Il presente lavoro si propone di sviluppare delle considerazioni sui presupposti oggettivi del Chapter 11 e sul fenomeno dell’insolvenza strategica nell’ordinamento nordamericano, a partire da una recente vicenda giudiziaria che ha coinvolto talune società del gruppo J&J.
The work provides an in-depth analysis of the U.S. case law on the Chapter 11’s good faith filing requirement and aims to offer some reflections on strategic insolvency, starting from a recent bankruptcy case which involved certain companies of the J&J group.
1. Premessa - 2. I fatti - 3. La vicenda giudiziaria: la pronuncia della Bankruptcy Court - 4. Segue. La pronuncia di appello - 5. Segue. La nuova domanda di accesso al Chapter 11 - 6. Inquadramento del problema - 7. Una procedura senza presupposto oggettivo? - 8. Le sentenze "LTL" alla luce della good faith filing doctrine e gli ulteriori sviluppi giurisprudenziali in tema di buona fede - 9. Da Bestwall ad Aldrich Pump: segnali dal Quarto Circuito - NOTE
Con il presente contributo ci si propone di articolare delle riflessioni sui presupposti oggettivi del Chapter 11, a partire da una recente vicenda giudiziaria che ha visto una società del gruppo J&J al centro di un caso di presunta insolvenza “strategica”. Le tre sentenze commentate, nello specifico, affrontano e dipanano taluni dei dubbi insorti nella giurisprudenza statunitense circa la “meritevolezza” dell’istanza di Chapter 11 che non risulti motivata dalla sussistenza di un serio rischio d’insolvenza in capo al debitore. Il tema, a ben vedere, risulta di primaria importanza e di estrema attualità, per due ordini di ragioni: in primo luogo, perché della questione verrà probabilmente ad essere investita la Corte Suprema, il cui intervento è già stato di recente invocato in un altro caso – quello della Purdue Pharma – nel quale si è posto, pur se in termini differenti, un problema di opportunismo delle iniziative debitorie; in secondo luogo, per il fatto che nelle pronunce analizzate l’indagine sui requisiti di accesso alla reorganization viene condotta sulla scorta di una preliminare definizione degli interessi protetti dal Bankruptcy Code, sì da consentire all’interprete di ricostruire la natura e soprattutto la funzione del Chapter 11.
A partire dal 2013 la Johnson & Jhonson Consumer Products Inc. (d’ora in avanti la Old JJCI), cui la “madre” del gruppo J&J aveva trasferito – sin dal 1979 – le attività relative alla produzione e alla commercializzazione dei prodotti per l’infanzia, veniva citata in giudizio per il risarcimento dei danni provocati a numerosi consumatori dalle fibre di amianto, delle quali risultava asseritamente contaminato il talco per bambini a marchio “Johnson’s”. Nel 2020, oramai convenuta in decine di migliaia di giudizi civili (c.ca. 38.000), alcuni dei quali definiti in senso favorevole ai consumatori, la società intraprendeva una serie di operazioni straordinarie volte in definitiva ad isolare gli asset produttivi dalle passività legate al contenzioso, nel dichiarato intento di pervenire ad una definizione concorsuale delle obbligazioni risarcitorie (presenti e future) e schermare al contempo l’azienda – fondamentalmente sana – dagli effetti delle procedure d’insolvenza. A tal proposito, la debitrice si avvaleva di uno spesso criticato meccanismo di divisional merger contemplato alla § 10.008 del Texas Business Organizations Code. La norma citata precisa infatti che, in caso di scissione societaria, le assegnazioni patrimoniali disposte in favore delle beneficiarie non possano essere qualificate come “trasferimenti” [1], ponendo dunque dei seri dubbi sull’esperibilità della revocatoria concorsuale. In passato, altre società gravate da mass tort claims si erano mostrate interessate a sfruttare un tale strumento per segregare il patrimonio produttivo e risolvere globalmente le controversie risarcitorie nell’unitaria sede concorsuale [2], elaborando una strategia (c.d. Texas Two-Step) che usualmente prevede: (i) la costituzione di una nuova società texana cui incorporare la debitrice; (ii) la immediata scissione della stessa in due beneficiarie, l’una assegnataria delle attività (BadCo) e l’altra delle passività della debitrice (AssetCo); (iii) la trasformazione della BadCo in una LLC del North Carolina, seguita a stretto giro dalla presentazione della domanda di Chapter 11 presso le Corti fallimentari di quello stato, giudicate maggiormente “permissive” nei confronti del debitore [3]. Seguendo dunque una strada già tracciata e ben collaudata, la [continua ..]
