Rivista di Diritto SocietarioISSN 1972-9243 / EISSN 2421-7166
G. Giappichelli Editore

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Note in materia di rinvio d'assemblea della società per azioni e buona fede dei soci e del presidente dell'assemblea (di Ferdinando d'Errico)


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APPELLO DI ROMA, Sezione II, 3 luglio 2013, n. 3813 – Silvio Sorace, Presidente  Pierluigi Cianfrocca, Estensore – Salini Costruttori S.p.a. et al. (Avv. Iannotta) c. Sapar S.r.l. et al. (Avv.ti Bussoletti, La Marca, Nuzzo)

Società di capitali – Assemblea dei soci – Rinvio dell’assemblea – Diritto potestativo – Buona fede – Correttezza – Quiescenza dell’organo assembleare – Abuso della minoranza

(Art. 2374 c.c.)

Il diritto di cui all’art. 2374 c.c. si configura come diritto potestativo a chiedere ed ottenere il rinvio dell’assemblea, quando la conoscenza degli argomenti posti all’ordine del giorno non sia sufficiente affinché i soci possano esprimere il proprio voto consapevolmente, non già come proposta di rinvio sulla quale l’as­sem­blea possa esprimersi con una decisione di accoglimento o di rigetto (1)

Società di capitali – Assemblea dei soci – Rinvio dell’assemblea – Limiti – Diritto potestativo – Buona fede – Correttezza – Interesse della società – Invalidità della delibera

(Art. 2374 c.c.)

Il diritto di chiedere il rinvio dell’assemblea non risente di altre limitazioni, oltre quelle contemplate dalla norma, e non può essere condizionato da apprezzamenti dell’assemblea o del suo presidente circa la serietà della richiesta medesima, neppure quando l’informazione dei soci sia garantita dal deposito presso la sede sociale di idonea documentazione. (2)

(Omissis).

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MOTIVI DELLA DECISIONE

La necessità di delineare le questioni oggetto del presente giudizio di appello rende quanto mai opportuno, sia pure a questi soli fini, ripercorrere brevemente le scansioni procedimenti nelle quali si è articolata la vicenda.

La sentenza di primo grado

Con atto di citazione ritualmente notificato, F.S. S., A. S., F. S., S.P. S., C. S., Sapar Srl, Salini Global Service Srl, rappresentanti il 43% del capitale di Salini Costruttori s.p.a., convenivano in giudizio la stessa Salini Costruttori s.p.a., la Salini Simonpietro s.a.p.a., S. S., P. S., D. M., G. P., chiedendo al Tribunale di:

1. annullare la delibera dell’assemblea straordinaria del 30.9.2001 della Salini Costruttori s.p.a., facendo salva la approvazione dei nuovi articoli 27, 28, 30 e 31 dello Statuto ovvero, per il caso di inammissibilità della domanda, nella sua interezza in quanto: assunta in violazione dell’art. 2374 c.c., in difetto del quorum di legge e di statuto ovvero adottata con abuso e/o eccesso di potere;

2. accertare la responsabilità solidale, nei confronti di Sapar Srl, dei convenuti S. S., P. S., G. P., D. M., per le condotte da costoro tenute nella elaborazione, votazione ed adozione della delibera del 30.9.2004, ex artt. 2395 e 2043 c.c.;

3. accertare la responsabilità solidale, nei confronti di Sapar Srl, di Salini Costruttori s.p.a., per il fatto dei propri amministratori e del presidente dell’assemblea del 30.9.2004, ex art. 2049 c.c.;

4. accertare la responsabilità, nei confronti di Sapar Srl, della Salini Simonpietro s.a.p.a., per abuso e/o eccesso di potere nella elaborazione, votazione ed adozione della delibera del 30.9.2004, ai sensi dell’art. 1375 c.c. ovvero, in subordine, ai sensi degli artt. 2043, 2049 e 2497 c.c.;

5. condannare i convenuti, in solido tra loro, al rimborso delle spese sostenute da Sapar Srl per la assistenza legale resasi necessaria in relazione all’assemblea del 30.9.2004;

6. condannare i convenuti, in solido, alla rifusione delle spese e degli onorari del giudizio.

In ordine alla richiesta sub l.a), eccepivano che il presidente dell’assemblea aveva illegittimamente respinto la richiesta di rinvio che era stata da loro avanzata ai sensi dell’art. 2374 c.c. aggiungendo che le motivazioni addotte a sostegno della decisione non erano condivisibili, con particolare riguardo a quella concernente la non oltrepassabilità del termine del 30.9.2004 fissato per l’adeguamento dello statuto alle novità introdotte con la riforma del diritto societario.

Con riguardo al rilievo di cui al punto l.b), osservavano che la maggioranza “agevolata” di cui all’art. 223-bis comma 3°, disp. att. c.c., introdotto con il D.Lg.vo n. 6/2003, poteva essere utilizzata esclusivamente per le modifiche statutarie strettamente connesse all’adeguamento dello sta­tuto alle disposizioni di riforma del diritto societario (conformazione dello statuto alle norme di legge inderogabili ed introduzione di clausole di esclusione di nuove norme derogabili); nel caso di specie, chiarivano, per effetto della modifica dell’art. 17 dello statuto, approvata il 5.9.2001, la maggioranza necessaria per la approvazione delle ulteriori e diverse modifiche doveva ritenersi quella “prevista dalla legge’’ ovvero, pertanto, quella di cui al nuovo testo dell’art. 2369 comma 3° c.c. (trattandosi di richiamo operato in termini di rinvio “mobile” o “formale”), indicata per la approvazione delle deliberazioni in assemblea straordinaria in seconda convocazione e che, pacificamente, nel caso di specie, non era stata raggiunta.

Segnalavano, ancora, che lo stesso art 17 dello statuto previgente stabiliva una maggioranza “rafforzata” (pari al 60% del capitale) per una serie di materie e che, nel caso di specie, tale maggioranza non era stata raggiunta quanto alla modifica dell’art. 2 (oggetto sociale), alla sostituzione dell’art. 6 con il nuovo art. 5 (che detta nuove norme in materia di aumento di capitale sociale e di creazione di nuove categorie di azioni); alla sostituzione dell’art. 8 con il nuovo art. 7 (che conferisce al CdA il potere – peraltro permanente – di emettere obbligazioni convertibili, con il conseguente potere di aumentare il capitale); alla introduzione dell’art 23, comma 2° (che attribuisce al CdA il potere di deliberare fusioni e scissioni).

Eccepivano, quindi, che, anche ritenendo sufficiente la maggioranza assoluta del capitale sociale per l’approvazione della impugnata delibera, questa maggioranza non sarebbe stata comunque raggiunta poiché, ai fini del calcolo del quorum costitutivo e deliberativo, andavano con­siderate anche le azioni proprie, che rappresentano il 10% del capitale sociale.

Con riguardo alla contestazione di cui al punto l.c), rilevavano che il nuovo statuto era in realtà il frutto di una manovra del socio di maggioranza diretta ad aumentare il proprio potere a danno della minoranza, richiamando, a tal proposito, le modifiche e la introduzione degli artt. 7, comma 2, 23, comma 2, n. 1, 23, comma 2, n. 6, 13, 17, 10 lett. b), 12,16, 3, comma 2.

Venivano quindi descritte le circostanze di fatto sulla scorta delle quali gli attori fondavano la responsabilità personale degli amministratori e del presidente dell’assemblea nonché quella del socio di maggioranza Salini Simonpietro s.a.p.a., nella elaborazione ed approvazione della deliberazione assunta a loro danno.

Si costituivano in giudizio tutti i convenuti, con comparse di risposta ritualmente notificate nelle quali veniva analiticamente confutata la fondatezza delle pur analitiche censure proposte dagli attori.

Nel corso del giudizio costoro, con ricorso, chie­devano la sospensione in via cautelare del­l’esecuzione della delibera impugnata con la eccezione, laddove ritenuta ammissibile, della parte in cui venivano approvati i nuovi articoli 1, 2, 26, 27, 28, 30 e 31.

Il giudice designato, dopo aver acquisito memorie delle parti, si riservava di decidere provvedendo, con ordinanza depositata in data 11.4.2005, ad invitare gli attori a precisare ulteriormente di quale parte della delibera chiedessero l’annullamento, con specifico riguardo ai singoli articoli; gli attori davano seguito all’invito del giudice chiarendo di chiedere l’annullamento delle deliberazione nella parte in cui, anche a modifica o sostituzione dei previdenti e corrispondenti articoli e commi, si approvavano i nuo­vi: art. 3, comma 2, art. 5, commi 3 e 4, art. 7, art. 8, art. 9, art 10 comma 1, lett. b), art. 12, art. 13 commi 1 e 2, art. 13, comma 5, art. 17, art. 23, comma 2, nn. 1, 2 e 6, art. 25, comma 4, art. 29, comma 1; nonché nella parte in cui erano stati semplicemente abrogati gli artt. 13 e 16.

I convenuti, dal canto loro, dichiaravano di non accettare il contraddittorio sulle richieste così formulate.

In quella stessa occasione il giudice, ai sensi dell’art. 24 del D. Lg.vo n. 3 del 2005, invitava le parti a precisare le conclusioni fissando l’udienza del 10.5.2005 quando il Collegio disponeva lo stralcio delle note depositate dagli attori in data 6.5.2005 in quanto ritenute equivalenti ad una nuova e non autorizzata memoria e, pertanto, non compatibili con il passaggio della causa al c.d. “rito abbrevialo” sicché, all’esito della discussione, provvedeva con dispositivo di cui era data lettura.

Il Tribunale, quindi, riteneva in primo luogo la infondatezza della eccezione formulala dai convenuti in ordine alla eccepita diversità della domanda come formulata all’udienza del 26.4.2005, osservando che il giudice aveva invitato gli attori a precisarla avvalendosi del potere di cui all’art. 182, comma 1, c.p.c., ed osservando altresì che, a fronte della richiesta – su cui comunque costoro insistevano – di annullamento della intera delibera del 30.9.2004, gli attori avevano quindi precisato la domanda iniziale con riguardo al­l’annullamento delle modifiche relative agli articoli indicati.

Passava, quindi, ad esaminare le censure che coinvolgevano la delibera nella sua interezza e, in particolare, quella che denunziava la violazione del disposto di cui all’art. 2374 c.c.

A tal proposito, rilevava come fosse pacifico che tutti i soci avevano avuto la possibilità di prendere visione del nuovo statuto alcuni giorni prima della data fissata per la assemblea e che, in particolare, la richiesta di rinvio era stata formulala dal legale degli attori, presente in assemblea quale rappresentante di costoro e notoriamente (“super”) esperto della materia; aggiungeva che la data del 30.9.2004 era l’ultima utile per provvedere alle modifiche statutarie utilizzando le maggioranze “agevolate” di cui all’art. 223-bis disp. att. c.c., ovvero con le maggioranze previste dal previgente statuto o dalla previgente disciplina legale chiarendo che soltanto in questo modo sarebbe stato possibile provvedervi senza il consenso degli attori, ovvero del gruppo di minoranza atteso che il socio di maggioranza, detentore di circa il 47% del capitale, non avrebbe potuto altrimenti operare in tal senso visto il disposto del nuovo art. 2369 comma 3 c.c. e del nuovo art. 2368 comma 2, c.c.

Concludeva, pertanto, sostenendo di poter ritenere che la richiesta di rinvio era motivata al solo fine di superare la data del 30.9.2004 impedendo, così, alla maggioranza, di procedere alle modifiche statutarie senza il concorso di almeno parte dei soci di minoranza e, dunque, che l’istanza doveva ritenersi avanzata in violazione del canone di comportamento stigmatizzato dall’art 1375 c.c.; di tal che, il rifiuto del pur sollecitato rinvio, proprio per questa ragione, non poteva ritenersi causa di invalidità della delibera.

