Rivista di Diritto SocietarioISSN 1972-9243 / EISSN 2421-7166
G. Giappichelli Editore

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Il liquidatore di nomina giudiziale ostaggio dei soci ma non di sé stesso (di Pierpaolo Longo)


Nei casi di impossibilità di funzionamento dell’assemblea, l’auto­liquidazione del compenso a titolo di acconto da parte del liquidatore di nomina giudiziale costituisce un contratto con sé stesso che può essere convalidato mediante l’autorizzazione dei soci per facta concludentia. In particolare, l’infor­mativa resa ai soci successivamente al compimento dell’atto può consentire la convalida tacita ai sensi dell’art. 1442, comma 2, c.c. laddove la società non reagisca mediante l’azione di annullamento. Tuttavia, nel caso in cui tale azione sia esercitata, il conflitto di interessi del liquidatore deve essere accertato mediante una valutazione sostanzialistica che accerti la sussistenza di un danno effettivo nei confronti della società che si concreta nel­l’immediata insufficienza del patrimonio sociale ai fini della soddisfazione dei creditori.

The judicial liquidator hostage to members but not to himself

If the assembly is unable to function, the self-payment of the fee, on account, by the judicial liquidator consists in a contract with himself which is validable through the members authorization by facta concludentia. In particular, the disclosure made to members about the act performed is suitable to validate it tacitly in accordance with art. 1442, comma 2, c.c. where the company does not react with the contract cancellation action. However, in case of legal action by the company, the conflict of interests must be judged through a substantive evaluation that establish an effective damage against the company capable of reduce the company’s assets immediately with no possibility to reach a settlement with creditors.

MASSIMA: In caso di mancata deliberazione del compenso del liquidatore di nomina giudiziale dovuta all’impossibilità di funzionamento dell’assemblea, l’autoliquidazione di un acconto, successivamente comunicata ai soci e appostata in bilancio, non è frutto di alcuna attività illecita del liquidatore e non provoca ex se un danno alla società (1). (Massima non ufficiale) PROVVEDIMENTO: MOTIVI DELLA DECISIONE 1. Con la sentenza impugnata nel presente giudizio, in epigrafe indicata, il Tribunale di Roma: ha respinto la domanda – di seguito descritta – proposta dal dott. (omissis), socio per la quota del 50% della società (omissis) in liquidazione (d’ora in poi anche (omissis) o società), nei confronti del liquidatore di que­st’ultima, dott. (omissis), nominato l’11.10.2011 dal Tribunale di Roma ai sensi dell’art. 2487 c.c., nonché nei confronti del socio sig. (omissis), socio della medesima società per la restante quota del 50%; ha accolto parzialmente la domanda riconvenzionale proposta dal dott. (omissis) nei confronti della predetta società, volta alla condanna della stessa al pagamento del proprio compenso, a titolo di acconto che il Tribunale ha accertato essere pari ad euro 203.767,60, comprensiva di i.v.a. e contributo previdenziale ed essere stata dal liquidatore già percepita; ha condannato l’attore al pagamento delle spese processuali in favore di tutti i convenuti, liquidati per ciascuno in euro 20.000, compensando invece dette spese tra il (omissis) e la società. Il Tribunale ha premesso che: la domanda attrice era consistita nell’azione di responsabilità sociale, disciplinata dall’art. 2476 c.c., proposta sia nei confronti del liquidatore sociale che del socio sig. (omissis), con la quale il dott. (omissis) aveva chiesto la loro condanna al risarcimento del danno patito dalla società per i seguenti pretesi illeciti: sottrazione da parte del (omissis) dalle casse sociali della somma di euro 203.767,60, che il liquidatore si sarebbe “autoliquidato” a titolo di acconti sul compenso, al di fuori di alcuna delibera assembleare; danno provocato alla società nella misura di euro 679.250 per la indebita gestione di un ampio contenzioso che la società aveva in essere, mirata a favorire il socio sig. (omissis) e le società a lui riconducibili; spese indebite, per euro 205.410,18, di cui una parte per compensi a commercialisti in relazione a compiti il liquidatore che avrebbe dovuto svolgere personalmente; la domanda era consistita altresì nell’azione di responsabilità proposta personalmente dal socio, che aveva lamentato la propria illegittima estromissione dalle assemblee sociali, al fine di favorire il (omissis), dalla quale egli aveva ricevuto un danno; il giudizio aveva ad oggetto altresì la domanda riconvenzionale [continua..]
SOMMARIO:

1. La fattispecie sottesa alla sentenza - 2. La normativa di riferimento. Il carattere presuntivamente oneroso dell'attività liquidatoria - 3. La competenza a determinare il compenso - 3.1. L’assemblea - 3.2. La possibile competenza del consiglio di liquidazione - 3.3. L’autorità giudiziaria - 4. Cenni ai criteri di liquidazione del compenso - 5. L’autoliquidazione del compenso - 6. Il commento della sentenza - NOTE


1. La fattispecie sottesa alla sentenza

La sentenza della Corte di Appello di Roma affonda le proprie radici in un contesto societario caratterizzato da un profondo e insanabile dissidio tra due soci paritetici (persone fisiche) di una S.r.l. che ha costituito il presupposto della messa in liquidazione della società con contestuale nomina giudiziale del liquidatore, la cui attività liquidatoria è consistita nella soddisfazione dei creditori anche attraverso transazioni a saldo e stralcio. Avendo lo stesso dissidio impedito all’as­semblea di deliberare il compenso del liquidatore, quest’ultimo, in considerazione della capienza della cassa societaria, si è autoliquidato il proprio compenso, a titolo di acconto, per Euro 203.768,00 incassandolo su base mensile; tale atto unilaterale è stato portato a conoscenza, tra l’altro, del socio litigioso nell’ambito delle periodiche informazioni rese in suo favore, inoltre le passività di volta in volta maturate sono state appostate dal liquidatore in tutti i bilanci intermedi di liquidazione. Il socio litigioso (ma informato) ha dunque esercitato azione di responsabilità nei confronti del liquidatore e dell’altro socio (ai sensi dell’art. 2476, comma 7, c.c.) per i danni subiti dalla società e da egli stesso in conseguenza di specifiche condotte a loro addebitabili tra cui la sottrazione, da parte del liquidatore, di fondi societari in assenza di una deliberazione assembleare (condotta, questa, che avrebbe integrato gli estremi di un’appropriazione indebita). Il liquidatore si è costituito spiegando domanda riconvenzionale volta a ottenere l’accertamento del proprio diritto al compenso per complessivi Euro 339.608,67 e la condanna della società al pagamento di tale importo, detratti gli acconti già percepiti. Il Tribunale capitolino ha rigettato la domanda attorea ritenendo, tra le altre cose, che seppure la condotta del liquidatore (autoliquidazione di acconti) fosse illegittima in quanto violativa delle prerogative dell’assemblea e del suppletivo potere cognitivo dell’autorità giudiziaria, la società non ha subìto un danno in considerazione della capienza della cassa per far fronte a tutte le passività, dovendo al contempo escludere che il danno possa coincidere con l’ammontare delle somme prelevate. Il giudice di prime cure ha poi accolto parzialmente la domanda riconvenzionale [continua ..]


2. La normativa di riferimento. Il carattere presuntivamente oneroso dell'attività liquidatoria

La normativa codicistica societaria non ha mai disciplinato espressamente il tema della determinazione del compenso del liquidatore di società. Già nella vigenza del Codice del commercio del 1882 non si è rinvenuto un dato positivo ciò consentendo alla dottrina dell’epoca di dubitare in ordine alla sussistenza di un vero e proprio diritto al compenso del liquidatore [2]. Nel codice civile, in ambito di società di capitali, si registra l’“assordante silenzio” dell’art. 2487 c.c. il quale, pur curandosi di dare un contenuto minimo alla delibera assembleare di nomina del liquidatore (i soci devono infatti individuare i criteri di liquidazione e i poteri, anche particolari, del liquidatore), salta a piè pari il tema della determinazione del compenso, ritenendola – forse involontariamente ma incautamente – superflua atteso il terreno (assemblea) in cui detta nomina germina e nel quale l’individuazione del compenso del liquidatore può ritenersi un primario interesse dei soci quali esponenti, tra l’altro, dell’impresa sostenibile vieppiù in fase liquidatoria. Ma se così fosse, dovrebbe ritenersi che il legislatore ha sottovalutato l’impatto che una simile lacuna normativa può provocare in un contesto in cui lo scioglimento della società è seguito dalla nomina di un liquidatore di matrice giudiziale (ad esempio, e soprattutto, in caso di impossibilità di funzionamento dell’assemblea). Peraltro, tenuto conto che gli artt. 2364 e 2479 c.c. attribuiscono, rispettivamente, all’assemblea e alla collettività dei soci il potere di nominare gli amministratori e di determinare il loro compenso, e considerato che, ai sensi del­l’art. 2488 c.c., le norme sugli organi sociali si applicano anche durante la liquidazione, la penna del legislatore si è arrestata in maniera davvero ingiustificata. Un timido avvicinamento al tema è rinvenibile nella legislazione speciale (L. del 16 dicembre 1977, n. 904 [3], modificata dalla L. 7 giugno 1986, n. 150 e, da ultimo, dal D.L. 8 aprile 2020, n. 23) la quale, nell’elevare l’ammontare minimo del capitale sociale, ha previsto lo scioglimento della società e messa in liquidazione (con nomina del liquidatore da parte del Presidente del Tribunale in caso di inazione dell’assemblea, art. 11) abilitando il [continua ..]


