Rivista di Diritto SocietarioISSN 1972-9243 / EISSN 2421-7166
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L´impugnazione delle delibere assembleari negative (nota a Trib. Milano, 28 novembre 2014) (di Andrea Pandolfi)


TRIBUNALE DI MILANO, Sez. Impresa B, ord. 28 novembre 2014 – Mambriani Giudice – Fullsix S.p.A. (avv.ti Pala Ciurlo, Contini e Crimaldi) e altri c. WPP Dotcom Holdings (Fourteen) LCC (avv.ti Ortu, Consonni, Sanna, Anselmi)

Società per azioni – Delibera assembleare negativa – Impugnazione – Annullamento

(Art. 2377 c.c.)

La delibera negativa è da ritenere una delibera assunta dall’assemblea, come tale imputabile alla società e suscettibile di essere impugnata nelle forme e nei limiti di cui all’art. 2377 c.c. (1)

Società per azioni – Delibera assembleare negativa – Impugnazione – Annullamento – Legittimazione attiva dei soci dissenzienti

(Art. 2377 c.c.).

Vanno qualificati come dissenzienti rispetto a una delibera negativa i soci che, votando favorevolmente alla proposta non adottata, abbiano così dimostrato la loro contrarietà alla delibera negativa poi adottata. (2)

Società per azioni – Delibera assembleare negativa – Impugnazione – Annullamento – Legittimazione attiva della società – Insussistenza

(Art. 2377 c.c.).

Non sussiste la legittimazione attiva della società a impugnare la delibera assembleare – anche negativa – sia perché essa non è contemplata nel novero dei soggetti abilitati ex art. 2377 co. 3 c.c., sia perché questa norma abilita invece direttamente gli organi che la impersonano. La società, in quanto ente cui è imputata la delibera, è invece soggetto controinteressato alla pronuncia di annullamento. (3)

Società per azioni – Delibera assembleare negativa – Impugnazione – Annullamento – Legittimazione attiva – Accertamento giudiziale della delibera positiva illegittimamente non proclamata

(Art. 2377 c.c.).

Nel caso di impugnazione di una delibera negativa, il giudice, accertata l’ille­gittima considerazione del voto nel quorum deliberativo, non deve limitarsi a una pronuncia di annullamento, ma deve ripercorrere il procedimento deliberativo e, una volta eliminati i voti illegittimamente conteggiati nel quorum, procedere a registrare il risultato deliberativo che vi è stato e che illegittimamente non è stato proclamato. (4)

Società per azioni – Delibera assembleare negativa – Sospensione del­l’e­se­cuzione – Inammissibilità

(Art. 2378 c.c.)

Non può essere chiesta la sospensione dell’esecuzione di una delibera negativa ai sensi dell’art. 2378, c. 3, c.c., poiché tale delibera è per sua natura priva di efficacia. È invece ammissibile il ricorso ex art. 700 c.p.c. al fine di far dichiarare il risul­tato deliberativo che vi è stato e che illegittimamente non è stato proclamato. (5)

Società per azioni – Delibera assembleare negativa – Conflitto di interessi

(Art. 2373 c.c.)

Perché sussista un vizio della delibera rilevante ex art. 2373 c.c., occorre che vi sia un rapporto di incompatibilità tra l’interesse della società e quello del socio tale per cui, approvata la delibera (o in caso di delibera negativa: rigettata la proposta di delibera), l’interesse della società verrebbe sacrificato e quello del socio verrebbe soddisfatto. (6)

Società per azioni – Delibera assembleare negativa – Abuso del diritto di voto

(Art. 2373 c.c.)

Per potersi qualificare come abusivo il voto contrario del socio di minoranza a una delibera di aumento di capitale non è sufficiente che l’aumento di capitale fosse giustificato o giovevole per la società, ma è necessario che il socio abbia scorrettamente esercitato il diritto di voto, sconfinando in un arbitrio dannoso per gli altri soci e per la società. (7)

Il Giudice designato Angelo Mambriani,

– letto il ricorso ex artt. 669 bis e ss. c.p.c. e 700 c.p.c. depositato il 6.6.2014 da ... assistiti e rappresentati dagli avv.ti Micol Ruta e Gianluca Leotta, e gli allegati documenti;

– letta la memoria difensiva depositata il 24 giugno 2014 da FULLSIX S.P.A. (di seguito: F6 o la Società), assistita e rappresentata dagli Avv.ti Adriano Pala Ciurlo, Davide Contini e Simone Crimaldi, e gli allegati documenti;

– lette le memorie autorizzate depositate dai ricorrenti e da F6 in data 31 luglio 2014;

– richiamata l’ordinanza depositata il 22 ottobre 2014 di rimessione in termini di WPP DOTCOM HOLDINGS (FOURTEEN) LCC (di seguito: WPP) per la costituzione nel presente procedimento;

– letta la memoria di costituzione depositata il 3 novembre 2014 dalla resistente WPP, rappresentata e difesa dagli Avv.ti Mario Ortu, Marco Consonni, Fabrizio Sanna, Ludovico Anselmi, e gli allegati documenti;

– sentite le parti nelle udienze del 24 luglio 2014, 23 settembre 2014, 4 novembre 2014 e 11 novembre 2014, ed a scioglimento della riserva assunta in quest’ultima udienza, ha emesso la seguente

ORDINANZA

  1. I) FUMUS BONI IURIS.

I.1. Le domande dei ricorrenti.

Con il ricorso per cui si procede i ricorrenti hanno chiesto:

  1. i) accettare e dichiarare che, per i motivi illustrati in parte motiva, il socio WPP, nell’assem­blea del 28 aprile 2014 convocata in sede straordinaria per deliberare sulle proposte di aumento di capitale di F6, ha esercitato il diritto di voto in violazione dell’art. 2373 c.c. o, in subordine, ha abusato del suo diritto di voto;
  2. ii) conseguentemente e per l’effetto annullare le deliberazioni assembleari a contenuto negativo con le quali l’assemblea straordinaria di F6 del 28 aprile 2014 ha rigettato le proposte di aumento del capitale;

iii) conseguentemente e per l’effetto dichiarare la costituzione in via giudiziale degli effetti delle proposte di aumenti di capitale respinte dal­l’a­ssemblea straordinaria di F6 del 28 aprile 2014 a causa del voto contrario determinante del socio WPP;

  1. iv) conseguentemente e per l’effetto, condannare WPP al risarcimento, in favore dei ricorrenti dei danni dai medesimi subiti in ragione di tale violazione, nella misura che verrà determinata in una successiva udienza.

Le stesse domande sono state proposte dai ricorrenti in sede di merito, mediante atto di citazione notificato alla Società il 6 giugno 2014.

I.2. Prima eccezione preliminare della resistente WPP: carenza di legittimazione attiva dei ricorrenti e di F6.

In via preliminare WPP ha eccepito che i ricorrenti non avrebbero rispettivamente provato la loro qualità di socio alla data di proposizione del ricorso, mediante il deposito di idonea documentazione. Ne conseguirebbe l’inammissibilità del ricorso per non essere stato raggiunto il quorum previsto dagli artt. 2377 comma 3 e 2378 comma 2 c.c. per l’impugnazione delle deliberazioni assembleari adottate il 28 aprile 2014.

L’eccezione è parzialmente fondata.

Occorre premettere che, essendo stato proposto un ricorso ex art. 700 c.p.c., con il quale i ricorrenti chiedono ante causam di anticipare gli effetti della sentenza di cui hanno chiesto l’emis­sione in sede di giudizio di merito, i requisiti di legittimazione alla proposizione del ricorso cautelare non possono che essere i medesimi richiesti per la proposizione del giudizio di merito.

Ciò posto, si deve constatare che i ricorrenti ... .... non hanno prodotto alcun documento dal quale possa evincersi la loro qualità di soci di F6 alla data della proposizione del ricorso e della notifica della citazione.

Poiché tale qualità, ai sensi dell’art. 2377 com­ma 3 c.c., costituisce requisito necessario per proporre impugnazione delle deliberazioni assembleari di s.p.a. con la quale si deducano vizi che ne comportano l’annullamento, non resta che concludere per la carenza di legittimazione dei ricorrenti predetti a proporre il ricorso di cui si discute.

Alla stessa conclusione si deve addivenire con riferimento al ricorrente ... che ha prodotto un documento non firmato da funzionario dell’isti­tuto bancario apparente emittente, datato 8 gennaio 2014 e che pare attestare il possesso di azioni F6 alla data del 31 dicembre 2013. Non essendo provata la provenienza del documento e comunque attestando il medesimo il possesso delle azioni in data troppo risalente rispetto a quella di proposizione del ricorso, non può, allo stato, riconoscersi legittimazione attiva al ricorrente medesimo.

