Rivista di Diritto SocietarioISSN 1972-9243 / EISSN 2421-7166
G. Giappichelli Editore

indietro

stampa articolo indice fascicolo leggi articolo leggi fascicolo


Lineamenti di un'analisi comparata sul voto di lista: alla ricerca del ruolo della minoranza (di Maria Lucia Passador)


SOMMARIO:

1. Sul voto di lista e sulla tutela delle minoranze. - 2. Peculiarità dell’ordinamento italiano. - 3. Esperienza tedesca e francese: tra rappresentanza e cogestione. - 4. Esperienza inglese ed israeliana: tra rappresentanza e diritto “di veto”. - 5. Esperienze in altri Paesi: possibilità di concorrere alla nomina imperativa. - 6. Esperienza statunitense. - 6.1. Amministratori indipendenti (dal management, non dalla maggioranza!). - 6.2. Valutazioni di sistema, valutazioni d’opportunità. - 7. Considerazioni conclusive. - NOTE


1. Sul voto di lista e sulla tutela delle minoranze.

Nell’occuparsi del diritto di voto emergono questioni attinenti alla necessità che gli ordinamenti societari si ispirino a principi democratici, declinati nel paradigma one share one vote [1] e nel conseguente principio di proporzionalità. Dall’incontro del diritto di voto, quale essenziale prerogativa amministrativa delle azioni, e del principio di proporzionalità discende, come noto, il rilievo centrale in pressoché tutti gli studi di governance del soggetto in grado di imporre il proprio diritto di voto soprattutto con riguardo alla nomina degli amministratori. Ne deriva una esigenza sentita, ampiamente discussa, ovvero la necessità di tutelare le minoranze [2], principalmente in occasione della scelta dei soggetti deputati alla gestione. Occorre altresì precisare che il concetto di minoranza è esso stesso di difficile definizione, trattandosi in realtà di un floating concept, spesso individuato per differenza rispetto al termine “maggioranza”, a propria volta di complessa determinazione [3]. Anche guardando al nostro ordinamento societario si rileva come la nozione di “minoranza” trovi spazio tanto nel Codice di autodisciplina (art. 3, commento; art. 9.C.4 e relativo commento) quanto nel TUF (in cui una sezione specifica è dedicata al tema) [4] e pertanto si inserisca nella fitta e complessa “intelaiatura” delle caratteristiche previste per amministratori e sindaci onde garantire una regolare composizione degli organi sociali [5]. Di conseguenza, lungo il percorso che dal voto giunge alle nomine – e, così, al cuore della corporate governance – si inseriscono i concetti di amministratori e sindaci di minoranza (e, ancor più, amministratori e sindaci indipendenti di minoranza [6]), che si trovano così ad occupare un ruolo nell’orga­niz­zazione societaria [7], e il funzionamento del board [8]. Sinanco l’OCSE [9] ha evidenziato la necessità [10] di un principio democratico che, a dispetto dei contorni non sempre netti e delineati [11] del termine “minoranza”, riproduca una complementarietà e molteplicità di interessi che si riflettano nelle nomine dei soggetti apicali [12]. Mentre tradizionalmente il diritto societario si è occupato [continua ..]