Con la prima sentenza in epigrafe, la Bankruptcy Court rigettava integralmente le censure avanzate dal comitato rappresentativo delle vittime [7]. Quanto all’utilizzo strumentale del Chapter 11 veniva ribadita anzitutto l’irrilevanza, ai fini della configurazione della mala fede, sia del ricorso alla tecnica del Texas Two-Step [8], sia del tentativo di profittare delle disposizioni di favore dettate dal Bankruptcy Code per le c.d. Asbestos Bankruptcy (nel caso di specie, la § 524 (g)). Simili elementi non sarebbero bastati a dimostrare l’abusività della domanda, specie alla luce del fatto che, proprio nei casi di asbestos mass tort claims, la particolare disciplina apprestata dal legislatore renderebbe il Chapter 11 un valido ed efficiente strumento per gestire unitariamente le azioni di massa, nonché per assicurare una qualche forma di tutela ai creditori futuri [9]. Dubbi più consistenti, tuttavia, si appuntavano sull’effettiva necessità di accedere al Chapter 11 per scongiurare il rischio di una futura liquidazione dell’attività, che si rivelasse anzitutto pregiudizievole per gli stessi creditori. Come prospettato dai ricorrenti, infatti, la debitrice avrebbe in ogni caso potuto evitare un tale scenario avvalendosi del supporto finanziario garantito da altre due società del gruppo (particolarmente solide sia sotto il profilo patrimoniale, sia sotto il profilo economico-finanziario), sì da non esservi all’apparenza alcuna ragione per attivare uno strumento che presuppone perlomeno l’esistenza di un pericolo per la continuità aziendale. In merito, tuttavia, la Corte riteneva fondati i timori manifestati dalla LTL, precisando che, nonostante il sostegno finanziario di cui avrebbe potuto godere la debitrice, la crescente esposizione debitoria (stimata in via previsionale sulla base dei dati riferiti alla Old JJCI) si sarebbe in futuro rivelata insostenibile sia per quest’ultima, sia per le società che avevano sottoscritto il funding agreement, minacciando in definitiva la continuità di tutti gli enti coinvolti nelle operazioni di ristrutturazione della Old JJCI. Nell’ottica della Corte, la solvibilità prospettica della LTL veniva infatti affermata dai ricorrenti sulla base della pura e semplice presunzione per la quale la debitrice avrebbe potuto sfruttare integralmente il funding agreement [continua ..]