Opposte conclusioni con riferimento ai ricorrenti ... – che ha prodotto certificato sottoscritto del possesso di 85.000 azioni F6 in data 25 maggio 2014, dunque prossima a quella di deposito del ricorso e di notifica della citazione –, ...– che ha prodotto certificato sottoscritto del possesso di 1.500 azioni F6 in data 22 maggio 2014, dunque prossima a quella di deposito del ricorso e di notifica della citazione –, ... – che ha prodotto certificato sottoscritto del possesso di 8.000 azioni F6 alla data dell’assemblea impugnata e vi ha partecipato votando a favore delle delibere di aumento di capitale –, ...– che ha prodotto certificato sottoscritto del possesso di 25.000 azioni F6 alla data dell’assemblea impugnata e vi ha partecipato votando a favore delle delibere di aumento di capitale –.

Quanto ai ricorrenti ... e ... è da rigettare l’ec­cezione della loro carenza di legittimazione sulla deduzione che l’art. 2377 comma 3 c.c. consente tassativamente l’impugnazione solo ai soci assenti, dissenzienti od astenuti.

Invero, considerato che la delibera negativa è da ritenere senz’altro una delibera assunta dal­l’assemblea, come tale imputabile alla società, e dunque suscettibile di essere impugnata come quelle positive nelle forme e nei limiti di cui al­l’art. 2377 c.c. (essendo tale conclusione necessitata ex artt. 3 e 24 comma 1 Cost.; v. postea), la specularità della situazione rispetto all’impu­gna­zione delle delibere positive impone di qualificare “dissenzienti” i soci che, votando favorevolmente alla proposta non adottata, abbiano cosi dimostrato la loro contrarietà alla delibera negativa poi adottata. Tanto premesso, il ricorso è ammissibile.

Invero, essendo nel caso di specie il quorum previsto dal comma 3 dell’art. 2377 c.c. pari a 11.182 azioni (1 x 1000 di 11.182.315 azioni che compongono il capitale sociale di F6), esso è superato sia singolarmente dai soci ... e ..., sia a maggior ragione dai ricorrenti congiuntamente (art. 2378 comma 2 c.c.).

È invece pacifica la carenza di legittimazione della società ad impugnare la delibera assembleare – per quanto negativa – sia perché essa non è contemplata nel novero dei soggetti abilitati ex art. 2377 comma 3 c.c., sia perché questa norma abilita invece direttamente gli organi che la impersonano – cioè gli amministratori, il consiglio di sorveglianza, il collegio sindacale – talché non residua spazio per una legittimazione del­l’ente in sé che, a fronte della diretta imputazione della delibera, è individuato invece come sog­getto controinteressato alla pronuncia di annullamento.

L’eccezione, tuttavia, è irrilevante, poiché, nel caso di specie, la Società non ha affatto impugnato le delibere del 28 aprile 2014, ed è stata invece destinataria del ricorso e dell’atto di citazione in veste rispettivamente di resistente e di convenuto, così essendosi instaurati procedimenti che seguono l’iter fisiologico previsto dalle norme.

Che poi F6 – qui in veste appunto di resistente – costituendosi abbia deciso di aderire alle domande dei ricorrenti configura un accidente di fatto certamente irrilevante sul piano della legittimazione ad impugnare e della sua formale posizione processuale.

I.3. Seconda eccezione preliminare della resistente WPP: mancata notificazione dell’atto di citazione nel giudizio di merito.

WPP ha eccepito che l’atto di citazione non le sarebbe stato notificato, deducendone una violazione dell’art. 2378 c.c.

L’eccezione – a fronte della prova della rituale e tempestiva notificazione della citazione alla Società in data 6 giugno 2014 – è infondata in fatto ed irrilevante.

Quanto al primo aspetto, i ricorrenti hanno prodotto atto di citazione notificato in data 20 giugno 2014 a WPP nella sede risultante a libro soci a mezzo spedizione postale ex art. 10 della Convenzione dell’Aja del 1956.

Quanto al secondo aspetto, è da considerare che l’art. 2377 comma 6 c.c. prevede, per la proposizione dell’impugnazione della deliberazione, un termine di decadenza di 90 giorni dalla data della sua adozione, termine qui certamente rispettato con la tempestiva notificazione della citazione alla Società. La rituale notificazione dell’atto di citazione ad altri soggetti – quan­d’anche anche in ipotesi ritenuti litisconsorti necessari quali i soci in conflitto di interesse od abusanti –, a fronte della corretta integrazione del contraddittorio in questo procedimento cautelare, è invece da considerare quale questione da risolvere nel giudizio di merito, se del caso mediante opportuni provvedimenti di autorizzazione alla rinnovazione della citazione o di integrazione del contraddittorio ex art. 102 c.p.c.

I.4. Terza eccezione preliminare e quarta eccezione preliminare della resistente WPP: inammissibilità dell’impugnazione di delibera negativa ed inammissibilità del ricorso ex art. 700 c.p. c. volto a fare dichiarare gli effetti di una deliberazione mai adottata.

Infine, in via preliminare, la resistente WPP ha eccepito l’inammissibilità dell’impugnazione di delibera negativa e l’inammissibilità del ricorso ex art. 700 c.p.c. volto a far dichiarare gli effetti di una delibera mai adottata dalla Società.

Questo Giudice ritiene infondate queste eccezioni preliminari della resistente WPP. Tuttavia, prima di affrontare le relative questioni, vanno fatte due precisazioni.

La prima è che le complesse problematiche sottese alle questioni di cui si discute saranno affrontate sommariamente, non senza l’espres­sione di qualche opinione in forma apodittica, senza l’altrimenti necessario approfondimento, poiché, come si vedrà, il ricorso è infondato nel merito per carenza di fumus boni iuris in punto di conflitto di interessi rilevante ex art. 2373 c.c. e di abuso nell’esercizio del diritto di voto da parte di WPP.

La seconda puntualizzazione è che, in ogni caso, le affermazioni che si andranno svolgendo riguardano strettamente la situazione oggetto del presente procedimento e cioè: – mancata approvazione di delibera di aumento di capitale in società quotata in mercato regolamentato; – mancata approvazione dovuta al voto espresso da un socio di minoranza qualificata. Non ci occupiamo, dunque, del diverso caso – che esula dal­l’oggetto di questo procedimento – della mancata approvazione della proposta di delibera per esclusione di un socio dalla votazione.

Tanto chiarito, non si può che rimarcare la fondatezza delle considerazioni in forza delle quali la migliore e più recente dottrina e parte della giurisprudenza ([1]), risolvono le questioni di cui si discute, che vanno qui riassunte in estrema sintesi.

Non si può che muovere dalla considerazione che anche la delibera assembleare negativa esiste come deliberazione assembleare, in quanto manifestazione di volontà dei soci assunta all’esito del procedimento all’uopo previsto dalla legge.

Se esiste come tale, la delibera negativa può essere impugnata nelle forme e nei termini di cui all’art. 2377 c.c.

Dunque, quando se ne accerti l’illegittimità, la delibera negativa deve essere annullata.

Nondimeno, l’annullamento di una delibera negativa non fornisce tutela alcuna all’impu­gnan­te od alla società dei cui diritti fosse riconosciuta la lesione, né costituisce rimedio sinanco logicamente congruo alla riconosciuta illegittimità della delibera, poiché è inane (se non canzonatorio) togliere effetto (id est: annullare) ad una delibera che, per sua natura, non l’ha.

Perciò va riconosciuto che, accertata l’illegit­tima considerazione del voto nel quorum deliberativo (es.: perché chi ha votato non era legittimato al voto, per vizio nella delega, per conflitto di interesse del socio, ecc.), il Giudice accerta altresì immediatamente che, espunto il voto illegittimamente conteggiato nel quorum, la deliberazione della società è stata diversa da quella apparente e illegittima, cioè che la proposta all’or­dine del giorno è stata approvata (delibera positiva) e non respinta (delibera negativa).

L’impugnazione dunque impone al Giudice di ripercorrere il procedimento deliberativo, applicando le norme di legge, dunque giungendo al­l’eliminazione dei voti che, non potendo per legge essere espressi, non potevano essere conteggiati nel quorum assembleare, registrando il risultato deliberativo che vi è stato e che illegittimamente non è stato proclamato.

L’accertamento giudiziale in questi casi si pone naturalmente (secondo lo svolgersi del giudizio imposto dall’impugnazione delle delibere assem­bleari), in momento anteriore alla fase di proclama zione del risultato della votazione – proclamazione di competenza del presidente del­l’assemblea – e, accertata l’illegittimità del voto e del suo conteggio, accerta altresì l’ille­git­timità della proclamazione del risultato, conseguentemente dichiarando il risultato che, in termini di volontà effettivamente e legalmente espressa dal-l’assemblea, immediatamente emerge.