2. Peculiarità dell’ordinamento italiano.

Lo studio del voto di lista, in ragione dell’opportunità offerta alla minoranza di nominare un proprio rappresentante, merita di essere approfondita per tre ordini di ragioni. Anzitutto, in relazione a un amministratore che già possiede tutti i requisiti di indipendenza, si ritiene la sola procedura di elezione di amministratori indipendenti potrebbe non essere sufficiente a garantire la loro effettiva indipendenza se essi non fossero nominati dalla minoranza, in ragione delle diverse modalità di selezione dalla stessa compiute. Il semplice requisito dell’indipendenza non terrebbe infatti conto delle interrelazioni che inevitabilmente si creano all’interno del consiglio di amministrazione [20], dunque, la nomina da parte della minoranza potrebbe costituire un rafforzamento anche del requisito di indipendenza. È poi innegabile che l’ordinamento nazionale sia fortemente originale [21], tuttavia è necessario indagare le ragioni per cui anche gli operatori del diritto di altri Paesi [22], tra questi gli Stati Uniti, hanno guardato alla realtà italiana. Da ultimo, nelle società in cui si registra la presenza di fondi, sebbene non si sia mai assistito alla presentazione autonoma di un candidato da parte di essi, questi si sono molto spesso avvalsi della selezione compiuta da Assogestioni. Si tratta di una associazione volontaria senza scopo di lucro, costituita nel 1984 fra le società e gli enti che svolgono, sotto qualunque forma, attività di gestione del risparmio in Italia [23], esercitata in base ad autorizzazione e sotto specifica vigilanza amministrativa, che assiste gli investitori istituzionali che operano nel nostro Paese nell’esple­tamento delle procedure amministrative nell’invio delle liste e nella scelta dei candidati [24]. Assogestioni, nel corso dell’anno 2018 [25], ha fornito la propria attività di consulenza ed assistenza rispetto al deposito di 83 liste per l’elezione di candidati di minoranza, contribuendo ad eleggere 97 candidati (57 nell’ambito del consiglio di amministrazione e 40 del collegio sindacale) [26] in relazione a 57 società, 15 appartenenti all’indice FTSE MIB, 29 al Mid Cap, 10 allo Small Cap e 3 all’AIM. Il background degli eletti è nella misura del 48% professionale, nella misura del 42% dirigenziale, nella [continua ..]


3. Esperienza tedesca e francese: tra rappresentanza e cogestione.

Il modello tedesco di cogestione o codeterminazione (Mitbestimmung) [27] – utilizzato anche in Austria, Danimarca, Lussemburgo, Svezia e (pur con più deboli meccanismi, con clausole statutarie atte a consentire a lavoratori dipendenti con partecipazioni superiori al 3% del capitale di nominare uno o più consiglieri) [28]Francia e Finlandia – si caratterizza poiché attribuisce alle minoranze la facoltà di nominare alcuni amministratori. Più precisamente, ai sensi del paragrafo 101(2) AktG, è possibile riservare la nomina di alcuni membri del consiglio a determinati azionisti, ovvero ai titolari di determinate azioni solo se queste sono nominative e se il loro trasferimento è soggetto all’approvazione della società. I soci (die Aktionäre) hanno facoltà di proporre il nome di un amministratore e di renderlo noto (tramite sito web, se la società è quotata) almeno 14 giorni prima della adunanza assembleare (paragrafo 126 AktG), nonché di proporre i propri candidati ai fini dell’elezione del consiglio di sorveglianza (paragrafo 127 AktG). A ben vedere, la realtà descritta tutela non solo le minoranze, ma anche i lavoratori, che possono eleggere la metà dei membri del­l’organo di controllo, con prevalenza, nei casi di indecisione, del voto del Presidente. In Francia non è proposta alcuna regolamentazione in tema di nomina degli am­ministratori. Con recentissime attenuazioni (del seguente tenore: «salvo casi previsti dalla legge»), il Codice di autodisciplina del giugno 2018 non suggerisce nemmeno la presenza di rappresentanti di specifici gruppi e interessi nel Board. Gli statuti possono però recare clausole riferite al modello di cogestione o codetermination, secondo cui i rappresentanti dei lavoratori nel consiglio di amministrazione possono essere al più quattro, senza nel contempo superare il terzo dei dipendenti totali. Con tutto ciò, sebbene entrambi gli esempi richiamati affrontino la medesima pro­blematica, non sembrano potersi negare alcune diversità riguardanti tanto l’og­getto quanto le modalità attuative.