Con riguardo, poi, al problema del raggiungimento del “quorum” di cui all’art. 2357-ter c.c., e sempre in riferimento ai profili di impugnazione coinvolgenti in toto la approvazione della delibera, il Tribunale osservava che il problema del computo delle azioni proprie (e, specificamente, se queste dovessero computarsi soltanto nel caso in cui per legge o per statuto fossero richieste delle quote predeterminate ovvero sempre) si era già proposto in precedenza, ed era stato risolto in termini non sempre univoci; con riguardo al c.d. “quorum deliberativo”, il Tribunale osservava che, per risolvere la questione, occorre dar rilievo alla maggioranza assembleare, ovvero alla regola secondo cui è necessario valorizzare la volontà di coloro che abbiano deciso di convenire in assemblea ed ivi esprimere la propria decisione e, dunque, non considerare, a tal fine, la quota di partecipazione che si trovi nelle mani di chi non abbia la possibilità di esprimere il proprio voto.

Segnalava, dunque, che la nonna di cui al nuo­vo art. 2370 c.c., pur richiamata dai convenuti, non fa altro che confermare come la modalità di espressione della volontà assembleare non possa che prescindere dall’atteggiamento di chi non ha la possibilità di votare.

Passando, poi, all’esame dell’impugnativa con riguardo alla abrogazione totale o parziale di singoli articoli dello statuto, il Tribunale riteneva, in primo luogo, la natura eccezionale della disposizione di cui all’art. 223-bis disp. att. c.c. che, pertanto, doveva a suo avviso essere riferita (quanto alla maggioranza “agevolata” ivi contem­plata) alle sole deliberazioni necessarie all’a­da­t­tamento dello statuto alla riforma del diritto societario e, in particolare, alle modifiche concernenti le disposizioni statutarie contrastanti con nuove norme di legge inderogabili.

Tra queste, annoverava quelle norme inderogabili nelle quali l’adattamento si risolve, in realtà, nella trasfusione in sede statutaria della previsione legislativa quale, ad esempio, quella che prevede che le deliberazioni della assemblea straordinaria in seconda convocazione siano approvate con la maggioranza dei due terzi del capitale ivi rappresentato, diversa da quella previgente, che riteneva invece sufficiente il voto dei soci che rappresentassero più di un terzo del capitale sodale e più della metà di quello rappresentato in assemblea.

Al di fuori delle ipotesi di modifiche in tal senso necessarie, proseguiva il primo giudice, non sarebbe dunque possibile ricorrere alla maggioranza “agevolata” di cui all’art. 223-bis cit.

Tra queste, procedendo alla rassegna di quelle disposizioni intaccate dalla delibera impugnata, annoverava la modifica introdotta all’art. 3, comma 2, con l’aggiunta della frase “con delibera del Consiglio di Amministrazione”.

Il Tribunale si interrogava, tuttavia, sul fatto che tali modifiche potessero comunque nel caso di specie ritenersi essere state regolarmente approvate con il voto di una maggioranza sufficiente e, a tal fine, richiamava il disposto di cui all’art. 17 dello statuto, che era stato modificato da una delibera del settembre del 2001 (tuttavia parzialmente annullata con sentenza del Tribunale di Roma n. 25.799/2004) nel senso che il quorum deliberativo per l’assemblea straordinaria in seconda convocazione era quello “previsto dalla legge”, dovendosi tuttavia stabilire se il riferimento dovesse essere fatto al “vecchio” o al “nuovo” testo dell’art. 2369 comma 3° c.c.

La questione era rilevante in quanto, avendo nel caso di specie votato a favore il 47% circa del capitale, in presenza del 90%, la delibera doveva ritenersi validamente approvata applicando il “vecchio” testo laddove, invece, quella maggioranza favorevole non sarebbe stata sufficiente qualora avesse dovuto applicarsi il “nuovo” testo della norma sopra richiamata.

Il Tribunale sosteneva che proprio il tenore del­l’art. 223-bis disp. att. c.c., interpretato in senso rigoroso e, in particolare, la disposizione di cui al comma terzo della predetta disposizione, deponevano nel senso che la normativa di riforma del diritto societario dovesse ritenersi entrata in vigore sin dall’1.1.2004, ad eccezione di quelle norme di legge per le quali le società avevano tempo sino al 30.9.2004 per adattare lo statuto alle nuove disposizioni; in altri termini, dunque, riteneva il Tribunale che tra le norme di riforma del diritto societario lo “slittamento” della entrata in vigore sino alla data del 30.9.2004 riguardasse quelle sole norme di legge che concernessero aspetti diversamente disciplinati dalla riforma e per i quali le società avevano tempo sino a quella data per procedere ai relativi adattamenti statutari.

Opinava in tal senso sulla scorta dello stesso tenore letterale dell’art. 223-bis disp. att. c.c., laddove il legislatore non aveva indicato un termine di entrata in vigore del decreto legislativo, ma si era limitato piuttosto a fissare un termine ultimo per procedere alle modifiche statutarie necessarie ad adattare le clausole degli statuti alla nuova disciplina; richiamava, ancora, il disposto di cui al comma quinto delle medesima disposizione, che riteneva non in contrasto con tale interpretazione.

Di qui, proseguiva, la possibilità di derogare, con la maggioranza “agevolata”, ed entro il 30.9.2004, alle norme di legge derogabili mentre, per quanto riguarda la normativa sui “quorum” costituti e deliberativi e sulle maggioranze assembleari, per la parte inderogabile e non in contrasto con precedenti previsioni statutarie, non essendovi alcuna necessità di adattamento, la nuova normativa doveva ritenersi di immediata applicazione.

Ecco, allora, aggiungeva il Tribunale, che l’art. 17 dello statuto della Salini Costruttori s.p.a., limitandosi a far riferimento, sia nella vecchia che nella nuova versione, ai quorum costitutivi e deliberativi previsti dalla legge, non doveva in alcun modo essere “adattato” e, pertanto, non vi era alcuna ragione per ritenere che la nuova normativa – cui essa disposizione statutaria fa riferimento – non fosse quella introdotta dalla riforma e, proprio perché riferita a situazioni per le quali lo statuto non doveva essere in alcun modo “adattato”, era di immediata applicazione.

Di qui, pertanto, dovendosi fare applicazione del “nuovo” art. 2369 comma 3, ce, l’annulla­mento della delibera relativamente all’appro­va­zione dell’art. 3, comma 2 e dell’art. 5, commi 3 e 4, del nuovo statuto.

Considerazioni analoghe il Tribunale riteneva potessero essere spese anche per quanto riguarda l’approvazione dei nuovi art. 8 ed art. 9, nonché per quanto concerne i nuovi artt. 12, 13, commi 1 e 2, 13, comma 5 (limitatamente alle parole “e terza”), art. 29, comma 1, dello statuto, abrogazione del previgente art. 13.

Quanto all’art. 10, comma 1, lett. b), il Tribunale riteneva, invece, che la disposizione statutaria potesse essere modificata con la maggioranza “agevolala” riguardando una materia disciplinala da norma “nuova” derogabile, ovvero dall’art. 2437, comma 2, c.c., aggiungendo che non appariva dimostrato che la modifica fosse intervenuta all’unico scopo di danneggiare i soci di minoranza della società.

In ordine, poi, all’art. 17 dello statuto, il primo giudice chiariva in primo luogo che la “versione” della norma statutaria quale messa a disposizione dei soci era quella originata dalia modifica intervenuta nel settembre del 2001 e che, tuttavia, era stata oggetto di annullamento con la già ricordata sentenza del Tribunale di Roma del 2004; aggiungeva di condividere la tesi della efficacia immediata delle sentenze di natura costitutiva emesse in primo grado, con il che il testo dell’art 17 doveva ritenersi, in quel momento, quello originario, ovvero quello antecedente la modifica del 2001, per l’appunto annullata.

Di conseguenza, la maggioranza prevista per le assemblee straordinarie, tanto in prima che in seconda convocazione, era quella del 60% del capitale sociale avente diritto al voto, relativamente agli argomenti ivi indicati (aumenti di capitale, fusioni che possono modificare la compagine sociale; utilizzo delle azioni proprie; mutamento dello scopo sociale).

Tale disposizione, aggiungeva il collegio, doveva ritenersi rimasta in vigore sino al 30.9.2004 ovvero sino alla sua modificazione che, proprio in quanto relativa alla necessità di adattamento della disposizione dello statuto alle nuove norme inderogabili di legge, poteva essere modificata con il quorum “agevolato” di cui all’art 223-bis disp. att. c.c.; di qui la conseguenza, cui perveniva il Tribunale, secondo cui l’art. 17 del nuovo statuto doveva ritenersi efficace soltanto per la parte in cui abrogava la regola statutaria concernente le deliberazioni dell’assemblea straordinaria in seconda convocazione, adottate con la partecipazione dell’intero capitale sociale, nelle materie sopra indicate.

Con riguardo, ancora, all’approvazione del nuovo art. 23, comma 2, nn. 1, 2 e 6 (concernenti i poteri del CdA sulle fusioni, sulla istituzione di sedi secondarie, sul trasferimento della sede sociale), il Tribunale richiamava le medesime considerazioni già spese con riguardo alla ritenuta applicabilità del “nuovo” art. 2369 comma 3 c.c. pur segnalando che, anche alla luce della previgente disposizione statutaria, poteva opinarsi nel senso che tali poteri già afferissero alle competenze del CdA.

In relazione, poi, all’art. 25, comma 4, del nuovo statuto, riteneva che la questione sollevata non doveva necessariamente riposare sulla interpretazione supposta dagli attori.

Il Tribunale, ancora, riteneva suscettibile di modifica con la maggioranza di cui all’art. 223-bis disp. att c.c. quella avente ad oggetto la abrogazione dell’art. 16, concernente l’obbligo di convocazione dell’assemblea qualora ne fosse stata fatta richiesta da almeno un quinto del capitale sociale, trattandosi di norma statutaria in contrasto con la disposizione inderogabile di cui al “nuovo” art. 2367, comma 2 c.c. che, difatti, introduce un “quorum” inferiore (di almeno un decimo) ampliando, in tal modo, le facoltà ed i diritti delle minoranze.

Il Tribunale, infine, riteneva infondata la domanda di Sapar Srl osservando che, anche laddove la società avesse trovato il nuovo statuto di suo pieno gradimento, ben avrebbe potuto far precedere tale giudizio da una indagine tecnica sostenendo le relative spese ovvero, invece, rinviare all’eventuale approvazione delle modifiche ogni decisione sulla impugnativa della delibera; escludeva, insomma, l’esistenza del nesso di causalità tra la condotta lesiva denunziata ed il pregiudizio patrimoniale che sarebbe stato sofferto nella assunzione delle spese necessarie a provvedersi di una adeguata assistenza tecnica.

In definitiva, quindi, il Tribunale:

1. annullava la delibera del 30.9.2004 limitatamente agli articoli: 3, comma 2; 5, commi 3 e 4; 7; 8; 9; 12; 13, commi 1, 2 e 5, con riguardo alle parole “e terza”; 17, come modificalo dal­l’art. 17 del previgente statuto sociale, nella sola parte in cui era previsto che “le assemblee sia in sede ordinaria che straordinaria, tanto in prima che in seconda convocazione, deliberano con il voto favorevole di tante azioni che rappresentino il 60% del capitale sociale avente diritto al voto per gli argomenti concernenti: 3) aumenti di capitale; 4) fusioni che possano modificare la compagine azionaria; 5) utilizzo delle azioni proprie; 6) cambiamento dello scopo sociale, fatta salva l’applicabilità dell’art. 17 del nuovo statuto sociale alle deliberazioni sugli argomenti suddetti dal­l’assemblea straordinaria in seconda convocazione adottate in presenza dell’intero capitale sociale; 23, comma 2 nn. 1, 2 e 6; 29, comma 1; abrogazione dell’art. 13 del previgente statuto sociale;

2. respingeva le domande della sola Sapar Srl;

3. compensava per intero le spese di giudizio tra gli attori e Salini Costruttori s.p.a.;

4. condannava la Sapar Srl alla rifusione, in favore dei convenuti, delle spese di lite relative alla domanda da questa avanzata;

5. ordinava la iscrizione del dispositivo nel registro delle imprese, ai sensi dell’art. 2378 ult. comma c.c.

L’appello di Salini Costruttori s.p.a.

Avverso la predetta sentenza proponeva appello, in primo luogo, la società Salini Costruttori s.p.a., in tal modo introducendo il giudizio rubricato al n. 3970/06 Rg, articolando vari motivi.