In quest’ottica – senz’altro preferibile, considerando che il Giudice non fa nulla di più di quanto è consentito al presidente dell’assemblea – la pronuncia è di accertamento della volontà effettivamente espressa dall’assemblea e, in questi termini, non si pongono ostacoli alla pronuncia giudiziale.

Va qui sin d’ora chiarito che non osta alla ricostruzione appena proposta la circostanza che l’art. 2373 c.c. non imponga al socio in conflitto di interessi di astenersi dal voto. Infatti il controllo avviene sui voti effettivamente espressi e si in­serisce idealmente nella fase di proclamazione del risultato del voto, fase preposta proprio all’e­same della legalità dei voti medesimi, di competenza del presidente dell’assemblea ed ovviamente sottoposta a sua volta al controllo di legalità (art. 3 comma 1 e 54 comma 1 Cost.).

Peraltro, anche a ravvisare nel fenomeno descritto una componente costitutiva (la sentenza sostituisce la delibera reale, illegittimamente proclamata), l’ostacolo frapposto dalla tassatività delle pronunce costitutive (art. 2908 c.c.) è più apparente che reale. Invero, come sottolineato da autorevole e sempre più diffusa dottrina, poiché il giudizio di impugnazione delle delibere societarie ex art. 2377 c.c. sfocia in una pronuncia costitutiva – l’annullamento –, poiché anche la delibera negativa è suscettiva di impugnazione e di annullamento, allora non si vede come escludere dall’area di quella pronuncia costitutiva (l’an­nullamento di delibera negativa) quella sua altra faccia – inscindibilmente connessa – data dalla proclamazione del risultato deliberativo secundum legem.

Con l’importante postilla che siffatta interpretazione non è nella disponibilità dell’interprete, essendo invece costituzionalmente dovuta ex artt. 3 e 24, commi 1 e 2, Cost., realizzandosi al­trimenti un’ingiustificata disparità di trattamento tra provvedimenti che tutti riconoscono l’ille­gittimità della delibera a seconda che essa sia positiva o negativa e un’ingiustificata lacuna nella tutela di soci e società contro deliberazioni ugual­mente viziate a seconda che la deliberazione as­sunta sia positiva o negativa.

Tanto premesso in punto di azione di merito è possibile affrontare la questione della tutela cautelare.

È pacifico che l’efficacia delle delibere negative non può essere sospesa ex art. 2378 comma 3 c.c., perché esse ne sono prive per natura.

Esclusa l’applicabilità del mezzo cautelare tipico, ci si può chiedere se sia ammissibile una cautela anticipatoria ex art. 700 c.p.c.

Tuttavia, una volta ammessa l’azione (di accertamento o costitutiva) volta a dichiarare il legittimo risultato deliberativo dell’assemblea, è precluso il diniego della tutela cautelare corrispondente (artt. 3, 24, commi 1 e 2, Cost.; Corte cost., sent. n. 190 del 1985; Corte cost., n. 318 del 1995).

Invero, secondo orientamenti dottrinali e giurisprudenziali ormai consolidati, la tutela cautelare atipica è ammissibile in funzione anticipatoria sia rispetto ad azioni di accertamento, sia rispetto ad azioni costitutive, anche se in entrambi i casi si è sottolineato che ad essere anticipati non sono gli effetti modificativi sostanziali delle seconde o dichiarativi delle prime, ma solo, in via temporanea ed interinale, i corollari obbligatori delle relative pronunce.

Con specifico riferimento alla delibera di aumento del capitale sociale scindibile, vanno tuttavia svolte alcune considerazioni.

Anzitutto la delibera in questione – che, in genere ed anche nel caso di specie, stabilisce un ammontare massimo di aumento del capitale e conseguentemente il numero massimo di azioni suscettibili di essere emesse ed il loro prezzo, modalità e termini dell’esercizio del diritto di opzione, destino dell’inoptato e termine finale di sottoscrizione –, sebbene destinata ad essere riportata dello statuto, non ha effetti immediatamente costitutivi, poiché l’aumento del capitale si avrà solo a seguito dell’eventuale sottoscrizione, cui consegue l’emissione delle azioni (art. 2346 comma 4 c.c.), e per la parte eventualmente sottoscritta, con conseguente modifica proporzionale anche dei rapporti tra le partecipazioni dei soci. Sicché, la delibera di aumento del capitale, di per sé, determina solo effetti obbligatori, ponendo i soci di fronte alla scelta se sottoscrivere o diluirsi.

Inoltre gli effetti della delibera sono destinati a determinarsi (o no) entro un lasso di tempo relativamente breve (rispetto agli ordinari tempi della giustizia), ma non sono di per se stessi assolutamente irreversibili, essendo sempre possibile addivenire ad un ricalcolo delle partecipazioni e del dare/avere tra soci e società. Altrettanto vero, d’altro canto, che la reversibilità degli effetti della esecuzione di un aumento di capitale è tutt’altro che agevole ed esente da possibili costi, specie con riferimento ad una società quotata in mercato regolamentato.

Infine, non è consentito – come si vedrà (par. l.5.1) – configurare un vero e proprio diritto della società all’aumento del capitale, suscettibile di essere tutelato in via generale ed assoluta.

E nemmeno, come noto, è configurabile un obbligo (in senso tecnico-giuridico) del socio di votare nell’interesse della società. Anzitutto perché l’interesse sociale è notoriamente di assai difficile individuazione – tanto che, dopo approfondite analisi, non manca chi realisticamente lo identifica nell’interesse del socio di controllo, dun­que un interesse comunque particolare e non superiore o generale –, sia perché non è rinvenibile il fondamento positivo di quell’ob­bligo, rimarcandosi invece la massima discrezionalità del socio nel voto e la funzionalità sistemica di questa discrezionalità, salvi ovviamente i limiti del conflitto di interessi e dell’abuso.

Si tratta, in conclusione, di muoversi in un quadro di bilanciamento di opposti interessi che richiama ed impone sin da ora un’attentissima analisi della fondatezza della domanda di merito.

I.5. Il merito del ricorso cautelare: conflitto di interessi di WPP nell’esercizio del diritto di voto negativo sulle proposte di aumento di capitale; abuso da parte di WPP del diritto di voto negativo sulle proposte di aumento di capitale.

I ricorrenti assumono che le delibere negative sulle proposte di aumento del capitale a pagamento adottate da F6 nell’assemblea straordinaria del 28 aprile 2014 sarebbero annullabili per avere WPP espresso voto negativo in conflitto di interessi rilevante ex art. 2373 c.c. e, in subordine, per avere, così votando, abusato del suo diritto di voto.

Per valutare nel merito le deduzioni dei ricorrenti vanno svolte alcune premesse in fatto:

  1. a) la compagine sociale di F6 è così composta; – ... direttamente 3,6% e, attraverso la controllata Blugroup s.r.l. (di seguito: BG), 45,69%, per un totale del 49,29%; – WPP 29,98%; – flottante 20,73%.
  2. b) le delibere di aumento di capitale sono state così motivate dal presidente in sede di assemblea:

“– reperire nuove risorse finanziarie per il raggiungimento degli obiettivi strategici e per il sostentamento dello sviluppo del Gruppo FullSix a livello nazionale ed internazionale acquisendo eventuali attività sinergiche alla value proposition del Gruppo;

– riequilibrare la struttura finanziaria della società e del gruppo”.

  1. c) le delibere di aumento del capitale sono state così proposte dal presidente in sede di assemblea:

L’assemblea della società FullSix S.p.A., in relazione al primo punto all’ordine del giorno della Parte Straordinaria,

– preso atto della relazione illustrativa degli amministratori;

– preso atto di quanto esposto dal presidente

DELIBERA

  1. Di aumentare a pagamento il capitale sociale per massimi nominali euro 1.242.479 (unmilioneduecentoquarantaduemilaquattrocentosettantanove) mediante emissione di massime n. 2.484.958 nuove azioni ordinarie del valore no­minale di euro 0,50 ciascuna, alle seguenti condizioni:

– le azioni di nuova emissione vengono offerte in opzione ai soci, in rapporto di due nuove azioni ogni nove azioni possedute;

– il termine per l’esercizio del diritto di opzione sarà fissato dall’organo amministrativo nei modi e nei termini di legge;

– i diritti di opzione non esercitati saranno offerti nel mercato regolamentato a cura degli amministratori e per conto della società entro il mese successivo alla scadenza del predetto termine, per almeno cinque sedute;

– il termine finale di sottoscrizione è fissato al giorno 28 aprile 2015;

– il prezzo di sottoscrizione di ciascuna azione viene fissato in euro 2,00 (due), di cui euro 1,50 a titolo di sovrapprezzo, da liberare integralmente al momento della sottoscrizione;

– l’aumento manterrà efficacia anche se parzialmente sottoscritto, con decorrenza, salvi gli effetti dell’iscrizione della presente deliberazione nel registro delle imprese, dal termine all’uopo stabilito dall’organo amministrativo con Borsa Italiana S.p.A.;

– le azioni di nuova emissione avranno godimento regolare.

