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1. Problemi generali in tema di oggetto del contratto - 2. Una (breve) premessa di metodo - 3. Il tipo normativo di problema - 4. Il criterio utilizzato per la trasposizione del problema in termini giuridici - 5. Fattispecie astratta e ratio della tipizzazione normativa: patto di famiglia e controllo dell'impresa - 6. Oggetto (e fattispecie) del patto di famiglia - 7. Conseguenze applicative - 8. Conclusioni - NOTE
Il discorso sopra l’oggetto del patto di famiglia si presta a essere organizzato in primo luogo secondo lo schema tipico di ogni ragionamento sull’oggetto del contratto [[1]]. In questa prospettiva è necessario anzitutto precisare «cosa» debba intendersi per oggetto del contratto, prendendo posizione nell’ambito delle teorie, che riferiscono la locuzione al «bene toccato dagli effetti contrattuali» [[2]], ovvero al «bene dovuto» e, allora, alla «prestazione» contrattuale [[3]], agli «interessi» regolati [[4]] o, ancora, ai «risultati programmati» dalle parti [[5]]. Ovviamente mi limiterò, sul punto, a dichiarare adesione per uno degli ordini di idee enunciati. Esaminare le diverse concezioni dell’oggetto del contratto sarebbe esercizio inutile, perché già fatto da altri con autorevolezza [[6]]. Sarebbe anche fuori luogo in questa sede, perché imporrebbe di ragionare sopra il rapporto tra oggetto e contenuto del contratto [[7]] e di spaziare dalla teoria del negozio giuridico a quelle delle obbligazioni e dei beni. Vedere nel bene l’oggetto del contratto sembra essere la sola conclusione coerente con l’autonomia che il legislatore del 1942 ha voluto attribuire al concetto [[8]]. Di «bene» si parla, qui, in significato diverso da quello dell’art. 810 c.c. Oggetto del contratto possono essere anche tutti gli altri valori, solitamente (ma non esclusivamente) economici – quali attività, cose incorporali, diritti – che si prestano a costituire punto di riferimento oggettivo degli interessi dedotti nel negozio giuridico [[9]]. Per comprendere quale sia l’oggetto del patto di famiglia occorre, perciò, procedere alla ricognizione di tali interessi. Ciò implica una ulteriore presa di posizione, questa volta sulla struttura [[10]], sulla natura e sulla causa del patto [[11]]. Ancora una volta un discorso esaustivo porterebbe troppo lontano. Dovrò, perciò, limitarmi a illustrarne i passaggi principali. Espongo, sin d’ora, in maniera assiomatica, il mio punto di vista: ritengo che il patto di famiglia sia un negozio giuridico bilaterale, a effetto liberale, ma connotato causalmente anche da un profilo ulteriore, al quale (come cercherò di mostrare in prosieguo) non [continua ..]
Gli approdi più recenti della scienza del diritto hanno mostrato che la fattispecie esaurisce il suo valore nell’ambito di un processo di trasposizione dei dati emergenti dalla realtà sociale all’interno del sistema giuridico, il quale, dopo averli, categorizzati e ricostruiti, crea modelli per l’osservazione e la comprensione della realtà sociale e per la interazione con essa [[12]]. Il paradigma è funzionale a un approccio centrato sulla ricerca della funzione sistemica delle regole e del senso sistemico dei fenomeni, per comprendere la struttura dei modelli giuridici in rapporto alla funzione per la quale vengono creati [[13]]. Il sistema giuridico assume il modello come scenario simulato per riprodurre, semplificate, le complessità ambientali e apprestarvi risposte. Ciò pone in primo piano e rende ineludibile – ai fini del coordinamento delle reciproche interazioni tra sistema e ambiente – la definizione del rapporto tra modello, problemi e soluzioni [[14]]. Il modello legale costituisce, dunque, il punto di partenza per una indagine [[15]] volta da un lato a individuare il problema e il criterio che presiede alla sua trasposizione e traduzione in termini giuridici [[16]] e dall’altro a cogliere in termini scientifici la connessione specifica tra la fattispecie astratta e la ratio della tipizzazione normativa [[17]]. Ne risulterà innanzitutto individuata la fattispecie, intesa non quale sommatoria degli elementi indicati dalla norma, ma – tenuto conto del modo in cui il problema è osservato dall’ordinamento – quale veicolo di un principio regolativo; non come mera descrizione della realtà, ma come misura di essa [[18]]. Di qui, poi, la comprensione delle relazioni tra i singoli elementi della fattispecie, vale a dire del modo nel quale essi, in quanto strumenti per l’organizzazione di segmenti della realtà, si strutturano in rapporto alla collocazione che ricevono nell’ordine sequenziale del modello e al compito che in tale ordine sono deputati ad assolvere [[19]]. Come è evidente, il passaggio dalla concezione sommativa della fattispecie alla concezione organizzativa della norma implica due ordini di conseguenze sul piano applicativo: la possibilità di qualificazioni multiple dei fatti e la praticabilità, come forma ordinaria [continua ..]
