Rivista di Diritto SocietarioISSN 1972-9243 / EISSN 2421-7166
G. Giappichelli Editore

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Sospensione della deliberazione di modifica dello statuto di s.p.a. e abuso di maggioranza (di Massimo Rossi)


SOMMARIO:

1. Introduzione - 2. La sospensione cautelare delle deliberazioni assembleari - 3. Segue: gli effetti della sospensione - 4. Segue: gli effetti della pronuncia d’invalidità della deliberazione - 5. Segue: invalidità della deliberazione e circolazione delle azioni - 6. Il c.d. abuso di maggioranza - 7. Segue: abuso di maggioranza e sistema rimediale - 8. Segue: alcune implicazioni operative - NOTE


1. Introduzione

Una recente ordinanza cautelare del Tribunale di Milano, sezione specializzata in materia d’impresa “B”, del 19 gennaio 2015 1, offre lo spunto per alcune riflessioni intorno a due temi classici del diritto societario, vale a dire il problema dei presupposti e, soprattutto, degli effetti della sospensione cautelare delle deliberazioni di modifica dello statuto di società per azioni, disciplinata nell’art. 2378 c.c., e quello dell’invalidità delle deliberazioni assembleari per abuso di maggioranza. La vicenda al vaglio del Tribunale milanese può essere così riassunta: contestualmente al deposito dell’atto di citazione recante l’impugnazione della deliberazione assembleare assunta da una società per azioni in data 3 luglio 2014, con cui era stato eliminato il diritto di prelazione dei soci sull’acquisto delle azioni della stessa, un azionista rappresentante il 49,5% del capitale sociale chiedeva con ricorso la sospensione della medesima deliberazione, al fine di impedire che nel tempo necessario alla definizione della controversia potesse mantenere efficacia nei confronti della società la cessione a favore di un soggetto terzo dei pacchetti azionari degli altri due azionisti della società – rappresentanti, rispettivamente, il 49,5% e l’1% del capitale sociale – avvenuta fra le parti in data 4 luglio 2014. A sostegno della propria pretesa, il ricorrente adduce l’invalidità della deliberazione per abuso di maggioranza: infatti, nella prospettazione di parte, le circostanze in cui è maturata la predetta modifica statutaria e le vicende che l’hanno immediatamente seguita, vale a dire la cessione al terzo delle azioni degli altri due soci il giorno successivo alla predetta deliberazione e la nomina di un nuovo consiglio di amministrazione, paleserebbero che la maggioranza assembleare avrebbe abrogato il diritto di prelazione al solo fine di avvantaggiare se stessa, vendendo le proprie partecipazioni a chi aveva interesse che le acquistasse, e danneggiando il socio di minoranza, il quale, invece, in più di una occasione, aveva manifestato l’interesse a rendersi acquirente delle stesse. Questa impostazione è integralmente fatta propria dal Tribunale, che riscontra sia il fumus boni juris della fondatezza della pretesa, sia il periculum in mora. Sotto il primo profilo, in particolare, il Tribunale [continua ..]


2. La sospensione cautelare delle deliberazioni assembleari

In vero, posta l’integrale adesione del giudice milanese ai predicati dell’orien­tamento prevalente in tema di abuso di maggioranza, l’interesse per l’ordinanza riposa, oltre che sulla sua peculiare declinazione nel caso di specie, di cui si dirà più avanti, sul contenuto del provvedimento cautelare 2 che, a fronte della denuncia del ricorrente dei danni discendenti dalla mancata possibilità di esercitare il diritto di prelazione sulle azioni già cedute dagli altri due soci a un terzo, ordina ex art. 2378, 3° comma, c.c. la sospensione dell’esecuzione della deliberazione di modifica statutaria – e, dunque, innanzitutto, del suo effetto abrogativo del diritto di prelazione – sul presupposto esplicito di un’efficacia necessariamente e automaticamente retroattiva di tale tutela, idonea anche a travolgere le negoziazioni sulle azioni intervenute nell’intervallo intertemporale di efficacia della deliberazione sospesa, di là da qualsivoglia indagine sui caratteri che esse abbiano nel concreto assunto, e, prima ancora, di una specifica domanda rivolta a ottenere questo esito. Il Tribunale – anche sotto questo profilo, aderendo a un orientamento prevalente nella giurisprudenza 3 – respinge l’idea che la sospensione possa interessare soltanto le deliberazioni assembleari che richiedano l’adozione di atti di esecuzione in senso stretto, fra le quali non sarebbero invece comprese le decisioni che modificano l’atto costitutivo o lo statuto della società, appartenenti a quelle che tradizionalmente sono dette deliberazioni self executing, vale a dire di per sé idonee a realizzare il valore cui aspirano senza ulteriori mediazioni e, soprattutto, senza il compimento di attività giuridiche di tipo dichiarativo da parte degli organi della società, funzionali a costituire rapporti giuridici intersoggettivi 4. Il problema – che si fonda sulla distinzione proposta da una risalente dottrina 5 in ordine all’efficacia interna o, rispettivamente, esterna della deliberazione assembleare – origina dall’espressione impiegata nell’art. 2378, 3° comma, c.c., che fa riferimento alla «sospensione dell’esecuzione», alludendo al compimento (allora apparentemente necessario, nella prospettiva della norma) di atti di attuazione del disposto assembleare, da questo [continua ..]