  1. Di modificare conseguentemente l’art. 5 dello statuto sociale, aggiungendo la seguente clausola in calce:

“L’assemblea straordinaria dei soci in data 28 aprile 2014 ha deliberato di aumentare il capitale sociale a pagamento, in opzione ai soci, in denaro, in via scindibile, per massimi nominali euro 1.242.479,00 mediante emissione di massime n. 2.484.958 azioni, con sovrapprezzo, entro il termine finale di sottoscrizione fissato al 28 aprile 2015”.

  1. Di conferire all’organo amministrativo, e per esso al presidente e all’amministratore delegato, disgiuntamente tra loro, ogni più ampio potere per espletare gli adempimenti legislativi e regolamentari conseguenti all’adottata deliberazione, ivi compreso quello di apportare all’art. 5 dello statuto sociale le variazioni conseguenti all’ese­cu­zione ed al perfezionamento dell’aumento di capitale deliberato, con facoltà in particolare di scegliere il momento di pubblicazione dell’offerta di opzione, eventualmente anche non effettuandola ove da essi ritenuto opportuno..

In subordine, per il caso di reiezione della proposta, ne veniva formulata altra recante, in sintesi, delega al c.d.a. di effettuare aumento dal capitale a pagamento sino a massimi € 4.999.999,00 comprensivo di sovrapprezzo, senza diritto di opzione.

  1. d) le delibere suddette hanno entrambe riportato il voto favorevole di·... di BG e di altri soci sino al raggiungimento di una percentuale del capitale sociale pari al 50,096% e voto contrario di WPP (29,98% del capitale sociale).
  2. e) F6 ha adottato uno statuto che, per l’assem­blea straordinaria, prevede l’applicazione delle regole di cui all’art. 2368 comma 2 c.c., talché essa è regolarmente costituita quando è rappresentata la metà del capitale sociale e delibera con il voto favorevole di almeno 2/3 del capitale rappresentato in assemblea (art. 12 Statuto F6).

Nel caso di specie, essendo presente in assemblea 1’80,094% del capitale sociale, il quorum deliberativo era pari al 53% del capitale sociale, sicché, non essendo stato raggiunto il quorum, entrambe le proposte di delibera sono state respinte.

  1. f) WPP in assemblea ha esplicitamente motivato il suo voto contrario reiterando le motivazioni del diniego già espresso in occasione di una precedente proposta di delibera di aumento del capitale all’ordine del giorno dell’assemblea straordinaria del 18 dicembre 2013, cioè, rispetto alla situazione di crisi finanziaria in cui versa la società, l’inidoneità/inopportunità/opposizione ad un aumento di capitale destinato ad essere coperto da parte del socio di maggioranza relativa BG me­diante compensazione con una porzione del cre­dito dalla stessa vantato per pregressi finanziamenti alla società. In particolare WPP ha espres­so la convinzione che la conversione del credito di BG verso la Società fosse il reale ed unico scopo dell’aumento di capitale “il quale sembra essere concepito e finalizzato più che a raccogliere nuove risorse finanziarie, piuttosto a consentire all’a­zionista di maggioranza della Società di attribuire al proprio credito il suo valore nominale, nonostante si tratti di un credito postergato e nonostante il calo rilevante del patrimonio netto della Società (riconosciuto dagli amministratori stessi) rappresenti una circostanza che farebbe piuttosto pensare di attribuire al suddetto credito un valore reale di gran lunga al di sotto del suo valore nominale. Aggiungeva WPP che tale convinzione non veniva, a suo avviso, in alcun modo confutata dal parere rilasciato dallo studio ... (prodotto anche in atti), insistendo nell’afferma­zione che tale credito – in relazione anche alla situazione di crisi della società – avrebbe un valore di mercato enormemente inferiore a quello che BG vorrebbe ricavare dalla conversione in capitale e pres­soché nullo.

È altresì doverosa una premessa in diritto.

WPP, contrariamente a quanto affermato dai ricorrenti, non dispone di alcuna “minoranza di blocco” né di alcun “potere di veto”. Lo statuto di F6, invero, riproduce pacificamente le disposizioni di cui all’art. 2368 comma 2 c.c., sicché, presente e dissenziente WPP, il quorum deliberativo in assemblea straordinaria in prima convocazione è raggiunto con votanti a favore pari al 53% del capitale sociale. La sola BG dispone inoltre del totale controllo dell’assemblea ordinaria.

I.5.1. Conflitto di interesse di WPP rilevante ex art. 2373 c.c.: insussistenza.

Il primo vizio della delibera fatto valere dai ricorrenti è costituito da un preteso conflitto di interesse di WPP rilevante ex art. 2373 c.c., talché il suo voto dovrebbe essere escluso dal novero di quelli computati ai fini della verifica del quorum deliberativo.

La doglianza non risulta assistita dal necessario fumus boni iuris.

Come noto, perché sussista un vizio della deliberazione rilevante ex art. 2373 c.c. occorrono tre requisiti:

– l’individuazione dell’interesse della società soddisfatto con la deliberazione adottanda;

– l’individuazione dell’interesse perseguito dal socio con il voto sulla deliberazione adottanda;

– un rapporto di incompatibilità tra l’interesse della società e quello del socio tale per cui, approvata la delibera (nel caso di delibere negative: rigettata la proposta di delibera), l’interesse della società verrebbe sacrificato e quello del socio verrebbe soddisfatto. Non manca chi sottolinea che il rapporto tra interesse del socio e quello della società rispetto alla delibera adottanda per essere rilevante dovrebbe essere di “antagonismo iniducibile”, mentre per altri sarebbe sufficiente un “contrasto oggettivo e preesistente”.

Tutti sono però concordi nell’affermare che quel rapporto di esclusione reciproca, per cui la soddisfazione dell’uno determina un danno per l’altro e viceversa costituisce il “proprium” della fattispecie di conflitto di cui si discute, talché, quando manca, quella fattispecie non è integrata ed il voto del socio non si può escludere.

È tuttavia rilevante ai fini del decidere Io stabilire entità e natura di quel nesso di incompatibilità dei due interessi contrapposti.

Esso si deve definire nel senso che la deliberazione assembleare deve avere ricadute opposte, anche mediate ma dirette e determinate – in termini di danno emergente, lucro cessante, incremento patrimoniale o risparmio di spesa – sul patrimonio di entrambi i soggetti in conflitto.

Orbene, nel caso di specie, i ricorrenti deducono come interesse della Società, quello di evitare di incorrere nella procedura di cui all’art. 2446 c.c., essendo già il patrimonio netto sotto il capitale sociale ed essendo esiguo il margine che lo separa dal limite di 1/3 che la innescherebbe, aggiungendo che essa condurrebbe inevitabilmente la Società alla liquidazione (con danno anche per gli stakeholders, ad esempio i 400 dipendenti). Tale prospettazione è avvalorata da quanto risulta dalla relazione redatta dagli amministratori a corredo della presentazione delle proposte di delibera di aumento di capitale e ribadita dal dott. ... (dirigente preposto alla redazione dei documenti contabili societari) sentito all’udienza del 11.11.2014.

Risulta tuttavia dal verbale di assemblea che l’aumento di capitale sarebbe altresì funzionale all’ottenimento diretto o indiretto di mezzi utili al finanziamento di una politica espansiva della Società.

I ricorrenti individuano l’interesse confliggente di WPP nella sua posizione di concorrente di F6, in quanto entrambe le società – WPP in particolare facendo parte di un gruppo multinazionale di rilevanza globale – operano nel campo della comunicazione e del marketing pubblicitario.

Offrono altresì, insieme alla Società, a sostegno di tale deduzione la circostanza che tra WPP e F6 e/o suoi amministratori la stessa WPP ha iniziato alcuni contenziosi sinora con esito sempre ed in una occasione gravemente negativo ed una decisione dell’AGCOM in cui il comportamento di WPP viene definito “opaco”.

