Rivista di Diritto SocietarioISSN 1972-9243 / EISSN 2421-7166
G. Giappichelli Editore

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Azioni proprie: computo nei quorum e illegittima disposizione. Questione chiusa? (di NICOLA DE LUCA ANDREA NAPOLITANO)


CORTE D’APPELLO DI ROMA, 5 ottobre 2016 – Cofano, Presidente, Thellung De Courtelary, Consigliere, Cianfrocca Consigliere relatore estensore Assemblea ordinaria di approvazione del bilancio – Seconda convocazione – Azioni proprie – Maggioranze – Quorum costitutivo – Quorum deliberativo – Computo – Deroga per esigenza di facilità deliberativa – Esclusione (Artt. 2357-ter, 2369 c.c.) Nelle società per azioni che non ricorrono al mercato del capitale di rischio le azioni proprie sono sempre conteggiate nel calcolo dei quorum assembleari, sia costitutivi che deliberativi, anche quando la legge non assume il capitale sociale a denominatore per la loro verifica. Il principio di facilità deliberativa di cui all’art. 2369, comma 4, c.c. non osta a che le azioni proprie siano computate al denominatore del quorum deliberativo dell’assemblea di seconda convocazione di approvazione del bilancio. (1) SENTENZA Con atto di citazione ritualmente notificato, Salini Francesco Saverio, in proprio e quale legale rappresentante di SA.PAR. srl, entrambi soci di Salini Costruttori spa (ovvero titolari, il primo, di n. 9.440.700 e, la seconda, di n. 42.269.660 azioni ordinarie della predetta società), aveva convenuto in giudizio quest’ultima chiedendo al Tribunale di ritenere invalida ovvero di annullare la deliberazione dell’assemblea ordinaria del 23.6.2011 di approvazione del bilancio al 31.12.2010 e di distribuzione degli utili ai soci per l’importo complessivo di Euro 12.000.000,00, a valere sulle riserve dei precedenti esercizi. L’attore aveva in particolare segnalato che la deliberazione doveva ritenersi invalida in quanto adottata in violazione dell’art. 2357-ter, comma 2, c.c., a causa del mancato computo, ai fini della determinazione della maggioranza deliberativa, di n. 11.708.900 azioni proprie; aveva precisato di non voler impugnare il medesimo atto deliberativo sotto altri e diversi profili e, in particolare, con riguardo ai vizi del bilancio. Si era costituita in giudizio la società convenuta eccependo, in primo luogo, la inammissibilità della domanda avanzata da controparte atteso che, a suo avviso, l’esposta censura non integrerebbe un vizio di nullità della delibera di approvazione del bilancio e, comunque, contestandone nel merito la fondatezza alla luce del disposto di cui all’art. 2369 c.c. Il Tribunale respingeva innanzitutto l’ecce­zione di inammissibilità della domanda attrice quale sollevata dalla società convenuta ritenendo che il vizio denunziato fosse tale, ove fondato, da comportare l’annullamento della delibera, come richiesto dall’attore. Riteneva, per contro, inammissibili le eccezioni e le difese spiegate da Salini Costruttori spa soltanto con la memoria di replica del 19.4.2012 in quanto tardivamente [continua..]
SOMMARIO:

1. Il caso - 2. Il dibattito sul computo delle azioni proprie nella giurisprudenza e dottrina successiva al d.lgs. n. 224/2010. - 3. Il significato dell’espressione “maggioranze e quote richieste” - 4. Esercizio del voto, intervento e computo delle azioni proprie nei quorum - 5. Il fraintendimento del principio di “facilità deliberativa”: maggioranza assoluta e maggioranza relativa - 6. Il paradosso dell’autopartecipazione maggioritaria - 7. (segue). La disposizione di azioni pro­prie in difetto di autorizzazione assembleare - NOTE


