenchi formati o provenienti dallo stesso B., il quale non aveva pertanto adempiuto all’onere probatorio sui di lui gravante e comunque, per il periodo considerato, non aveva versato alcun contributo all’Enasarco, svolgendo inoltre attività di agenzia a favore di soggetti estranei alla società da lui amministrata, in violazione del divieto di concorrenza di cui all’art. 2301 c.c.

 

3. Per la cassazione di tale sentenza ricorre il B. sulla base di sei motivi e memoria. Resiste con controricorsola C. S.

 

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia “omessa motivazione e considerazione dell’eccepita inammissibilità dei motivi di appello” introdotti tardivamente, in violazione degli artt. 242 e 245 c.p.c., dalla C.S., la quale, mentre nell’atto di appello si era limitata ad affermare la sua legittimazione attiva in modo generico e contraddittorio, lamentando succintamente un danno proprio “quantomeno nella ripartizione degli utili”, e a indicare come oggetto dell’azione il recupero dall’altro socio della quota che questi aveva “sottratto dall’attivo del sodalizio”, senza menzionare le norme su cui si fondava la domanda, nell’atto di costituzione del nuovo difensore e nella comparsa conclusionale aveva introdotto motivi nuovi, deducendo che la domanda riguardava un’azione di responsabilità e di risarcimento danni a titolo esclusivamente personale, fondata sull’art. 2260 c.c., in relazione agli artt. 2395 e 2043 c.c. Il ricorrente, in particolare, si duole chela Cortedi merito non si sia data carico dell’eccezione d’inammissibilità dei nuovi motivi e delle nuove prospettazioni formulati dal­l’ap­pellante.

2. Con il secondo motivo il B. denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2395 e 2043 c.c., e, premesso chela C.S.ha agito in nome proprio, e non della società, deduce che l’azione di responsabilità del singolo socio nei confronti dell’amministratore, prevista dall’art. 2395 c.c., per le società di capitali, ma applicabile “in via analogica e in concorso con l’art. 2043 c.c.”, anche alle società di persone, ha per oggetto soltanto i danni che incidono direttamente sul patrimonio del socio medesimo, mentre nella specie l’azione proposta riguardava il diritto alla conservazione del patrimonio sociale che spetta soltanto alla società e non al singolo socio.

3. Con il terzo motivo il ricorrente prospetta violazione e falsa applicazione di legge, nonché omessa motivazione circa l’eccepito difetto di legittimazione attiva della C.S., in quanto l’azione risarcitoria è stata promossa dopo che la società in nome collettivo era stata trasformata in società a responsabilità limitata e dopo chela C.S.aveva ceduto a terzi la propria quota.

Deduce, in particolare, il B. che la cessione delle partecipazioni sociali comporta la cessione anche delle ragioni creditorie, di natura sia contrattuale che extracontrattuale, mentre la domanda proposta dalla C.S. in base all’art. 2260 c.c., in relazione agli artt. 2043 e 2395 c.c., presupponeva il mantenimento nella parte attrice della qualità di socia, nella specie venuta meno per la cessione a terzi della quota. Inoltre, essendosi la società in nome collettivo trasformata in società a responsabilità limitata, la C.S. avrebbe potuto esercitare direttamente soltanto l’azione ex art. 2395 c.c., senza far ricorso all’art. 2260 c.c.

4. Con il quarto motivo il ricorrente lamenta insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine all’asserita distribuzione di utili e deduce chela Cortedi merito ha affermato l’esistenza di utili da distribuire sulla base di un dato logicamente e giuridicamente inadeguato, ossia sul fatto che i bilanci erano in attivo, circostanza in realtà priva di adeguata rilevanza probatoria, in quanto la distribuzione degli utili avrebbe dovuto comunque essere deliberata dai soci, deliberazione di cui nella specie non è stata fornita prova.

5. Con il quinto motivo il B. denuncia ancora vizio di motivazione ed afferma che, qualora si ritenga che l’azione di responsabilità sia stata esercitata con riferimento alla disciplina delle società di persone,la C.S., che pure disponeva di poteri di amministrazione e controllo, non ha esercitato detti poteri, consentendo l’approvazione dei bilanci anno dopo anno senza riserve né contestazioni, con la conseguenza che la medesima è decaduta dall’azione d’impugnazioneex art. 9 dello statuto sociale, mentre la sentenza di appello ha omesso di prendere in considerazione questa eccezione attinente a circostanza decisiva e di motivare sul punto.

6. Con il sesto motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 1224 c.c., e omessa motivazione, in quantola Corte Territoriale, sebbene il credito riconosciuto avesse natura di valuta, derivando da precise poste contabili, ha concesso a controparte la rivalutazione monetaria del medesimo (oltre agli interessi legali), senza che l’inte­ressata abbia dimostrato il maggior danno, e comunque riconoscendo la rivalutazione piena e non soltanto per la parte di svalutazione eccedente il tasso legale degli interessi.