4. Esperienza inglese ed israeliana: tra rappresentanza e diritto “di veto”.

Altre realtà nazionali presentano una chiara apertura rispetto alle minoranze, tra cui il Regno Unito ed Israele, in relazione ai quali l’elemento-chiave è costituito da un diritto “di veto” espresso dalla minoranza rispetto all’elezione di un determinato consigliere. Nel Regno Unito, realtà dominata dall’obiettivo di shareholders’value maximization, si evidenzia anzitutto come il Companies Actrisulti pressoché inalterato rispetto alla versione del 1985, che ha previsto discrezione nella modulazione delle particolarità della governance. Di qui, il rilievo persino maggiore dell’auto­di­sciplina [29]: la Section 2 – Division of responsibilities (nello specifico, principle G e provision 11) raccomanda che il board sia costituito da una combinazione di amministratori executive e non-executive (soprattutto indipendent non-executive, uno dei quali è senior independent director), identificati nel report annuale. In esso si riportano anche alcuni esempi strumentali alla definizione di “indipendenza” e si richiede che, nel caso in cui non ricorrano tali circostanze ma il soggetto sia considerato comunque indipendente, venga fornita una precisa spiegazione. Non solo. Anche il comitato nomine, di cui il Presidente del consiglio di amministrazione può essere parte, deve essere composto per lo più da amministratori indipendenti e non esecutivi [30] e tanto il comitato audit quanto quello remuneration debbono essere composti soltanto di amministratori indipendenti e non esecutivi [31]. Gli amministratori debbono presentare una combinazione di competenze, esperienza e conoscenza [32]. In presenza di un socio di controllo, ai sensi della Listing Rule 9.2.2, gli amministratori indipendenti devono essere approvati sia da azionisti sia da “independent shareholders” e, soprattutto, è ammesso il voto individuale sui candidati anche ove appartenenti a liste differenti, così da impedire l’approvazione o il rigetto “in blocco” della lista. Quanto ad Israele, le caratteristiche del mercato di riferimento consistono, da un lato, in una particolare dinamicità, prevalentemente nel settore high tech, e, dall’altro lato, in una [continua ..]


5. Esperienze in altri Paesi: possibilità di concorrere alla nomina imperativa.

In altre realtà ancora, gli strumenti affidati alla minoranza in termini di nomina degli amministratori sono solo apparentemente sovrapponibili al modello italiano, ma, di fatto, essi si pongono in concorrenza rispetto all’obiettivo della nomina imperativa, con le sfumature accennate nei successivi paragrafi. In Spagna, l’art. 243 Ley de Sociedades de Capital (ex art. 137 Ley de Sociedades Anónimas) enuncia – peraltro con toni affini al nostro ordinamento, in quanto la disposizione spagnola prevede anch’essa un meccanismo di calcolo dei quozienti [36] – il principio di “tutela delle minoranze”, fondato sulla proporzionale composizione consiliare [37]. Gli azionisti, nell’ambito di società per azioni sia quotate sia non quotate, possono raggrupparsi e nominare un numero di amministratori pari al rapporto tra capitale votante e posti in seno al consiglio di amministrazione. In Polonia, ex art. 385 Codice delle società commerciali, almeno un quinto degli azionisti può chiedere l’elezione di un amministratore, senza poter poi partecipare anche alla nomina di altri. Tale facoltà è attribuita a una percentuale di componenti del gruppo pari al rapporto tra azioni presenti in assemblea e numero di consiglieri da eleggere. Anche in Brasile, dal 2001, la legge societaria (art. 141) consente al 15% degli azionisti (e al 10% degli azionisti titolari di azioni senza diritto di voto) di richiedere l’applicazione del voto múltiplo, affine al cumulative voting, sebbene non statutariamente previsto [38]. Al fine di assicurare una composizione proporzionale all’in­terno del consiglio, però, allorquando un solo consigliere viene revocato, per effetto del meccanismo simul stabunt, simul cadent, l’intero organo decade. In Russia, la legge sulle società per azioni quotate dispone che l’assemblea possa revocare l’intero consiglio di amministrazione, non un suo singolo componente (art. 66), per poi eleggere il plenum dell’organo in questione proprio mediante il voto cumulativo, previsto facoltativamente (ovvero obbligatoriamente per le sole società con più di mille azionisti) nello statuto. La disciplina, attenta alle operazioni in conflitto di interesse, a seguito del parere espresso da amministratori privi di interessi [continua ..]