1. Il caso

La questione è ormai nota. Una importante società per azioni non quotata, Salini Costruttori s.p.a., vede al suo interno due gruppi di soci in frequente dissidio: il primo gruppo è titolare del 47% delle azioni, il secondo del 43%; la restante parte è costituita da azioni proprie. Le due sentenze annotate riguardano una deliberazione di approvazione del bilancio e una di gratuita distribuzione di azioni proprie: dunque, in entrambi i casi deliberazioni di competenza dell’assemblea ordinaria. La deliberazione più risalente è quella di approvazione del bilancio dell’esercizio 2010, dichiarata approvata con il voto favorevole del gruppo di soci titolare del 47% delle azioni e il voto contrario del rimanente 43%. La deliberazione veniva impugnata dai soci che avevano espresso voto contrario sul principale argomento che non era stata raggiunta la maggioranza richiesta dalla legge in quanto nel quorum deliberativo, anche nell’assemblea ordinaria di seconda convocazione, devono essere computate le azioni proprie come intervenute ed astenute. Pertanto, il risultato della deliberazione doveva considerarsi di rigetto della proposta, dovendosi cumulare ai voti contrariamente espressi anche le astensioni (riferibili ai voti sospesi delle azioni proprie). Il Tribunale di Roma, investito della questione in primo grado, rigettava l’impugnazione ritenendo che la regola del computo delle azioni proprie nei quorum assembleari, prevista in generale dall’art. 2357-ter, 2° comma, c.c., deve essere disapplicata nelle deliberazioni di seconda convocazione concernenti l’ap­provazione del bilancio e la nomina e revoca delle cariche sociali, di cui all’art. 2369, 4° comma, c.c., per la prevalenza del principio di facilità deliberativa ivi espresso. La decisione di primo grado veniva riformata dalla sentenza della Corte d’Appello in epigrafe. La deliberazione più recente riguardava la proposta di disposizione delle azioni proprie detenute nel portafoglio della società. Il consiglio di amministrazione proponeva infatti all’assemblea di operare una assegnazione gratuita delle azioni proprie pro quota che avrebbe avuto l’effetto di attribuire in capo alla maggioranza relativa rappresentativa del 47% del capitale la maggioranza assoluta (il 52%). Tale deliberazione veniva assunta in assemblea con il voto favorevole [continua ..]


2. Il dibattito sul computo delle azioni proprie nella giurisprudenza e dottrina successiva al d.lgs. n. 224/2010.

Come noto, l’art. 2357-ter, 2° comma, c.c. è stato innovato dal d.lgs. 29 novembre 2010, n. 224, per precisare che, benché il voto sia sospeso, «le azioni proprie sono tuttavia computate ai fini del calcolo delle maggioranze e delle quote richieste per la costituzione e per le deliberazioni dell’as­sem­blea», eliminando il riferimento al capitale. Ciò significa che, diversamente dal­l’av­­viso espresso in passato da parte della dottrina [1] e della giurisprudenza anche di legittimità [2], le stesse si computano anche quando le maggioranze prendono a riferimento come denominatore non la cifra del capitale sociale, ma il capitale rappresentato in assemblea [3]: il che vale in particolare per le assemblee ordinarie di seconda convocazione. Il chiarimento legislativo, tuttavia, non ha del tutto sopito la questione, insistendosi ancora da una parte della giurisprudenza [4] e della dottrina [5], che in tali assemblee le azioni proprie non si debbano computare ai fini della deliberazione. Sono fondamentalmente quattro gli argomenti addotti a fondamento della tesi che vorrebbe non si computassero le azioni proprie nei quorum deliberativi delle assemblee ordinarie in seconda convocazione. Innanzitutto, un argomento letterale: la legge, infatti, farebbe ancora riferimento alle quote e maggioranze richieste, tali dovendosi ritenere solo quelle specificamente richieste dalla legge, e cioè determinate in relazione al capitale sociale, lasciando fuori tutte le altre. In secondo luogo, l’art. 2357-ter, 2° comma, c.c. andrebbe coordinato con l’art. 2370 c.c. che attribuisce l’inter­vento, e dunque un peso organizzativo alla partecipazione, solo in funzione dell’espres­sione del voto: voto che non può essere espresso in relazione alle azioni proprie possedute dalla società. In terzo luogo, la pronuncia di primo grado riformata dalla sentenza di appello qui annotata ha sostenuto che, seppure l’interpretazione corretta del­­l’art. 2357-ter, 2° comma, c.c. dovesse considerarsi quella che esige il computo delle azioni proprie in ogni sede e convocazione, la stessa dovrebbe comunque essere abbandonata nel caso in cui si tratti di approvare il bilancio o nominare gli amministratori, perché l’art. 2369, 4° comma, c.c. fa prevalere [continua ..]