L’opzione di metodo prescelta comporta che sia innanzi tutto individuato il problema in risposta al quale è stato introdotto nel codice civile il Capo V-bis, del Titolo IV del Libro II. Del modello legale sembra, allora, corretto esaminare innanzi tutto il profilo funzionale, lasciandone, invece, in secondo piano (per il momento) i profili strutturali. In prima approssimazione può dirsi che il problema del quale si tratta concerne l’applicazione della disciplina delle successioni mortis causa al complesso di beni organizzati per l’esercizio dell’impresa [[21]]. A differenza di quanto accade per beni di altro tipo, la vicenda traslativa coinvolge qui, a causa del connesso potere di gestione, l’interesse collettivo alla conservazione della destinazione dei beni produttivi e alla massimizzazione del loro valore [[22]]. Questo interesse si pone potenzialmente in conflitto con quelli (individuali) dell’imprenditore (a mantenere i beni all’interno della famiglia) e dei suoi legittimari (a ricevere una quota del patrimonio del dante causa). La soddisfazione dell’interesse collettivo esigerebbe, infatti, che fosse affidata al mercato – e non al meccanismo successorio – la riallocazione della titolarità dell’azienda al venir meno dell’imprenditore [[23]]. In termini giuridici il conflitto emerge a livelli di vertice, chiaro essendo che mentre il trasferimento per via ereditaria si collega, in generale, alla tutela della proprietà privata (e, ai margini, del risparmio), quando esso coinvolge aziende, è pertinente il richiamo alla libertà di iniziativa economica e al limite della utilità sociale. Il trasferimento intergenerazionale delle imprese pone, dunque, al sistema anzitutto una domanda di efficienza allocativa [[24]], che a sua volta rende palese l’inadeguatezza della disciplina delle successioni a causa di morte. La vendita dell’azienda sul mercato permetterebbe di bilanciare in maniera ottimale i diversi interessi in gioco, assicurando, da un lato, che essa finisca nelle mani di chi è disposto a pagare il prezzo più alto e garantendo, dall’altro, agli eredi l’appropriazione del relativo valore. In questi termini, tuttavia, l’analisi non appare del tutto soddisfacente. Non può, infatti, essere ignorato (almeno) un aspetto [continua ..]
Il criterio utilizzato per la trasposizione del problema in termini giuridici consiste nel riferimento (mediante la congiunzione «e») alla «azienda» e alla «partecipazione», letteralmente indicati quali beni oggetto di trasferimento da parte, rispettivamente, dell’«imprenditore» e del «titolare». Il duplice, congiunto riferimento sembra suggerire omogeneità di tali beni. Occorre, adesso, ragionare su questa ipotesi e verificare se – e sotto quale aspetto – tale omogeneità possa essere predicata. Essa non dipende, evidentemente, da caratteristiche naturali [[30]] o giuridiche [[31]] dei beni stessi [[32]], mentre sembra profilarsi, sia pure entro certi limiti, ragionando sulle rispettive forme di appartenenza. In primo luogo, tanto all’azienda [[33]] quanto alle partecipazioni [[34]] mal si adatta lo schema del diritto di proprietà. Rispetto all’azienda la forma di appartenenza si presta a essere individuata in una situazione soggettiva assoluta [[35]] corrispondente all’interesse del soggetto di utilizzare il compendio in maniera esclusiva al fine di esercitare un’attività economica in vista del conseguimento di un guadagno [[36]]. Tale situazione ha contenuto differente dal diritto di proprietà, attesa, oltre tutto, la sua idoneità a offrire utilità diverse da quelle che in base al secondo sono suscettibili di appropriazione [[37]]. Rispetto alle partecipazioni è agevole avvedersi che il diritto di proprietà sarebbe richiamato certamente a sproposito rispetto a quelle non reificate (in società di persone [[38]]). A non diversa conclusione deve pervenirsi per le altre, siano o meno rappresentate da titoli o strumenti finanziari. Il diritto di proprietà può – ai margini – essere riferito al «titolo» rappresentativo della partecipazione e venire in considerazione tutt’al più al fine di dirimere conflitti tra diversi acquirenti [[39]]. Il complesso di diritti e poteri nei quali la partecipazione si articola non è, invece, suscettibile di essere ricondotto allo schema della proprietà. Il discorso può essere continuato ragionando sull’origine delle situazioni di appartenenza in esame, come pure sulla rilevanza del momento dinamico [continua ..]
