1. Premessa - 2. Il controllo da vincoli contrattuali - 3. Il covenant come vincolo contrattuale dal quale scaturisce la posizione di controllo - 4. L'attività di direzione e coordinamento - 5. La violazione dei principi di corretta gestione - 6. Considerazioni conclusive - NOTE
Il problema della disciplina da applicare alle ipotesi in cui ad una banca, che abbia concesso credito ad una società, siano conferiti, e/o di fatto questa eserciti, poteri di direzione non è nuovo. La dottrina più attenta si era posta questo problema in relazione a fattispecie nelle quali un creditore, sfruttando la propria posizione di forza nei confronti della società finanziata, si ingerisca nella gestione di quest’ultima [1]. Il fenomeno si manifesta anche nelle ipotesi in cui la banca intervenga con una linea di credito in soccorso di una impresa in crisi e nella convenzione, che per ciò viene stipulata, tra l’altro si pattuisca l’attribuzione alla banca di poteri di direzione. Si tratta talvolta del potere di designare uomini graditi per le più importanti cariche sociali e/o manageriali, oppure dell’attribuzione alla banca di compiti direttivi specifici, o ancora della previsione di poteri di indirizzo, di autorizzazione o di veto [2] . La questione è stata talvolta inquadrata nella problematica dell’amministratore di fatto [3]. Altre volte si è ritenuto più appropriato parlare di influenza dominante, derivante da particolari vincoli contrattuali [4], almeno nelle ipotesi in cui la relazione sia stabile e duratura e non sia limitata a specifici settori dell’attività della società [5]. Fino alla riforma i termini del dibattito risentivano probabilmente di un quadro normativo di riferimento che, mancando di norme espresse, relative alla responsabilità da abuso di attività di direzione, spingeva l’interprete verso questa o quella soluzione anche in funzione della efficacia di essa. Il tema che mi è stato assegnato è più circoscritto e riguarda la possibilità di applicazione a fattispecie in cui la banca, nel concedere il credito, abbia stipulato un c.d. covenant finanziario della disciplina della responsabilità di cui all’art. 2497 c.c. [6]. C’è una qualche analogia con gli accordi tra banca e società per il superamento della crisi che contengano pure l’attribuzione alla banca di poteri di direzione: essa è costituita dal fatto che la banca talvolta richiede che siano ad essa attribuiti tali poteri e li utilizza al fine del recupero di quanto dato a credito [7]. Nel caso di cui ci occupiamo, ove [continua ..]
È opinione largamente diffusa che il controllo da particolari vincoli contrattuali possa essere definito come una situazione nella quale il rapporto contrattuale con la società controllante ponga la società controllata in uno stato di dipendenza economica o comunque instauri una relazione economica essenziale per la prosecuzione dell’attività della società controllata [15]. Per cui la società controllante acquisisce una posizione di potere, non necessariamente derivante in via diretta dalle clausole contrattuali, ma appunto dalla posizione di preminenza in cui si trova, che le consente in fatto l’esercizio di potere ulteriore rispetto a quello attribuitole dal contratto [16]. C’è poi una certa uniformità di vedute circa la necessità che il vincolo sia stabile e duraturo [17]. Secondo la tesi, che a me pare preferibile, non sarebbe comunque sufficiente una mera dipendenza economica ma occorrerebbe che la società controllante abbia la possibilità di influire sull’attività della controllata e di indirizzarne quindi le scelte gestorie [18]. Gli esempi che vengono usualmente fatti sono i contratti di: franchising, licenza di brevetto e di know-how [19], agenzia, commissione, somministrazione [20], o ancora un accordo con il quale una società assuma il compito di commercializzare l’intera produzione di un’altra [21]. Si è pure d’accordo nel ritenere che il controllo non derivi dal particolare tipo contrattuale ma dal concreto atteggiarsi del suo contenuto, come evidenziato dall’aggettivo «particolari» che nell’art. 2359, n. 3, c.c. si riferisce ai vincoli che caratterizzano il contratto nel singolo caso [22]. Per questo motivo l’accertamento della sottoposizione all’influenza dominante costituisce una quaestio facti [23]. È stato peraltro giustamente rilevato che ritenere la sussistenza di controllo negli esempi di contratto, sopra riportati, porterebbe a rinvenire fattispecie di controllo contrattuale in un elevato numero di casi, il che contrasta con il senso comune e con la circostanza della rarità delle decisioni giurisprudenziali che in queste ipotesi ravvisano il controllo [24]. Aggiungerei che l’evoluzione del quadro normativo di riferimento sembra dare alle società in stato di [continua ..]