Con un primo motivo, la società censurava la sentenza del Tribunale di Roma per avere giudicato su domande che gli attori in primo grado avevano avanzato soltanto all’udienza del 26.4.2004, ovvero ormai tardivamente ed in violazione delle disposizioni che, all’epoca, disciplinavano e regolavano il rito “societario”.

Chiariva, in particolare, come il riferimento operato alla disposizione di cui all’art 182 comma 1 c.p.c., non autorizzasse affatto gli attori a modificare le domande originariamente proposte e non precisate o integrate nella memoria di replica di cui all’art 6 del D.Lg.vo n. 5 del 2003.

Di qui, dunque, la impossibilità, per il primo giudice, di vagliare altro che le domande ritualmente introdotte dagli attori, ovvero la pretesa invalidità della intera deliberazione per i motivi dedotti e della sola modifica afferente l’art. 17, unica tempestivamente formulata.

Con un secondo motivo, quindi, censurava la erroneità della decisione impugnata con riguardo alla soluzione che era stata data al problema della “versione” dell’art. 2369 comma 3, c.c., applicabile al caso di specie e che, secondo il Tribunale, doveva ritenersi quella introdotta con il D.Lg.vo n. 6 del 2003 entrata in vigore l’1.1.2004.

A sostegno del motivo di appello, segnalava come la disposizione di cui all’art. 223-bis disp. att. c.c. chiariva in maniera a suo avviso non revocabile in dubbio, che, sino alla adozione delle modifiche statutarie e, in ogni caso, sino al 30.9.2004, rimaneva in vigore la disciplina statutaria e di legge vigente alla data del 31.12.2003.

Con l’ulteriore implicazione, secondo l’appel­lante, che sia le deliberazioni della assemblea straordinaria di mero adattamento a nuove norme inderogabili che quelle introduttive di clausole che escludessero l’applicazione di nuove disposizioni di legge derogabili, potevano ben essere adottate con la maggioranza di cui all’art. 223-bis predetto.

Di qui, per una pluralità e concorrenza di motivi, la piena legittimità della deliberazione impugnata (in quanto, per le società esistenti alla data dell’1.1.2004, l’unico obbligo introdotto dal D.Lg.vo n. 6 del 2003, doveva ritenersi quello di adeguare lo statuto e l’atto costitutivo entro il 30.9.2004; in quanto le deliberazioni predette ben potevano essere adottate con la maggioranza “agevolata” di cui all’art. 223-bis disp. att. c.c.; in quanto, comunque, doveva farsi applicazione, al fine di calcolare i quorum costitutivo e deliberativo, all’art. 2369 c.c. nella versione vigente alla data del 31.12.2003).

In conseguenza della erronea interpretazione adottata dal Tribunale, l’appellante censurava pertanto la erroneità dell’annullamento della delibera assembleare impugnata con riguardo alle modifiche concernenti gli artt. 3, comma 2, 5, commi 3 e 4, 7, 8, 9, 12, 13, commi 1 e 2, 13, comma 5, 23, comma 2, nn. 1, 2 e 6, 29, comma 1, all’abrogazione del previgente art. 13.

Con un terzo motivo, censurava quindi la soluzione fornita dal Tribunale con riguardo alla modifica dell’art. 17 dello statuto rilevando, in primo luogo, che il Tribunale di Roma, con la richiamata sentenza n. 25.799 del 2004, aveva ritenuto in realtà fondata la doglianza sollevata in quella sede con riguardo al denunziato vizio di abuso del potere (profilo che, pur contestato, sarebbe comunque collegato alle circostanze del caso specifico e non proiettabile nel futuro) ritenendo, nel contempo, possibile la modifica ricorrendo alla maggioranza di cui al previgente art. 2369 comma 3 c.c.

Per altro verso, segnalava come la sentenza n. 25.799 del 2004, pur con i limiti esposti, era stata tempestivamente impugnata in appello (circostanza peraltro pacifica) non potendo pertanto, come invece opinato dal Tribunale, spiegare immediata efficacia poiché dal contenuto meramente costitutivo e non di condanna.

In tal senso, peraltro, oltre ai principi generali in materia di esecutività delle sentenze meramente costitutive, richiamava la costante interpretazione degli artt. 2377 comma 6 e 2379 ult. comma c.c., secondo cui l’obbligo dei soci, degli amministratori e gli organi di gestione, di adottare i provvedimenti conseguenti all’annullamento o alla dichiarazione di nullità di deliberazioni assembleari, è efficace e vincolante soltanto laddove la relativa sentenza sia passata in cosa giudicata.

In ogni caso, ribadiva l’appellante, la modifica dell’art. 17 era intervenuta non già con la maggioranza “agevolata” di cui all’art. 223-bis disp. att. c.c. ma con la maggioranza prevista dall’art 2369 comma 3 c.c. nel testo vigente alla data del 31.12.2003 e che, per le motivazioni esposte, l’appellante riteneva applicabile sino alla modifica statutaria ovvero sino al 30.9.2004.

Con un ulteriore motivo, quindi, la difesa della Salini Costruttori s.p.a. sottolineava come, già in primo grado, era stato evidenziato che la modifica dell’art. 17 del vecchio statuto si imponeva necessariamente in quanto le maggioranze ivi previste per la assemblea straordinaria in seconda convocazione erano in contrasto con le previsioni del D. Lg.vo n. 5 del 2003 e, in particolare, con il nuovo testo dell’art. 2369 comma 3 c.c.; di qui, pertanto, la necessità di adeguare lo statuto a questa nuova inderogabile disposizione, adempimento cui poteva pertanto provvedersi con la maggioranza “agevolala” di cui all’art. 223-bis disp. att. c.c. ma che, nel caso di specie, era intervenuto con la (più ampia) maggioranza di cui all’art. 2369 comma 3 c.c. vigente sino al 31.12.2003 e che, per le ragioni già esposte, doveva ritenersi applicabile sino alla modifica statutaria ovvero, comunque, sino al 30.9.2004.

Né, aggiungeva, il Tribunale poteva procedere ad una operazione “ortopedica” quale quella cui aveva dato luogo con la sentenza impugnata, sostituendosi alla autonomia privata laddove avrebbe invece dovuto limitarsi a prendere atto dell’intervenuto adattamento della norma statutaria alla nuova disposizione legislativa inderogabile.

Insisteva, quindi, per l’accoglimento del­l’ap­pel­lo nei termini di cui alle rassegnate conclusioni.

Avverso la sentenza del Tribunale di Roma interponevano appello principale anche gli originari attori, instaurando così il procedimento n. 5081 del 2006 che, come si darà atto in seguito, veniva poi obbligatoriamente riunito a quello recante il numero 3970 del 2006.

Dopo aver riepilogato, dal proprio punto di vista, lo svolgimento dell’assemblea del 30.9.2004, gli appellanti ripercorrevano il giudizio di primo grado e, quindi, articolavano vari motivi di appello.

Con il primo motivo (pagg. 16-30 dell’atto di appello) censuravano l’erroneità della sentenza impugnata laddove il Tribunale aveva ritenuto la deliberazione del 30.9.2004 non annullabile per il solo fatto che era stata respinta la richiesta di rinvio, formulata ai sensi dell’art 2374 c.c., rilevando come, al contrario, proprio tale richiesta risultava in qualche misura finalizzata al solo scopo di impedire che potesse procedersi alla approvazione delle modifiche statutarie con la maggioranza c.d. “agevolata” di cui all’art. 223-bis disp. att. c.c. e, pertanto, senza il concorso del loro voto favorevole.

A tal proposito sottolineavano come la struttura della norma invocata, ovvero dell’art. 2374 c.c., con i limiti in essa stabiliti per l’esercizio del diritto ivi riconosciuto, è tale da aver già considerato, in tal modo escludendolo, il rischio di un suo esercizio abusivo, con la conseguenza che, una volta che ne ricorrano le condizioni, non vi è alcuno spazio per sindacare la fondatezza della richiesta in tal senso avanzata dalla minoranza qualificata.

Sotto altro profilo, rilevavano da un lato che la convocazione dell’assemblea per l’ultimo giorno utile non poteva certamente riflettersi negativamente sulle prerogative della minoranza e, dal­l’altro, che il Tribunale non aveva dato conto alcuno di quale sarebbe stato il pregiudizio che l’esercizio del diritto al rinvio da parte degli appellanti avrebbe comportato per la società, in tal modo viziando la sentenza impugnata in maniera a loro avviso irrimediabile in quanto priva della considerazione dei diversi fattori di comparazione tra interessi contrapposti nella quale deve risolversi la valutazione in termini di abuso del diritto.

Sempre sotto questo profilo, chiarivano come le stesse norme statutarie che il Tribunale aveva ritenuto correttamente modificate con il ricorso alla maggioranza “agevolata”, non erano tali da incidere in maniera rilevante sull’assetto societario e, in particolare, sugli interessi della società ovvero del socio di maggioranza.

Né, aggiungevano, la preventiva consegna del progetto di modifica dello statuto poteva escludere il diritto al rinvio garantito dal già citato art. 2374 c.c.

Ed ancora, ribadivano come le peculiari competenze del rappresentante degli odierni appellanti non potesse in alcun modo supplire alla necessità, per costoro, di un approfondimento, atteso che il professionista in questione avrebbe dovuto e potuto limitarsi ad esprimere, in quella sede, la volontà dei propri rappresentati cui, in via prioritaria, era necessario garantire un supplemento di informazione e di riflessione.

Ricordavano, comunque, l’episodio accaduto in data 25.9.2004 a due degli odierni appellanti e gli impegni pregressi assunti dai loro consulenti, ad ulteriore giustificazione della necessità di un rinvio dell’assemblea e del carattere non speculativo della richiesta.

Con un secondo motivo, gli appellanti (nel giu­dizio 5801/06) insistevano nella censura di illegittimità della deliberazione (lamentando che il Tribunale non vi aveva fatto alcun cenno) per violazione del diritto alla discussione sui singoli articoli ovvero su gruppi di articoli, come da loro richiesto e come immotivatamente (con la sola esclusione della votazione sulla modifica dell’art. 13 dello statuto) denegato dalla presidenza del­l’as­semblea, assunta dal socio accomandatario di Salini Simonpietro s.a.p.a., società detentrice della maggioranza relativa del pacchetto azionario di Salini Costruttori s.p.a. ed evidentemente interessato, in tal modo, a rafforzare il proprio potere nella società.

Con un terzo motivo, gli appellanti rilevavano la erroneità della soluzione cui era pervenuto il Tribunale in ordine alla necessità di computare, nel quorum deliberativo della assemblea straordinaria in seconda convocazione, ed alla luce della corretta interpretazione dell’art. 2357-ter c.c., la quota di azioni (pari a circa il 10%) detenuta dalla stessa società.

In particolare, chiarivano come, dovendosi com­putare anche le azioni “proprie”, nemmeno le modifiche approvate con la maggioranza “agevolata” di cui all’art. 223-bis disp. att. c.c. potevano ritenersi essere validamente intervenute atteso che, considerata la quota del 10% appartenente alla società, il voto favorevole del socio di maggioranza, detentore di circa il 47% delle azioni, non era comunque tale da raggiungere la maggioranza semplice.

Sottolineavano, ripercorrendo la evoluzione normativa in materia, come la lettera dell’art 2357-ter c.c. esprimesse la consapevole volontà del legislatore di introdurre una disciplina speciale (rispetto alla regola generale di cui agli artt. 2368 e 2369 c.c.) con riferimento alla peculiare situazione delle società detentrici di azioni proprie che, pertanto, innovando rispetto al regime esistente sino al 1986, debbono computarsi sia ai fini del quorum costitutivo che ai fini del quorum deliberativo.

Con un quarto motivo censuravano la decisione del Tribunale laddove il primo giudice non si era a loro avviso di fatto pronunciato sulla domanda diretta a sentir dichiarare l’abuso del potere della maggioranza, perpetrato in seno al­l’assemblea del 30.9.2004, nonché la personale responsabilità dei convenuti, con il conseguente annullamento, anche per questo verso, della deliberazione ovvero il suo parziale annullamento con riguardo a tutti gli articoli per i quali la richiesta era stata avanzata in primo grado.

