Rivista di Diritto SocietarioISSN 1972-9243 / EISSN 2421-7166
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L´inesistenza delle delibere e l'invalidità delle delibere consiliari: uno strano caso di revoca degli amministratori (nota a Trib. Ferrara, 22 dicembre 2006) (di Annalisa Postiglione)


TRIBUNALE DI FERRARA, 22 dicembre 2006 – M. D’Orazi Presidente e relatore V. Mantovani, D. Pincelli (Avv.ti Marescotti, Dall’Ara) c. Consorzio Provinciale Produttori Latte Ferrara Lattestense s.c. a r.l. (Avv. Mazzanti)

Società di capitali – Invalidità delibere assembleari – Inesistenza delibere assembleari

(Artt. 2364, 2377, 2379, 2383, 2388 c.c.)

Sono giuridicamente inesistenti quelle deliberazioni che, per la loro radicale deviazione dal modello legale, ovvero per una forzatura radicale degli assetti tipologici della società nella ripartizione delle competenze, siano tali da non consentire la qualificazione delle stesse come deliberazioni riconducibili all’organo che le ha assunte.

La delibera di revoca di un amministratore assunta dal consiglio di amministrazione è inesistente per evidente incompetenza dell’organo ad assumere la decisione.

L’inesistenza delle delibere comporta che le stesse non siano idonee a produrre alcun effetto e si abbiano per non assunte (1).

 

IL TRIBUNALE

Composto dai signori

Marco D’Orazi – presidente e relatore;
Paolo Sangiuolo – giudice;
Stefano Giusberti – giudice;
A seguito della udienza del giorno 22 dicembre 2006, nella camera di consiglio ivi tenuta; ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

Nella causa iscritta al numero di ruolo generale 1423 del 2005 RGAC;

Svoltasi con il rito di cui al decreto legislativo numero 5 del 2003;
Fra le seguenti parti:
Mantovani Vito
Pincelli Dario

Rappresentati e difesi dagli avvocati Angela Marescotti e Gian Pietro Dall’Ara, con domicilio eletto presso lo studio di tali difensori in Ferrara nel Corso Ercole I d’Este al numero 14;

PARTE ATTRICE

Contro

CONSORZIO PROVINCIALE PRODUTTORI LATTE FERRARA LATTESTENSE s.c. a r. l., rappresentata e difesa da avvocato Massimo Mazzanti e con domicilio eletto presso lo studio di questi, sito in Ferrara nella Piazzetta de’ Combattenti al numero 4.

PARTE CONVENUTA
ED
ATTRICE IN VIA RICONVENZIONALE

CON OGGETTO: revoca di amministratori; questioni societarie; invalidità di delibera assembleare; risarcimento danni; domanda riconvenzionale di danni, proposta dalla società convenuta, con domanda riconvenzionale.

CONCLUSIONI DELLE PARTI

Rese con il progressivo scambio di memorie di cui al decreto legislativo numero 5 del 2003 (c.d. rito societario). Tali conclusioni risultano emergere dal progressivo scambio di memorie di cui al rito in questione.

A tali conclusioni, quali risultanti dagli atti, si fa qui integrale riferimento e sono da considerarsi parte integrante di questa sentenza.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Causa svoltasi con il rito cosiddetto societario, di cui al decreto legislativo numero 5 del 2003.

Con rituale atto di citazione, i due attori Mantovani e Pincelli, come meglio risultanti sopra dalla intestazione, convenivano la LATTESTENSE (per esteso con nome sociale come risultante in intestazione). Affermavano in citazione di essere stati componenti del consiglio di amministrazione della LATTESTENSE. Aggiungevano come, in data 6 settembre del 2004, il consiglio di amministrazione decise di escludere i consiglieri Pincelli e Mantovani dal consiglio di amministrazione stesso; esclusione sommariamente motivata nel verbale relativo. Il 21 dicembre 2004 – così proseguiva la citazione – veniva convocata la assemblea ordinaria della LATTESTENSE, allo scopo di discutere la questione della sostituzione dei consiglieri venuti meno a seguito della deliberazione del 6 settembre, del consiglio di amministrazione.

La citazione premetteva che la causa era nella giurisdizione del g. o., per la inidoneità di una clausola statutaria a fungere da deroga alla giurisdizione ordinaria. In merito, chiedeva fosse dichiarata la nullità/inefficacia (sic in actis) della delibera del consiglio e la nullità/invalidità della successiva deliberazione assembleare.

Seguivano varie considerazioni in merito, in ordine alla vicenda sostanziale.

Rispondeva la LATTESTENSE, con lo scambio di memorie di cui al rito predetto.

In via preliminare, osservava come vi fosse competenza di arbitri, alla luce della clausola contenuta in statuto, di cui si è detto sopra, clausola invece inidonea per gli attori.

In ordine alla delibera del consiglio di amministrazione, si rilevava la inammissibilità della impugnazione medesima, per tardività. Si aggiungeva poi come emergessero danni della LATTESTENSE, per una condotta denigratoria degli attori Mantovani e Pincelli, nei confronti della LATTESTENSE; per questa condotta, la società convenuta in via riconvenzionale chiedeva i danni agli attori. Sulla descrizione di tale fattispecie, si rinvia alla comparsa di costituzione e risposta, contenente appunto anche tale domanda riconvenzionale.

Scambi progressivi di memorie ai sensi del rito societario. Dopo una prima udienza del 24 febbraio 2006, rinviata per impedimento del relatore, si teneva udienza il 26 maggio 2006, nella quale venivano disposte prove e, soprattutto, si imponeva alle parti di meglio precisare le loro domande, in alcuni punti, a parere del collegio, meritevoli di approfondimento.

Prove orali, come da verbale.

Alla udienza del giorno 22 dicembre 2006 la causa veniva discussa innanzi al collegio, nella composizione di cui alla intestazione. Il collegio non riteneva di pronunciare sentenza immediata, come di regola previsto dall’articolo 16, comma 5, decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5 ma con provvedimento a verbale veniva riservata la sentenza, come consentito dal medesimo articolo 16.

Si deposita dunque la seguente sentenza.

MOTIVI DELLA DECISIONE

La domanda è fondata.

Occorre preliminarmente affrontare la questione della clausola compromissoria.