Se si definiscono in linea generale i covenants come quelle «protezioni» contrattuali che le banche impongono, per tenere sotto controllo le vicende patrimoniali delle imprese debitrici, al fine di poter esigere tempestivamente ed efficacemente l’immediato rimborso del prestito concesso [28], appare evidente come questo tipo di accordi possa integrare la fattispecie di controllo, qualora ovviamente preveda clausole del tipo indicato. E ciò in quanto lo scopo dei vincoli, che mediante il covenant vengono imposti alla società debitrice è tipicamente quello di impedire ai manager dell’impresa finanziata di effettuare operazioni, che porterebbero a un peggioramento della situazione finanziaria dell’impresa stessa, con la conseguenza che il debito potrebbe non essere rimborsato nei modi e nei tempi stabiliti. In sostanza, i covenants sono il mezzo che i finanziatori adottano per tutelare il proprio investimento, impedendo che inopportune manovre dei manager minino la capacità dell’impresa di ripagare il debito da essa contratto [29]. Sono state proposte diverse classificazioni di covenants [30]. Ai fini che qui interessano potrebbe essere utile distinguerli a seconda che contengano clausole che fissano obblighi predeterminati in maniera precisa (ad es. Il divieto di pagare dividendi oltre un certo ammontare prestabilito); ovvero contengano (o contengano anche) clausole, che lasciano alla banca un potere discrezionale in relazione a certi aspetti dell’attività della società finanziata. Esempi del secondo tipo potrebbero essere costituiti da covenants che attribuiscano alla banca il potere di autorizzare o meno l’ingresso in nuovi mercati o il compimento di operazioni di un certo tipo. Potere che si esplicherà mediante la necessità di una autorizzazione per determinate operazioni oppure addirittura (il caso comincia a diventare di scuola) consenta alla banca in certe ipotesi di dare istruzioni in positivo. Nelle ipotesi di covenants del primo tipo, caratterizzati da clausole che impongono obblighi definiti e precisi, appare difficile ipotizzare l’esercizio di una attività di direzione, a meno che la banca non riesca ad imporre comportamenti ulteriori rispetto a quelli previsti in contratto. Se invece il covenantfosse strutturato in modo da attribuire alla banca [continua ..]
Occorre a questo punto chiedersi in quali ipotesi la banca, in posizione di controllo in virtù del covenant, agisca: a) «esercitando attività di direzione e coordinamento» e b) «nell’interesse imprenditoriale proprio od altrui». Allorché si sia instaurata la situazione di controllo, sarà necessario, perché si realizzi la fattispecie di cui all’art. 2497 c.c., che tale situazione si concretizzi nell’esercizio dell’attività di direzione e coordinamento [32]. La dottrina a quel che risulta non si è particolarmente soffermata sul significato da dare alla locuzione «esercitando attività di direzione e coordinamento» contenuta nell’art. 2497 c.c. Questo elemento delimita la fattispecie, nella maniera in cui dottrina e giurisprudenza da tempo ed anche prima della riforma hanno sostenuto: non è sufficiente che ci sia il controllo ma è altresì necessario che questa situazione potenziale si concretizzi nell’esercizio dell’attività di direzione. Ciò trova conferma anche nell’art. 2497-sexies c.c., che detta il criterio presuntivo per l’accertamento dell’esercizio dell’attività di direzione e nel successivo art. 2497-septies c.c., che ancora una volta fa riferimento all’esercizio di tale attività. Si tratta certamente di un elemento di difficile definizione, dato che, come è stato segnalato [33], l’attività di direzione presenta nella realtà imprenditoriale diversi gradi di intensità che vanno dalla pervasiva ingerenza della società che dirige persino nel day by day management (cosa che nel nostro caso non credo sia realistico pensare) ad indicazioni di carattere strategico e generale. Di certo l’istruzione isolata non integrerà la fattispecie, essendo necessaria una attività che, per quanto limitata a scelte di indirizzo generale, sia duratura e costante nel tempo. Il problema è di portata generale e riguarda (ed è probabilmente il punto debole di tutta la disciplina del capo IX) tutte le ipotesi di direzione, quale che sia la tipologia di controllo sulla quale si fondano. Si potrebbe però pensare che questa espressione serva anche a delimitare la fattispecie non solo nel senso appena precisato, condizione che dovrebbe comunque [continua ..]