A tal fine, quindi, ripercorrevano in primo luogo la vicenda relativa al primo tentativo di modifica dell’art. 17 dello statuto, avvenuto con l’ap­provazione della delibera del 5.9.2001, seguita dalla convocazione di una assemblea straordinaria con all’ordine del giorno l’annulla­mento delle azioni proprie con il finale risultato di far sì che la quota di capitale del 47% circa, posseduto dal socio di maggioranza, si trasformasse, a costo zero (ovvero per effetto dell’an­nullamento delle azioni proprie, detenute dalla società nella misura del 10% del capitale), pari al 53%; spiegavano che il tentativo era naufragato per effetto della sentenza con la quale il Tribunale di Roma aveva annullato la deliberazione ritenendola, per l’ap­punto, viziata sotto il profilo dell’esercizio abusivo del potere della maggioranza.

Sottolineavano, a tal proposito, come il fine perseguito dal socio di maggioranza sarebbe stato, tra l’altro, rivelato dal sistematico errore in cui la stessa difesa di controparte era caduta ignorando (ovvero fingendo di ignorare) che la materia dell’utilizzo delle azioni proprie, per legge, è piuttosto riservata alla competenza dell’assem­blea ordinaria, sì che il ripetuto insistere sulla modifica dell’art. 17 dello statuto rivelava, in realtà, il vero obiettivo finale, rappresentato dalla eliminazione delle azioni proprie e dalla acquisizione della maggioranza assoluta in assemblea.

Ad ulteriore riprova dei carattere abusivo delle modifiche complessivamente apportate allo statuto, gli appellanti richiamavano, inoltre, la modifica dell’art. 7, comma 2 (delega permanente al CdA di emettere obbligazioni convertibili con la possibilità, in tal modo, di esautorare l’assemblea dalle decisioni inerenti eventuali aumenti di capitale); dell’art 23, comma 1, n. 1 (attribuzione al CdA del potere di procedere a fusione per incorporazione); dell’art 23, comma 2 (competenza del CdA a decidere sullo spostamento della sede sociale); dell’art. 13 (competenza del CdA sulla scelta del luogo di pubblicazione dell’avviso di convocazione dell’assemblea).

Con un quinto motivo di appello rilevavano quale fosse, a loro avviso, la corretta interpretazione da fornire all’art. 2369 comma 3 c.c., ovvero la individuazione del quorum deliberativo nella assemblea straordinaria in seconda convocazione di modo che, correttamente intendendo tale disposizione, si doveva escludere che l’art. 17, nella versione antecedente la deliberazione del 5.9.2001, potesse ritenersi in contrasto con il citato art. 2369, comma 3, c.c., prevedendo, infatti, una maggioranza più elevata rispetto a quella prevista dalla legge; di qui, ancora, l’ille­gittimità della modifica in quanto mascherata dalla esigenza di adeguare la disposizione statutaria alla normativa sopravvenuta.

Di qui, ancora, la erroneità della sentenza impugnata che, laddove aveva correttamente provveduto ad annullare la deliberazione con riguardo alla riformulazione dell’art. 17, aveva tuttavia precisato che andava fatta salva la nuova disciplina statutaria per le deliberazioni, sugli argomenti ivi indicati, nell’assemblea straordinaria in seconda convocazione ed in presenza dell’intero capitale sociale.

Censuravano quindi la decisione, anche per essere stata adottata previo stralcio della memoria depositata in data 6.5.2005 ove tali ultime argomentazioni erano state sviluppate.

Con il sesto motivo, gli appellanti richiamavano la domanda svolta in primo grado e diretta a far accertare la responsabilità degli amministratori, del socio Salini Simonpietro s.a.p.a. e, per i primi, anche della stessa Salini Costruttori s.p.a., in relazione ai danni da essi subiti per effetto della operazione ordita con la predisposizione ed adozione della deliberazione del 30.9.2004.

Dopo aver ribadito i profili di illiceità a loro avviso riscontrabili nella condotta dei soggetti convenuti in giudizio, denunziavano, quindi, come la sentenza di primo grado avesse di fatto ignorato il problema limitandosi a respingere la domanda della sola Sapar Srl sulla scorta della ritenuta assenza del nesso di causalità.

Chiarivano che, oltre agli amministratori (e, tra questi, in particolare, S. S. (Omissis), che aveva assunto anche la presidenza dell’assemblea), il Tribunale avrebbe dovuto affermare, come richiesto, la responsabilità del socio di maggioranza relativa in conseguenza dell’abusivo esercizio del proprio ruolo e delle proprie prerogative, a scapito ed in danno della minoranza, secondo un orientamento ormai consolidato e fondato su principi generali e specifiche norme di legge.

Insistevano, pertanto, sulle richieste risarcitorie, disattese dal Tribunale, tra le quali l’unica per cui era possibile una agevole quantificazione e rappresentata dalle spese sopportate per la consulenza legale resasi indispensabile proprio in con­ statutarie predisposte dal socio di maggioranza e sottoposte, per la loro approvazione, all’assemblea del 30.9.2004; laddove, invece, per gli alti profili di pregiudizio, pur esistenti, la complessità della loro immediata e pronta dimostrazione e quantificazione aveva suggerito di riservare l’azione ad altra sede.

Gli appellanti nel giudizio 5081/06 si costituivano quindi nel giudizio 3970/06 (instauratosi, come si è visto, a seguito dell’appello interposto da Salini Costruttori s.p.a.) con comparsa di risposta contenente un appello incidentale del medesimo tenore dell’appello principale di cui si è sin qui dato conto e rispetto al quale resisteva Salini Costruttori s.p.a. rilevando, anche in questa occasione, la inammissibilità della domanda di annullamento “selettivo” della delibera del 30.9.2004 sulla quale il Tribunale aveva a suo avviso ritenuto di poter provvedere pur essendo stata, in quei termini, articolata ormai tardivamente rispetto a quella originariamente formulala.

La Salini Costruttori s.p.a., inoltre, ribadiva la inammissibilità e, comunque, la infondatezza, della domanda di accertamento della responsabilità degli amministratori e del socio di maggioranza che assumeva essere stata inammissibilmente riproposta in appello senza alcuna specifica censura nei confronti della soluzione cui era pervenuto in merito il Tribunale.

Si costituivano in giudizio, quindi, anche D.M. e G.P., convenuti in primo grado, con comparsa di costituzione e risposta nella quale eccepivano, in primo luogo, la inammissibilità dell’appello principale articolato dagli attori in primo grado instaurando un autonomo giudizio dopo essersi costituiti nel giudizio di appello che si era attivato per effetto della impugnazione di Salini Costruttori s.p.a.; tale condotta processuale, opinavano, doveva ritenersi inammissibile in quanto assunta in violazione del principio di unicità del processo di impugnazione nonché del principio di consumazione dei potere di impugnare che, nel caso di specie, sarebbe stato già esercitato con l’appello incidentale svolto nel primo giudizio.

Nel merito, difendevano la decisione del Tribunale di Roma con riguardo alla domanda di accertamento e di condanna articolata nei loro confronti e che, come si è visto, era stata respinta sulla considerazione della ritenuta assenza del nesso di causalità tra la condotta tenuta dagli appellati e le spese sostenute dagli attori in primo grado per munirsi di un’attrezzata consulenza ed assistenza professionale nella vicenda relativa alla convocazione dell’assemblea societaria di cui si discute.

Ribadivano, comunque, argomentando in tal senso, sulla assenza del nesso di causalità, già rilevato dal Tribunale, nonché sulla mancanza di una condotta illecita da parte degli amministratori ribadendo come il compito di costoro fosse stato quello di elaborare una proposta (peraltro resa necessaria dalle novità introdotte con il D.Lg.vo n. 6 del 2003) da sottoporre all’assem­blea cui sarebbe stata riservata la esclusiva competenza alla adozione delle conseguenti decisioni in merito.

In particolare, sottolineavano la infondatezza, a loro avviso, degli unici profili di censura dotati di qualche specificità e relativi, da un lato, alla (ritenuta) falsa prospettazione del testo dell’art. 17 dello statuto vigente e, dall’altro, nell’ille­gittimo rigetto della richiesta di rinvio dell’as­sem­blea avanzata ai sensi dell’art. 2374 c.c.

Quanto al primo profilo, ricordavano come la sentenza del Tribunale di Roma che avrebbe annullato la delibera del 5.9.2001 non era ancora intervenuta e che, comunque, dell’esistenza del giudizio si era dato atto nel corpo della relazione accompagnatoria.

In ordine al secondo profilo, sottolineavano come il delegato dei soci di minoranza aveva dato ampiamente conto della perfetta padronanza delle questioni sottoposte alla attenzione dell’assemblea sì da far apparire del tutto pretestuosa la richiesta di rinvio.

Né, aggiungevano, si poteva fondatamente rim­proverare agli amministratori di aver convocato l’assemblea l’ultimo giorno utile, vista la portata delle novità normative.

Nessuna responsabilità, inoltre, proseguivano gli appellati, poteva essere loro ascritta per non aver difeso il diritto alla discussione dei soci di minoranza spettando la conduzione dell’assem­blea al suo presidente.

Sottolineavano, comunque, la mancata dimostrazione di alcun danno da parte di Sapar Srl.

In ogni caso, i convenuti in appello ripercorrevano le difese già spese in primo grado anche con riguardo alle questioni che sono state affrontate e risolte dalla sentenza impugnata aderendo, in sostanza, alla impostazione in diritto proposta da Salini Costruttori s.p.a.

Ciò, a partire dalla interpretazione della portata della norma transitoria di cui all’art 223-bis disp. att. c.c. fornita dal Tribunale e che aveva portato all’annullamento della delibera per tutti i casi in cui questi non aveva avuto ad oggetto decisioni di mero “adattamento” alla normativa di legge sopravvenuta e per i quali non poteva, pertanto, procedersi con la maggioranza “agevolata” ma che avrebbero invece richiesto il quorum deliberativo previsto dal “nuovo” art 2369 c.c.

Ribadivano, invece, come la ricostruzione del Tribunale, proposta nella impugnata sentenza, fosse del tutto isolata ed in contrasto con il tenore letterale della citata disposizione transitoria che, al contrario, soprattutto alla luce dell’inter­vento operalo con il D.Lg.vo n. 37 del 2004, imponeva invece di ritenere applicabile la previgente versione dell’art 2369 c.c. laddove si fosse trattato di modifiche allo statuto non meramente adattative rispetto alle nuove norme inderogabili.

Sottolineavano come la dottrina e la giurisprudenza fossero di questo avviso concludendo unanimemente per la immediata applicabilità della riforma con esclusione, tuttavia, proprio delle norme di legge per le quali, riguardando il funzionamento della società (norme statutarie), il legislatore aveva oculatamente previsto una sorta di “ultrattività” finalizzata a consentire l’ade­gua­mento ad esse degli statuti entro il termine del 30.9.2004.

Segnalavano, inoltre, l’errore in cui era caduto il Tribunale nel ritenere la perdurante applicabilità dell’art. 17 dello statuto alle ipotesi specificamente indicate in sentenza e, ciò, sotto un duplice profilo: sia per le incongruità cui si perverrebbe seguendo la ricostruzione proposta nella decisione impugnata sia, anche, per la erroneità del presupposto di partenza, ovvero la immediata efficacia della sentenza n. 25.799 del 2005, emessa dallo stesso Tribunale di Roma, che aveva annullato la precedente deliberazione del 5.9.2001.

Da ultimo, gli appellati invocavano, a sostegno della legittimità della deliberazione impugnata, la previsione di cui al comma 4 dello stesso art. 223-bis disp. att. c.c., letta in combinato disposto con l’art. 2365 c.c. e, soprattutto, con i principi della legge delega.

All’udienza del 16.2.2007, nell’ambito del giudizio n. 3970 del 2006, cui si perveniva dopo un primo differimento dovuto alla rappresentata pendenza dell’altro giudizio, la Corte, sentite le parti, disponeva la riunione obbligatoria dei due procedimenti in quanto instaurati a séguito della impugnazione della medesima sentenza.