Le parti si sono divise sulla questione se tale clausola compromissoria risponda alle prescrizioni di cui all’articolo 34 del decreto legislativo 5 del 2003, cit.; lo afferma parte convenuta, che dunque ritiene carente di giurisdizione questo giudice ordinario; lo nega parte attrice, che dunque ha portato la propria domanda innanzi a questo tribunale di Ferrara.

Si deve ritenere – prescindendo dalla questione della conformità della clausola all’articolo 34 cit. – che la clausola contenuta nell’atto costitutivo non abbia in realtà effetti di clausola compromissoria; non sia qualificabile come tale; dunque, non impedisce la giurisdizione di questo giudice ordinario.

Una lettura attenta della clausola – che si legge all’ar­ticolo 44 dello statuto, a documento 4 di parte attrice – la indica come una mera clausola di conciliazione, con richiamo alla procedura della CCIAA di Ferrara. In nessun punto di tale clausola è previsto che, nel caso di fallimento della conciliazione, si dovrà procedere ad arbitrato; non vi è dubbio che le Camere di commercio industria artigianato agricoltura presentino, fra i servizi che forniscono alle imprese, anche una camera di conciliazione ed arbitrato, con un proprio regolamento.

Tuttavia, da un punto di vista giuridico, ben distinta è una clausola di conciliazione, che impone o facoltizza tale tentativo, da un arbitrato, che priva il giudice ordinario di giurisdizione. In breve, le parti possono, fra i servizi forniti dalle CCIAA, scegliere di porre in una clausola, o nello statuto, o solo il tentativo di conciliazione, o solo l’arbitrato, ovvero entrambi.

Pertanto, la clausola di cui all’articolo 44 dello statuto va interpretata.

Essa fa sempre riferimento ad un tentativo di conciliazione, innanzi tutto nel titolo; in secondo luogo nel testo (tentativo di composizione mediante conciliazione); potrebbe dubitarsi, eventualmente, che il richiamo alla procedura CCIAA sia da intendersi come richiamo alle procedure di conciliazione ed arbitrato di tali organismi, ormai standardizzate sul modello della Camera arbitrale della CCIAA di Milano. In realtà, anche il richiamo alla procedura della CCIAA di Ferrara è espressamente limitato da tale clausola alla conciliazione (rectius: alla procedura di conciliazione), senza alcun riferimento alla procedura di arbitrato.

La clausola di cui all’articolo 44 dello statuto è soltanto una clausola conciliativa.

Deve dunque ritenersi che la clausola in questione sia di mera conciliazione e non di arbitrato; il che risolve ogni questione in ordine alla validità della stessa, secondo la riforma del diritto societario (articolo 34 d.lgs. 3 cit.).

Parte convenuta ha insistito per la esistenza di una clausola di arbitrato ma non ha proposto un’eccezione in punto a improcedibilità della domanda, fino all’esperimento della conciliazione. In mancanza di tale eccezione (parte convenuta ha insistito esclusivamente sul profilo dell’arbi­trato), la domanda è sicuramente procedibile, per ragioni processuali (appunto, la mancanza di una precisa eccezione in tale senso); la clausola, in ogni caso, avrebbe dovuto essere verificata funditus, per verificare se la conciliazione aveva, in quel contesto, un significato di rendere improcedibile la domanda innanzi al g.o., ovvero si trattasse di una mera conciliazione ed. facoltativa. Si ribadisce che si tratta di questione che non può essere affrontata, in mancanza di eccezione specifica sul punto, da parte convenuta (le cui considerazioni si sono fondate esclusivamente sulla natura di clausola arbitrale della clausola in questione).

Per affrontare la questione sostanziale, è necessario riassumere le catene logiche che sorreggono le posizioni hinc inde; si accantona per il momento il profilo della domanda riconvenzionale di danni, proposta dalla parte convenuta.

Parte attrice sostiene che la deliberazione del consiglio di amministrazione con cui furono dichiarati decaduti gli amministratori è invalida e, conseguentemente, è senza giusta causa la successiva deliberazione assembleare; da ciò sembra trarre, come conseguenza, la richiesta di risarcimento, per sostituzione degli amministratori senza giusta causa.

Parte convenuta, ritenendo invece la deliberazione del consiglio di amministrazione ormai intangibile per l’inter­venire della sanatoria dovuta alla mancata impugnazione, ritiene i successivi atti societari validi e assistiti da giusta causa. Ne conseguirebbe infatti la piena legittimità della successiva delibera assembleare, in una con la presenza di una giusta causa; giusta causa consistente nel fatto che occorreva nominare i nuovi amministratori, appunto sostituiti per deliberazione del consiglio, deliberazione ormai intangibile.

Una premessa.

È incontroverso fra le parti che, alla società convenuta, si applichino le regole della società per azioni. Ciò sia per il disposto dell’articolo 2519 c.c., sia perché lo statuto fa espresso riferimento allo stesso articolo 2519 c.c.

La deliberazione del consiglio di amministrazione, primo anello della catena logica, è quella del giorno 6 settembre 2004. Con tale deliberazione il consiglio decideva di escludere dal consiglio di amministrazione i consiglieri Pincelli e Mantovani.

Non vi è dubbio alcuno – sembra che nemmeno parte convenuta ponga in dubbio questa anomalia – che il consiglio non poteva escludere gli amministratori; infatti, per l’articolo 2383 c.c., la nomina degli amministratori spetta all’assemblea (comma primo) e gli amministratori sono revocabili ma solo dall’assemblea (comma terzo).

Il punto di divergenza fra le rispettive ricostruzioni si situa sugli effetti di questa deliberazione, sicuramente non corrispondente al modello legale.

La società convenuta, infatti, sostiene che si versa nella ordinaria ipotesi di cui all’articolo 2388 c.c., ipotesi di invalidità che prevede uno stringente termine di decadenza, il quale opera, sulla fattispecie di invalidità, come sanatoria. Parte attrice, invece, propone di valutare tale irregolarità in modo più stringente, invero, sembra, con un utilizzo prevalente del meccanismo della nullità (pagina 3 della memoria dep. 31 luglio 2006), esteso dalla normativa sulla assemblea. Propone cioè di estendere il meccanismo della nullità delle assemblee alle deliberazioni del consiglio.