3. Il significato dell’espressione “maggioranze e quote richieste”

Il participio aggettivato “richieste”, riferibile da un punto di vista grammaticale nel testo dell’art. 2357-ter, 2° comma, c.c. a quote e maggioranze, non può essere interpretato nel senso che le azioni proprie debbano essere computate solo quando la legge richieda una maggioranza che al contempo rappresenti una certa quota di capitale sociale per essere sufficiente a determinare l’ap­provazione della deliberazione (e cioè maggioranze e quote specificamente richieste). In questo senso è più precisa, ma non diversa, l’espressione dell’art. 2368, 3° comma, c.c. la quale si riferisce «alla maggioranza e alla quota di capitale richiesta per l’approvazione della deliberazione». Il sostantivo “maggioranza”, in questo caso, attiene alla prevalenza dei voti favorevoli su quelli contrari e sugli astenuti, con la precisazione che non si considerano astenute le azioni che hanno contribuito alla formazione del quorum costitutivo, il cui voto risulta sospeso: in termini matematici, si ha maggioranza quando il rapporto tra il valore nominale delle azioni che hanno espresso voti favorevoli, posto a numeratore, e il valore nominale di tutte le azioni rappresentate in assemblea, escluse quelle che non potevano esprimerne, poste a denominatore, è maggiore di un mezzo. L’e­spressione quota di capitale richiesta attiene invece all’eventuale necessità che la detta maggioranza rappresenti anche una certa soglia minima del capitale sociale o del capitale rappresentato in assemblea (un terzo, un quinto, due terzi, ecc.): se il riferimento della quota di capitale va alla cifra del capitale sociale, questa va posta a denominatore della frazione richiesta dalla legge, ridotta del valore nominale delle azioni con voto sospeso. Ragionamento non diverso vale per l’in­terpretazione dell’art. 2357-ter, 2° comma, c.c. Per maggioranza si intende anche qui la prevalenza dei voti favorevoli su quelli contrari e sugli astenuti, ma tra gli astenuti occorre includere anche le azioni proprie, le quali devono essere computate nelle maggioranze; per quote richieste si intende l’e­ventuale necessità che la maggioranza ragguagli anche una certa quota di capitale sociale (senza che il valore nominale delle azioni proprie sia sottratto) o di capitale rappresentato in assemblea (dal [continua ..]


4. Esercizio del voto, intervento e computo delle azioni proprie nei quorum

Parte della dottrina si è chiesta, sia in passato sia, più recentemente, alla luce della riforma del 2010, se gli amministratori della società possano intervenire in assemblea con le azioni proprie, che pur non possono esprimere il voto, al fine di facilitare o com­plicare il raggiungimento dei quorum costitutivi [9]. La soluzione negativa al prospettato interrogativo potrebbe farsi provenire dal­l’osservazione che il diritto di intervento è connesso all’espressione del voto, a norma del­l’art. 2370 c.c., e che in relazione alle azioni proprie il voto è sospeso [10]. Si tratta tuttavia di un approccio fallace. Invero, l’art. 2370, 1° comma, c.c. si esprime nel senso che «possono intervenire al­l’as­semblea gli azionisti cui spetta il diritto di voto» (enfasi aggiunta). Letta in negativo la medesima disposizione afferma che non possono intervenire coloro cui il diritto di voto non spetta. Così proposta, la regola del­l’art. 2370, 1° comma, c.c. aderisce perfettamente a quella dell’art. 2368, 1° comma, c.c., a mente del quale ai fini dell’in­tervento necessario per verificare il raggiungimento del quorum costitutivo vanno escluse le azioni prive del diritto di voto nell’assemblea medesima: e cioè i possesso­ri di azioni senza diritto voto, tra cui quelle di risparmio per le quali la disposizione è stata precisata, e di azioni a voto limitato o subordinato. La regola dell’art. 2370, 1° comma, c.c. non interferisce invece con le fattispecie regolate dall’art. 2368, 3° comma, c.c., non essendo dubbio che coloro che per una qualsiasi ragione non possono esercitare il voto, o possono decidere se astenersi o votare (come il socio in conflitto di interessi), sono pur sempre azionisti cui il diritto di voto astrattamente spetta. La domanda che ci si deve porre, dunque, non è tanto se questi azionisti possano intervenire in assemblea, quanto piuttosto se l’eventuale intervento o la diserzione abbia influenza sui criteri che la legge pone con riguardo al computo di tali azioni nei quorum costitutivi e deliberativi. Nonostante qualche autorevole dissenso, la risposta corretta al riguardo – confermata anche dalla Relazione governativa e, oggi, dalle sentenze in epigrafe – è nel senso che, [continua ..]