Avverso la sentenza di prime cure ricorrevano i comitati rappresentativi dei creditori, lamentando la presenza di insanabili vizi tanto nell’apprezzamento dei fatti dai quali originava la controversia, quanto nell’interpretazione ed applicazione dello standard of review elaborato dalla giurisprudenza con riferimento ai casi di mala fede del debitore. La Corte d’Appello per il Terzo Circuito accoglieva integralmente le doglianze avanzate dai ricorrenti [11]. Pur ricordando l’assenza di un qualsiasi requisito oggettivo da dover provare in sede di accesso volontario alla procedura, la Corte sottolineava l’imprescindibilità di un preliminare accertamento circa l’esistenza e la gravità del financial distress vissuto dal debitore, al fine di valutare la legittimità – rectius, la non abusività – dei motivi sottostanti la domanda di Chapter 11. Il fondamento giustificativo dei poteri e dei benefici eccezionali di cui il debitore è investito dal Chapter 11 andrebbe infatti pur sempre ravvisato nell’esistenza del concreto rischio di dispersione di quei valori organizzativi dell’impresa che, debitamente conservati, consentirebbero invece di soddisfare i creditori in misura migliore rispetto ad un’ipotetica piecemeal liquidation. Sicché – argomenta la Corte – laddove un simile rischio rimanga solamente possibile e non si possa pertanto formulare un giudizio sufficientemente certo sulla futura impotenza finanziaria del debitore, questi non potrebbe certo limitare la propria responsabilità patrimoniale e sottrarsi agli ordinari rimedi esecutivi apprestati in favore dei creditori. E spetterebbe proprio alle Corti fallimentari, quali corti di equity, il preciso dovere di determinare con approccio casistico quale sia in concreto la soglia “minima” della crisi oltre la quale ricorra la necessità di accedere alla procedura, dovendosi a tal fine valutare ad ampio spettro tutte le circostanze e criticità (anche di natura non strettamente finanziaria) che suggeriscano l’esistenza di una concreta, se non imminente, minaccia per il going concern. Nel caso sottoposto all’attenzione del Terzo Circuito, non vi era tuttavia evidenza del bisogno di preservare l’attività esercitata dalla debitrice nell’ottica del miglior soddisfacimento delle pretese creditorie, per la semplice ragione che al [continua ..]
Nell’aprile 2023, nonostante il dichiarato intento della società di impugnare innanzi alla Corte Suprema il verdetto d’appello [12], la Bankruptcy Court respingeva una seconda istanza di accesso al Chapter 11 proveniente dalla medesima società [13], applicando fedelmente i principi enucleati nella sentenza di secondo grado e correttamente valorizzando il funding agreement (nonostante i suoi contenuti fossero nel frattempo mutati e la stessa società avesse raggiunto un accordo anche con la maggior parte dei talc claimant [14]). In tal caso la Corte osservava, con una certa vena polemica, che una simile conclusione risultava essere sostanzialmente imposta dal verdetto d’appello, la cui rigidità avrebbe nei fatti costretto il giudice ad ignorare la vantaggiosità (anche e soprattutto per i creditori futuri) della procedura, dovendo focalizzare l’attenzione unicamente sulla gravità e sull’imminenza del financial distress paventato dal debitore. A quanto consta, peraltro, la società avrebbe programmato di depositare un’ulteriore petition di Chapter 11 – la terza – con il proposito, questa volta, di portare il caso sino alla Corte Suprema [15].
La vicenda giudiziaria appena tratteggiata s’incentra su di una tematica, quella delle condizioni di accesso al Chapter 11, che non sembra aver ricevuto sino ad oggi un dovuto approfondimento da parte della letteratura domestica interessatasi della procedura nordamericana di reorganization [16]. Per contro, un’attenta analisi della questione si rivela non solo interessante in un’ottica prettamente conoscitiva, ma soprattutto utile per la ricostruzione e l’interpretazione del diritto interno [17]. È bene infatti rimarcare sin d’ora che l’interesse suscitato dalla vicenda dipende soprattutto dalla particolare angolatura con la quale la giurisprudenza nordamericana ha affrontato il problema, ovverosia interrogandosi sull’assetto d’interessi che la procedura è volta a realizzare ed indagando il nesso d’interdipendenza che lega indissolubilmente il presupposto oggettivo del Chapter 11 alla sua funzione istituzionale [18]. Non potendosi in questa sede dedicare delle compiute riflessioni sulla rilevanza “domestica” di un simile approccio funzionale [19], occorre per il momento notare che questa prospettiva d’indagine, almeno sotto il profilo conoscitivo, appare senz’altro proficua per ovviare ad alcuni equivoci che talvolta pregiudicano una corretta definizione degli interessi protetti dal Chapter 11 e, più in generale, dal bankruptcy law statunitense; equivoci che, si crede, hanno in passato ingenerato non pochi errori percettivi nello stesso legislatore concorsuale italiano [20]. A tal proposito, conviene tuttavia tracciare brevemente i contorni della questione. Il dato di partenza è che il Bankruptcy Code non pone formalmente alcuna condizione di accesso volontario al Chapter 11: da un lato la § 109 omette qualsiasi riferimento all’insolvenza del debitore, a differenza di quanto prevedeva il Bankruptcy Act alle § 77(a), 130(1), 323, e 423 [21]; dall’altro lato, nel Codice non è sopravvissuta alcuna disposizione che imponga alla Corte di accertare la buona fede del debitore, così come invece precedentemente prescritto – per il solo Chapter X – dalla § 141 del Bankruptcy Act . È peraltro evidente, nonché supportato dall’analisi dei lavori preparatori alla riforma concorsuale del 1978, che l’espunzione dei presupposti oggettivi rispondeva [continua ..]