In fatto, non è controverso che tale delibera non fu impugnata nei novanta giorni di cui all’articolo 2388 c.c.; la presente causa ha citazione posteriore e non risultano diversi atti di impugnazione. Con la conseguenza che la qualificazione del vizio è decisiva; aderendosi alla prospettazione di parte convenuta, infatti, si perverrebbe a ritenere che la deliberazione è ormai sanata e gli attori sono decaduti dalla relativa azione ex articolo 2388 c.c. Se si qualificasse più gravemente tale irregolarità, il termine decadenziale non sarebbe di ostacolo.

Questo collegio ha ritenuto, dopo larga e franca discussione nella camera di consiglio, che la delibera del consiglio di amministrazione sia giuridicamente inesistente; ritiene di poter infatti esprimere questa massima: sono giuridicamente inesistenti – e non semplicemente impugnabili ex articolo 2388 c.c., né nulle per estensione analogica della disciplina della nullità assembleare – quelle deliberazioni del consiglio di amministrazione che, per la loro radicale deviazione dal modello legale, ovvero per una forzatura radicale degli assetti tipologici della società in punto a ripartizione delle varie competenze, siano tali da non presentarsi come valutabili (sia pure in senso negativo) come fattispecie di deliberazione del consiglio stesso.

È nota la vicenda della invalidità delle deliberazioni del consiglio di amministrazione.

Prive di una autonoma disciplina della invalidità, se non per la ipotesi di conflitto di interessi di cui all’articolo 2391 c.c., prima della riforma del diritto societario vi era un indirizzo giurisprudenziale, ormai prevalente fino all’entrata in vigore della riforma del 2003, che riteneva estensibili le categorie di invalidità della deliberazione assembleare. Pur con distinguo non irrilevanti, qui non affrontabili, la giurisprudenza, prima di merito e poi di legittimità, si era orientata nel senso non già di una applicazione delle invalidità del contratto (come paradigma generale dell’atto giuridico), quanto piuttosto quelle della assemblea della medesima società per azioni (fra le altre e con riferimento alle sole sentenze di legittimità, Cass., 24 gennaio 1990 n. 420, Foro it., 1990, I, 1551, anche per la distinzione fra annullabilità/impugnazione e nullità, pure estensibile dalla disciplina delle invalidità assembleari; Cass., 14 dicembre 2000, n. 15786; per la applicazione della invalidità delle assemblee, proprio in materia di società cooperative, Cass., 28 agosto 1995, n. 9040, Società, 1996, 162). Il che rendeva, nel sistema societario anteriore alla riforma del 2003, la disciplina dei due tipi di invalidità – quella delle deliberazioni della assemblea e quella delle deliberazioni del consiglio di amministrazione – per cosi dire parallela, con la conseguente applicabilità, anche alle deliberazioni del consiglio, della nozione espansiva che la giurisprudenza aveva dato alla impossibilità o illiceità dell’oggetto, ai sensi dell’articolo 2379 c.c.

In primo luogo, si operava dunque, da parte della giurisprudenza, una parificazione fra i due tipi di invalidità, con una estensione, prevalentemente qualificata in termini di analogia legis (per la lacuna di disciplina in punto a deliberazioni del consiglio di amministrazione), della disciplina di cui agli artt. 2377-2379 c.c. anche alle deliberazioni del consiglio. In secondo luogo, la disciplina, ormai resa uniforme per l’estensione analogica di cui si è detto, vedeva la nota inversione del principio di tipicità, per cui erano tipiche le cause di nullità (2379 c.c.) e generale la annullabilità (2377 c.c.); la giurisprudenza ha operato, nell’articolato previgente, nel senso di interpretare in senso espansivo la nozione di impossibilità o illiceità dell’oggetto.

Tendeva a prevalere in dottrina, sotto la disciplina normativa previgente, un indirizzo affatto opposto, del tutto contrario a riconoscere la estensione delle norme sulle invalidità assembleari, sia per ragioni letterali (non vi erano norme, oltre all’articolo 2391 c.c., analoghe agli artt. 2377 ss. c.c.); sia, nella riflessione più consapevole, per una tendenza a privilegiare le ragioni della rapidità e sicurezza delle scelte di impresa rispetto a quelle della sicurezza statica delle posizioni individuali. La mancata menzione del complesso di norme sulla invalidità assembleare, allora, sembrava assumere un significato per la dottrina, prevalentemente contraria all’indirizzo della giurisprudenza – nel senso di un’enfasi verso le ragioni della impresa, con la conseguente impossibilità di una estensione analogica per la natura non estensibile delle norme di cui agli articoli 2377-2379 c.c.

È noto che la riforma del diritto societario del 2003 si è sviluppata su direttrici di modernizzazione della normativa.

Per quanto riguarda i profili che qui specificamente interessano, la riforma ha lasciato la tradizionale distinzione fra l’ipotesi dell’articolo 2377 e quella dell’articolo 2379; la nullità disciplinata da questo ultimo articolo, tuttavia, è stata depotenziata, con la presenza di un termine per impugnare anche la deliberazione nulla, salvi alcuni casi in cui la azione di nullità rimane sine die. La disciplina della invalidità delle deliberazioni del consiglio di amministrazione ha ricevuto una disciplina specifica, prima mancante, come si è detto; tale disciplina è tuttavia quella, esclusivamente, della annullabilità, poiché l’articolo 2388 c.c., che pure non attribuisce alcun nomen al tipo di invalidità ivi previsto, chiaramente prevede un tipo di invalidità con caratteristiche analoghe alla nozione tradizionale di annullabilità e, con specifico riferimento alla materia societaria, sovrapponibile al tipo di invalidità disciplinato dall’articolo 2377 c.c.

La riforma del 2003 ha dunque inteso, da un canto, dare una disciplina al fenomeno della invalidità delle deliberazioni del consiglio di amministrazione, prima del tutto privo di regole (con l’indirizzo giurisprudenziale, che si è segnalato, che estendeva la disciplina delle invalidità assembleari); d’altro canto, la scelta è quella di prevedere una invalidità debole, come appunto quella attualmente descritta dall’articolo 2388 c.c., in un’ottica politico-legislativa di favore per la stabilità e sicurezza delle scelte dell’impresa.