3. La competenza a determinare il compenso

Il compenso del liquidatore di società può essere liquidato seguendo un ideale ordine di fonti: in prima battuta, esso può essere individuato dall’atto costitutivo o dallo statuto; in seconda battuta, dall’assemblea assumendo che essa non si celebri in un contesto litigioso (ciò che avviene, normalmente (ma non per forza), nei casi di messa in stato di liquidazione volontaria con nomina concordata del liquidatore); in terza ed eventuale battuta, si potrebbe disquisire in ordine alla possibile competenza, in certi scenari, del collegio dei liquidatori (v. infra) mutuando la previsione di cui all’art. 2389, comma 3, c.c.; in ultima battuta, l’autorità giudiziaria è sen­z’altro competente a liquidare il compenso del liquidatore laddove sia impossibile la formazione di una volontà assembleare. Prima di esaminare le più ricorrenti scelte attributive, appare utile preliminarmente evidenziare la fattuale inadeguatezza di eventuali clausole statutarie funzionali a determinare il compenso o direttamente o attraverso una regola o criterio predeterminato. Infatti, come rilevato dalla dottrina specialistica, nel primo caso una ipotetica scelta originaria dei soci è di rara attuazione tenuto conto che questi ultimi difficilmente sarebbero in grado di prevedere ponderatamente, ora per allora, la remunerazione del liquidatore che interverrà in un momento ragionevolmente indeterminabile [9]; nel secondo caso, invece, prenderebbe campo l’ipotesi di un arbitraggio che implicherebbe l’integrazione del contratto sociale mediante la determinazione del compenso del liquidatore a o­pera di un soggetto terzo, da ritenersi implicitamente accettata dal liquidatore al momento dell’ac­cetta­zione della nomina [10]. Tali condivisibili considerazioni meritano a mio avviso di essere integrate dall’ul­teriore osservazione secondo la quale appare arduo individuare alla fonte (direttamente o indirettamente) il compenso del liquidatore senza poter conoscere compiutamente il perimetro delle future attività liquidatorie che devono essere concretamente espletate, tanto da elevare una simile previsione a norma in bianco il cui riempimento di volta in volta rischia di non rispettare effettivamente la volontà primitiva dei soci vieppiù laddove la compagine sociale dovesse nel tempo mutare (e la clausola restare immutata), [continua ..]