3. Segue: gli effetti della sospensione

In realtà, la questione è tutt’altro che risolta dalla disposizione processuale adesso richiamata: si può tuttavia convenire con l’idea che il provvedimento di sospensione possa essere diretto verso tutte le deliberazioni il cui contenuto dispositivo vincoli ancora l’operatività sociale, com’è senz’altro per le deliberazioni che modificano lo statuto; piuttosto, è il valore che il Tribunale milanese attribuisce alla misura della sospensione a generare serie perplessità: non è chiaro, infatti, quale fondamento giuridico regga l’idea che il provvedimento cautelare in parola assuma efficacia retroattiva, “ripristinando ex tunc” – come si legge nell’ordinanza – “il vigore della previsione statutaria” previgente e, soprattutto, rendendo le cessioni delle azioni medio tempore intervenute “inefficaci nei confronti della Società, giusta quanto esplicitamente affermato dall’art. 9, ult. comma dello statuto ante modifica” 22. Verosimilmente, si giunge all’esito indicato assumendo, per un verso, la natura anticipatoria 23 (e non conservativa) del provvedimento di sospensione e, conseguentemente, la sua idoneità ad anticipare (almeno in parte) gli effetti della futura, ed eventuale, sentenza di merito che accerti l’invalidità della deliberazione impugnata; e, per altro verso, l’idea che l’annullamento (e a maggior ragione, specie per chi ancora assuma la natura negoziale della deliberazione assembleare 24, la dichiarazione di nullità) della deliberazione operi retroattivamente, travolgendo tutti gli eventuali effetti – mediati o immediati – che derivino dalla deliberazione invalida. Entrambe le premesse, tuttavia, presentano profili critici che ne impediscono l’accoglimento. Si deve dubitare, innanzitutto, che il rimedio della sospensione della deliberazione disciplinato nell’art. 2378, 3° comma, c.c. – e previsto già nell’originaria lettera della disposizione, come pure, per vero, dall’art. 163 del codice di commercio del 1882 – operi tout court con effetto retroattivo, privando di rilievo giuridico ogni atto o fatto che si fondi sul contenuto della deliberazione contestata. Al riguardo, infatti, può in primo luogo essere messa in discussione la natura anticipatoria del [continua ..]


4. Segue: gli effetti della pronuncia d’invalidità della deliberazione

È necessario, allora, almeno impostare il discorso sugli effetti di tale pronuncia 35, osservando come si tratti di un tema sul quale la dottrina e la giurisprudenza presentano tuttora una ricca gamma di soluzioni, in prevalenza accomunate dall’idea che il principio di retroattività degli effetti della sentenza d’invalidità – comunemente affermato – valga in realtà soltanto in linea di principio, dovendosi misurare sia con i limiti fissati dalla legge 36, sia con quelli, ulteriori, che sono dedotti dal sistema 37. Si tratta, a ben vedere, di un problema ampiamente dibattuto prima della riforma del 2003, al quale però il legislatore non ha inteso offrire soluzione 38, limitandosi piuttosto a circoscrivere le possibilità di ottenere una pronuncia d’invalidità: quanto invece agli effetti dell’invalidità, se si eccettuano le previsioni dell’art. 2434-bis c.c. in tema d’invalidità del bilancio, la disciplina positiva – precedente e successiva alla riforma organica – sembra apparentemente interessarsi dei soli diritti dei terzi, come si evince dall’art. 2377, 7° comma, c.c., che in virtù del rinvio a essa operato dall’art. 2379, 4° comma, c.c. trova sicura applicazione sia alle ipotesi di annullabilità della deliberazione, sia ai vizi più gravi che nelle società azionarie sono tuttora ascritti al novero della nullità 39, il quale dispone che «in ogni caso sono salvi i diritti acquistati in buona fede dai terzi in base ad atti compiuti in esecuzione della deliberazione». E, anzi, argomentando da questa previsione, si è diffusa l’idea che la sentenza d’invalidità sia, proprio per ciò, idonea a travolgere tutti gli altri 40 effetti medio tempore discendenti, anche indirettamente, dalla deliberazione vittoriosamente impugnata: come, fra l’altro, troverebbe conferma nella prima parte del medesimo art. 2377, 7° comma, c.c., a mente del quale l’annullamento della deliberazione ha effetto rispetto a tutti i soci 41 ed obbliga gli amministratori, il consiglio di sorveglianza e il consiglio di gestione a prendere i conseguenti provvedimenti sotto la propria responsabilità. È chiaro come in questa impostazione – incline del resto a rintracciare nella salvaguardia dei diritti dei [continua ..]