Di fronte a deliberazioni del tutto sganciate dal modello legale, come quella che qui si discute, si pongono per l’interprete tre possibili scelte interpretative.

Prendere atto che, in relazione alle deliberazioni dell’or­gano amministrativo, anche le più evidentemente abnormi e contrarie al tipo legale, il legislatore intende operare nel senso di stabilizzare le deliberazioni medesime; dunque, nel senso di ritenere che l’unica invalidità prevista, che include tutte le fattispecie contrarie alla legge o allo statuto, sia quella del vigente articolo 2388 c.c.; trattasi di una scelta interpretativa che sembra la più coerente con la interpretazione soggettiva (voluntas legislatoris) della riforma dell’articolo 2388 c.c.

Una seconda via interpretativa potrebbe essere quella di continuare ad estendere la fattispecie della nullità delle deliberazioni assembleati anche alle deliberazioni del consiglio di amministrazione, sulla scia dell’indirizzo giurisprudenziale di cui si è detto. Sembra questa la soluzione che propone parte attrice.

Infine, preso atto che l’unico tipo di invalidità è quello descritto dall’articolo 2388 c.c., qualificare con la categoria della inesistenza giuridica quelle deviazioni dal modello legale che presentino una gravita tale da non tollerare di essere contenute nella invalidità/annullabilità dell’articolo 2388 c.c.

Deve subito dirsi che, delle tre opzioni interpretative possibili, la seconda non è praticabile.

Una estensione analogica delle invalidità assembleari in tanto è possibile in quanto vi sia un vuoto di disciplina, come avveniva nel tessuto normativo previgente. In quel contesto normativo, la giurisprudenza, di fronte alla lacuna, ritenne estensibile in toto la disciplina delle invalidità assembleari. Diverso è il caso attualmente vigente; si assiste infatti ad una compiuta disciplina delle invalidità di entrambe le deliberazioni, sia quelle assembleari sia quelle del consiglio. Non è allora possibile una interpretazione analogica di una normativa che il legislatore ha già integralmente disciplinato, evidentemente disponendo che, in materia di deliberazioni del consiglio, non vi sia spazio per la nullità. Rimane dunque una alternativa fra la prima soluzione, quella «tutta annullabilità», e quella che, prendendo atto che l’unica invalidità normativamente prevista è la annullabilità, riconosce uno spazio alla inesistenza della deliberazione, nelle ipotesi di cui si dirà.

Si è già accennato che, dopo larga discussione nella camera di consiglio, questo collegio ritiene di aderire a questa ultima soluzione, espressa nella massima che si legge sopra.

In via generale, si rende conto il collegio che la intenzione del legislatore era quella di sterilizzare il più possibile gli effetti delle invalidità, con funzione chiaramente di rafforzamento dell’interesse della impresa collettiva, anche con sacrificio delle posizioni dei singoli. Ciò emerge chiaramente dalla trama normativa che si è descritta.

Come per altre situazioni analoghe – in cui il legislatore ha inteso sterilizzare e rendere debole la rilevabilità delle invalidità – deve tuttavia dirsi che, di fronte a fattispecie del tutto abnormi, la reazione della giurisprudenza è spesso avvenuta con il mezzo tecnico della inesistenza giuridica.

Del tutto inappaganti sono stati, storicamente, i tentativi di eliminare la inesistenza giuridica o di riportarla alla invalidità.

Anche in relazione alle deliberazioni del consiglio, può dunque utilizzarsi questa nozione.

Non vi è in questo, a ben vedere, un profilo di ribellione pretoria alle scelte legislative, pur non ignorando il collegio il rilievo lato sensu di politica del diritto che assume questa scelta; quasi una nullità di creazione giurisprudenziale, non prevista dal legislatore, che la nullità non ha contemplato. Piuttosto, di fronte a fattispecie non riconoscibili come rispondenti al tipo e non eliminabili con le invalidità, vi è a volte la necessità di ripristinare in via pretoria dei meccanismi di coerenza del sistema, che non trovano soluzione con le ordinarie invalidità.

Non è opportuno né possibile (118, comma 3, disp. att. c.p.c.) ricostruire la lunga elaborazione sulla inesistenza.

Può essere utile ricordare, in epoca contemporanea, l’uso che la giurisprudenza fece, nel diritto processuale penale, della categoria, al fine di attenuare le scelte del codice di procedura penale del 1930, scelte di estrema compressione dei diritti della difesa; il mezzo tecnico che scelse il legislatore, in quel contesto, fu quello di eliminare le nullità processuali assolute, con forte compressione del diritto di difesa. Con alcune sentenze – Cass., 28 maggio 1934, Giust. pen., 1935, IV, 394; Cass., 16 dicembre 1935, Ibidem, 1935, IV, 619; 17 aprile 1936, Ibidem, 1937, IV, 340, fra le altre – la giurisprudenza ritenne allora che alcune radicali compressioni del diritto di difesa imputato non citato o citato per ora diversa o simili –rendessero il rapporto processuale inesistente, impedendosi così qualsivoglia sanatoria delle nullità. In quel tessuto normativo, grazie anche a categorie allora di grande diffusione (come quella del rapporto giuridico processuale), la inesistenza fu utilizzata proprio in presenza di situazioni così difformi dal modello legale, da renderlo giuridicamente irriconoscibile.

L’utilizzo della categoria della inesistenza giuridica impone peraltro un adeguato self-restraint, onde evitare occulte sovrapposizioni di scelte di politica legislativa dell’in­terprete, rispetto alle scelte del legislatore. Tradizionalmente – e con la consapevolezza che si tratta di definizione in larga misura tautologica e densa di opzioni assiologiche, effettuate implicitamente dall’interprete – ci si richiama alla inesistenza giuridica tutte le volte in cui le mancanze della fattispecie siano tali da non consentire la riconducibilità della stessa a quella di legge. In queste ipotesi, la fattispecie non è tale da poter essere sottoposta alla valutazione secondo i paradigmi validità/invalidità.

Nel caso delle deliberazioni del consiglio, deve ritenersi che possano essere irriconoscibili come tali quelle che operino in spazi estranei al campo del diritto privato (si pensi ad un consiglio di amministrazione di una società che elegga il Sommo pontefice, in caso di sede vacante), ovvero allo spazio in cui può operare quella società (un consiglio che deliberi una operazione di un’altra società). In questi casi, evidentemente, non avrebbe alcun senso dire che la deliberazione, se non impugnata nel termine di cui all’articolo 2388 c.c., rimane valida ed efficace.