In sostanza i ricorrenti lamentano che, con il suo atteggiamento ostruzionistico ed esercitando di fatto un diritto di veto e/o di blocco, WPP si oppone senza alcuna ragione ad un aumento di capitale necessario per la sopravvivenza della Società, che, seguendo il trend in atto – positivo per aumento di ricavi e dei corsi azionari, ma negativo in termini di accumulo di perdite di esercizio –, condurrebbe la Società ad una situazione rilevante ex art. 2446 c.c. e, quindi, per conseguenza necessaria trattandosi di società quotata, alla liquidazione.

Tale atteggiamento sarebbe dimostrativo della coltivazione del suo interesse in conflitto e, in particolare, dell’intento di eliminare il concorrente F6 dal mercato.

Si tratta, all’evidenza, di una individuazione dell’interesse in conflitto che è oggettivamente molto generico.

Ciò posto, occorre prendere le mosse da alcune banali osservazioni.

La prima è che la concorrenza è notoriamente ritenuta una condizione di efficienza del mercato, dunque un bene espressione di diritti costituzionalmente garantiti (artt. 41 e 42 Cost.), sicché l’ordinamento la tutela rispetto al raggiungimento, da parte di alcuno, di improprie posizioni di monopolio o dominanti e la sanziona non già e non certo in sé ma in quanto si svolga con modalità illegittime.

La seconda è che, per impedire ad una società di assumere partecipazioni in altra società, quando le due si trovano in posizione di concorrenza, occorre che nello statuto della partecipanda sia inserita una clausola di gradimento e che essa sia attivata nelle forme previste. Invero, il divieto di concorrenza legalmente stabilito, come noto, non riguarda i soci ma gli amministratori (art. 2390 c.c.). Nel caso di specie, le parti non hanno nemmeno allegato l’esistenza di una clausola del genere. Né risulta in qualche modo rilevante che, in una società quotata, una società concorrente raggiunga una percentuale di partecipazione di poco sotto la soglia di OPA. Nel caso di specie, WPP era socia di F6 in quota molto consistente sin da prima del lancio del­l’OPA che avrebbe portato ... BG a conseguire la posizione di maggioranza relativa.

La terza è che una società ha sempre e per definizione interesse ad essere patrimonializzata. Si tratta certamente di un interesse che, anche in sede giudiziaria, deve essere considerato con la massima attenzione, posto che l’adeguata capitalizzazione costituisce presupposto fondamentale per la stabilità e lo sviluppo dell’ente commerciale. Per converso, tuttavia, non si può dimenticare che esiste un interesse di sistema a non mantenere sul mercato enti inefficienti (eventualmente riconvertendone le residue potenzialità economiche mediante apposite procedure di gestione della crisi). Sicché quell’interesse alla patrimonializzazione non assurge a diritto della società, sia perché i soci non sono titolari di un corrispondente obbligo (cfr. artt. 2446 e 2447 c.c.), nemmeno configurabile rispetto a terzi soci potenziali, sia perché sono previste procedure (es.: sollecitazione al rilascio di deleghe) tese a soddisfare quell’interesse, sempre previo vaglio della sua meritevolezza attraverso il giudizio del mercato.

È noto, del resto, che la società non è titolare di un suo proprio interesse meritevole di tutela contro quello dei soci, dei creditori e dei terzi a proseguire nella sua attività economica e a non esser messa in liquidazione, come emerge anche solo dalla lettura degli artt. 2484 (spec. n. 6) e ss. c.c. ([2]).

Tanto premesso, si deve valutare se la posizione del socio in non meglio identificata concorrenza con la società partecipata che versa in difficoltà (probabile futura situazione rilevante ex art. 2446 c.c.) ma con possibilità di upgrading, determini ipso facto anche una posizione di conflitto di interesse del socio stesso rilevante ex art. 2373 c.c. quando vota contro una proposta di delibera di aumento del capitale.

Si può ammettere che il socio concorrente rechi un interesse contrapposto rispetto alla patrimonializzazione della partecipata.

Tuttavia l’elemento essenziale da verificare non è solo se la reiezione della delibera determini per la Società uno svantaggio apprezzabile, ma – come si diceva – se a tale svantaggio sia ricollegato in modo anche non immediato ma diretto un vantaggio patrimoniale determinato per il socio in conflitto.

Ciò posto, è necessario rilevare che allo svantaggio per F6 di non vedere il suo capitale nominale aumentato da € 5.591.157,50 ad € 6.833.636,50, oltre al sovrapprezzo, corrisponde un generico vantaggio di WPP – cioè quello di veder perdurare lo stato di difficoltà di un concorrente – le cui dirette conseguenze sul patrimonio della medesima WPP però non solo non sono state individuate, ma nemmeno allegate dai ricorrenti.

Cioè, tra la delibera negativa e il vantaggio di WPP come, nel caso di specie, un nesso così vago da non poter essere ritenuto rilevante ai fini di cui all’art. 2373 c.c.

E ciò perché tra il generico vantaggio allegato dai ricorrenti ed il concreto e determinato vantaggio di cui l’art. 2373 c.c. richiede il perseguimento e la realizzazione come presupposto dell’esclusione dal voto del socio in conflitto, si frappongono nel caso di specie potenti elementi estranei alla deliberazione che non solo sono stati capaci da soli di determinare la situazione di vantaggio di WPP – segnatamente la crisi economico-finanziaria di F6, la quale nessuno addebita a WPP e che deve perciò essere ricondotta a ragioni interne a F6 – ma che, soprattutto, non hanno alcun diretto effetto positivo sulla sfera patrimoniale di WPP. O almeno questo effetto positivo non è stato allegato.

Né vale ad integrarlo il dedotto “vantaggio di posizione” – di natura strategica – che WPP maturerebbe opponendosi agli aumenti di capitale di F6, perché è proprio la struttura dell’art. 2373 c.c. ad escluderne la rilevanza, altrimenti dovendosi ammettere che il socio non possa perseguire politiche economico-commerciali in contrasto o divergenti rispetto a quelle della società partecipata. Si giungerebbe per questa via a sanzionare indiscriminatamente il voto del socio (di minoranza) che non sia adeguato al perseguimento dell’interesse della società, elidendo ogni suo spazio di discrezionalità e determinando surrettizia­mente un obbligo indiscriminato di “voto nell’in­teresse della società”, il che non pare conforme al sistema (v. par. 1.4, 1.5.2).

In conclusione, se non è dimostrato un nesso minimamente stringente tra la crisi di F6 ed un determinato vantaggio patrimoniale di WPP, non si può affermare che quest’ultima versa in conflitto di interessi rispetto ad una delibera in tesi capace di interromperla.

In sostanza, deve essere ammesso il voto del socio di minoranza in concorrenza sull’aumento di capitale della partecipata in crisi, se non si è dimostrato che lo stato di crisi della partecipata sta producendo un vantaggio patrimoniale determinato e concreto al socio stesso.

Considerazioni del tutto analoghe devono essere svolte con riferimento all’ipotesi di utilizzo della patrimonializzazione rinveniente dal proposto aumento di capitale a fini di sviluppo ed espansione della Società. Nulla è stato allegato in concreto in ordine all’incompatibilità dello sviluppo di F6 con gli interessi patrimoniali di WPP, essendo tale sviluppo in astratto affatto incompatibile (es.: in mercati o segmenti di mercato non coperti da WPP od in cui WPP potrebbe svilupparsi indirettamente).

In conclusione, è ben chiaro che quanto sinora affermato lascia spazio a politiche parassitarie e non collaborative, se non addirittura ostruzionistiche, di società che si insinuano nella compagine sociale delle concorrenti.

Nondimeno tali politiche, come noto, non sono sempre e comunque vietate nel diritto societario, ma solo quando assurgano a specifici illeciti cui sono correlate puntuali sanzioni.

Ed esistono strumenti (clausola di gradimento, sollecitazione al rilascio di deleghe nel voto in assemblea, patti parasociali e sindacati di voto, acquisizione diretta sul mercato di azioni in quantità tale da consentire il matematico controllo anche dell’assemblea straordinaria, ecc.) per evitare o risolvere situazioni del genere.

La presenza in astratto di tali strumenti, impedisce – quando essi non siano attivati in concreto, sopportando i relativi costi –, di rinvenire la soluzione in improprie ed eccessive compressioni della libertà ed autodeterminazione dei soci di minoranza nell’esercizio del diritto di voto.

1.5.2. Abuso del diritto di voto da parte WPP: insussistenza.

Parti ricorrenti assumono che WPP avrebbe votato soltanto per determinare uno svantaggio in capo ad F6 – prolungare la crisi finanziaria di F6 sino a che questa determini una situazione rilevante ex art. 2446 c.c. –, in assenza di qualsiasi giustificazione meritevole di tutela e che, perciò, il suo voto sarebbe abusivo.