All’udienza del 24.2.2012, dopo alcuni differimenti, le parti precisavano le rispettive conclusioni e la Corte tratteneva la causa in decisione concedendo i termini di cui all’art 190 c.p.c. per il deposito di comparse conclusionali e memorie di replica.

A seguito di istanza di discussione orale, veniva fissata l’udienza del 28.9.2012 che, tuttavia, doveva essere differita a quella del 9.11.2012 quando, all’esito della discussione, la Corte tratteneva la causa in decisione.

Sull’eccezione di inammissibilità dell’appello principale nel giudizio 508l/06 Rg

Come già accennato, nel costituirsi in giudizio in questa sede, Salini Costruttori s.p.a. da un lato e D. M. e G. P., dall’altro, tutti convenuti in primo grado, eccepivano, in primo luogo, l’inam­missibilità dell’appello principale formulato dagli attori in quella sede mediante la instaurazione di un autonomo giudizio pur dopo essersi costituiti nei giudizio di appello che si era attivato per effetto della impugnazione di Salini Costruttori s.p.a.; tale condotta processuale, opinavano, doveva ritenersi inammissibile in quanto assunta in violazione del principio di unicità del processo di impugnazione nonché del principio di consumazione del potere di impugnare che, nel caso di specie, sarebbe stato già esercitato con l’appello incidentale svolto nel primo giudizio.

L’eccezione è infondata: se è vero che avverso la medesima sentenza sono stati proposti diversi appelli, è anche vero che, ai sensi dell’art 335 c.p.c., i relativi procedimenti sono stati riuniti con la conseguente conversione dell’appello prin­cipale proposto nell’ambito del giudizio 5081/06 Rg in appello incidentale nel giudizio “portante”.

Una volta provvedutosi in tal senso, non vi è più spazio per rilevare la inammissibilità ovvero la improcedibilità della impugnazione principale proposta successivamente (cfr., sul punto, Cass. SS.UU., 7.7.2009 n. 15.843).

Sul primo motivo di appello proposto da F.S. S., in proprio e quale legale rappresentante della Alfa S.r.l., A. S., F. S., S.P. S., C. C., in proprio e nella qualità di legale rappresentante di Salini Global Service Srl.

Il primo motivo di appello articolato dagli appellanti incidentali sopra indicati deve essere esaminato per primo in quanto logicamente prioritario rispetto ad ogni altra questione.

Come pure già accennato, gli appellanti incidentali nel primo giudizio, con il primo motivo ivi articolato censuravano la erroneità della sentenza impugnata laddove il Tribunale aveva ritenuto la deliberazione del 30.9.2004 non annullabile per il solo fatto che era stata respinta la richiesta di rinvio, formulata ai sensi e nei termini di cui all’art. 2374 c.c., avendo sostenuto che tale richiesta risultava in qualche misura finalizzata al solo scopo di impedire che potesse procedersi alla approvazione delle modifiche statutarie con la maggioranza c.d. “agevolata” di cui all’art. 223-bis disp. att. c.c. e, pertanto, senza il concorso del loro voto favorevole.

A tal proposito sottolineavano come la struttura della norma invocata, ovvero dell’art. 2374 c.c., con i limiti in essa stabiliti per l’esercizio del diritto ivi riconosciuto, è tale da aver già considerate, in tal modo escludendolo, il rischio di un suo esercizio abusivo, con la conseguenza che, una volta che ne ricorrano le condizioni, non vi è alcuno spazio per sindacare la fondatezza della richiesta in tal senso avanzata dalla minoranza qualificata.

Sotto altro profilo, rilevavano da un lato che la convocazione dell’assemblea per l’ultimo giorno utile non poteva certamente riflettersi negativamente sulle prerogative della minoranza e, dal­l’altro, che il Tribunale non aveva dato conto alcuno di quale sarebbe stato il pregiudizio che l’esercizio del diritto al rinvio da parte degli appellanti avrebbe comportato per la società, in tal modo viziando la sentenza impugnata in maniera a loro avviso irrimediabile in quanto priva della considerazione dei diversi fattori di comparazione tra interessi contrapposti nella quale deve risolversi la valutazione in termini di abuso del diritto.

Sempre sotto questo profilo, chiarivano come le stesse norme statutarie che il Tribunale aveva ritenuto correttamente modificate con il ricorso alla maggioranza “agevolata”, non erano tali da incidere in maniera rilevante sull’assetto societario e, in particolare, sugli interessi della società ovvero del socio di maggioranza.

Né, aggiungevano, nemmeno la preventiva con­segna del progetto di modifica dello statuto poteva escludere il diritto al rinvio garantito dal già citato art. 2374 c.c.

Ed ancora, ribadivano come le peculiari competenze del rappresentante degli odierni appellanti non potesse in alcun modo supplire alla necessità, per costoro, di un approfondimento, atteso che il professionista in questione avrebbe dovuto e potuto limitarsi ad esprimere, in quella sede, la volontà dei propri rappresentati cui, in via prioritaria, era necessario garantire un supplemento di informazione e di riflessione.

Ricordavano, comunque, l’episodio accaduto in data 25.9.2004 a due degli odierni appellanti e gli impegni pregressi assunti dai loro consulenti, ad ulteriore giustificazione della necessità di un rinvio dell’assemblea e del carattere non speculativo della richiesta.

Il motivo e fondato.

Come è noto, l’art. 2374 c.c. stabilisce che “i soci intervenuti, che riuniscono un terzo del capitale rappresentato nell’assemblea, se dichiarano di non essere sufficientemente informati sugli oggetti posti in deliberazione, possono chiedere che l’assemblea sia rinviata a non oltre cinque giorni” (tre giorni nella versione antecedente il D.Lg.vo n. 6 del 2003) precisando, al secondo comma, che “questo diritto non può esercitarsi che una sola volta per lo stesso oggetto”.

Secondo la dottrina che ha avuto modo di approfondire la questione, la norma è finalizzata a garantire alla minoranza un prolungamento dei lavori dell’assemblea al fine di poter acquisire le informazioni necessarie ad esprimere un orientamento documentato ed un voto responsabile.

Tant’è che, si è scritto, non necessariamente tale richiesta deve essere avanzata in apertura dei lavori ma può intervenire anche successivamente e sino alla chiusura della discussione; non solo, infatti, la norma non indica alcun termine per l’esercizio di siffatta facoltà ma a questa conclusione si deve giungere anche alla luce del­l’in­teresse tutelato che, per comune opinione, è proprio quello di garantire che il voto sin espresso nella piena consapevolezza dei temi e delle questioni oggetto della discussione.

Si è chiarito, in definitiva, che l’ordinamento, proprio al fine di raggiungere una decisione pon­derata con il concorso consapevole di tutti i soci, ha voluto garantire la possibilità agli interessi di acquisire le informazioni utili ad esprimere in assemblea un voto responsabile e meditato.

In questo senso, la dottrina ha pure sostenuto una lettura della norma non tanto in chiave “soggettiva” (ovvero di tutela della minoranza) quanto, piuttosto, in chiave “oggettiva”, ovvero in una logica procedimentale nella quale quel che rileva è la richiesta proveniente da un numero di soci tali da riunire un terzo del capitale intervenuto in assemblea e che non necessariamente deve coincidere con la minoranza o parte di essa: cosicché l’art. 2374 c.c., si è affermato, va letto non già come norma posta a tutela di un presunto gruppo di minoranza quanto, piuttosto, come norma ispirata alla salvaguardia di un principio generale immanente allo svolgimento della vita societaria ed assembleare consistente, per l’ap­punto, nella garanzia di una informazione corretta ed esauriente finalizzata alla assunzione di decisioni in piena consapevolezza ed a presidio, in realtà, dell’interesse della stessa società ad un approfondito dibattito.

Il legislatore ha in tal modo inteso conciliare due opposte esigenze, entrambe riferibili non già ai soci ma alla società: la garanzia di informazione e di approfondimento dei soci da un lato con quella di assicurare una conclusione, in tempi rapidi, dei lavori assembleari; operando questa ponderazione di contrapposti interessi, si è tuttavia sottolineata la prevalenza ed il carattere prioritario dell’interesse del socio ad una migliore informazione sui temi all’ordine del giorno, con la conseguenza per cui la valutazione circa il grado di sufficienza delle informazioni a disposizione del socio deve ritenersi sottratta al controllo della maggioranza (ed anche a quello del presidente dell’assemblea) per essere rimessa in via esclusiva agli stessi interessati, purché rappresentanti un terzo del capitale convenuto.

D’altra parte, in tal senso, ovvero della non sindacabilità del grado di informazione acquisita dai richiedenti, milita lo stesso tenore letterale della disposizione esaminata, laddove si limita a stabilire che il diritto al rinvio compete ai soci intervenuti “se dichiarano di non essere sufficientemente informati” atteso che uno spazio di valutazione avrebbe potuto essere ipotizzato di fronte a formulazioni diverse (quale, ad es.: “... se i soci non sono sufficientemente informati ...”).

Ecco, allora, che la richiesta dei soci non equivale ad una proposta di rinvio sulla quale l’as­semblea possa essere chiamata ad esprimersi con una decisione di accoglimento o di rigetto.

Si tratta, insomma, di un diritto potestativo di chiedere e di ottenere il differimento dei lavori assembleari il cui esercizio, è stato scritto, determina automaticamente la temporanea incompetenza dell’assemblea a deliberare, ed alla quale corrisponde una correlata posizione giuridica di dovere ovvero di soggezione (cfr., Trib. Prato 6.5.1987 che, per l’appunto, qualifica il diritto al rinvio come “... un vero e proprio diritto soggettivo o, più propriamente, un diritto potestativo, la situazione giuridica carrellata non può che essere quella del dovere o della soggezione”).

D’altra parte, ed a questo proposito, si è chiarito che “la chiara enunciazione normativa ... non lascia spazio ad una lettura, letterale e logica, che configuri il diritto della minoranza come avente ad oggetto una semplice richiesta, liberamente, ancorché motivatamente, disattendibile dalla mag­gioranza. È evidente che una tale interpretazione sarebbe riduttiva, in quanto finirebbe per ricondurre la norma nell’ambito del superfluo. L’as­semblea può, ovviamente ed in ogni caso, deliberando a maggioranza, accogliere una proposta della minoranza, anche non qualificata, intesa al rinvio dei lavori. Ne segue che la norma in esame, se intesa come istitutiva del solo potere di formulare una richiesta non vincolante, non avrebbe alcuna ragione d’essere.

Né può ritenersi che si tratti di un potere il cui esercizio comporti un semplice obbligo di motivazione dell’eventuale diniego, sindacabile in sede di impugnativa giudiziale. A parte la macchinosità di una tale ipotesi, è evidente che essa non può essere sostenuta in presenza di un enunciato normativo che non detta alcun criterio sulla base del quale la proposta dovrebbe essere valutata e la cui corretta applicazione dovrebbe essere oggetto di successiva verifica.

La lettura più semplice ed immediata della norma è, dunque, quella che configura il potere della minoranza qualificata in termini di diritto ad ottenere il rinvio” (cfr., così, Trib. Torino 18.5.1991).

Già in altra occasione, questa Corte aveva avuto modo di rilevare che “il diritto di un socio di ottenere un rinvio dell’assemblea, ai sensi dell’art. 2374 c.c., non può essere limitato o condizionato da apprezzamenti degli amministratori o del­l’assemblea circa la fondatezza delle motivazioni della richiesta addotte dal socio istante. Tale presupposto non è soltanto una condizione formale ma risponde a precise regioni di efficienza operativa dell’organo assembleare ...” (cfr., così, App. Roma, Sez. II, 6.12.1997 e, pure, Trib. Roma 3.8.1998, secondo cui “... l’art. 2374 c.c. attribuisce alla minoranza un diritto che non può essere sostanzialmente vanificato ponendo a votazione la richiesta stessa, laddove ha buon gioco l’orientamento della maggioranza, sicché una volta avanzata tale richiesta, il presidente è tenuto a dispone il rinvio dell’adunanza e non può legittimamente provocare la votazione sul punto”).