Oltre a questi casi, debbono ritenersi come giuridicamente inesistenti anche quelle deliberazioni che forzino il modello tipologico. È appena il caso di sottolineare come le caratteristiche tipologiche assumano nel campo del diritto delle società una rigidità affatto diversa che nel diritto privato in genere. Si tratta di un fenomeno noto e sul quale non è il caso di dilungarsi oltre.

Deve allora dirsi che, in relazione ad alcune deliberazioni, vi può essere una forzatura del modello tipico così evidente e macroscopica, da impedire il riconoscimento del meccanismo tipico di govemance di quella società. Così, nel caso di specie, una deliberazione del consiglio di amministrazione che decida della sostituzione/revoca di uno o più amministrazioni rappresenta un corto-circuito logico così macroscopico ed evidente, per difetto assoluto di competenza, da non potere essere letta solo come invalida ma, piuttosto, come non qualificabile come deliberazione del consiglio. Il corto-circuito logico – il controllato che si nomina, si revoca, si sostituisce da sé medesimo – si accompagna ad una evidente crisi delle esigenze sottese al controllo del consiglio di amministrazione ad opera della assemblea. Quest’ultima già estremamente compressa nelle sue competenze, con la riforma del 2003, in ogni sfera che semplicemente sfiori la amministrazione – mantiene però una sovranità nella scelta degli amministratori. In altri termini: la assemblea ha perso ogni potere anche lontanamente gestorio ma è esclusiva padrona del destino degli amministratori, fuori dalle ipotesi di crisi o di urgenza (e.g.: 2386 c.c.). Questo assetto, reso ancora più nitido dalla riforma del 2003, fa parte dell’assetto tipologico della società per azioni; una forzatura, come quella della sostituzione di amministratori ad opera del consiglio, deve dunque ritenersi giuridicamente inesistente.

La deliberazione del giorno 6 settembre 2004 è dunque giuridicamente inesistente.

La deliberazione societaria conseguente, del giorno 21 dicembre 2004, è una revoca degli amministratori senza giusta causa. Pur con una indubbia incertezza nel verbale, che non è particolarmente chiaro, non vi è dubbio che in quella sede si opera come se i due amministratori non fossero più in carica, dunque andassero sostituiti. Infatti, ad un certo punto «il Presidente, relativamente al punto due dell’o.d.g. propone, ai fine della nomina di due consiglieri, che l’Assemblea si esprima se la votazione deve avvenire per voto palese o a scrutinio segreto». Tale passo del verbale sembra indicare in modo chiaro che il Presidente ritenga necessaria la nomina di due consiglieri in due posizioni vacanti.

Va ora interpretata questa deliberazione.

Ritiene questo collegio che si possano scartare in fatto due soluzioni, in via teorica possibili: o ritenere la stessa inefficace, per un meccanismo di presupposizione: inesistente il «dimissionamento» dei due consiglieri ad opera del consiglio, non avrebbe efficacia una deliberazione assembleare, che su quella si è fondata; ovvero individuare una invalidità/annullabilità della stessa, per contrarietà alla legge.

In realtà – è questa la opzione interpretativa da preferire, in via di puro fatto, come interpretazione della volontà della deliberazione della assemblea del giorno 21 dicembre 2004 – è chiaro che la assemblea intendeva sostituire i due odierni attori. Una volta transitati al voto, infatti, è chiara la volontà di sostituire i due odierni attori, che ricevono meno voti dei loro sostituti; anche l’ordine del giorno, non del tutto preciso, parla di nomina-ratifica, quasi ad indicare una ratifica del precedente decisum del consiglio di amministrazione.

Si tratta dunque di una deliberazione né invalida né inefficace ma un atto di volontà della assemblea di sostituire i due amministratori, odierni attori, con i signori Gioachin e Amidei.

Questa deliberazione è certamente nei poteri della assemblea.

Ciò ai sensi degli articoli 2364, comma 1, n. 2) e 2383, comma 3, c.c.

Tuttavia, deve ritenersi che la sostituzione sia avvenuta senza giusta causa.

Sotto il profilo sostanziale, infatti, non può dirsi giusta causa quella invocata dalla società convenuta, anche al fine di agire la propria riconvenzionale, cioè la presunta attività tenuta anche nell’interesse della A.P.A. (altra associazione di categoria), in concorrenza con la cooperativa convenuta. Indipendentemente da questo profilo sostanziale – non vi è alcuna giusta causa nei comportamenti di Pincelli e Mantovani – sul quale si tornerà oltre (poiché è questione che si interseca con la questione riconvenzionale), ritiene questo collegio che la giusta causa debba non solo essere presente sostanzialmente ma, anche, essere chiaramente indicata in ordine del giorno e a verbale. Tale menzione in ordine del giorno e nella discussione ha infatti una chiara funzione garantistica: permette agli amministratori di prendere consapevolezza della giusta causa (asserita), rispetto alla quale debbono poter interloquire e difendersi. Di tutto questo, nel verbale della assemblea non vi è traccia; non vi è traccia nemmeno nell’ordine del giorno di convocazione. Se solo si legge l’ordine del giorno e il verbale della assemblea, infatti, non è certo indicata la giusta causa.

Questo profilo formale rende dunque già di per sé priva di giusta causa la deliberazione assembleare.

Infine, per quanto si è diffusamente detto sopra, non può invocarsi come giusta causa la esigenza di coprire due posti vacanti, a seguito della deliberazione del consiglio di amministrazione; infatti, quest’ultima essendo giuridicamente inesistente, non può ritenersi giusta causa la sostituzione di due amministratori ancora in carica.

In ordine al quantum, ritiene questo collegio di liquidare il danno con riferimento ad un anno di compensi dei due amministratori; non esattamente un anno di compensi, cioè la somma corrispondente ad un anno di compensi: trattandosi di danno, questo collegio liquida infatti, nel­l’ambito dei propri poteri equitativi, come oltre in dispositivo, tenendo conto della natura di debito di valore. Infondata la riconvenzionale.