3.1. L’assemblea

Il soggetto per antonomasia deputato alla determinazione del compenso del liquidatore è logicamente e razionalmente l’assemblea. Focalizzandomi in prima battuta sulle S.p.A., ciò che ha stimolato gli interpreti, a partire dall’epoca ante riforma del diritto commerciale, è stata l’individuazione della composizione assembleare (ordinaria o straordinaria) in seno alla quale avrebbe dovuto assumersi la deliberazione. Facendo leva sul tenore letterale del vecchio art. 2450 c.c. [11], secondo una prima dottrina la determinazione del compenso spettava – quasi in virtù di una vis attractiva – all’assemblea straordinaria atteso che essa era (ed è) senz’altro competente a nominare, revocare, sostituire e individuare i poteri del liquidatore (attività, queste, che presentano un antecedente logico dell’indivi­duazione del compenso) [12]; altri autori hanno invece sentito l’esigenza di discernere l’atto della nomina del liquidatore (pacificamente demandata all’assemblea straordinaria) dall’atto della determinazione del compenso, evidenziando che men­tre il primo può atteggiarsi quale atto di gestione straordinario [13], il secondo rientra tra gli “adempimenti correnti” con la conseguenza che deve essere riferibile alla sfera di attribuzione dell’assem­blea ordinaria e dunque godere di un agevolato percorso deliberativo [14]. Tramontata la vecchia disciplina societaria, l’art. 2487 c.c. impone che le delibere afferenti alla nomina, la revoca, la sostituzione (e individuazione dei poteri) del liquidatore debbano essere assunte con le maggioranze previste per le modificazioni dell’atto costitutivo o dello statuto; tuttavia, il differente contenitore e (solo formalmente diverso) contenuto non consentono di poter delineare il locus deliberandi in senso differente: resta ferma, per le S.p.A., la centralità dell’as­semblea straordinaria [15]. Ciò premesso, è senz’altro preferibile la tesi dell’attribu­zione al­l’as­sem­blea ordinaria della determinazione del compenso del liquidatore [16] per due ordini di ragioni: i) l’ipotetica scelta di distaccarsi da questo costrutto sarebbe irragionevole e distonica con altre previsioni di simile natura attributive di competenza all’assemblea ordinaria (quali la [continua ..]


3.2. La possibile competenza del consiglio di liquidazione

Le seguenti considerazioni presuppongono una circostanza fattuale meno frequente nelle procedure liquidatorie ma non per questo indegna di approfondimento; può talvolta accadere, infatti, che la liquidazione venga condotta da un consiglio di liquidazione laddove ciò lo suggerisca la misura dell’attivo da liquidare e del passivo da soddisfare [24]. Ebbene, in questo contesto ci si è chiesti se sia mutuabile la disciplina dell’art. 2389, comma 3, c.c. la quale prevede la possibilità per il consiglio di amministrazione – la cui remunerazione complessiva sia stata a monte determinata dal­l’assemblea (ordinaria) – di determinare la remunerazione di amministratori investiti di particolari cariche in conformità dello statuto, sentito il parere del consiglio sindacale (ciò confermando, come illustrato supra, la tendenza del diritto moderno a contrarre le competenze assembleari). Assumendo che l’art. 2389, comma 3, c.c. possa essere esportabile nel nostro campo di indagine grazie al “ponte di congiunzione” offerto dall’art. 2488 c.c., non dovrebbe revocarsi in dubbio la possibilità che il compenso di uno dei liquidatori venga determinato dal collegio dei liquidatori anche a prescindere dalla circostanza che egli rivesta particolari cariche [25]. Tuttavia, non mancano le criticità operative in ordine all’applicabilità della tesi de qua. Preliminarmente, sarebbe senza dubbio necessaria la determinazione a monte del compenso dell’organo liquidatorio onde poi consentire a quest’ultimo, in via analogica, di determinare il compenso di quel liquidatore che risulterà investito di particolari funzioni liquidatorie: scenario, questo, che difficilmente si configura nei casi di nomina giudiziale scaturente da una impossibilità di funzionamento dell’assemblea o da protratta inattività della stessa. Sempre in via preliminare, vi è che il potere derivato dell’organo collegiale di determinare il compenso di un suo componente si fonda sulla circostanza essenziale che l’attività liquidatoria da espletare presupponga una suddivisione collegiale dei compiti; laddove così non fosse, l’unico liquidatore nominato non può godere di questa procedura collegiale dovendo invece affidarsi alla competenza dell’assemblea o alla cognizione dell’autorità [continua ..]