6. Esperienza statunitense.

La voce delle minoranze nei consigli di amministrazione della società rappresenta un’istanza avvertita anche oltreoceano, sebbene negli Stati Uniti venga generalmente garantito agli azionisti un potere inferiore in tema di nomina degli amministratoririspetto a quello loro attribuito nel vecchio continente [41]. Gli Stati Uniti si sono inizialmente confrontati con la problematica in questione, la tutela delle minoranza tramite lo strumento della nomina, formulando l’affascinante cumulative voting, checonsente agli azionisti di esprimere più di un voto per azione in favore di una singola persona designata da nominare nel consiglio di amministrazione, mutuato dal sistema di elezione della Camera dei Rappresentanti dell’Illinois nel periodo 1870-1980 [42]. Sino a qualche anno addietro, gli investitori hanno però limitatamente inciso la composizione del Board, in ragione del loro azionariato diffuso e della loro (ora decrescente [43]) apatia. Inoltre, sino al 2009, la NYSE Rule 452 prevedeva che gli intermediari finanziari, in assenza di indicazioni da parte dei propri clienti, avessero facoltà di votare liberamente, così allineandosi, nella maggior parte dei casi, ai desiderata del management. Mentre in Italia il concetto di “nomina” si compone di tre fasi, ossia di selezione, designazione ed elezione dei candidati, che si pongono tra loro in una non scontata relazione di collegamento [44], negli States occorre segnalare come la differente “morfologia societaria” consenta alle minoranze di avvalersi del proxy access, sistema che offre agli azionisti che soddisfano determinati requisiti (soglie minime di possesso azionario pari al 3%) la possibilità di nominare amministratori nel consiglio di una società e di includere detti candidati nei proxy materials senza ricorrere ad un tipico proxy contest [45]. Purtuttavia esso rappresenta – allo stato attuale – uno strumento non del tutto sfruttato nelle sue potenzialità, come di seguito precisato. Negli Stati Uniti, la presenza delle minoranze nell’organo amministrativo è assicurata da norme che facilitano l’accesso degli azionisti al proxy system, il tut­t’altro che economico sistema di invio della documentazione strumentale all’eser­cizio del proprio [continua ..]


6.1. Amministratori indipendenti (dal management, non dalla maggioranza!).

In detto contesto, preme rilevare come gli amministratori indipendenti, figura primaria del meccanismo e caratteristica distintiva del modello di Board 2.0 [70], debbano esserlo rispetto al management, ma non agli azionisti di maggioranza [71]. La loro posizione li renderebbe invero capaci di garantire la gestione nell’interesse degli azionisti [72]. Tale accezione di indipendenza è sicuramente estendibile anche al Codice di autodisciplina inglese nella sua prima versione. Essa si è però evoluta, successivamente, in una diversa direzione [73], maggiormente allineata a quella dei Paesi con azionariato prevalentemente concentrato, ove – benché con differenze marcate tra le varie realtà nazionali [74] – l’indipendenza deve essere intesa quale autonomia rispetto al socio di controllo. Nonostante ciò, anche negli Stati Uniti, è doveroso sia analizzare l’ambito in cui l’amministratore agisce sia enucleare le molteplici cause di incompatibilità previste dalle norme di legge e dai listing standards [75]. Per un confronto tra l’istituto inglese e quello italiano è essenziale riferirsi qui al Regolamento di Borsa del NYSE, ove la richiamata §303A.02 precisa la nozione di indipendenza. Al fine di valutare l’indipendenza è necessario utilizzare criteri severi e rigorosi, valutare i rapporti ritenuti fonte di conflitti di interesse, porre mente alla sussistenza di material relationship eventualmente tale da obnubilare il giudizio di un determinato amministratore. Si ritiene che il consiglio debba considerare gli amministratori come indipendenti se non vi sia de facto una relazione materiale che dia prova contraria di una qualsivoglia relazione di dipendenza [76]. La giurisprudenza del Delaware, invece, non definisce i caratteri della nozione di indipendenza, in quanto i giudici valutano l’indipendenza di un amministratore solo ex post [77], ritenendo indipendente un amministratore che abbia fondato la propria decisione solo sul merito della questione, a prescindere da considerazioni o influenze esterne [78]. I fattori da considerare sono molteplici [79] e non rendono possibile compiere una valutazione secondo una bright line rule determinabile ex ante. Dunque, un amministratore indipendente ai sensi delle [continua ..]