Nella editto actionis, contenuta nella comparsa di costituzione e risposta, il comportamento asseritamente cagionante danni è espresso in modo estremamente generico. Infatti, si afferma come, da un canto, i due attori (e convenuti in sede riconvenzionale) abbiano affidato i compiti della assistenza tecnica delle loro aziende ad una diversa associazione. Per altro verso, in un consiglio di amministrazione, si sarebbe screditata la cooperativa.

In ordine alla prima doglianza, si tratta di un semplice esercizio di un diritto soggettivo.

Il fatto di essere soci di una cooperativa non implica la adesione alle procedure ed a tutti i servizi di quella cooperativa. Se, legittimamente, i due attori ritenevano che altra associazione fornisse migliore servizio, in relazione ad alcune attività tecnico-veterinarie, era loro diritto ricorrere, per tali servizi tecnici, a tale diversa associazione. In relazione alla «denigrazione», dalla lettura del verbale del 29 giugno 2004 non emerge alcuna attività di tale tipo; piuttosto, la affermazione che il supporto tecnico della diversa associazione – ripetesi, esclusivamente in relazione ai profili tecnici – era migliore di quello fornito dalla cooperativa. Tale valutazione, espressione della libera manifestazione di una opinione, viene data iure. Non darebbe luogo a responsabilità civile nemmeno se riguardasse la valutazione delle competenze tecniche di una persona fisica, a maggior ragione trattandosi di una società; non esclude naturalmente questo collegio che anche le società possano essere oggetto di tutela dell’immagine ma tale tutela deve, come per le persone fisiche, cedere di fronte ad una espressione di una opinione, fatta in modo adeguato. Fra l’altro, in quel contesto, non si comprende se la affermazione fu fatta al fine di migliorare anche il servizio della cooperativa – nel senso di suggerire come altra compagine associativa stesse offrendo servizi migliori, dunque con un implicito suggerimento alla cooperativa di migliorare i propri servizi tecnici – ovvero per altre ragioni.

Ciò a maggior ragione, poiché i soci della LATTESTENSE già si servivano dei servizi A.P.A. (testimone Pizzolato) e solo da un certo punto in avanti la LATTESTENSE fornì i propri servizi tecnici, analoghi a quelli di A.P.A.; dunque, le critiche fatte dagli odierni attori potevano anche avere il significato per cui non aveva senso in quel contesto, inserirsi anche nella attività tecnica, che già era fornita efficacemente dall’A.P.A.

Dunque e conclusivamente, manca ogni condotta che abbia cagionato danno; in ogni caso, si è trattato di condotte iure, nel senso di condotte rientranti in un normale diritto di manifestare il proprio pensiero, fra l’altro anche nel tentativo di suggerire alla società LATTESTENSE a non intraprendere un’attività ritenuta già ben coperta sul mercato dei servizi.

Il che esime questo collegio, come pure in alcune difese sembra abbiano suggerito le parti, dal prendere posizione su quale fosse la migliore assistenza tecnica agli agricoltori; quale delle due compagini, la cooperativa odierna convenuta e l’altra associazione di categoria, curasse meglio la zooprofilassi. Spese come per legge.

PER QUESTI MOTIVI
IL TRIBUNALE DI FERRARA
DICHIARA

Che la sostituzione degli amministratori signori Mantovani e Pincelli, odierni attori, da amministratori della società convenuta avvenne senza giusta causa.

DICHIARA

Valida ma senza giusta causa la deliberazione assembleare del giorno 21 dicembre 2004.

CONDANNA

La società convenuta, a titolo di risarcimento danni, a pagare agli attori quanto segue:

– all’attore signor Mantovani euro 250,00, con interessi legali dalla pubblicazione della sentenza al saldo.

– all’attore signor Pincelli euro 650,00, con interessi legali dalla pubblicazione della sentenza al saldo.

RESPINGE

La riconvenzionale.

CONDANNA

La società convenuta a pagare agli attori le spese di lite, che si liquidano, per ciascuno dei due attori (dunque somme da moltiplicare per due, essendo dovute nella misura che segue a ciascun attore) in euro 4.600,00 per onorari, euro 2.500,00 per diritti, spese generali al 12,50% su queste due somme, spese specifiche non imponibili pari ad euro 250,00. IVA e Cassa su imponibile.

Ventisette intere pagine e fino a qui della ventottesima pagina.

Ferrara, camera di consiglio 22. XII. 2006.

IL PRESIDENTE ESTENSORE
Marco D’Orazi

 

(1) L’inesistenza delle delibere e l’invalidità delle delibere consiliari: uno strano caso di revoca degli amministratori

  
SOMMARIO:

1. Il caso - 2. La normativa - 3. L'esistenza e la validità delle delibere consiliari - 4. (Segue). L'esistenza e la validità delle de­libere consiliari - 5. La sussistenza della giusta causa di revoca - 6. La tutela risarcitoria degli amministratori revocati - NOTE


1. Il caso

La sentenza del Tribunale di Ferrara analizza una vicenda societaria piuttosto articolata che fornisce lo spun­to per una breve analisi della disciplina dell’in­validità delle delibere consiliari e del dibattito sui requisiti che assicurino l’esistenza delle decisioni collegiali. Sebbene il caso prospettato riguardi un consorzio costituito nella forma di società cooperativa a responsabilità limitata, la riflessione può estendersi al­la società per azioni, essendo applicabile al Consorzio la disciplina relativa a tale ultimo tipo sociale, sia per disposizione dell’art. 2519 c.c., che per espresso rinvio dello statuto dell’ente. Una breve ricostruzione dell’accaduto. In data 6 settembre 2004 il consiglio di amministrazione del Consorzio Provinciale Produttori Latte Ferrara Lattestense s.c. a r.l., con decisione sommariamente motivata e regolarmente verbalizzata, esclu­deva i consiglieri Mantovani e Pincelli. In data 21 dicembre 2004 l’assemblea ordinaria del Consorzio, regolarmente convocata, provvedeva alla nomina di due nuovi consiglieri di amministrazione in sostituzione dei due revocati dal c.d.a. Gli amministratori revocati citavano in giudizio il Consorzio, chiedendo al Tribunale di dichiarare la nullità della delibera del consiglio, la nullità o l’inef­ficacia della successiva delibera assembleare e la condanna del Consorzio al risarcimento del danno subito. Il Tribunale di Ferrara accoglieva parzialmente la domanda proposta dagli ex amministratori sull’as­sunto che la delibera del consiglio di amministrazione fosse inesistente e che la nomina dei due nuovi amministratori avesse comportato la revoca implicita degli attori, in assenza di giusta causa. Il Collegio, infatti, ha ritenuto che l’inesistenza della decisione assunta dal consiglio di amministrazione – per evidente carenza di competenza a deliberare in materia – avesse comportato che il rapporto organico tra società e amministratori si fosse interrotto solo al momento della nomina dei nuovi componenti il c.d.a. da parte dell’assemblea, ossia che non vi fosse stata la revoca da parte del c.d.a. e la successiva nomina dei nuovi membri dall’assem­blea, ma un unico atto, assunto da quest’ultimo organo, che ha implicitamente revocato gli amministratori sostituiti.