5. Segue: invalidità della deliberazione e circolazione delle azioni

Le riflessioni che precedono sono sufficienti a mettere in dubbio la legittimità degli effetti che l’ordinanza milanese mostra di riconnettere al provvedimento cautelare rilasciato, quantomeno limitatamente alla capacità di privare ex se d’efficacia la cessione delle azioni della società intervenuta prima del provvedimento di sospensione adottato ex art. 2378 c.c., trattandosi ovviamente di un atto distinto dalla deliberazione, e dunque di per sé estraneo al valore a essa direttamente assegnato dall’ordinamento (ed eventualmente reciso dalla pronuncia d’invalidità): resta impregiudicato, però, l’interrogativo sulla possibilità che l’invocata invalidità della deliberazione possa fondare un’autonoma domanda destinata a inficiare il predetto negozio di cessione. Il problema, in vero, esula dai confini delle presenti note: a ogni modo, si tratta d’impostarlo innanzitutto interrogandosi se l’acquisto di azioni da parte di un terzo sino ad allora estraneo alla società possa godere della salvaguardia approntata per i «diritti acquistati in buona fede dai terzi in base ad atti compiuti in esecuzione della deliberazione» dall’art. 2377, 7° comma, c.c. Di per sé, il tema è distinto da quello relativo all’esigenza di impugnare specificamente singoli atti della società che abbiano eventualmente come presupposto la deliberazione invalida: in quest’ultimo caso, infatti, non è in discussione la possibilità di inficiare atti che si potrebbero dire, lato sensu, di esecuzione della deliberazione, bensì la circostanza che la caducazione della seconda non comporti automaticamente l’inefficacia dei primi: nel caso contemplato dalla norma, invece, l’esito è affatto diverso, disponendosi il consolidamento delle situazioni giuridiche acquistate dai terzi in esecuzione di una deliberazione invalida, cioè l’impossibilità di ottenerne al caducazione. Nel caso di specie, peraltro, la questione è resa più complicata dal rilievo che la negoziazione delle partecipazioni prescinde dall’intervento di organi della società e, sotto un diverso profilo, neppure può dirsi, neanche in un’accezione estensiva e descrittiva, esecuzione della deliberazione: infatti, il fine cui tendeva quest’ultima era, sul piano tecnico, [continua ..]


6. Il c.d. abuso di maggioranza

Come si anticipava, il vizio che inficerebbe la deliberazione oggetto di sospensione cautelare è quello dell’eccesso di potere o, secondo formule più recenti, dell’abuso di potere o di maggioranza 87. Il tema occupa le corti e il dibattito scientifico da oltre un secolo: sarebbe velleitario, pertanto, anche solo immaginare di offrire un quadro esaustivo delle voci che si sono alzate intorno a questa materia; la circostanza, però, che i più grandi Maestri del diritto commerciale si siano occupati di questo problema, in definitiva riassumibile nell’interrogativo se, di là dal necessario ossequio alle regole – potrebbe dirsi formali – di produzione dell’azione che presiedono all’adozione delle deliberazioni dell’assemblea delle società di capitali 88, la maggioranza incontri limiti interni, vale a dire non espliciti, e per definizione mobili, nell’esercizio dei poteri assegnati all’assemblea, “nascenti dall’esigenza di salvaguardare quegli interessi contrattuali che il rapporto societario è demandato a realizzare” 89, suggerisce innanzitutto di precisare i termini essenziali della discussione ed enunciare i punti fermi attorno ai quali essa ruota. Logico è anche che per farlo ci si concentri sulla disciplina della società per azioni, sia perché è con riguardo a essa che il problema storicamente si è posto, sia in ragione del rilievo che, all’indomani della riforma organica del 2003, è in considerazione delle peculiarità del tipo azionario, e segnatamente dei caratteri di anonimato che la relativa partecipazione sociale conserva, che permangono le maggiori perplessità all’emersione e al rilievo giuridico, nel farsi oggettivo dell’azione sociale, di moventi e profili soggettivi idonei a inficiarne gli esiti. Il punto di partenza di ogni riflessione, in proposito, è il convincimento, radicato e pressoché unanime 90, che nella disciplina positiva delle società azionarie il tema dell’abuso della maggioranza, vale a dire l’esercizio del potere a essa assegnato in modi solo formalmente legittimi, ma nella sostanza abusivi poiché indirizzati a perseguire interessi contrari a quello sociale o anche soltanto individuale degli altri soci, non trovi un’espressa emersione normativa, se non entro i [continua ..]