La disciplina dell’art. 2497 c.c. sarà poi applicabile in conseguenza della violazione dei principi di corretta gestione che causi un danno. Anche l’individuazione del significato della espressione «principi di corretta gestione» non è facile. La dottrina sino ad oggi ha dato solo qualche indicazione di massima. La locuzione sembra alludere al comportamento cui il buon imprenditore si attiene allorché gestisce la propria impresa. In linea generale, è affermazione condivisa che l’interesse imprenditoriale, e quindi in quanto tale dell’impresa, sia l’interesse alla produzione ed allo scambio di beni e servizi, che è sicuramente il passaggio obbligato e necessario ai fini della realizzazione dell’interesse ulteriore (e secondo alcuni eventuale) del conseguimento di un profitto. Il fine dell’impresa societaria è quindi quello di conseguire profitti e distribuirli [44]. Essendo queste finalità continue nel tempo, «professionali» [45] quindi, la società, come ogni impresa, si caratterizza per il fatto di essere dotata di una propria strategia di sopravvivenza ed eventualmente di crescita [46]. Se è vero quindi che uno di questi principi è costituito dal perseguimento della redditività, l’ipotesi nella quale non si persegua il fine di lucro di cui all’art. 2247 c.c. sarà qualificabile appunto come violazione dei principi di corretta gestione [47]. Come è stato efficacemente rilevato, occorre che la società diretta operi come autonomo centro di profitto [48]. Nella fattispecie in oggetto, si possono immaginare diverse ipotesi di abuso, caratterizzate da disposizioni date dalla banca ed ispirate al perseguimento esclusivo del proprio interesse a scapito del valore e della redditività delle partecipazioni nella società diretta. Si immagini il caso in cui una clausola del covenant impedisca, senza l’autorizzazione della banca alla società diretta, l’ingresso in nuovi mercati o l’avvio di nuove attività più o meno specificamente indicate. Si supponga che, in presenza della opportunità di porre in essere una operazione, che se riuscisse sarebbe altamente redditizia, un’accurata istruzione preventiva faccia emergere una alta probabilità di riuscita dell’operazione. Si [continua ..]
In conclusione è necessario fare alcune considerazioni ulteriori. La prima considerazione è di carattere generale. Il controllo da particolari vincoli contrattuali è sempre stata una figura problematica, sia come fattispecie che come disciplina. Con le nuove norme lo diviene ancor di più. L’art. 2497 c.c. prevede la legittimazione dei singoli soci ed in questo modo consente di corrispondere direttamente alle minoranze, il risarcimento per il pregiudizio subito alla redditività ed al valore della partecipazione, esentando la società che dirige dal ripianare l’intero pregiudizio al patrimonio della società diretta. Esso è stato evidentemente pensato per ipotesi di attività di direzione basata su di un controllo interno. L’applicazione di esso ad ipotesi di controllo esterno non è perciò stesso esclusa (almeno così mi pare) ma, nel valutare se siano necessari adattamenti, molto lavoro aspetta gli interpreti, che non potranno, prevedo, valersi dell’aiuto di una casistica cospicua. Ancora, il capo IX comprende, oltre alla norma sulla responsabilità, una serie di altre norme, la cui applicazione scatta allorché si sia in presenza di un’attività di direzione. Accertato l’esercizio di questa attività, saranno applicabili gli obblighi di disclosure (2497-ter c.c. obbligo di motivazione delle decisioni; 2497 bis c.c. obbligo di iscrizione nel registro delle imprese). Queste norme, che costituiscono lo statuto delle società legate da una relazione di direzione e coordinamento, potrebbero non essere molto gradite alla banca od alla società diretta. Ma massimamente la norma più scomoda per la banca, qualora la si ritenga applicabile anche ai casi di controllo esterno [49], sarà quella di cui all’art. 2497-quinquies, c.c., che prevede la postergazione del rimborso dei crediti alla società che dirige, qualora il finanziamento sia stato erogato nelle condizioni di cui all’art. 2467, 2° comma, c.c. e cioè se vi sia un eccessivo squilibrio rispetto al patrimonio netto [50]. Certo la norma anche nelle ipotesi che stiamo esaminando protegge interessi meritevoli però la sua applicabilità (così come quella delle altre norme appena menzionate) indurrà probabilmente la banca a cercare di non realizzare la [continua ..]