2. La normativa

La decisione del tribunale di Ferrara si basa sull’interpretazione della disciplina dettata dagli artt. 2377 e 2379 c.c. in tema di annullabilità e nullità delle delibere assembleari, dagli artt. 2364 e 2383 c.c. in relazione alle competenza dell’assemblea ordinaria nelle società per azioni prive di consiglio di sorveglianza e, in particolare, alla competenza alla nomina e alla revoca degli amministratori, e dell’art. 2388 c.c. che disciplina le condizioni di validità delle deliberazioni del consiglio di amministrazione. 2.1. La competenza assembleare alla nomina e alla revoca dei membri del c.d.a. Il dato di partenza dell’analisi del caso è la constatazione che la decisione assunta dal c.d.a. fosse indubbiamente viziata, vizio che il Tribunale ha ritenuto talmente radicale da inficiare l’esistenza stessa della decisione. Tralasciando per il momento questo secondo aspetto, non vi è dubbio che la scelta della forma del­l’organo amministrativo e della conseguente modalità di espletamento della funzione amministrativa, nonché della concreta composizione dell’organo è un potere che il legislatore riconosce ai soci – al momento della costituzione – o all’assemblea – durante la vita della società. La competenza alla nomina dell’organo amministrativo è infatti una prerogativa dei soci, che soffre di eccezioni legalmente disciplinate e statutariamente espresse, che fonda le proprie ragioni nell’esigenza di consentire ai contraenti di individuare le persone preposte all’esercizio dell’impresa comune. Lo si evince inequivocabilmente dall’art. 2383 c.c. che, salvo specifica deroga prevista dalla stessa legge, riconosce all’assemblea la scelta della governance della società, nonché delle persone che rivestono l’incarico; competenza che trova conferma nell’art. 2364, 1° comma, n. 2, c.c., che annovera tra i compiti dell’assemblea ordinaria la nomina e la revoca degli amministratori. Le eccezioni alla nomina assembleare sono innanzitutto quella relativa ai primi amministratori che, per effetto dell’esplicito disposto del 1° comma del­l’art. 2383 c.c., sono nominati nell’atto costitutivo, nonché quelle relative agli artt. 2351, 2449 e 2450 c.c., anch’esse previste dall’art. 2383 c.c. Quanto alla prima [continua ..]


3. L'esistenza e la validità delle delibere consiliari

Il novellato art. 2388 c.c. disciplina l’impu­gna­zione delle delibere consiliari, indicando sia le cause di invalidità, che i soggetti legittimati all’im­pu­gna­tiva, rin­viando, per quanto compatibile, all’art. 2378 c.c. Il 1° ed il 2° comma dell’art. 2388 c.c. dettano le poche regole formali, in parte derogabili, per la valida assunzione delle delibere del consiglio di amministrazione. Nel rispetto della natura collegiale del­l’or­gano amministrativo pluripersonale, la norma spe­cifica che per la validità delle deliberazioni occorre il rispetto di un quorum costitutivo e di un quorum deliberativo: deve essere presente la maggioranza degli amministratori in carica [7] e la delibera viene approvata a maggioranza dei presenti [8]. Quanto alla convocazione della riunione, il legislatore non fissa alcun termine né specifica la modalità di adunanza, limitandosi a prevedere, ai sensi del­l’art. 2381, 1° comma, c.c., che la convocazione del consiglio di amministrazione spetta al presidente, il quale deve indicare nell’avviso di convocazione l’ordine del giorno. Un cenno particolare merita il ruolo della verbalizzazione nel processo di valida formazione della volontà del consiglio. L’art. 2388 c.c., infatti, non richiede la verbalizzazione, tuttavia sia la dottrina che la giurisprudenza ritengono che nel libro delle adunanze e delle deliberazioni del consiglio di amministrazione debba essere riportata la deliberazione assunta [9], al fine di attestare quale sia la volontà formatasi collegialmente, nonché di annotare le dichiarazioni degli amministratori astenuti o contrari alla decisione, nonché di quelli portatori di un interesse per conto proprio o di terzi, ai sensi dell’art. 2390 c.c. Inoltre il verbale consente agli amministratori assenti di conoscere le decisioni assunte collegialmente e ciò anche quando, come nel caso in esame, le decisione è manifestamente viziata. Quanto ai soggetti legittimati, l’ultimo comma dell’art. 2388 c.c. legittima il collegio sindacale e gli amministratori assenti o dissenzienti ad impugnare le deliberazioni consiliari, tuttavia, il richiamo al­l’art. 2378 c.c., in quanto compatibile, consente di ritenere legittimati anche gli astenuti [10]; infine, le delibere direttamente lesive dei diritti dei soci [continua ..]