6.2. Valutazioni di sistema, valutazioni d’opportunità.

Il meccanismo del proxy access presenta al contempo aspetti favorevoli e contrari. In una prospettiva squisitamente giuridica, il meccanismo (i) palesa una (forse non del tutto proporzionata) fiducia riguardo alle dinamiche contrattuali e statutarie, (ii) prevede un requisito quantitativo ancor troppo demanding al fine di accedere alle deleghe e ancor troppo oneroso (soprattutto laddove il voto cumulato non sia statutariamente previsto dalla società) al fine di promuovere candidati aventi ragionevoli probabilità di essere eletti; (iii) patisce le conseguenze di una regolamentazione federale probabilmente non sempre all’altezza del tenore degli interventi che le sarebbero richiesti, in costante tensione ed equilibrio rispetto ai legislatori dei singoli Stati. Dal punto di vista pratico, la voce degli azionisti nel processo di nomina e di elezione degli amministratori è efficiente, in quanto rende gli amministratori più attenti agli interessi degli azionisti medesimi [83] e permette di evitare fenomeni di entrenchment [84]. Rileva peraltro come i suoi costi siano decisamente inferiori se comparati con quelli del tradizionale proxy contest, poiché, in tal modo, verrebbero ridotti i materiali prodotti e, in ultima analisi, la partecipazione degli azionisti nella gestione delle società ad azionariato diffuso verrebbe significativamente incoraggiata. Al contempo, a livello teorico, i critici sostengono l’adozione di un simile meccanismo rappresenti un attacco al sistema di governance “board-centered” delle società americane, che ha sinora condotto allo sviluppo dell’intera economia americana, così creando una struttura decisionale potenzialmente dannosa per la “Chief Economic Virtue of the Public Corporation” [85], scoraggiando investimenti c.d. firm-specific e distruggendo di conseguenza uno dei pilastri del moderno governo societario [86]. Parallelamente, sotto il profilo politico, si assiste alla “balcanizzazione” dei consigli di amministrazione [87], ossia ad una diminuzione marcata della capacità di incidere effettivamente sulle decisioni societarie in ragione della presenza di uno “splinter director” che potenzialmente fratturi l’atmosfera collegiale e danneggi l’abilità di comunicare tra i membri, come pure di [continua ..]


7. Considerazioni conclusive.

Essendo evidente che il libero, non regolato, gioco delle forze costituenti la compagine sociale non riesce a garantire una valida tutela delle minoranze, il legislatore italiano ha realizzato un efficiente sistema di governo con l’introduzione dell’obbligo del voto di lista, richiedendo l’elezione di almeno un amministratore e un sindaco effettivo (se il consiglio sia composto da meno di 7 amministratori) tra i candidati componenti le liste presentate dalla minoranza [94], così assicurando una maggiore rappresentatività delle minoranze tramite un sistema di valore sia in assenza di amministratori non esecutivi [95] sia in presenza di un azionariato concentrato [96]. Tenendo a mente la struttura dei sistemi sopra tratteggiati e le considerazioni di volta in volta compiute, si deve anzitutto evidenziare non vi sia stato (fortunatamente [97]) un “trapianto” [98] di tali sistemi in Italia [99] né viceversa, nonostante i rischi di un rigetto a seguito di un simile xenotrapianto siano, secondo attenta dottrina, circoscrivibili e il sistema statunitense possa pertanto allinearsi senza difficoltà all’approccio italiano, eventualmente con un coinvolgimento del Consiglio degli investitori istituzionali (CII) [100], che potrebbe svolgere un ruolo non difforme da quello di Assogestioni. Dopotutto, il CII è anch’esso un’associazione senza scopo di lucro, fondata nel 1985 e comprendente attualmente circa 125 investitori istituzionali i cui attivi superano complessivamente i tre trilioni di dollari, volto a promuovere gli interessi degli investitori istituzionali negli Stati Uniti. Il medesimo, peraltro, già nel 2015, aveva appoggiato il proxy access negli States [101]. L’esempio italiano mantiene dunque la propria unicità, perlomeno nella soluzione tecnica che propone. A questo potrebbero dunque validamente ispirarsi i sistemi esteri che, anche grazie all’autodisciplina, così realizzerebbero pure un autentico bilanciamento sotto il profilo dei connotati professionali (formazione, esperienza, professionalità, …) e personali (onorabilità, etica, genere, correttezza del­l’a­zio­ne amministrativa o loyalty) degli amministratori [102].


NOTE