3.3. L’autorità giudiziaria

Superato il tema della competenza di matrice statutaria, assembleare e, in certe circostanze, consiliare, laddove questi ambienti decisori non fossero accessibili – la causa più ricorrente nella prassi è l’impossibilità di funzionamento del­l’as­semblea o la protratta inattività della stessa – allora prende campo la determinazione del compenso da parte dell’autorità giudiziaria. Aggiungasi, coerentemente con quanto testé affermato, che l’investitura del giudice è frequentemente necessaria nei casi di nomina giudiziale del liquidatore [28] poiché deve ritenersi, salvo fattispecie inverosimili (ma non assolutamente inesistenti), che il liquidatore nominato dall’assem­blea veda liquidato il proprio compenso dagli stessi soci (vieppiù nel caso in cui, ove possibile, si tratti di liquidatore-socio, il quale nutre un’a­spettativa di compenso “qualificata” atteso che si propone di traghettare la società verso la cancellazione previo nutrito e fruttuoso confronto con gli altri soci i quali, prima di giungere all’atto deliberativo, dovrebbero essere anche d’ac­cordo sulla sua remunerazione). Fermo quanto suesposto, in giurisprudenza si rinvengono due orientamenti tra loro contrastanti nei presupposti, che vedono come principali interpreti i giudici milanesi e quelli capitolini. Da un lato, infatti, si sostiene che, pur rientrando la determinazione del compenso nella competenza assembleare anche in caso di nomina giudiziale del liquidatore, la reiterata diserzione dell’assemblea da parte dei soci abilita il liquidatore ad adire l’autorità giudiziaria che lo ha nominato – dunque in sede di volontaria giurisdizione – per la determinazione del suo compenso [29]. Ma si badi bene, il fattore che consentirebbe esclusivamente l’accesso in tale ambiente processuale deve essere l’impossibilità di funzionamento dell’as­sem­bla che, pur regolarmente convocata dal liquidatore, non veda intervenire i soci alla riunione o, pur laddove essi intervengano, non raggiunga il quorum costitutivo; viceversa, nei casi in cui l’assemblea si è riunita e non ha volontariamente deliberato il compenso del liquidatore o lo ha determinato in misura ritenuta non congrua, egli deve necessariamente introdurre un giudizio a cognizione piena (dunque in [continua ..]


4. Cenni ai criteri di liquidazione del compenso

Il numero di criteri utili alla determinazione del compenso del liquidatore costituisce una classe a numero aperto alla quale possono accedere varie modalità attributive. Tralasciando quelli normativi in ordine ai quali non si registrano particolari dubbi interpretativi [35], assumendo che nella fattispecie del liquidatore di nomina assembleare il compenso è normalmente determinato dall’assemblea dei soci, sono le circostanze fattuali che si concretano di caso in caso a suggerire il criterio più adatto alla remunerazione della prevedibile attività liquidatoria. Ragione per cui, in linea di principio, può riconoscersi al liquidatore un compenso in ragione d’anno o di altro arco temporale [36] e ciò, a mio avviso, costituisce buona regola laddove la liquidazione comporti una gestione corrente facilmente perimetrabile ab initio (si pensi all’attività da espletare al fine di ottenere le autorizzazioni a ultimare la costruzione di un immobile della società o al fine di negoziare con i fornitori l’ap­provvigionamento di beni e servizi per portare a compimento delle commesse in pancia alla società). Devono ritenersi senz’altro validi quei criteri di determinazione del compenso quali i c.d. gettoni di presenza che ritengo può congrui ai casi in cui l’attività liquidatoria si preveda destrutturata con impiego minimo di energie del liquidatore o laddove la liquidazione sia condotta da un consiglio di liquidazione in seno al quale vi siano liquidatori cui viene demandata una attività più a corto raggio rispetto a quella degli altri; così come è ammissibile legare il compenso del liquidatore, in tutto o in parte, a una success fee [37] (criterio più aderente a quelle attività liquidatorie che comportano una realizzazione dell’attivo a complessità variabile: si pensi a una società immobiliare che in ambiente liquidatorio debba dismettere una serie di cespiti più appetibili sul mercato e uno o più cespiti di difficile dismissione). Altrettanto ammissibile – ma nella prassi poco frequente – è un criterio di liquidazione del compenso basato sul­l’at­tribuzione al liquidatore di strumenti finanziari partecipativi (ad esempio stock options), che però incontra il limite di una necessaria deliberazione di aumento del capitale dei [continua ..]