5. Il fraintendimento del principio di “facilità deliberativa”: maggioranza assoluta e maggioranza relativa

Contro la tesi del necessario computo delle azioni proprie in ogni sede e convocazione assembleare, era stato portato l’argo­mento dell’ipotetico contrasto con il principio di facilità deliberativa, di cui all’art. 2369, 4° comma, c.c. Tale argomento era stato accolto dal Tribunale di Roma nella sentenza ora riformata dalla Corte di Appello in commento. Sul presupposto che la tesi del necessario computo delle azioni proprie in tutte le sedi e convocazioni fosse corretta in generale, si era sostenuto che la stessa dovesse cedere nelle assemblee ordinarie in seconda convocazione qualora si tratti di nominare (o revocare) le cariche sociali o di approvare il bilancio, dovendo prevalere in questi casi le esigenze di facilità deliberativa espresse dall’art. 2369, 4° comma, c.c. [11]. Neppure questo argomento può essere tuttavia condiviso, come osservato in dottri­na [12] e da entrambe le sentenze in epigrafe. Anzitutto, il disposto dell’art. 2369, 4° comma, c.c. pone un vincolo all’autonomia statutaria, non già alla potestà del legislatore, che ben potrebbe prevedere deroghe: non pare dunque necessitata un’interpre­tazione correttiva di una norma avente pari dignità e forza. Sennonché, le regole di computo delle azioni proprie non costituiscono alcuna deroga al principio di facilità deliberativa perché la maggioranza necessaria per l’approvazione del bilancio e per la nomina e la revoca delle cariche sociali è e resta quella indicata dallo stesso art. 2369, 3° comma, c.c., e cioè la maggioranza assoluta, non la maggioranza relativa. La maggioranza assoluta, da calcolare sulla base del capitale rappresentato in assemblea, è la medesima richiesta anche in prima convocazione, salvo che in prima convocazione deve anche verificarsi la regolarità della costituzione accertando la sussistenza di un quorum costitutivo. Non può allora sfuggire come la tesi della disapplicazione dell’art. 2357-ter, 2° comma, c.c. nelle ipotesi di cui all’art. 2369, 4° comma, c.c. presenti palesi tratti di illogicità. Si pensi al caso concreto che ha dato corso alle pronunce in epigrafe. Se in prima convocazione si presenta l’in­tero capitale, e si devono computare le azioni proprie anche ai fini del quorum deliberativo, in caso di voto [continua ..]