Il patto di famiglia costituisce, come sottolineato, strumento per il trasferimento intergenerazionale del controllo di imprese. Nella cornice metodologica delineata l’osservazione è suscettibile di ricadute sulla individuazione della fattispecie. I riferimenti alla «azienda» e alle «partecipazioni societarie» contenuti nell’art. 768-bis, c.c., sembrerebbero, allora, dover essere intesi in un significato coerente con le finalità della relativa disciplina. La funzione sistemica della disciplina impone di individuare questo significato nel «controllo» delle imprese individuali (che coincide con la titolarità delle aziende) e di quelle esercitate in forma societaria. Il patto di famiglia realizza, in questo ordine di idee, la funzione economico individuale di trasferire il controllo di imprese individuali o societarie. La prospettiva non è nuova. Al controllo come oggetto di contratti allude (già da oltre dieci anni) l’art. 91 t.u.f., che affida alla Consob il compito di promuovere efficienza e trasparenza del relativo mercato. Senza dire, poi, che l’acquisto del controllo è fenomeno contemplato espressamente dalla legge da tempo ancora più risalente. La nozione deve essere precisata. È noto, infatti, che di controllo è possibile parlare in una pluralità di accezioni. Decisiva, ai fini che qui interessano, è la circostanza che l’art. 768-bis c.c., menzioni (in relazione al trasferimento dell’azienda) «l’imprenditore». La qualifica suppone l’attualità dell’esercizio dell’impresa e – a causa della già rilevata omogeneità delle situazioni oggetto del patto – sembra indizio della necessità, in ogni caso, che al momento dell’atto l’alienante eserciti effettivamente l’influenza che il controllo gli consente. Così inteso, il modello legale sembra offrire risposta completa al tipo normativo di problema enunciato. Più precisamente, esso non solo consente la riallocazione del controllo di imprese in ambito familiare, ma attribuisce rilievo normativo alle condizioni di efficienza di tale vicenda. Il riferimento al controllo si presta, infatti, a essere utilizzato quale criterio di selezione delle imprese nelle quali il disponente esercita effettivamente un ruolo diretto nella gestione: le sole, [continua ..]
La fattispecie consegnata all’art. 768-bis c.c., intesa non quale sommatoria degli elementi, ma come veicolo di un principio regolativo, è insomma quella di un accordo tra un soggetto che esercita influenza dominante su (almeno) un’impresa e uno dei suoi discendenti, in forza del quale la situazione di fatto attributiva del controllo viene trasferita dal primo al secondo. In quanto situazione di fatto, nel momento del trasferimento il controllo viene solitamente considerato – e non può essere altrimenti – in una accezione potenziale. Ciò che viene alienato, infatti, è comunque il controllo «statico». Solo ad esito di una verifica postuma potrà accertarsi se l’acquirente se ne sarà avvalso per esercitare una influenza effettiva sull’impresa. Ne vengono sollecitate riflessioni ulteriori con specifico riguardo alla fattispecie in esame. Nel patto di famiglia il trasferimento del controllo avviene a fronte di una valutazione di idoneità del beneficiario quale continuatore della gestione del dante causa [[51]]. Scopo del disponente è, dunque, non solo il mantenimento dell’azienda in ambito familiare, ma principalmente l’esercizio del potere di controllo da parte dell’assegnatario (almeno fino a quando le dimensioni dell’impresa non imporranno il ricorso a una struttura più articolata). Non è, dunque, implausibile che tale intento entri (implicitamente, ma poi) tipicamente nella struttura del negozio. Trattandosi, in thesi, di un elemento tipico, esso non sembra poter essere qualificato né (in negativo) come condizione risolutiva, né come modus. Ancora in ragione della tipicità esso sembrerebbe esorbitare dall’ambito dei moventi che sorreggono la dichiarazione di volontà e caratterizzare direttamente la funzione economico individuale del contratto [[52]]. Se così fosse, le prestazioni previste dal patto di famiglia presenterebbero un profilo di corrispettività, che varrebbe a distinguere la vicenda in esame da tutte le altre nelle quali si realizza il trasferimento del controllo di una impresa. Nel nostro caso, a differenza che negli altri, l’assegnatario sarebbe, infatti, tenuto (in forza di una obbligazione di facere, contestualmente assunta, che costituisce il corrispettivo del trasferimento del controllo in suo favore) nei [continua ..]