5. L’autoliquidazione del compenso

Non si rinviene nell’esperienza dottrinale un inquadramento della fattispecie “autoliquidazione” del compenso. Ciò, in quanto, probabilmente, trattasi di un atto giuridico relativamente infrequente – almeno in un contesto di dissidio tra soci – e scevro da conseguenze di dubbia liceità e/o illegittimità. Piuttosto, la giurisprudenza si è peritata di sanzionare la condotta autoreferenziale del liquidatore ove essa sia foriera di pregiudizio in sede civile, penale o in ottica concorsuale. Mentre su quest’ultimo fronte l’autoliquidazione può, in astratto, pacificamente ritenersi idonea ad alterare la par condicio creditorum (pur senza necessariamente depauperare la società) aprendo la strada della condanna del liquidatore per il reato di bancarotta preferenziale [45], sotto un profilo eminentemente civilistico l’atto unilaterale di autoliquidazione del compenso degli amministratori – cui devono equipararsi i liquidatori in virtù dell’applicabilità delle norme sugli organi sociali anche durante la fase liquidatoria, giusta il richiamo operato dal­l’art. 2488 c.c. – si ritiene affetto da nullità per violazione di norma imperativa (art. 2389 c.c. disciplinante il compenso degli amministratori) non suscettibile di convalida: tale impostazione si armonizzerebbe con il principio ternario “richiedi e ottieni” (all’assemblea o al giudice), “contabilizza” (appostando i compensi riconosciuti nelle poste passive del bilancio) e “liquida” (in favore di sé stesso amministratore o liquidatore) [46]. Più tranchant ma in linea con tale orientamento appare il sindacato di merito operato nel giudizio di primo grado da cui tra origine la sentenza commentata, laddove è stato affermato che il prelievo di somme dal patrimonio sociale a titolo di acconti su compensi autoliquidati deve ritenersi illegittimo per violazione della determinazione assembleare o giudiziale del compenso del liquidatore [47]. Sotto altro profilo di rilevanza penale, invece, l’inca­me­ra­mento di acconti utilizzando fondi societari in assenza di una deliberazione assembleare volta a liquidare il credito, può configurare il reato di appropriazione indebita a carico del liquidatore [48]. Mi sembra che sul piano strettamente civilistico la tesi della nullità [continua ..]


6. Il commento della sentenza

La sentenza oggetto di commento ha accertato, come illustrato nella superiore narrativa, che la condotta del liquidatore volta ad autoliquidarsi il compenso (in acconto) non deve ritenersi illegittima laddove essa, da un lato, rappresenti l’”ultima spiaggia” del liquidatore che in sede assembleare è rimasto prigioniero di un’as­semblea reiteratamente non funzionante e, da altro lato, consenta di soddisfare in pendenza di procedura un debito sociale senza esorbitare dal compenso complessivo spettante al liquidatore, non cagionando dunque un danno alla società. Secondo il giudicante la mancata espressione della volontà dei soci deve ritenersi sanata sia dalla disclosure offerta, al di fuori del luogo assembleare, dal liquidatore ai soci (che, dunque, erano informati circa l’autoliquidazione e mai si sono tempestivamente attivati censurando tale condotta) sia dall’appostazione nei bilanci intermedi di liquidazione, tra le poste del passivo, dei crediti via via maturati dal liquidatore e da egli pagati a sé stesso durante le stagioni liquidatorie, con ciò generando l’affi­damento di correttezza del proprio operato e precisando che egli non avrebbe potuto attendere sine die l’espressione della volontà assembleare. Benché l’arresto giurisprudenziale sia apprezzabile quanto al nucleo di tutela offerto, non del tutto condivisibili, almeno in parte, appaiono le argomentazioni che poggiano sull’accertamento. Non mi pare, in effetti, che l’appostazione a bilancio del credito maturato dal liquidatore e oggetto di autoliquidazione possa qualificare in termini di legittimità il suo operato in quanto l’interpretazione degli artt. 2476, comma 8, c.c. (per le S.r.l.) e 2434 c.c. (per le S.p.A.) induce ad affermare che l’ap­provazione del bilancio non sana ex se le condotte di mala gestio che possono annidarsi nella gestione che trova la sua sintesi, da un punto di vista statico, nel documento approvato né, del resto, tali condotte trovano il rimedio nell’impugnazione della delibera assembleare di approvazione del bilancio (posto ovviamente che, stante il dissidio dei soci, i quorum statutari consentano di procedervi [64]); vero è, invece, che gli atti di mala gestio degli amministratori (e dei liquidatori) sono censurabili nelle azioni di responsabilità e/o di revoca esercitabili ai sensi di [continua ..]


NOTE