7. Il primo motivo è infondato.

Diversamente da quanto affermato dal ricorrente, la Corte Territoriale ha preso specificamente in considerazione l’eccezione dell’appellato, dichiarandola priva di fondamento sulla base di un’esauriente motivazione, immune da vizi logici, che fondandosi sull’interpretazione della domanda e dei motivi di appello, ha chiarito, da un lato, che le argomentazioni del Giudice di primo grado in ordine alla mancanza di legittimazione attiva della C.S. erano state specificamente contestate dall’appellante e, dall’altro, che la pretesa attrice aveva ad oggetto la richiesta, non di reintegra/favore della società di eventuali utili da distribuire, ma di restituzione di somme indebitamente e illegittimamente percepite dal B., ex socio ed amministratore della società Uni-Vent, ed il risarcimento dei danni conseguenti a tali sottrazioni, che avevano depauperato il valore della quota della C.S., per comportamenti di cui doveva ritenersi responsabile personalmente il B. stesso in base agli artt. 2395 e 2043 c.c.

7.1. Osserva il collegio che l’interpretazione della domanda e l’individuazione del suo contenuto integrano un tipico accertamento di fatto riservato, come tale, al Giudice del merito, insindacabile in sede di legittimità se non sotto il profilo della correttezza della motivazione che sorregge sul punto la decisione impugnata (Cass. 5 agosto 2005, n. 16596; 6 ottobre 2005, n. 19475; 7 luglio 2006, n. 15603).

Nel caso di specie, la sentenza impugnata, sorretta da congrua e logica motivazione in ordine al contenuto della domanda introduttiva del giudizio e delle critiche mosse nell’atto di appello alle considerazioni svolte nella sentenza di primo grado circa il difetto di legittimazione attiva del­l’attrice, si sottrae alle censure del ricorrente, con conseguente rigetto del primo motivo.

8. È invece fondato e merita accoglimento il secondo motivo.

8.1. Il collegio condivide l’orientamento espresso da questa Corte, secondo il quale l’art. 2260 c.c., nel concedere alla società di persone, quale ente munito di autonoma soggettività e di un proprio patrimonio, la facoltà di agire contro gli amministratori, per rivalersi del danno subito a causa del loro inadempimento ai doveri fissati dalla legge o dall’atto costitutivo, non esclude, in difetto di previsione derogativa, il diritto di ciascun socio di pretendere il ristoro del pregiudizio direttamente ricevuto in dipendenza del comportamento doloso o colposo degli amministratori medesimi, in applicazione analogica dell’art. 2395 c.c., e in base alle disposizioni generali dell’art. 2043 c.c. (Cass. 10 marzo 1992, n. 2872; Cass. 13 dicembre 1995, n. 12772).

8.2. Tuttavia l’azione individualmente concessa ai soci per il risarcimento dei danni loro cagionati dagli atti dolosi o colposi degli amministratori, di natura extracontrattuale, presuppone che i danni suddetti non siano solo il riflesso di quelli arrecati eventualmente al patrimonio sociale, ma siano direttamente cagionati al socio come conseguenza immediata del comportamento degli amministratori e dei sindaci, che tale comportamento abbiano reso possibile violando i loro doveri di controllo (Cass. 3 agosto 1988, n. 4817; 2 giugno 1989, n. 2685; 7 settembre 1993, n. 9385; 28 maggio 2004, n. 10271).

Pertanto il diritto alla conservazione del patrimonio sociale spetta alla società e non al socio come tale, il quale ha in materia un interesse, la cui eventuale lesione non può concretare quel danno diretto necessario per poter esperire l’azione individuale di responsabilità conto gli amministratori (Cass. 7 settembre 1993, n. 9385).

8.3. Nel caso di specie, la Corte di merito – nel ravvisare erroneamente come danno direttamente cagionato alla C.S., e imputabile alla responsabilità del B. quale amministratore della società Uni-Vent, quello derivante dalle illegittime sottrazioni operate dal B. stesso, “che hanno depauperato il valore della quota della C.S.”, e, quindi, un pregiudizio in realtà arrecato direttamente al patrimonio sociale e solo di riflesso al patrimonio del socio – non si è uniformata al principio di diritto enunciato al precedente paragrafo 8.2. e deve essere conseguentemente annullata, restando assorbiti gli ulteriori motivi di ricorso, riguardanti questioni non più rilevanti ai fini della decisione della controversia (Cass. 10 giugno 1987, n. 5057; 6 giugno 2006, n. 13259).