L’oggetto del patto di famiglia deve essere individuato, allora, nel controllo statico di un’impresa individuale o societaria (che viene attribuito al discendente) e nel suo esercizio (al quale il beneficiario si obbliga). Ne discendono numerose conseguenze di un certo interesse. Elenco di seguito le principali: a) laratiodella disciplina, come individuata a partire dal tipo normativo di problema delineato, impone di riferirla esclusivamente ad attività esercitate in forma di impresa propriamente detta. Resta esclusa, a mio avviso, la possibilità di utilizzare il patto di famiglia per l’attribuzione del controllo di imprese non commerciali [[53]], studi o associazioni professionali [[54]]; b) è essenziale che al momento dell’assegnazione l’alienante disponga del controllo e eserciti effettivamente le prerogative che ne derivano[[55]], esulando, per contro, dalla fattispecie l’ipotesi in cui l’azienda sia oggetto di mero godimento da parte del dante causa[[56]] e quella in cui i diritti amministrativi inerenti alla partecipazione siano oggetto di rapporti che ne limitino l’esercizio in modo da attribuire il controllo a terzi; c) il termine «partecipazioni» non può essere inteso in senso ampio, ma deve ritenersi riferito alle sole partecipazioni attributive del controllo[[57]]; d) è necessario che il beneficiario sia in condizione di adempiere l’obbligazione difacereassunta e, dunque, di esercitare effettivamente l’influenza che deriva dalla situazione di controllo. Ciò sembra escludere che con il patto di famiglia possa essere trasferita la sola nuda titolarità dell’azienda o della partecipazione, con riserva di usufrutto in favore del disponente ovvero di discendenti diversi [[58]]. Sembra escludere, inoltre, che possa formare oggetto di patto di famiglia una partecipazione il cui acquisto non sia sufficiente ad attribuire il controllo (ad esempio qualora il controllo supponga il subentro del beneficiario in un accordo parasociale ovvero, nelle società di persone nelle quali non sia stata preventivamente convenuta la trasferibilità delle partecipazioni, l’ammissione del beneficiario in società da parte degli altri soci [[59]]); e) il potere di disposizione del beneficiario deve ritenersi limitato per effetto dell’obbligazione assunta. Dunque, ben oltre i [continua ..]
La ricostruzione che si è proposta tende – con ogni evidenza – a delimitare l’ambito di applicazione del patto di famiglia alle sole ipotesi nelle quali esso può generare risultati efficienti. Essa implica: – quanto ai soggetti, che al momento del patto l’alienante eserciti l’attività d’impresa l’azienda o ovvero il controllo interno (di diritto o di fatto) sulla società mediante la partecipazione oggetto di trasferimento; – quanto alla causa, che essa vada individuata nella sostituzione dell’assegnatario al disponente nell’esercizio dell’impresa o dell’influenza dominante che la partecipazione consente; – quanto alle prestazioni, che a fronte dell’attribuzione patrimoniale in favore dell’assegnatario questi assuma corrispettivamente un’obbligazione di facere in relazione all’esercizio dell’impresa o dell’influenza dominante. Nelle situazioni alle quali, nella prospettiva delineata, il patto di famiglia non può trovare applicazione, sarà il mercato a riallocare la ricchezza, ancorché a causa delle difficoltà sperimentate nella successione. Credo debba sfuggirsi alla tentazione di dilatare oltre questi limiti l’ambito di applicazione del patto di famiglia. Cedendovi, infatti, si finirebbe per trascurare il contesto nel quale il modello si inscrive, il problema che la disciplina intende risolvere, la sua stessa storia. Né basta. Perché insieme alle esigenze di efficienza si trascurerebbero quelle di giustizia. Ogni trasferimento del controllo, anche se efficiente, determina – tra le altre cose – una riduzione delle opportunità per i non titolari di sviluppare le proprie potenziali capacità [[66]]. Se non ogni allocazione efficiente è, per ciò stesso, equa, deve negarsi riconoscimento e tutela a quelle che oltre a non essere eque sono pure inefficienti. In un ordinamento che si vuole liberale non è lecito dimenticare il monito di J.M. Keynes, secondo il quale il principio ereditario, mutuato dal sistema sociale feudale, è il seme della decadenza intellettuale del capitalismo individualistico.