7. Segue: abuso di maggioranza e sistema rimediale

La trasposizione nel sistema societario di tali principi contrattuali, tuttavia, è tutt’altro che pacifica per la dottrina più attenta, specie dinanzi all’idea, propria della giurisprudenza di legittimità, che le deliberazioni assembleari costituiscano atti negoziali di esecuzione del contratto di società 100: è fin troppo ovvio, del resto, segnalare come la genesi contrattuale delle società di capitali, allo stato, non sia più scontata. E, d’altra parte, altrettanto dubbia resta, sotto il profilo rimediale, la circostanza che la violazione dei doveri di buona fede e correttezza, che nel sistema negoziale comporta il sorgere di obblighi di natura risarcitoria e, ai margini, consente la risoluzione del contratto, rilevi nel sistema societario quale motivo d’invalidità della deliberazione: di modo che i predetti principi, da regole di comportamento tramutino in norme di validità 101; in vero, questa distorsione è talora spiegata proprio col rilievo che la personalità giuridica, che connota le società di capitali all’esito della loro iscrizione nel registro delle imprese, finisce coll’im­putare alla società stessa, invece che alla maggioranza, la violazione dei predetti principi e a rendere perciò rilevante tale vicenda sotto il profilo dell’invali­di­tà 102. Non è estranea a questa impostazione la tradizionale idea che il voto nell’assemblea, essendo espresso nell’interesse proprio e non invece funzionalizzato al perseguimento di un interesse comune, neppure possa essere oggetto di sindacato nel merito e soprattutto capace di generare, a carico dei soci, obblighi risarcitori 103. D’altra parte, va anche notato che la scelta di preferire forme rimediali di natura reale, di là da più generali obiezioni di carattere teorico, suscita insoddisfazione anche sotto il profilo dell’efficacia: l’invalidità della deliberazione, infatti, non sempre è misura adeguata a tenere effettivamente indenne la minoranza dai danni sofferti a motivo dell’adozione della deliberazione, in considerazione sia del rilievo che, tendenzialmente, alcuni effetti della deliberazione invalida possono comunque stabilizzarsi 104, sia del fatto che la maggioranza può riproporre la deliberazione contestata, eventualmente emendata dei [continua ..]


8. Segue: alcune implicazioni operative

Volendo declinare questa impostazione nel caso concreto dal quale hanno preso avvio queste riflessioni, si potrebbe concludere per la legittimità, sotto il profilo organizzativo, della deliberazione di modifica dello statuto diretta a sopprimere la clausola di prelazione: nessun dubbio, infatti, che in specie, sul piano formale, l’as­semblea avesse il potere di modificare le regole che presiedono alla circolazione delle partecipazioni sociali, come rileva del resto la stessa ordinanza milanese che tratta, bensì, dei limiti di quel potere 131. E, d’altra parte, è fondata su un argomento debole l’idea che, nei fatti, l’assemblea abbia impedito al socio di minoranza l’esercizio della prelazione, comprimendo un diritto le cui condizioni di applicabilità, nel caso concreto, si erano già determinate, e non abbia invece inteso modificare la regola organizzativa destinata a operare in termini di generalità e astrattezza in un numero indefinito di circostanze: assunto, infatti, il potere della maggioranza di elidere la clausola di prelazione, la circostanza che ciò avvenga a ridosso dei negozi di cessione o, all’opposto, in un momento nel quale nessuno degli azionisti manifesti l’intenzione di cedere le proprie partecipazioni non sembra idonea a discriminare la legittimità dell’esercizio del potere che lo statuto assegna all’assem­blea. E, parimenti, appaiono “scivolose” le considerazioni in ordine all’interesse, sociale o extra sociale, perseguito con l’abrogazione di tale clausola: infatti, rispetto all’impostazione teorica, espressa dalla decisione in discorso, secondo la quale la società, “configurata e connotata sul piano organizzativo dalla presenza del diritto di prelazione”, sarebbe quindi “interessata a che esso non sia eliminato abusivamente” – che sembra proporre una non convincente ipostatizzazione dello strumento societario – appare senz’altro più persuasiva l’idea che, nelle clausole in discorso, se d’interesse sociale vuole comunque parlarsi, esso non potrà che coincidere con quello che si delinea secondo il principio maggioritario, contemperandosi l’im­perio di questa regola con il riconoscimento ai soci «che non hanno contribuito all’adozione della deliberazione» del diritto di recesso (ex art. [continua ..]


NOTE