4. (Segue). L'esistenza e la validità delle de­libere consiliari

Ritenendo inesistente la delibera assunta dal c.d.a., il Collegio qualifica come revoca implicita la nomina di due nuovi amministratori in sostituzione dei precedenti. Nonostante la revoca implicita non trovi uno specifico riferimento normativo nella disciplina societaria, conduce a tale conclusione la disciplina del mandato. Sebbene, infatti, il contratto tra società e amministratore non sia pienamente assimilabile al mandato, posto che l’amministratore «è investito della gestione economico-patrimoniale della società e non del semplice compimento di uno o più atti giuridici» [22], può comunque riconoscersi l’applicabilità, per quanto compatibili, di alcuni dei principi dettati dal codice con riferimento a tale contratto [23] e, nello specifico, dell’art. 1724 c.c., secondo il quale la nomina di un nuovo mandatario comporta la revoca implicita del precedente mandato. Nel caso in esame, per quanto sin qui detto, pare indubbiamente configurabile che la nomina di due nuovi componenti l’organo, ha presupposto – implicitamente, ma necessariamente – la revoca dei due componenti sostituiti, sempre che si accolga l’opinione del Collegio secondo cui la decisione consiliare non produce effetto perché si ha per non assunta. D’altronde, come più volte ribadito dalla giurisprudenza, se la delibera di revoca di un amministratore è valida anche se priva di adeguata motivazione, non sussistendo un diritto dell’amministratore al mantenimento della carica, ma solo all’eventuale risarcimento del danno, è evidente che la revoca possa avvenire anche tacitamente [24], non presupponendo l’esplicitazione dei motivi giustificativi. Diversamente, se si ritiene, come sembra preferibile, che la delibera consiliare, sia pure viziata, sia comunque esistente, le possibili alternative sono sostanzialmente due: o si impugna la delibera consiliare, sì da ottenere l’annullamento della stessa e la continuazione del rapporto gestorio, sino alla eventuale revoca – anche implicita – da parte dell’as­semblea dei soci, unico organo competente; oppure ci si limita a chiedere il risarcimento del danno subito sull’assunto che la revoca, decisa da un organo incompetente e resasi definitiva per decadenza, è avvenuta senza giusta causa [25]. L’omessa impugnazione della delibera [continua ..]


5. La sussistenza della giusta causa di revoca

Un cenno merita la questione relativa alla sussistenza o meno di giusta causa. Come noto, gli amministratori sono revocabili ad nutum, mentre l’assenza di giusta causa fa nascere il diritto ad un risarcimento economico, ma non vale a reintegrare l’amministratore nelle sue funzioni. Secondo una consolidata giurisprudenza sussiste la c.d. “giusta causa” di revoca, in presenza di circostanze che non consentano la prosecuzione del rapporto, neanche in via temporanea, operando in modo tale da ostacolare la funzione economico-giuridica del rapporto ed impedendo alla società di realizzare i propri interessi [27]. La causa di revoca può risiedere sia in elementi oggettivi, che prescindono dal comportamento degli amministratori, sia in elementi soggettivi riconducibili all’operato degli stessi. Rientrano nella prima categoria la modifica della tipologia di sistema amministrativo o di governance, come nel caso di nomina di un amministratore unico in sostituzione del consiglio di amministrazione, ma anche nell’ipotesi opposta con differenze in punto di possibile risarcimento del danno [28] nel caso in cui l’amministratore revocato venga nominato alla carica di membro del c.d.a., ovvero nel caso di passaggio dal sistema tradizionale di governance ad un sistema monistico o dualistico [29], o viceversa. Quanto alla revoca per elementi soggettivi, si tratta di comportamenti o posizioni assunte dagli amministratori che non consentono la proficua continuazione del rapporto. Ciò vale sia nel caso in cui l’amministratore si ponga in una posizione effettivamente incompatibile con l’incarico, come nel caso di svolgimento in proprio di un’attività di impresa e nel caso di nomina dello stesso ad amministratore di una società concorrente, in assenza di espressa autorizzazione dell’assemblea ai sensi dell’art. 2391 c.c., sia in altre ipotesi più sfumate. Ed infine, nell’ipotesi tipica di revoca causata da un comportamento negligente dell’amministratore o da un comportamento che, pur non grave, comprometta il rapporto fiduciario tra società e amministratore [30]. Anche in tema di società, dunque, il concetto di giusta causa soggettiva va ricollegato all’altrui violazione di obblighi contrattuali, ovvero alla violazione dei doveri di fedeltà, lealtà e diligenza, che ineriscono alla natura fiduciaria [continua ..]


6. La tutela risarcitoria degli amministratori revocati

Una breve riflessione, infine, merita il problema della concreta quantificazione del danno. Se la revoca si è prodotta solo al momento in cui l’assemblea ha nominato i nuovi amministratori, con ciò implicitamente revocando i precedenti, che sull’assunto della inesistenza della delibera consiliare accertata dal Collegio, non erano stati revocati precedentemente, è alla data dell’accettazione della carica da parte dei nuovi amministratori che occorre fare riferimento. E ciò sia in relazione agli emolumenti che spettano agli amministratori revocati, sia alla disciplina applicabile agli atti eventualmente posti in essere dagli stessi nel periodo tra la data della delibera consiliare e l’accettazione della carica da parte dei nuovi amministratori: non si tratta della disciplina applicabile nel caso di falsus procurator, ma di quella più lineare applicabile nel caso di atti posti in essere da chi in effetti è uno dei componenti l’organo amministrativo. Se all’opposto, come sembra preferibile, gli amministratori sono stati illegittimamente revocati dal c.d.a. e la decorrenza del termine non consente l’im­pugnazione della decisione, l’eventuale risarcimento del danno deve essere determinato tenuto conto dei compensi che gli amministratori avrebbero dovuto percepire dal momento della decisione del consiglio [32]. Il diritto al compenso degli amministratori è riconosciuto espressamente dagli artt. 2364, n. 3, e 2389, c.c., e il diritto al risarcimento del danno in caso di revoca senza giusta causa trova il suo logico fondamento nella constatazione di un’ingiusti­ficata perdita del guadagno rappresentato dalla percezione del suddetto compenso. Si tratta, come è evidente, dell’applicazione del più generale principio di cui al 1° comma dell’art. 1723, c.c., relativo alla revoca del mandato oneroso, conferito per un tempo determinato [33]. Inoltre, tenuto conto dei principi generali in materia di accertamento e liquidazione del danno, è onere della società eccepire e provare la sussistenza di compensi percepiti dall’ex amministratore nel periodo che intercorre tra la revoca ed il termine di scadenza del mandato a seguito di impegni negoziali dal medesimo assunti nei confronti di terzi, ovvero di ricavi che il medesimo avrebbe potuto percepire usando l’ordinaria diligenza [34] e chiedere [continua ..]


NOTE
Fascicolo 3 - 2008