6. Il paradosso dell’autopartecipazione maggioritaria

Un ultimo, complesso, argomento – specificamente affrontato dal Tribunale di Milano – merita di essere analizzato. Abolito il limite quantitativo per le società chiuse, qualora la società abbia acquistato oltre metà delle proprie azioni, come si osservava già prima dell’introduzione del limite quantitativo [13], l’assemblea si troverebbe in stallo giuridico, non di fatto, tanto nelle deliberazioni di assemblea straordinaria che ordinaria: addirittura si giungerebbe a non potere neppure deliberare l’aliena­zione delle azioni proprie, perché, se queste si computano in tutti i quorum, è evidente che il 50% superstite non è maggioranza assoluta (come esige l’art. 2368, 1° comma, c.c., applicabile anche alla seconda convocazione ex art. 2369, 3° comma, c.c.) rispetto al 50% costituito dalle azioni proprie in portafoglio. Tale eventualità è stata additata da una parte della dottrina come emersione di una incongruenza sistematica dell’interpreta­zio­ne che vuole computare le azioni proprie nei quorum anche deliberativi, in ogni sede e convocazione, sul presupposto – dimostrato al § 4 – che l’intervento delle azioni proprie e dunque il relativo computo non possono dipendere da una scelta discrezionale degli amministratori [14]. La stessa dottrina ne ha tratto perciò la necessità di superare il dato letterale e conseguentemente non computare le azioni proprie nelle deliberazioni in cui il denominatore del quorum deliberativo si rapporta al capitale rappresentato in assemblea. Questo è appunto il caso delle deliberazioni dell’assemblea ordinaria di seconda convocazione, su cui si sono espresse le sentenze annotate. La fallacia di detto approccio era stata già posta in rilievo dal Comitato Triveneto dei Notai [15]. In un precedente contributo, peraltro, uno di noi aveva compiuto uno sforzo di dimostrazione analitica sul punto [16]. Di questo sforzo argomentativo si trova ampia eco in particolare nella sentenza del Tribunale di Milano che, tuttavia, operando una sintesi del testo, fa assumere alle parole un significato equivoco (mentre la Corte di Appello di Roma si limita ad affermare, correttamente, che “il sistema possiede dei rimedi in grado di superare tali situazioni sicché l’argomento di natura [continua ..]


7. (segue). La disposizione di azioni pro­prie in difetto di autorizzazione assembleare

Va ricordata al riguardo un’importante pronuncia della Cassazione, la quale ha affermato il principio secondo cui l’atto di disposizione delle azioni proprie compiuto dagli amministratori senza l’autorizzazione dell’assemblea non è nullo, ma soltanto annullabile, poiché l’interesse tutelato dalla disposizione è quello di proteggere la società dal rischio di abusi da parte degli amministratori e di garantire ai soci una eventuale preferenza ai fini del mantenimento degli equilibri interni in atto, senza che in ciò possa configurarsi una norma di ordine pubblico. Secondo la Suprema Corte il vizio dell’atto dispositivo potrebbe essere fatto valere attraverso un’azione di annullamento che, a ragione del conflitto di interessi degli amministratori, dovrebbe essere deliberata in assemblea e alla relativa votazione non potrebbero partecipare i soci acquirenti di tali azioni per il conflitto di interesse con la società [20]. La soluzione prospettata dalla Suprema Corte ha suscitato perplessità in dottrina [21] e, comunque, non potrebbe essere seguita pedissequamente dato il diverso contesto normativo nel quale è stata elaborata. Come conferma la stessa sentenza del Tribunale di Milano in commento, nel diritto societario riformato, non è più prevista l’astensione obbligatoria dei soci in conflitto di interesse, sicché sarebbe comunque agli stessi rimessa la scelta se astenersi o partecipare alla deliberazione. Tanto precisato, sono invero le perplessità espresse sotto il profilo dell’inquadra­mento civilistico a convincere della necessità di disattendere la soluzione della Suprema Corte. Non può essere infatti condiviso che l’alienazione illegittima delle azioni proprie sia atto annullabile. È vero che l’atto di disposizione in difetto dell’autorizzazione viola una norma di legge, quella che esige l’autorizzazione del­l’as­semblea, ma questa violazione, contrariamente a quanto da taluni sostenuto [22], non attiene al riparto legale delle competenze tra assemblea e amministratori, perché l’alienazione di azioni proprie costituisce in ogni caso atto di gestione che solo gli amministratori possono compiere. Ed invero, attiene al riparto di competenze solo l’as­segnazione gratuita di azioni proprie (come nel caso deciso dal [continua ..]


NOTE