Non v’è dubbio, peraltro (e sempre nel senso della insindacabilità del grado di informazione che i soci richiedenti assumano insufficiente) che il diritto al rinvio sussiste non solo quando la possibilità di acquisire informazioni sia previamente garantita dalla legge con l’obbligo di previo deposito degli atti oggetto di discussione ed approvazione, come avviene, ad esempio, per il bilancio e per la situazione patrimoniale ex artt. 2429 e 2446 c.c.; ed anche quando, come nel caso di specie, ovvero in caso di nomina di amministrazioni o di sindaci o di scioglimento della società, si tratti di deliberazioni non soltanto necessarie ma anche connotate da profili di urgenza.

Una volta ricostruita la struttura dell’istituto, è pure possibile rilevare, come il legislatore non abbia ignorato il rischio di una utilizzazione “abusiva”, ovvero a fini ostruzionistici, del diritto al rinvio così riconosciuto ad un gruppo qualificato di soci intervenuti in assemblea; ma, come pure si è opportunamente e condivisibilmente osservato, sia in dottrina che in giurisprudenza, ad una lettura rigorosa del dettato normativo “... non può essere di ostacolo la preoccupazione per la possibile legalizzazione dell’ostruzionismo, posto che il limite di tre, ora cinque, giorni come termine massimo del rinvio denota come il legislatore abbia valutato anche questo aspetto lo abbia risolto nel senso del contemperamento delle esigenze contrapposte della tutela delle minoranze e del principio di funzionalità dei lavori assembleari” (cfr., così, ancora, Trib. Torino, cit.).

In altri termini, dunque, la brevità, del differimento, mira al divieto di reiterare la richiesta per il medesimo oggetto, testimonia come sia stato lo stesso legislatore a “scontare” il rischio di una utilizzazione del rinvio motivata da finalità meramente ostruzionistiche (cfr., ancora, in tal senso, Trib. Milano 14.12.1989).

Venendo, dunque, al caso di specie, risulta, dal verbale di assemblea straordinaria in seconda convocazione della Salini Costruttori s.p.a., del 30.9.2004, che, in apertura dei lavori, alle ore 16,20, il presidente, S. S., esponeva l’oggetto della proposta di delibera chiarendo che, a seguito della entrata in vigore del D.Lg.vo n. 6 del 2003, si rendeva necessario adeguare lo statuto sociale alle nuove disposizioni di legge; aggiungeva, quindi, che “... in aggiunta agli interventi che si rendono necessari ed opportuni, come sopra indicato, per l’adeguamento dello statuto alle disposizioni del Decreto di Riforma, il Consiglio di Amministrazione ha ritenuto necessario, cogliendo le opportunità introdotte dalia Riforma Societaria, proporre, una revisione organica e sistematica dello Statuto Sociale operando accorpamenti di alcuni articoli ed aggiungendone di nuovi, con una conseguente rinumerazione del testo risultante, provvedendo altresì ad indicare la rubrica delle singole disposizione statutarie raggruppandole nei titoli pertinenti ... si è inoltre proposto di adottare per alcune clausole una migliore formulazione ovvero integrazioni tese ad un migliore funzionamento degli Organi Sociali e della Vostra Società, il tutto in coerenza con il nuovo disposto normativo” (cfr., dal verbale di assemblea, doc. sub 1 del fascicolo di parte attrice nel giudizio di primo grado).

Il Presidente ricordava inoltre che “... la società deve adeguare lo Statuto alle, nuove disposizioni inderogabili entro il 30 settembre 2004, ai sensi del nuovo art. 223-bis delle disposizioni di attuazione e transitorie del codice civile” (cfr., ivi, pag. 3).

Data lettura della proposta di modifica, interessante 31 articoli dello Statuto, il Presidente dichiarava aperta la discussione; a quel punto prendeva la parola l’Avv. E. L.M., rappresentante dei soci di minoranza (attori nel giudizio di primo grado) “... il quale richiede ai sensi dell’art. 2374 del nuovo codice civile in riferimento alle società, che la presente assemblea sia rinviata di cinque giorni, in subordine tre giorni, qualora il Consiglio di Amministrazione ritenga non ancora vigente la nuova formulazione dell’art. 2374 c.c., per non essere sufficientemente informato sull’ar­gomento all’ordine del giorno”.

Prendeva la parola, allora, il delegato della Salini Simonpietro s.a.p.a., Avv. G., il quale, premesso che a decidere sulla richiesta doveva essere il Presidente dell’assemblea ormai costituita, sosteneva che “... non vi è motivo alcuna per concedere il richiesto rinvio in quanto tutti i soci sono stati tempestivamente informati con tempestiva trasmissione della proposta di adeguamento dello Statuto sociale ...” aggiungendo che “... in considerazione di quanto sopra, la richiesta del­l’Avv. E. L.M. si appalesa pretestuosa essendo evidente che una eventuale disinformazione dei soci sarebbe da attribuire solo a loro negligenza, con la conseguenza che la richiesta in questione deve considerarsi finalizzata a far scadere il termine inderogabile del 30 settembre 2004 entro cui lo statuto vigente deve essere adeguato” (cfr., ivi, pag. 5).

Intervenivano quindi il dr. R. (Omissis) che, a nome del Collegio Sindacale confermava la circostanza dell’invio agli azionisti della proposta di modifica oggetto della delibera ed il dr. V. (Omissis), sindaco effettivo, il quale “... dà atto che il Collegio Sindacale non può non riconoscere il diritto potestativo del socio di richiedere il rinvio dell’assemblea a cui dovrà far seguito la decisione che vorrà assumere il Presidente dell’assemblea con le conseguenze di legge” (cfr., ancora, ivi, pag. 6).

Seguiva, pertanto, il nuovo intervento dell’Avv. G. (Omissis), per conto di Salini Simonpietro s.a.p.a., il quale ribadiva “... che nella fattispecie non vi sono in concreto i presupposti per la sussistenza del diritto potestativo a chiedere il rinvio dell’assemblea; essendo stati tutti i soci ... tempestivamente informati sugli argomenti posti all’Ordine del giorno; in ogni caso ribadisce che tale diritto è rimesso alla valutazione del Presidente che deve tener conto delle concrete finalità del suo preteso esercizio e nella fattispecie del grave danno che subirebbe la società per il mancato rispetto di un termine inderogabile” (cfr., ivi, pag. 6).

Dal canto suo, il delegato dei soci di minoranza ribadiva la propria posizione e la richiesta formulata.

A quel punto, quindi, prendeva la parola il presidente dell’assemblea, respingendo la richiesta di rinvio: motivava la propria decisione ritenendo che “... l’informazione fornita a tutti i soci abbia dato il tempo necessario per l’esame e lo studio della proposta all’ordine del giorno, ritenendo che la data dei 30 settembre non sia oltrepassabile in carenza di decisioni assembleari senza grave pregiudizio per la società, ritenendo inoltre che la richiesta sembra ingiustificata e pretestuosa ...” (cfr., ancora, ivi, pagg. 6-7).

Ebbene, si è visto, ripercorrendo la ricostruzione dell’istituto come operata dalla pressoché unanime dottrina e giurisprudenza, che il diritto garantito dall’art. 2374 c.c., ricorrendone le condizioni, non soffre limitazioni: in particolare, non è consentito al presidente dell’assemblea (ovvero all’assemblea cui la decisione sia stata rimessa) valutare la sufficienza o meno del grado di informazione posseduto dai soci richiedenti i quali abbiano avanzato l’istanza affermando di non essere sufficientemente edotti dell’oggetto della discussione ed abbiano necessità di approfondirne le implicazioni.

E, pertanto, la affermazione del presidente della assemblea di Salini Costruttori s.p.a. circa la adeguatezza dei termini nei quali i soci richiedenti il rinvio sarebbero stati messi a conoscenza delle modifiche statutarie proposte dal CdA, risulta del tutto fuori luogo.

Per altro verso, va pure rilevato che è stata la stessa difesa della Salini Costruttori s.p.a. a sostenere, nel giudizio di primo grado, che il presidente dell’assemblea, al fine di consentire una migliore percezione e conoscenza delle normative di nuova attuazione, avrebbe proposto di accogliere la richiesta di rinvio disponendo la sospensione dei lavori assembleari per qualche ora ed in modo tale da consentirne comunque la conclusione entro le ore 24,00 del 30.9.2004 (cfr., pagg. 7-8 della prima memoria di replica, che richiama una dichiarazione, in tal senso, del dr. R. (Omissis), componente del collegio sindacale).

Ecco, allora, che da un lato il presidente della assemblea di Salini Costruttori s.p.a. riteneva (per quanto sopra illustrato, erroneamente) di poter valutare il grado di informazione acquisita dai soci richiedenti il rinvio; dall’altro lato, era la stessa difesa di Salini Costruttori s.p.a. ad avere introdotto nel giudizio la circostanza secondo cui lo stesso presidente dell’assemblea avrebbe riconosciuto la esistenza dei presupposti del diritto al rinvio pretendendo tuttavia, di comprimerne i tempi al fine di poter concludere i lavori assembleari entro le ore 24,00 del 30.9.2004.

Tanto più che, come risulta incontroverso sin dal giudizio di primo grado, l’assemblea straordinaria di prima convocazione, indetta per il 29 settembre, ovvero per il giorno precedente, aveva registrato la assenza dello stesso socio di maggioranza.

A questo punto, esclusa la possibilità di un sindacato (del presidente ovvero della assemblea) sulla fondatezza della richiesta sotto il profilo della (in)sufficiente informazione e, anzi, il riconoscimento della non infondatezza di una siffatta esigenza, va detto che anche l’ulteriore argomento addotto dal presidente dell’assemblea della Salini Costruttori s.p.a. per addivenire a negare il rinvio sollecitato ai sensi dell’art. 2374 c.c. non poteva essere a tal fine utilmente speso.

Come si è visto, infatti, la richiesta veniva respinta sul rilievo secondo cui “... la data del 30 settembre non sia oltrepassabile in carenza di decisioni assembleari senza grave pregiudizio per la società ….

In particolare, il “grave pregiudizio” paventato sarebbe stato legato alla mancata approvazione delle modifiche entro la data ultima del 30.9.2004 oltre la quale, come stabilito dalla norma transitoria di cui all’art. 223-bis disp. att. c.c., le disposizioni del “nuovo” diritto societario sarebbero senz’altro entrate in vigore ancorché in conflitto con le disposizioni statutarie ancora vigenti in quanto non “adeguate”.

Va ricordato, in primo luogo, che, in via di principio, nessuna sanzione è stata prevista dalla legge in caso di mancata adozione delle modifiche statutarie entro il termine sopraindicato; la dottrina che ha avuto modo di esprimersi sul punto, ha infatti unanimemente ritenuto che eventuali norme di legge che si fossero trovate (per il brevissimo lasso di tempo necessario a consentire, nel caso di specie, la fruizione del diritto al rinvio esercitato dai soci di minoranza) in contrasto con norme statutarie, avrebbero trovato automatica applicazione in forza del meccanismo di cui all’art 1339 c.c.

Certamente, dunque, la società sarebbe stata in condizione di operare senza alcuna particolare difficoltà, considerata anche, come si è accennato, la assoluta brevità del termine previsto dalla legge ed entro il quale, in ogni caso, le modifiche statutarie avrebbero potuto essere adottate.

Fatta questa necessaria precisazione, allora, e seguendo la stessa difesa degli appellati (cfr., pag. 38 della memoria di replica depositata in data 4.5.2012 dalla difesa di Salini Costruttori s.p.a., di Salini Simonpietro s.a.p.a., di S. S. in proprio e di P. S. in proprio), oltre che, in effetti, la stessa sentenza appellata (cfr., pag. 9), il “grave pregiudizio” si doveva piuttosto identificare nella impossibilità, per la maggioranza, di procedere alle modifiche statutarie utilizzando le maggioranze “agevolate” di cui al già richiamato art. 223-bis disp. att. c.c.

In altri termini, quindi, il pregiudizio alla società veniva individuato nel fatto che, a partire dall’1.10.2004, sarebbe stato necessario coinvolgere (almeno parte del)la minoranza poiché, a partire da quel momento, sarebbe entrata in vigore la nuova formulazione dell’art. 2369 c.c. in materia di quorum costitutivi e deliberativi per la assemblea straordinaria in seconda convocazione che, almeno secondo la tesi della Salini Costruttori s.p.a. (peraltro disattesa dal Tribunale di Roma), sino a quella data doveva ritenersi ancora vigente nella versione antecedente la riforma e tale da consentire al socio di maggioranza di provvedere alla approvazione della delibera con i soli propri voti.