9. Poiché non sono necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito a norma del­l’art. 384 c.p.c., comma 1, con il rigetto delle originarie domande della C.S., non ricorrendo, per le considerazioni svolte nel precedente paragrafo 8.2., i presupposti del­l’azione di responsabilità e delle domande risarcitorie introduttive dei giudizi di merito, poi riuniti, proposte dalla stessa C.S.

10. Il compimento da parte del B. di illegittimi atti di prelievo di somme di pertinenza della società, accertato dai giudici di appello e non fatto oggetto di specifiche censure da parte del ricorrente, nonché l’esito alterno delle diverse fasi del giudizio giustificano l’integrale compensazione tra le parti delle spese dell’intero processo.Omissis

 

(1-2) Responsabilità degli amministratori e soggettività delle società di persone

  
SOMMARIO:

1. I casi - 2. Normativa di riferimento - 3. I precedenti giurisprudenziali e le opinioni dottrinali - 4. Commento - NOTE


1. I casi

A. Tizio cita in giudizio Caio e Sempronio, che con lui erano stati soci della società di fatto Alfa, chiedendo la loro condanna al risarcimento dei danni in suo favore per aver mal gestito la società. In particolare, l’attore lamenta che Caio e Sempronio si sarebbero appropriati di somme spettanti alla società ed avrebbero concesso indebite agevolazioni commerciali ad una società terza da essi partecipata. Il Tribunale – che inquadra l’azione nella previsione dell’art. 2393 c.c. (azione sociale di responsabilità) – accoglie la domanda proposta nei confronti di Caio, ma non anche quella rivolta contro Sempronio, ritenuto estraneo ai fatti di mala gestio asseriti da Tizio. La Corte di Appello modifica parzialmente la sentenza di primo grado, limitandosi a ridurre il quantum del danno da risarcire a carico di Caio. Osserva la Corte, tra le altre cose, che l’azione è stata esperita da Tizio per conseguire il risarcimento di danni da lui personalmente subiti, sicché sarebbe da inquadrarsi, dissentendo in ciò dal giudice di prime cure, nella previsione dell’art. 2395 c.c. e non in quella dell’art. 2393 c.c. (norme ritenute implicitamente applicabili alle società di persone). Nell’estremo grado di giudizio, le doglianze di Tizio vengono tutte disattese, con conseguente conferma della sentenza appellata. Per quanto rileva ai fini della presente analisi, la Suprema Corte configura anche nelle società di persone la responsabilità degli amministratori nei confronti dei singoli soci oltre che verso la società, in termini sostanzialmente analoghi a quanto prevedono in tema di società per azioni gli artt. 2393 e 2395 c.c. Il presupposto della configurabilità di un’azione individuale di responsabilità nelle società personali viene individuato dalla pronuncia in esame nel riconoscimento della soggettività giuridica, costituendo tali enti centri di imputazione di situazioni giuridiche distinte da quelle dei soci. In realtà, il Giudice di Legittimità non si sofferma sull’inquadramento giuridico della fattispecie in oggetto, atteso che il ricorrente non ha censurato la statuizione sul punto del giudice di appello, che ha ricondotto l’azione di Tizio alla previsione dell’art. 2395 c.c. (discostandosi sul punto dalla [continua ..]


2. Normativa di riferimento

In tema di responsabilità degli amministratori di società di persone, la normativa codicistica è notoriamente scarna, con il solo art. 2260, 2° comma, che, tra l’altro, pur limitandosi a disciplinare unicamente la responsabilità degli amministratori verso la società, conseguente alla violazione degli obblighi loro imposti dalla legge o dal contratto sociale, pone all’interprete problematiche di non poco rilievo. Se il mancato intervento del legislatore per regolare la responsabilità degli amministratori di società personali verso i creditori sociali può essere giustificato dalla regola della responsabilità illimitata dei soci, che rappresenta una garanzia sufficiente per soddisfare tali creditori (artt. 2268 e 2304 c.c.) [1], più difficile a comprendersi è il vuoto normativo in relazione alla responsabilità verso i singoli soci (o terzi), non potendosi attribuire portata generale all’art. 2281 c.c. [2]. L’assenza di regolamentazione non comporta, tuttavia, la irrilevanza giuridica del fenomeno, la cui disciplina deve essere ricostruita necessariamente dall’interprete alla stregua dell’analogia iuris et legis, con il ricorso, cioè, ai principi generali del diritto e all’applicazione analogica di norme dettate per materie simili [3]. In tema di responsabilità degli amministratori verso il singolo socio di società di persone, il riferimento è – come esattamente rilevato dalla seconda pronuncia oggetto della presente analisi – alla regola generale dell’art. 2043 c.c., da un lato, e alle norme dettate per la responsabilità degli amministratori di società di capitali, dall’altro (artt. 2395 per le s.p.a. e all’art. 2476, 6° comma, per le s.r.l.). L’art. 2043 c.c. costituisce il principio cardine della responsabilità civile (extracontrattuale). Esso disciplina la c.d. responsabilità aquiliana, fondandola sul principio del neminem laedere, che presuppone la colpevolezza dell’agente, una condotta riprovevole in quanto oggettivamente antigiuridica e la produzione di un danno ingiusto. In altri termini, la norma citata disciplina l’azione «generale» di risarcimento del danno nel sistema dei rapporti privatistici. L’art. 2395 c.c., invece, disciplina un’ipotesi specifica di azione [continua ..]