Hanno altresì dedotto che WPP ha votato contro l’aumento di capitale nelle assemblee straordinarie del 22 novembre 2007, 19 maggio 2009, 18 dicembre 2013, oltre che in quella del 28 aprile 2014.

Per inquadrare esattamente la fattispecie occorre svolgere alcune osservazioni preliminari.

Anzitutto si deve considerare che il diritto di voto del socio gode di una discrezionalità molto ampia. Si tratta di discrezionalità non tecnica, tanto che il socio non è obbligato a motivare il voto. Tale ampia autonomia consentita al socio è il portato della possibilità, concessagli dall’ordi­na­mento, di riversare nella società scelte dettate dal più puro interesse personale, laddove la sintesi degli interessi particolari viene poi attuata con l’applicazione del principio maggioritario.

Nondimeno, tale ampia autonomia non può giungere sino a determinare un blocco nel funzionamento del principio maggioritario motivato solo da intento di nuocere alla società, agli altri soci o, comunque, da interessi estranei a quello sociale.

In particolare, le fattispecie abusive, per come ricostruite in giurisprudenza, sono essenzialmente connotate dal fatto che il voto del socio abusante è volto esclusivamente a danneggiare altri soci in assenza di ragioni giustificatrici. Sicché ne sono sintomi, tra l’altro, la mancanza di motivazione, l’esclusivo vantaggio proprio o di terzi perseguito dal socio abusante e la mancanza di vantaggio od il danno all’interesse sociale. Per converso costituisce esimente il vantaggio recato al­l’i­nteresse sociale.

La fattispecie abusiva, dunque, mantiene, almeno in linea di principio e tendenziale, una sua autonomia rispetto a quella di conflitto di interessi rilevante ex art. 2373 c.c., apprezzandosi, in questo secondo caso, la contrapposizione tra gli interessi del socio e quelli della società.

Se ne trae conferma dalla base essenzialmente contrattualistica posta a base della figura del­l’a­buso nel voto: l’affermazione – qui pienamente condivisa – secondo cui il contratto sociale è contratto associativo che, prevedendo l’eser­cizio in comune tra i soci di un’attività economica a scopo di lucro (art. 2247 c.c.), impone ai soci particolari doveri di collaborazione al fine di raggiungimento dello scopo stesso. Tali doveri assumo poi particolare pregnanza, in ragione del­l’applicazione del principio di buona fede nel­l’esecuzione dei contratti (artt. 1175, 1375 c.c.), valido anche con riferimento alle deliberazioni assembleari quali atti esecutivi del contratto sociale ([3]).

In proposito va sottolineato che, con riferimento al voto della maggioranza è frequente che, pur in modo nocivo per i soci di minoranza, quel voto intercetti e quindi non risulti incompatibile con lo stesso interesse sociale, eventualmente strumentalizzandolo in danno delle minoranze stesse.

In terzo luogo va detto che la giurisprudenza in tema di abuso del diritto di voto si è formata su ipotesi di abuso della maggioranza, cioè su ipotesi di delibere positive rispetto alle quali non si pone nemmeno il problema del voto determinante.

Tuttavia, diversamente, il voto della minoranza nelle delibere negative sarà di frequente in danno della società – difficilmente identificandosi l’interesse sociale con quello egoistico della minoranza – e, per tramite di quella lesione, lesivo anche dell’interesse della maggioranza.

In giurisprudenza è noto un solo caso di abuso di minoranza ([4]), riconosciuto rispetto ad una s.p.a. chiusa, con minoranza di blocco (s.p.a. con due soci rispettivamente al 60% ed al 40%, talché non era possibile nemmeno in astratto il formarsi della maggioranza dei 2/3 del capitale presente in assemblea straordinaria senza il voto favorevole del socio di minoranza). Anche in quel caso si trattava di diniego opposto dal socio di minoranza all’aumento di capitale.

Orbene, se nelle società chiuse ben può rilevare una minoranza di blocco formalmente esistente, nelle società quotate si deve apprezzare anche la situazione in cui il socio di minoranza abbia una partecipazione pur minoritaria ma rilevantissima – qui poco sotto la soglia dell’OPA obbligatoria (29,98%) – e, quindi, riesca, sfruttando la fisiologica carenza di partecipazione dei soci polverizzati, ad esercitare un blocco di fatto.

Del resto, non si può non sottolineare che tutta la disciplina dell’OPA si fonda esattamente su quel presupposto, laddove impone la condivisione del premio di maggioranza al socio che raggiunge una percentuale di partecipazione (30%) ben lontana dalla maggioranza assoluta del capitale.

Dunque, nelle società quotate, i soci che decidano di assumere posizioni pur di minoranza ma particolarmente significative sono vincolati al rispetto del principio di agire in buona fede in misura molto maggiore di quella dei soci polverizzati, proprio perché le loro decisioni recano effetti sul patrimonio di questi ultimi, in realtà soggetti deboli, solo formalmente titolari di poteri societari, di fatto incapaci di od impossibilitati ad esercitarli.

In sostanza, il sistema tende a proteggere la posizione debole dei soci polverizzati – tuttavia assolutamente necessari nel loro complesso a rendere funzionante il sistema stesso delle società quotate – con la responsabilizzazione dei soci titolari di partecipazioni significative.

In siffatta situazione, dunque, si rende rilevante, ai fini dell’apprezzamento di una situazione di blocco, non solo quella in cui il socio di minoranza sia titolare di un tale diritto in via astratta, ma anche quando lo sia sul piano concreto.

Andrà dunque applicato all’abuso di minoranza il criterio che l’art. 2373 c.c. utilizza per connotare la esclusione dal voto del socio (anche di minoranza) in conflitto di interessi, cioè l’effetto determinante del suo voto sull’adozione di una determinata deliberazione.

Tanto premesso, e passando a valutare il caso di specie, va anzitutto chiarito che WPP si è astenuta nella votazione dell’aumenti di capitale del 2007 ed ha votato a favore dell’aumento di capitale proposto nell’assemblea del 29.7.2008. In entram­bi i casi l’aumento è stato approvato ma non è stato eseguito, per decisioni non riconducibili a WPP. Quanto all’aumento di capitale del 2009, WPP ha spiegato il suo dissenso in ragione di gravi carenze strutturali insite nell’ope­razione in questione (termine di esecuzione troppo lungo, intenzione di BG di coprire l’au­mento mediante consistente utilizzo in compensazione del credito per finanziamento, sconcerto per la mancata esecuzio­ne dei due precedenti aumenti di capitale approvati, andamento negativo di F6, assenza di soglia minima per le azioni di nuova emissione, ecc.).

Quanto al voto del 28 aprile 2014 – ma identico era stato il comportamento di WPP quattro mesi prima – si deve considerare che WPP – già in assemblea (v. par. 1.5) ed ancora in sede di memoria di costituzione ed in udienza – ha motivato il voto negativo lamentando che la ragione reale sottesa alla proposta di aumento di capitale di cui si discute, doveva individuarsi nell’inten­dimento del socio di maggioranza di convertire, come già avvenuto in passato, un credito di valore inesistente e postergato in capitale, così ottenendo un indebito vantaggio rispetto agli altri soci che, per non diluirsi, sarebbero costretti a versare moneta fresca.

La società contesta tale ricostruzione, osservando che il debito di F6 verso BG risale al 2006, quando, proprio per consentire a F6 di continuare ad operare, il socio di maggioranza ha finanziato la Società per circa 8,4 milioni di euro. Il finanziamento è fruttifero ed è stato regolamentato da un contratto che prevede scadenze precise delle tranches di restituzione. Alcune tranches rilevanti sono state pagate nel tempo ed ancora di recente, sino alla riduzione del debito verso BG sino agli attuali € 1.948.000. Altra rata di notevole consistenza è in scadenza a dicembre. La Società sostiene che, avendo patrimonio netto ampiamente positivo, sebbene inferiore al nominale, il finanziamento sarebbe restituito anche nell’ipotesi di liquidazione. In ogni caso, la conversione del capitale di credito in capitale di rischio da parte del socio è operazione del tutto legittima, pacificamente ammessa e che si risolve comunque a svantaggio del socio finanziatore. Si sottolinea, inoltre, che BG ha già convertito parte del suo credito in versamento in conto capitale, salvando così la società in altra precedente occasione dal cadere in una situazione ex art. 2446 c.c. Nel caso di specie si risolverebbe in un vantaggio per la Società stessa, consentendole di patrimonializzarsi, di ricevere nuovi capitali e di ottenere maggior credito dalle banche, così scon­giurandosi lo spettro del procedimento ex art. 2446 c.c. e consentendosi l’apertura di una fase di espansione.