Non è utile, nell’economia di questo giudizio, addentrarsi nella questione che è stata sollevata dalla Salini Costruttori s.p.a. nel suo principale motivo di appello nel merito, in quanto è sufficiente rilevare, ai fini della valutazione del primo motivo di appello articolato dagli appellanti incidentali, che non può in alcun modo pretendersi di identificare il “grave pregiudizio” per la società nel fatto che le modifiche statutarie che erano state predisposte avrebbero dovuto essere condivise con (almeno parte del)la minoranza.

In altri termini, dunque, posto che è indiscusso (in realtà non è mai stato nemmeno dedotto) che, in difetto della tempestiva (ovvero intervenuta entro il 30.9.2004) approvazione delle modifiche statutarie la società avrebbe potuto continuare ad operare, è altrettanto pacifico che la necessità di coinvolgere la minoranza nella operazione di adattamento dello statuto al nuovo diritto societario potesse di per sé integrare alcun pregiudizio per la società stessa, tale da giustificare il rifiuto del richiesto rinvio della assemblea.

È vero che l’art. 223-bis disp. att. c.c. era ispirato ad un condivisibile principio di “facilità deliberativa” ma è altrettanto vero che la norma, sin dalla sua introduzione, avvenuta con D.Lg.vo n. 6 del 17.1.2003, aveva indicato in maniera chiara il termine ultimo entro il quale le società inscritte anteriormente all’1.1.2004 avrebbero potuto ricorrere a siffatto meccanismo di agevolazione nel­la approvazione delle modifiche statutarie.

D’altra parte, ed anche volendo seguire la tesi, prospettata dalla difesa della Salini Costruttori s.p.a., dell’”abuso” del diritto, va ricordato quanto questa stessa Corte ha di recente ribadito nell’ambito di una controversia intercorrente tra gli stessi soggetti ed evocata in questo stesso procedimento, laddove si è chiaramente ribadito che per aversi abuso del diritto (in quel caso ascritto alla maggioranza) è necessario dimostrare che il suo esercizio sia ispirato dallo scopo di ledere gli interessi degli altri soci, ovvero risulti in concreto preordinato ad avvantaggiare in maniera ingiustificata una o l’altra categoria di soci in danno degli altri e senza alcun reale collegamento con l’interesse generale della società (cfr., così, in maniera ampia e diffusa, App. Roma, 5.4.2012; cfr., anche, Cass. Civ., I, 12.12.2005 n. 27387); con l’ulteriore precisazione secondo cui l’onere di provare il carattere fraudolento ovvero ingiustificato dell’esercizio del diritto è a carico della parte che lo alleghi (cfr., tra le altre, Cass. Civ., I, 17.7.2007 n. 15950; conf., da ultimo, Cass. Civ., V, 30.11.2012 n. 21390).

Come pure è noto, la tematica dell’abuso del diritto è stata spesso ricondotta nell’ambito della più generale problematica delle fonti di integrazione del contratto con particolare riguardo ai criteri di buona fede e correttezza, operanti sia sul piano oggettivo che sul piano soggettivo.

La giurisprudenza è ormai da tempo affermato che “... costituiscono principii generali del diritto delle obbligazioni quelli secondo cui la parti di un rapporto contrattuale debbono comportarsi secondo le regole della correttezza (art. 1175 c.c.) e che l’esecuzione dei contratti debba avvenire secondo buona fede (art. 1375 c.c.). In tema di contratti, il principio della buona fede oggettiva, cioè della reciproca lealtà di condotta, deve presiedere all’esecuzione del contratto, così come alla sua formazione ed alla sua interpretazione ed, in definitiva, accompagnarlo in ogni sua fase (Cass. 5.3.2009 n. 5348; Cass. 11.6.2008 n. 15476).

Ne consegue che la clausola generale di buona fede e correttezza è operante, tanto sul piano dei comportamenti del debitore e del creditore nel­l’ambito del singolo rapporto obbligatorio (art. 1175 cod. civ.), quanto sul piano del complessivo assetto di interessi sottostanti all’esecuzione del contratto (art. 1375 cod. civ.).

principii di buona fede e correttezza, del resto, sono entrati, nel tessuto connettivo dell’ordi­namento giuridico.

L’obbligo di buona fede oggettiva o correttezza costituisce, infatti, un autonomo dovere giuridico, espressione di un generale principio di solidarietà sociale, la cui costituzionalizzazione è ormai pacifica (v. in questo senso, fra le altre, Cass. 15.2.2007 n. 3462). Una volta collocato nel quadro dei valori introdotta dalla Carta costituzionale, poi, il principio deve essere inteso come una specificazione, degli “inderogabili doveri di solidarietà sociale” imposti dall’art. 2 Cost., e la sua rilevanza si esplica nell’imporre, a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio, il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra, a prescindere dall’esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge ...” (cfr., così, la notissima. Cass. civ., III, 18.9.2009 n. 20106).

Tali principi hanno trovato ampia applicazione proprio in materia societaria, laddove si è affermata la possibilità di sindacare “... l’esercizio del diritto di voto sotto l’aspetto dell’abuso di potere, ritenendo principio generale del nostro ordinamento, anche al di fuori del campo societario, quello di non abusare dei propri diritti – con approfittamento di una posizione di supremazia – con l’imposizione, nelle delibere assembleari, alla maggioranza, di un vincolo desunto da una clausola generale quale la correttezza e buona fede (contrattuale).

In questa ottica i soci debbono eseguire il contratto secondo buona fede e correttezza nei loro rapporti reciproci, ai sensi degli artt. 1175 e 1375 c.c., la cui funzione è integrativa del contratto sociale, nel senso di imporre il rispetto degli equilibri degli interessi di cui le parti sono portatrici ...” (cfr., ivi).

Lo stesso Tribunale, motivando la legittimità, a suo avviso, del diniego del rinvio sollecitato dai soci di minoranza, ha evocato la violazione, da parte di costoro, delle regole di comportamento imposte dai principi di buona fede e correttezza di cui all’art. 1375 c.c.

Ma, allora, e rimanendo su questo terreno, non si può ignorare la circostanza della indizione della assemblea all’ultimo giorno utile per approvare le modifiche statutarie utilizzando (almeno secondo la tesi della maggioranza) il sistema “semplificato” di cui all’art. 223-bis disp. att. c.c.; in tal modo, quindi, ponendo la minoranza nella sostanziale impossibilità di usufruire del diritto garantito dall’art. 2374 c.c.

Nel contempo, peraltro, è comprovato (cfr., doc. all. sub 26 del fascicolo di parte attrice nel giudizio di primo grado) che sin dal gennaio di quell’anno la società aveva avviato l’esame delle modifiche statutarie necessarie ad adeguare lo statuto alle norme del nuovo diritto societario, cosicché nulla ragionevolmente ostava alla fissazione dell’assemblea in un giorno diverso dal­l’ultimo utile, consentendo in tal modo alla minoranza di usufruire del proprio diritto ad un approfondimento delle tematiche coinvolte dalla proposta di delibera messa all’ordine del giorno.

Per altro verso è stata la stessa difesa degli amministratori D.M. e G.P. (cfr., pag. 14 della comparsa conclusionale depositata in data 24.4.2012) abbia sottolineato l’importanza e la portata della riforma che, proprio per questo, era stata tale (a loro avviso) da imporre dei tempi così lunghi per addivenire ad una adeguata ed approfondita disanima di tutte le problematiche e novità apportate.

Il che, oltre a testimoniare ancora una volta come, a prescindere dalle considerazioni in diritto già svolte, l’esigenza di un termine minimale di riflessione anche per la minoranza non potesse essere considerata del tutto irragionevole, non spiega però per quale ragione questi tempi non potessero essere anticipati di appena qualche giorno in modo tale da assicurare anche alla minoranza quel minimo ulteriore approfondimento delle complesse tematiche il cui vaglio, come dedotto, aveva impegnato gli organi della società per oltre otto mesi.

In definitiva, posta la questione sul piano dell’equilibrato (nel senso sottolineato dalla dottrina e dalla giurisprudenza già richiamate) esercizio dei diritti e delle facoltà di ciascuna delle parti, si deve ritenere che la prima violazione di siffatto obbligo di correttezza e buona fede non possa certamente essere ascritta ai soci di minoranza.

Va quindi e conclusivamente accolto il primo motivo dell’appello incidentale formulato da F.S. S., in proprio e quale legale rappresentante della Sapar Srl, A. S., F. S., S.P. S., C. S., in proprio e nella qualità di legale rappresentante di Salini Global Service Srl.

La delibera adottata da Salini Costruttori s.p.a. in data 30.9.2004 va pertanto annullata integralmente essendo pacifico che la violazione del diritto al rinvio, garantito dall’art. 2374 c.c., com­porti, quale sua conseguenza, proprio quella della invalidità delle deliberazioni che siano state assunte nonostante la formulazione della richiesta da parte dei soggetti legittimati ed in presenza delle condizioni stabilite dalla legge.

La portata della decisione comporta che debbono pertanto ritenersi assorbiti il secondo, il terzo, il quarto ed il quinto motivo dell’appello incidentale proposto dai soggetti sopra indicati, nonché i motivi dell’appello principale formulato da Salini Costruttori s.p.a.

Sul sesto motivo di appello articolato da F.S. S.in proprio e quale legale rappresentante della Sapar SrlA. S.F. S.S.P. S.C. S.in proprio e nella qualità di legale rappresentante di Salini Global Service Srl.

Come si è visto, con il sesto motivo (cfr., pagg. 65-72 dell’atto di appello), veniva richiamata la domanda svolta in primo grado c diretta a far accertare la responsabilità degli amministratori, del socio Salini Simonpietro s.a.p.a. e, per i primi, anche della stessa Salini Costruttori s.p.a., in relazione a: danni da essi subiti per effetto della operazione ordita con la predisposizione ed ado­zione della deliberazione del 30.9.2004.

Dopo aver ribadito i profili di illiceità a loro avviso riscontrabili nella condotta dei soggetti convenuti in giudizio, denunziavano, quindi, come la sentenza di primo grado avesse di fatto ignorato il problema limitandosi a respingere la domanda della sola Sapar Srl sulla scorta della ritenuta assenza dei nesso di causalità.

Chiarivano che, oltre agli amministratori (e, tra questi, in particolare, S. S., che aveva assunto anche la presidenza dell’assemblea), il Tribunale avrebbe dovuto affermare, come richiesto, la responsabilità del socio di maggioranza relativa in conseguenza dell’abusivo esercizio del proprio ruolo e delle proprie prerogative, a scapito ed in danno della minoranza, secondo un orientamento ormai consolidato e fondato su principi generali e specifiche norme di legge.

Insistevano, pertanto, sulle richieste risarcitorie, disattese dal Tribunale, tra le quali l’unica per cui era possibile una agevole quantificazione e rappresentata dalle spese sopportate per la consulenza legale resasi indispensabile proprio in considerazione della rilevanza e gravità delle modifiche statutarie predisposte dal socio di mag­gioranza e sottoposte, per la loro approvazione, all’assemblea del 30.9.2004; laddove, invece, per gli altri profili di pregiudizio, pur esistenti, la complessità della loro immediata e pronta dimostrazione e quantificazione aveva suggerito di riservare l’azione ad altra sede.

II motivo è infondato.

Nell’atto di citazione in primo grado venivano stigmatizzati i profili in fatto di quella che, secondo gli odierni appellanti incidentali, sarebbe stata la fonte della responsabilità degli amministratori, i quali non soltanto avrebbero contribuito ad elaborare una proposta di modifica statutaria “sbilanciata” a favore della maggioranza ma, per altro verso, non avrebbero difeso i diritti della minoranza all’interno dell’assemblea; quanto a S. S., quindi, veniva sottolineato il suo ruolo quale presidente dell’assemblea.