3. I precedenti giurisprudenziali e le opinioni dottrinali

Le decisioni in commento si pongono in rapporto di continuità con le pronunce che si sono susseguite sull’argomento. In effetti, se si esclude qualche sentenza più risalente [10], la giurisprudenza ritiene che anche nelle società di persone trovi posto, in applicazione analogica dell’art. 2395 c.c., la azione individuale di responsabilità del socio (o del terzo) direttamente danneggiato da un atto doloso o colposo dell’amministratore. Tuttavia, tale affermazione è spesso apodittica, priva di una motivazione giuridica di fondo in grado di giustificarne l’applicazione nonostante l’assenza di una norma specifica. In altri termini, si ammette sic et simpliciter che anche nelle società di persone, accanto all’azione di responsabilità spettante alla società, sobriamente disciplinata dall’art. 2260 c.c. (e contemplata dagli artt. 2392 e 2393 c.c. per la società di capitali) possa operare, in analogia con l’art. 2395 c.c., l’azione individuale del socio (o del terzo) direttamente danneggiato da atto doloso o colposo dell’amministratore [11]. Tutt’al più si è tentato di motivare l’applicazione analogica dell’art. 2395 c.c. sulla pacifica considerazione che le società di persone – anche se sfornite di personalità giuridica – costituiscono pur sempre un centro di imputazione di situazioni giuridiche distinte da quelle che fanno capo ai singoli soci, sicché i diritti e gli obblighi inerenti allo svolgimento del rapporto di amministrazione non sono riferibili direttamente alle persone dei soci [12]. Ed a questo orientamento, ormai dominante [13], aderiscono anche le decisioni in commento. La dottrina, invece, pur concorde sulla necessità di individuare una responsabilità dell’amministratore verso il singolo socio (o terzo) [14], ritiene che l’am­missibilità di tale azione dipenderebbe non solo e non tanto dall’applicazione analogica della disciplina prevista per le società azionarie, quanto dalla circostanza che essa sarebbe riconducibile all’azione generale prefissata per il risarcimento per fatto illecito dall’art. 2043 c.c. [15].


4. Commento

1. Delineato sinteticamente il quadro degli orientamenti sull’ammissibilità dell’azione individuale di responsabilità degli amministratori di società di persone, in punto di metodo va anzitutto segnalato che le pronunce in commento presentano non indifferenti profili di criticità, in particolare nel percorso argomentativo seguito per estendere alle società a base personale il precetto contenuto nell’art. 2395 c.c. In effetti, la Suprema Corte assegna un rilievo decisivo, ai fini dell’applicazione analogica, all’attri­buto della soggettività giuridica [16], presente anche nelle società di persone. Trattasi, a ben vedere, di argomentazione riduttiva e sbrigativa: la Suprema Corte avrebbe dovuto farsi carico di delineare l’esatta ratio dell’art. 2395 c.c. al fine di verificare la sua applicabilità alle società personali, anziché ricorrere all’espediente del riconoscimento della soggettività giuridica, il quale, anzi, potrebbe condurre, come vedremo, al risultato opposto. L’applicazione analogica di una disposizione espressamente dettata per le società per azioni passa per la individuazione delle ragioni della relativa scelta legislativa. Pertanto, l’analisi della fattispecie deve necessariamente partire dalla individuazione della ratio che sottende l’art. 2395 c.c. Orbene, fondare l’applica­zione analogica di questa disposizione sul dogma della soggettività giuridica equivale a riconoscere, anche solo implicitamente, che la necessità della previsione di un’ipotesi specifica di responsabilità da fatto illecito, rafforzativa della clausola generale dell’art. 2043 c.c., sarebbe conseguita alla decisione del legislatore del 1942 di attribuire alle società di capitali la personalità giuridica. Secondo l’insegnamento tradizionale del concetto, la personalità giuridica implica l’«alterità» soggettiva dell’ente, il quale diviene soggetto di diritto distinto dalle persone dei soci, con la conseguenza, per quanto qui interessa, che soltanto la società è responsabile per le azioni dell’amministratore nell’esercizio dell’uffi­cio (secondo il principio della immedesimazione organica). Se la personalità giuridica [continua ..]


NOTE
Fascicolo 1 - 2009