Quanto alla conformazione del presupposto oggettivo della reorganization, va osservato che sin dagli anni immediatamente seguenti l’emanazione del Bankruptcy Code le Corti fallimentari si sono interrogate sulla possibilità di utilizzare i propri equity power [30] per intercettare possibili abusi della giurisdizione concorsuale. Per quanto la riforma avesse infatti rimosso i filtri giurisdizionali che condizionavano l’accesso alla procedura [31], la § 1112(b) prevede che la Corte, su richiesta dei creditori, possa ordinare la chiusura del Chapter 11 o la sua conversione al Chapter 7 (Liquidation), qualora ne ravvisi un fondato “motivo” e ciò non si risolva in danno ai creditori. La disposizione fornisce un’elencazione esemplificativa e non tassativa delle ragioni legittimanti un simile provvedimento [32], ben potendo quindi il giudice adito considerare fattispecie non espressamente contemplate e che rendano parimenti inopportuna la continuazione della procedura [33]. Ed è proprio sfruttando l’ampia discrezionalità riconosciutale dalla legge che la giurisprudenza, nei fatti, ha continuato a valorizzare l’oramai perduto riferimento alla “buona fede” [34], annoverando tra i “motivi” di chiusura anticipata anche la “mala fede” della domanda, intesa come disfunzionalità della domanda rispetto al perseguimento degli interessi protetti dal Bankruptcy Code (c.d. good faith-filing doctrine) [35]. In un primo momento, la questione veniva posta quasi esclusivamente con riguardo ai procedimenti avviati dai c.d. single asset real estate debtor (SARE [36]), ovverosia da debitori– il più delle volte società appositamente create per accedere alla procedura – proprietari di un singolo asset immobiliare gravato da prelazione, alla vigilia del pignoramento da parte dei creditori. Alcune Corti, sollecitate dai creditori ai sensi della § 1112(b), avevano ritenuto infatti che la domanda di protezione del debitore fosse in questi casi motivata da scopi opportunistici (ottenere la sospensione delle azioni esecutive individuali ed evitare il pignoramento) non coincidenti con la riorganizzazione del business e che, riducendosi sostanzialmente ad una controversia tra debitore e creditori garantiti, la vicenda avrebbe dovuto essere regolata secondo il diritto statale [37]. Detto altrimenti, la [continua ..]