Osserva in proposito il Tribunale che, con riferimento alla contestata fattispecie di abuso della minoranza, la questione non si esaurisce in quella se l’aumento di capitale sia giustificato o no o, nel caso, se la conversione del finanziamento del socio alla società sia legittimamente utilizzabile per sottoscrivere un aumento di capitale o se tale operazione sia giovevole per la società, ma riguarda lo scorretto utilizzo, da parte del socio di minoranza, del suo diritto di voto e, più in particolare, se egli abbia fatto cattivo governo della discrezionalità, pur ampia, che assiste le sue scelte, sconfinando in un arbitrio dannoso per gli altri soci e per la società.

Ciò posto, ritiene il Tribunale che il voto di WPP – sebbene possa essere ritenuto in altra ottica non opportuno o sconveniente – non è stato tuttavia espresso esorbitando i limiti propri della discrezionalità del socio.

Invero, la stessa società – rispetto al finanziamento del socio BG – sta tenendo un comportamento che, nell’ottica particolare del socio di minoranza qualificata, può essere ritenuto non lineare, poiché da un lato essa lamenta uno stato di crisi finanziaria che le inibisce l’accesso (o comunque l’ulteriore accesso) al credito bancario e che ha anche effetti patrimoniali – laddove determina la riduzione progressiva del patrimonio netto in misura tale da far prevedere il verificarsi di una situazione ex art. 2446 c.c. –, dall’altro lato procede alla restituzione dei finanziamenti al socio BG secondo le previste scadenze contrattuali.

Orbene, trattandosi di valutare l’esercizio, da parte del socio, della sua discrezionalità nel voto, non è necessario verificare se l’art. 2467 c.c. sia applicabile alle società quotate ed in che termini o se la sua applicazione consentirebbe ad F6 di non essere considerata inadempiente rispetto al contratto sottoscritto con BG, ed è invece necessario verificare se sia abusivo il voto del socio che – ritenendo confacente ai principi di corretta gestione della società cui partecipa, la qualificazione del credito in questione come postergato, o comunque inopportuna la sua restituzione in una situazione di crisi come quella rappresentata perché incrementativa della crisi stessa e discriminatoria, e comunque il credito di valore irrisorio in quanto già (sul piano sostanziale se non formale) “a capitale” e in essere verso una società che si dice essa stessa in crisi finanziaria con serie ricadute patrimoniali (né è chiaro allo stato quali sarebbero le ulteriori ricadute della liquidazione sullo stato patrimoniale di F6) –, si opponga con i mezzi che ha a disposizione, cioè, tra l’altro, il voto contrario alla delibera di aumento del capitale, a che quel credito possa essere formalmente convertito in capitale al valore nominale – senza esborsi e con lm vantaggio ritenuto consistente ed evidente per il socio di maggioranza – nel contempo costringendo gli altri soci a versare di moneta fresca o a diluirsi. Sostanzialmente assume WPP che, rispetto alla gestione del finanziamento in questione è BG ad essere in conflitto di interessi, e di non voler contribuire all’adozione di una delibera che determinerebbe disparità di trattamento tra i soci.

Ritiene questo Tribunale che – per quanto possa essere non condivisa – una posizione siffatta non può – specie in un quadro di seria valutazione in ordine alla fondatezza dell’azione di merito, sia pure allo stato e nei limiti cognitivi propri di questo procedimento – essere qualificata tout court come arbitraria e strumentale.

È il caso di sottolineare inoltre che nemmeno i ricorrenti hanno in alcun modo illustrato le linee del piano industriale che il c.d.a. si riprometteva di finanziare con l’aumento di capitale, omettendo in toto di descriverne fattibilità e benefici effettivamente ricavabili.

Infine, in quanto espresso già in sede di assemblea straordinaria del 18.12.2013 allorquando la Società versava in identiche condizioni, la reiterazione dello stesso voto, in quanto giustificata, non è indice di abuso.

Ne consegue che il voto contrario all’aumento di capitale di F6 da parte di WPP non può essere ritenuto esorbitante ai confini della discrezionalità del socio, strumentale ed abusivo.

Alla stregua delle superiori considerazioni il ricorso deve essere rigettato, rimanendo assorbiti i profili relativi alla sussistenza del periculum in mora.

Consegue ex art. 669 septies c.p.c. la condanna in solido dei ricorrenti e di F6, che ha chiesto l’accoglimento delle loro domande, al pagamento delle spese processuali, liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

RIGETTA

il ricorso e condanna FULLSIX S.P.A., in solido tra loro, alla rifusione delle spese processuali in favore di parte resistente WPP DOTCOM HOLDINGS (FOURTEEN) LCC, spese che si liquidano in € 5.000,00, oltre CPA ed IVA come per legge.

Si comunichi. Milano, 28/11/2014

SOMMARIO:

1. Il caso - 2. La normativa di riferimento - 3. I precedenti giurisprudenziali e la dottrina - 4. Il commento - 4.1. L’annullamento della delibera negativa e la sua “trasformazione” in una delibera positiva - 4.2. Altre forme di tutela - 4.3. Aspetti processuali - NOTE


1. Il caso

Varie proposte di aumento di capitale, tutte avanzate nel corso di un’unica assemblea straordinaria, venivano rigettate per il voto contrario del socio di minoranza. Gli altri soci, assumendo che il diritto di voto fosse stato esercitato dal suddetto socio di minoranza in violazione dell’art. 2373 c.c. o che, in subordine, questi avesse abusato del suo diritto di voto, decidevano di ricorrere ai sensi dell’art. 700 c.p.c. per ottenere in via provvisoria l’annullamento della delibera assembleare di rigetto delle proposte (delibera negativa), nonché per ottenere la costituzione in via giudiziale degli effetti delle proposte di aumento di capitale respinte. Le stesse domande venivano presentate in sede di merito. Pur respingendo il ricorso, non ritenendo sussistere nella specie il fumus boni iuris, con l’ordinanza in commento il Giudice ha affermato che, laddove sia accertata l’ille­gittimità di una delibera negativa, non si deb­ba procedere meramente all’annul­la­mento della stessa, ma – espunti i voti illegittimamente conteggiati nel quorum deliberativo – debba dichiararsi accolta la proposta che era stata illegittimamente respinta. Tema del presente commento è appunto l’impugnazione della delibera negativa e della sua possibile trasformazione in delibera positiva, argomenti al centro delle prime cinque massime. Più precisamente si avrà riguardo all’ipotesi in cui la proposta venga respinta a seguito del voto contrario e determinante (ma esercitato in modo illegittimo) di una parte dei soci, non al differente caso della mancata approvazione della mozione per l’indebita esclusione dal voto di uno o più soci. Non si tratterà inoltre delle nozioni di conflitto di interessi e di abuso del diritto di voto (oggetto, rispettivamente, della sesta e della settima massima), in quanto, non mutando dette nozioni a seconda che la delibera sia positiva o negativa, non appare necessaria una specifica analisi in questa sede.


2. La normativa di riferimento

Non esiste una norma di legge che stabilisca espressamente se la decisione di rigetto possa o meno essere considerata una delibera assembleare. Il tema è dunque controverso. Va da sé che, solo ove si ritenga che la decisione di rigetto costituisca una vera e propria delibera assembleare, ancorché negativa, si potrà concludere per l’impugna­bilità della stessa nelle forme e nei limiti di cui all’art. 2377 c.c. Se si abbracciasse la tesi della natura deliberativa del rigetto, si porrebbe il problema di individuare i soci dissenzienti, legittimati a impugnare ai sensi del 2° comma della norma citata. Dissenzienti rispetto alla delibera negativa sarebbero coloro che hanno votato a favore della proposta non adottata. Non paiono invece esservi dubbi sul­l’inapplicabilità dell’art. 2378, 3° comma, c.c. alla decisione di rigetto, anche qualora le si attribuisca natura di delibera. La sospensione dell’esecuzione di una delibera negativa è infatti impossibile, poiché, come osservato nell’ordinanza in commento, tale delibera è per sua natura priva di efficacia.