Dopo una serie di premesse in punto di diritto circa la configurabilità di una responsabilità risarcitoria nei confronti dei soci che si assumano danneggiati da condotte scorrette degli amministratori ovvero di altri soci per fatti di abuso del potere della maggioranza (cfr., pagg. 36-40 del­l’atto di citazione), gli appellanti incidentali sopra indicati non riuscivano tuttavia – e fatto salvo l’aspetto esaminato dal Tribunale – ad enucleare un concreto profilo di pregiudizio risarcibile che potesse essere eziologicamente connesso alla denunziata condotta illecita.

Ed in realtà, l’unico pregiudizio effettivamente in grado di disporre di un minimo di concretezza era quello conseguente alla spesa che Sapar Srl si era assunta avendo dovuto ricorrere all’ausilio di consulenti per esaminare gli aspetti della proposta di riforma statutaria che gli amministratori avevano sottoposto alla attenzione dei soci (cfr., ivi, pag. 40).

Veniva infatti evocato anche il danno asseritamente subito dalla necessità di dover esperire una azione giudiziaria e che, a loro dire, non si esaurirebbe nelle spese legali poste a carico della controparte in caso di soccombenza ma che coinvolgono il dispendio di impegno e di tempo, impiegabile in attività più remunerative (cfr., ivi, ancora, pagg. 40 e 41).

Così, ancora, si segnalava la perdita del valore della propria partecipazione societaria, sotto il profilo della “qualità” della stessa, ovvero del novero di diritti e facoltà ad essa partecipazione riconducili.

Non a caso, sia per quanto riguarda l’aspetto del dispendio di tempo che della perdita di valore della partecipazione societaria, gli odierni appellanti incidentali si riservavano di agire separatamente.

Ed in effetti, tale opzione si imponeva francamente come obbligata atteso che, prescindendo da ogni considerazione circa la rilevanza e la qualificazione delle denunziate condotte illecite degli amministratori e del presidente dell’assem­blea, i profili di pregiudizio per i quali ci si era riservati di agire in separata sede si profilavano non tanto generici ma talmente evanescenti da non consentire agli attori nemmeno di invocare il ricorso a criteri di liquidazione del danno in via equitativa.

In maniera pertanto assolutamente condivisibile il Tribunale di Roma, nella sentenza impugnata, ha posto la sua attenzione in via esclusiva sull’unica voce di pregiudizio che gli attori in quella sede erano stati in grado di indicare in termini concreti.

Ma, altrettanto condivisibilmente, il Tribunale respingeva la domanda di Sapar Srl, che si era assunta le spese di assistenza e di consulenza sulla questione relativa alle modifiche statutarie, segnalando come la decisione della società di consultare degli esperti era largamente indipendente rispetto al contenuto della proposta di delibera che, all’esito di ogni opportuno approfondimento, avrebbe in ipotesi anche potuto incontrare, il gradimento dei soci di minoranza e, quindi, il loro voto favorevole.

In altri termini, le spese sostenute da Sapar Srl non possono considerarsi la conseguenza, in termini di pregiudizio patrimoniale, della “macchinazione” che, secondo gli attori in primo grado, sarebbe stata ordita ai loro danni mediante la predisposizione di una serie di modifiche statutarie in grado di depotenziarne sino ad annullarne ogni facoltà di interlocuzione all’interno della Salini Costruttori s.p.a.

Sul punto, pertanto, la sentenza merita di essere confermata.

(Omissis).

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SOMMARIO:

1. Il caso - 2. La normativa di riferimento - 3.  La posizione di dottrina e giurisprudenza - 4. Il commento - NOTE


1. Il caso

In una società per azioni, partecipata da altre società di capitali, si rendeva necessaria la deliberazione dell’as­sem­blea per adeguare lo statuto alle nuove regole previste dalla riforma del diritto societario. L’as­sem­blea, fissata in prima convocazione il 29 settembre 2004, non aveva raggiunto il prescritto quorum costitutivo, a causa dell’assenza del socio di maggioranza (relativa). Riu­nitasi l’assemblea in seconda convocazione, il 30 settembre 2004 – data ultima per l’adeguamento dello statuto ex art. 223-bis disp. att. e trans. c.c. [1] – il socio di minoranza (relativa), presente per delega, chiedeva il rinvio dell’assemblea ai sensi dell’art. 2374 c.c., a cinque o in subordine a tre giorni [2], lamentando di non essere sufficientemente informato sugli argomenti posti all’ordine del giorno. Tuttavia, il presidente dell’assemblea, affermata l’urgenza della deliberazione, dichiarava la disponibilità a concedere tempo entro e non oltre la mezzanotte dello stesso giorno. Reiterata, da parte del socio, la richiesta di rinviare l’adunanza a cinque e comunque a non meno di tre giorni, la stessa veniva rigettata in quanto ritenuta pretestuosa e sospinta da intenti ostruzionistici. Si procedeva, quindi, alla votazione e la delibera – contrariamente votata dal socio di minoranza – veniva considerata approvata in relazione alla maggioranza agevolata prevista dall’art. 223-bis disp. att. e trans. c.c. [3]. La delibera veniva quindi impugnata, per una serie di altri motivi, tra cui la violazione dell’art. 2374 c.c. Il Tribunale di Roma, chiamato a pronunziarsi in primo grado, procedeva ad annullare parzialmente la delibera, rigettando, però, la censura relativa al mancato rinvio dell’assemblea. La sentenza di primo grado veniva riformata da quella in epigrafe che, invece, ribadendo l’orientamento già espresso in alcuni precedenti, ha affermato i principi enunciati nelle massime e cioè, che il diritto di cui all’art. 2374 c.c. si configura come diritto potestativo a chiedere ed ottenere il rinvio dell’assemblea, quando la conoscenza degli argomenti posti all’ordine del giorno non sia sufficiente affinché i soci possano e­sprimere il proprio voto consapevolmente, non già come proposta di rinvio [continua ..]


2. La normativa di riferimento

Il rinvio dell’assemblea regolarmente con­­vocata è disciplinato dall’art. 2374 c.c., per il quale «1. I soci intervenuti che riuniscono un terzo del capitale rappresentato nel­l’as­semblea, se dichiarano di non essere sufficientemente informati sugli oggetti posti in deliberazione, possono chiedere che l’as­semblea sia rinviata a non oltre cinque gior­ni. 2. Questo diritto non può esercitarsi che una sola volta per lo stesso oggetto». La norma era identicamente formulata anche prima della Riforma del 2003, salvo che in precedenza il termine era di tre anziché di cinque giorni. Al caso di specie risultava applicabile la disposizione riformata. La norma di diritto transitorio relativa alla maggioranza assembleare è l’art. 223-bis disp. att. trans. c.c., il quale dispone che: «Le società di cui ai capi V, VI e VII del titolo V del libro V, del codice civile, iscritte nel registro delle imprese alla data del 1 gennaio 2004, devono uniformare l’atto costitutivo e lo statuto alle nuove disposizioni inderogabili entro il 30 settembre 2004». Il 3° comma del medesimo articolo prevede che «le deliberazioni dell’assemblea straor­dinaria di mero adattamento dell’atto costitutivo e dello statuto alle nuove disposizioni inderogabili possono essere assunte, entro il termine di cui al 1° comma, a maggioranza semplice qualunque sia la parte di capitale rappresentata in assemblea. Con la medesima maggioranza ed entro il medesimo ter­mine possono essere assunte le deliberazioni dell’assemblea straordinaria aventi ad oggetto l’introduzione nello statuto di clausole che escludono l’applicazione di nuove disposizioni di legge, derogabili con specifica clausola statutaria; fino alla avvenuta adozione della modifica statutaria e comunque non oltre il 30 settembre 2004, per tali società resta in vigore la relativa disciplina statutaria e di legge vigente alla data del 31 dicembre 2003».


3.  La posizione di dottrina e giurisprudenza

Può essere utile ricordare che il diritto di chiedere il rinvio dell’assemblea [4] spetta ai soci intervenuti [5] che riuniscono un terzo del capitale rappresentato in assemblea [6], se dichiarano di non essere sufficientemente in­formati sugli oggetti posti in deliberazione. Sebbene la norma si esprima in termini di «soci che riuniscono …», tale diritto spetta pacificamente anche ad un solo socio, purché sia rispettato il requisito del possesso minimo del terzo del capitale rappresentato in assemblea [7]. L’art. 2374 c.c. non prevede requisiti di forma per la richiesta di rinvio e anzi nulla dispone al riguardo. Per questa ragione, deve ritenersi applicabile il principio della libera forma degli atti [8]: è piuttosto frequente, infatti, che la richiesta sia fatta oralmente durante l’assemblea [9]. Invero, la norma è laconica, ma non per questo oscura. La dottrina maggioritaria [10] e l’orientamento consolidato e costante della giurisprudenza [11] ritengono, infatti, che la stessa debba essere interpretata nel senso che, integrate le condizioni richieste dalla legge, all’esercizio del diritto corrisponda senz’altro la soggezione del presidente del­l’as­semblea a concedere il rinvio richiesto [12]. Il diritto ex art. 2374 c.c. assume così i connotati del diritto potestativo, esercitabile per la tutela dell’interesse al differimento dei lavori assembleari, sul presupposto della (meramente affermata) mancanza di informazioni e, dunque, con l’obiettivo implicito di consentirne l’approvvi­gio­na­mento: questo interesse, anche se meramente affermato, è destinato in ogni caso a prevalere su quello, evidentemente contrapposto, dell’assemblea e (eventualmente) del suo presidente ad assumere immediatamente la deliberazione [13]. Ne consegue che – sempre secondo l’opi­nio­ne assolutamente dominante [14] – non ci sono margini di discrezionalità sulla richiesta di rinvio, non solo da parte del presidente dell’assemblea, ma neanche da parte del­l’organo assembleare che, non potendo essere investito di una deliberazione al riguardo, deve limitarsi a prendere atto della prosecuzione dei lavori assembleari ad una nuova data [15]. Ciò, in quanto, rimettere ad un [continua ..]


4. Il commento

Il caso sotteso alla pronuncia in epigrafe offre argomenti per una breve ulteriore riflessione sul significato della norma. Come era nel diritto della maggioranza relativa fissare l’assemblea l’ultimo giorno utile, così era nel diritto della minoranza quello di chiederne il rinvio, allegando, ma non anche dovendo dimostrare, la carenza informativa [22]. Tuttavia, dalle circostanze di fatto che emergono dalla sentenza appare evidente che l’organo amministrativo della società non aveva alcuna particolare ragione per fissare l’assemblea ad immediato ridosso del termine finale previsto dall’art. 223-bis disp. att. trans. c.c., se non quella di mettere la minoranza di fronte ad una (ingiustificata) situazione di emergenza, o addirittura davanti al fatto compiuto; dall’altra parte, quest’ultima ha individuato un efficace, ma (forse) altrettanto malizioso, strumento di reazione, posto che per ottenere il rinvio dell’assemblea basta dichiararsi disinformati, senza che occorra fornirne prova. Questi rilievi non possono non far riflettere ulteriormente: sarebbe infatti singolare che l’ordinamento assecondasse abusi, sol perché li ha prefigurati come possibili. E allora, se è verosimile che la norma dell’art. 2374 c.c. sia stata coniata tenendo espressamente conto di possibili strumentalizzazioni, sia da parte della maggioranza o del presidente dell’assemblea, sia da parte della minoranza, resta tuttavia da chiedersi se l’accertamento in concreto dell’abuso sia giuridicamente irrilevante o se non lo sia: e, nel secondo caso, quali conseguenze abbia. Si ponga il caso – che non è quello di specie, dato che la minoranza (ove pure avesse strumentalizzato il proprio diritto di chiedere il rinvio) lo ha fatto in una situazione di falsa emergenza creata ad hoc dalla maggioranza – di un azionista di minoranza che, per mero disturbo all’azione dell’orga­no amministrativo e dei soci di maggioranza, eserciti sistematicamente il diritto di rinvio, dichiarandosi non sufficientemente informato sulle materie all’ordine del giorno, al solo scopo di far sì che l’assemblea debba riunirsi una volta in più, con i connessi costi organizzativi. Si può al riguardo chiedere se il presidente dell’assemblea o l’assemblea stessa possano respingere la richiesta di rinvio. Dati il [continua ..]


NOTE