La vicenda LTL, per quanto abbia suscitato un certo clamore mediatico, non ha fatto emergere principi diversi rispetto a quelli che già potevano trarsi dalle precedenti pronunce in materia di buona fede del debitore. Un vero punto di distacco (più che una vera e propria rottura) rispetto alla good faith-filing doctrine lo si poteva forse scorgere nella primissima pronuncia della Bankruptcy Court e, nello specifico, nel modo con il quale la Corte aveva provveduto a verificare l’esistenza di un purché minimo disagio economico-finanziario che giustificasse l’utilizzo del Chapter 11. Nei fatti, la situazione nella quale si trovava la Old Consumer JJC era pressoché assimilabile a quella che aveva costretto tempo addietro società come la Manville a presentare l’istanza di Chapter 11, in quanto contraddistinta dall’esistenza di azioni di massa il cui esito rimaneva in gran parte indeterminato, se non indeterminabile. L’unica certezza stava nel fatto che nel lungo (o lunghissimo) periodo la società sarebbe stata costretta a liquidare i propri asset per far fronte alla crescente esposizione nei confronti dei talc claimant, laddove non si fosse in qualche modo arginata l’onda montante dei giudizi risarcitori. Se non che, nel caso in esame, a presentare la domanda di Chapter 11 non era la società inizialmente travolta dal contenzioso, ma una delle beneficiarie risultanti dalla scissione della debitrice; scissione progettata ed attuata, sfruttando la normativa texana, per separare le attività della debitrice dalle sue passività, così da instradare la BadCo verso il Chapter 11, seppur con l’inedita assistenza finanziaria di altre due società del medesimo gruppo (tra cui la capogruppo). Tralasciando il fatto che, secondo parte dell’accademia statunitense, già solo l’utilizzo del meccanismo del Texas Two-Step potrebbe ingenerare un qualche dubbio sulla buona fede del debitore [65], il punto davvero rilevante è che nella sentenza di prime cure il giudizio sui motivi della riorganizzazione e sulla loro validità veniva condotto guardando non tanto alla società debitrice, in sé e per sé considerata, ma alla oramai estinta Old Consumer JJC, se non all’intero gruppo J&J. Nelle motivazioni addotte dalla Bankruptcy Court a supporto del provvedimento non manca certo una puntuale [continua ..]
Come poc’anzi accennato, sebbene l’orientamento volto ad escludere il debitore in mala fede sia oramai sostanzialmente univoco [82], altrettanto uniformi non possono dirsi le modalità con le quali la giurisprudenza ha di volta in volta provveduto ad accertare la mala fede. Ciò dipende prevalentemente dal fatto che i “test” sviluppati ed utilizzati dai diversi Circuiti d’Appello per intercettare le domande abusive rispondono a strutture anche molto diverse tra loro. Benché lo standard basato sull’esistenza di un valid reorganizational purpose sia quello ad oggi prevalente in giurisprudenza, occorre segnalare che il Quarto Circuito, al contrario, continua ad affidarsi ad un criterio meno selettivo, nella convinzione che sia maggiormente accettabile il rischio di proseguire un procedimento “abusivo”, piuttosto che di stroncare sul nascere un tentativo di risanamento meritevole di protezione [83]. Nello specifico, il c.d. “Carolin test” impone al giudicante di appurare sia la mala fede soggettiva del debitore, ravvisabile in ogni circostanza che denoti l’intento di piegare la procedura a finalità opportunistiche, sia l’assoluta impraticabilità della riorganizzazione (objective futility) [84]. Non può stupire dunque il fatto che proprio la Bankruptcy Court per il Western District of North Carolina fosse giunta, solo qualche anno prima, a conclusioni diametralmente opposte in un caso coincidente con quello che riguardava la LTL Mgmt (e questo era il motivo per cui, inizialmente, la stessa LTL aveva presentato la domanda di Chapter 11 nel North Carolina) [85]: per la semplice ragione che, a prescindere dalla ipotetica “strategicità” della domanda, la riorganizzazione risultava certamente possibile ed utile per la debitrice. Più di recente, tuttavia, pronunciandosi ancora una volta sulla legittimità di una domanda presentata da una società risultante da un divisional merger, la stessa Corte sembra aver posto sotto attento scrutinio la validità di un simile indirizzo interpretativo, invitando velatamente gli stessi giudici del Quarto Circuito a rivalutarne l’impostazione [86]. In primo luogo, il provvedimento risulta di particolare interesse perché affronta direttamente le implicazioni costituzionali legate all’apertura del Chapter 11 a debitori non insolventi [continua ..]