3. I precedenti giurisprudenziali e la dottrina

La considerazione da cui muove la pronuncia in esame è che la cosiddetta delibera negativa costituisce una vera e propria delibera assembleare ed è pertanto impugnabile nelle forme e nei termini di cui all’art. 2377 c.c. La tesi non trova certo riscontro unanime nella dottrina e nella giurisprudenza, perché sono non poche le voci secondo le quali solo una manifestazione positiva di volontà assembleare ha la dignità di delibera, mentre il voto negativo o l’astensione di tutti i presenti non potrebbero definirsi tali [5]. Qualora invece si ritenga, sulla scorta del­l’ordinanza qui commentata, che anche il rigetto di una proposta possa costituire una delibera, ancorché di segno negativo, occorre stabilire se qualsiasi reiezione della proposta possa qualificarsi come delibera negativa, o se non si debba piuttosto distinguere. Come puntualmente osservato in dottrina [6], le locuzioni “rigetto/non approvazione/reie­zione della proposta” abbracciano uno spettro di situazioni che va dalla reiezione della proposta da parte della maggioranza del capitale sociale, all’astensione di tutti i presenti, al mancato raggiungimento del quorum deliberativo nonostante i voti espressi siano stati in maggioranza favorevoli. Vi è chi ha sostenuto che ogni votazione (qualunque sia stato il suo esito, di approvazione o di rigetto) deve considerarsi come delibera (positiva o negativa) [7]. Solo la mancata approvazione della proposta determinata dall’astensione di tutti i presenti sarebbe dunque priva dello status di delibera [8]. Secondo questa impostazione, la volontà dei votanti (in qualunque modo si esprimano, a favore o contro la mozione) sarebbe comunque diretta primariamente alla conclusione dell’iter assembleare, ovvero alla consumazione della proposta (la stessa non può infatti essere reiterata in seconda convocazione). Tale volontà, imputabile alla società, darebbe vita a una delibera, positiva o negativa a seconda dell’esito della votazione. Una tesi più restrittiva riconosce invece la qualifica di delibera negativa solo alla decisione di rigetto presa da una maggioranza sufficiente ad approvare la proposta [9]. Seguendo questa opinione, nel caso di specie non si potrebbe parlare di una delibera negativa, poiché la reiezione della proposta, come si è detto, è avvenuta a seguito [continua ..]


4. Il commento

4.1. L’annullamento della delibera negativa e la sua “trasformazione” in una delibera positiva

La tesi, secondo la quale all’annul­lamen­to della delibera negativa possa o debba seguire l’accertamento giudiziale della delibera positiva, appare infondata a chi scrive. Il primo argomento, a mente del quale non andrebbe ristretta la tutela reale della minoranza salvo che ciò non sia imposto da una norma di legge, appare di per sé piuttosto debole, perché, ove si riconosca che il legislatore abbia deciso di limitare la tutela reale solo a ipotesi specifiche (dunque, di stretta applicazione), non si vede per quale ragione detta tutela dovrebbe essere estesa anche a fattispecie diverse. In ogni caso, proprio considerazioni sul piano sistematico portano a negare la possibilità che una delibera negativa si trasformi in positiva, in quanto, come si è osservato in dottrina [18], quando l’ordinamento prevede la possibilità che si producano per via giudiziaria gli effetti dell’atto che l’assemblea non ha approvato, si è sempre in presenza di un atto dovuto (esempi tipici sono la riduzione obbligatoria del capitale per perdite o di vendita obbligatoria di azioni illegittimamente acquistate o trattenute dalla società). Neppure è sostenibile che il giudice, nel­l’accertare l’esistenza della delibera positiva dopo aver annullato la delibera negativa, compia una mera operazione di riconteggio. Tale conclusione sarebbe condivisibile solo qualora vi fosse stato un errore da parte del presidente dell’assemblea nel conteggiare voti validi. In tale ipotesi, come si è visto, si può sostenere che il giudice si limiti a correggere un errore materiale, dal momento che sussistono voti validamente espressi e di per sé sufficienti ad approvare la delibera, ma semplicemente non computati dal presidente. Il giudice dunque, in questo caso, si limita a inserire nel computo quei voti (validi) erroneamente non presi in considerazione. Nel caso di specie, il giudice dovrebbe invece porre in essere un’ope­razione inversa (eliminare dal computo i voti invalidi) e ben più complessa, perché dovrebbe accertare previamente l’invalidità dei voti e poi, effettuato lo scom­puto, dichiarare approvata la proposta con i rimanenti voti validi. Poiché, secondo la tesi che qui si critica, il giudice si limiterebbe ad accertare la volontà assembleare, il che escluderebbe trattarsi di indebita [continua ..]


4.2. Altre forme di tutela

Posto che il giudice non può far nascere dal nulla, con un’inammissibile sentenza costitutiva, una delibera positiva che non è mai esistita, ci si può chiedere se con la sentenza di annullamento della delibera negativa non possa essere stabilita quanto meno una regula iuris che vincoli l’as­sem­blea nel caso di successiva deliberazione sulla stessa proposta. La dottrina processualistica, con riferimento però alle delibere positive, non negative, ha in effetti espresso l’opinione che, in caso di annullamento di una delibera, la società non dovrebbe limitarsi ad adottare una delibera sostitutiva, ma sarebbe necessario che tale seconda delibera sia immune dei vizi rilevati nella prima. Il giudice non dovrebbe dunque solamente controllare che una nuova delibera sia emanata, ma dovrebbe entrare nel merito della seconda deliberazione, indipendentemente da un’e­spres­sa impugnazione [35]. La tesi appare condivisibile se riferita al­l’annullamento di delibere positive, tenuto conto anche di quanto disposto dall’art. 2377, 7° comma, c.c. («L’annullamento del­­la deliberazione ha effetto rispetto a tutti i soci ed obbliga gli amministratori, il consiglio di sorveglianza e il consiglio di gestione a prendere i conseguenti provvedimenti sotto la propria responsabilità»), ma nel caso di delibere negative non pare che si possa pervenire alla medesima conclusione. Un conto è infatti vietare all’assemblea di emanare una delibera formalmente diversa ma viziata allo stesso modo della prima (l’as­semblea sarà comunque libera di scegliere una delle possibili opzioni lecite) e un conto è intimare all’assemblea di adottare una ben precisa delibera (ovvero quella individuata dal giudice) [36]. Si consideri che, in tale ultimo caso, la sentenza stabilirebbe l’obbligo per gli organi sociali di convocare l’assemblea, determinando inoltre l’ordine del giorno e la mozione da votare (ovvero la proposta già respinta) e imponendo ai soci di votare a favore della medesima. Ovvio che in tali condizioni, non solo la votazione, ma l’in­tero procedimento deliberativo sarebbero una mera fictio. E se poi l’assemblea non si conformasse al giudicato? Nel caso di decisioni di segno positivo, se fosse emanata una nuova deliberazione viziata come la prima, il giudice (se si [continua ..]


4.3. Aspetti processuali

Con la seconda massima si afferma che, rispetto a una delibera negativa, vanno qualificati come dissenzienti i soci che abbiano votato a favore della proposta non adottata. Con la terza si nega la legittimazione attiva della società a impugnare ex art. 2377 c.c. la delibera assembleare, anche negativa. Quanto sopra è pacifico nel caso di azione di annullamento. Ove invece non si qualifichi la decisione di rigetto come delibera, un’azione di annullamento ex art. 2377 c.c. non sarebbe possibile. Chiunque vi ha interesse (dunque, teoricamente, anche i terzi estranei alla società e la società medesima) potrebbe proporre un’azione di accertamento per rilevare l’illegittimità del voto. In concreto, tuttavia, pare difficile ipotizzare che l’interesse ad agire venga individuato in capo a soggetti diversi dai soci che hanno votato a favore della proposta respinta. Scontata, come già detto, appare la quinta massima nella sua prima parte, ove si rileva che non può essere chiesta la sospensione dell’esecuzione di una delibera negativa ai sensi dell’art. 2378, 3° comma, c.c., poiché tale delibera è per sua natura priva di efficacia. Una simile domanda sarebbe evidentemente priva dell’interesse ad agire [40]. Viene invece considerato ammissibile il ricorso ex art. 700 c.p.c., volto a ottenere un’anticipazione degli effetti della delibera positiva illegittimamente non adottata [41]. Naturalmente, se si adotta la linea che qui si è illustrata, e che ritiene inammissibile la trasformazione in via giudiziale di una delibera negativa in delibera positiva, il ricorso ex art. 700 c.p.c. non avrebbe alcun senso, al pari della richiesta di sospensione ex art. 2378, 3° comma, c.c. Ove però si ammetta, come l’ordinanza in commento, che il giudice possa dichiarare approvata la mozione respinta, ci si può effettivamente domandare se sia ammissibile il ricorso ex art. 700 c.p.c. Il fatto che esista il rimedio rappresentato dall’art. 2378, 3° comma, c.c. dovrebbe di per sé portare comunque alla risposta negativa [42], essendo, come noto, la misura cautelare atipica inapplicabile ove sussistano rimedi tipici. Si segnala comunque che vi è chi sostiene [43] che l’ambito di operatività della cautela innominata non potrebbe ridursi alle sole situazioni soggettive non presidiate da una [continua ..]


NOTE