Rivista di Diritto SocietarioISSN 1972-9243 / EISSN 2421-7166
G. Giappichelli Editore

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Cass., 21 gennaio 2016, n. 1095 (della sentenza che qui si pubblica offrono commento e traggono spunto i saggi di G. Ferri jr. e A. Tucci della Parte I)


CASSAZIONE CIVILE, SEZ. I, 21 gennaio 2016, n. 1095 – Ceccherini Presidente – Nazzicone Relatore

Società di capitali – Partecipazione di società a responsabilità limitata in società di fatto insolvente assunta in mancanza di previa deliberazione assembleare e successiva indicazione in nota integrativa – Fallibilità

(Artt. 2361 e 2384 c.c.; art. 147 l. fall.)

Una società di capitali, la quale abbia esercitato una impresa operando in società di fatto con altri, non può in seguito sottrarsi alle relative conseguenze (in particolare il fallimento ex art. 147 l. fall.) in forza di una violazione di legge perpetrata dai suoi amministratori (nel caso di specie l’assunzione di partecipazione in società di fatto insolvente, da parte di s.r.l., avvenuta in violazione delle prescrizioni di cui all’art. 2361, co. 2, c.c.). La predetta violazione giustifica l’e­sperimento dei rimedi previsti dall’ordinamento (azioni di responsabilità, revoca, denunzia al tribunale), ma non rende essa stessa invalido l’atto compiuto o inefficace l’attività imprenditoriale di fatto svolta. Sarebbe infatti assai semplice, per gli amministratori della società, aggirare le norme sulla responsabilità patri­moniale e quelle a ciò collegate invocando la mancata autorizzazione in caso di risultati negativi e, invece, beneficiare degli effetti favorevoli di quella partecipa­zione. Occorre invece considerare che lo svolgimento di un’attività economica comune con altra società, di capitali o di persone, o con una persona fisica è fatto ormai avvenuto, condividendo esso la natura materiale ed empirica dell’attivi­tà d’impresa, per il c.d. principio di effettività (1)*.

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CECCHERINI Aldo – Presidente –

Dott. NAPPI Aniello – Consigliere –

Dott. BERNABAI Renato – Consigliere –

Dott. DE CHIARA Carlo – Consigliere –

Dott. NAZZICONE Loredana – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

* Della sentenza che qui si pubblica offrono commento e traggono spunto i saggi di G. Ferri jr. e A. Tucci della Parte I.

sentenza

sul ricorso 3315-2013 proposto da:

DALOISO PRODUCE S.R.L. (P.I. (OMISSIS)), DALOISO TRADE S.R.L. (P.I. (OMISSIS)), in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, elettivamente domiciliate in ROMA, LUNGOTEVERE DELLA VITTORIA 5, presso l’avvocato ARIETA GIOVANNI, rappresentate e difese dagli avvocati TRISORIO LIUZZI GIUSEPPE, SAVASTA MAURIZIO, giusta procure in calce al ricorso;

– ricorrenti –

contro

CURATELA DEL FALLIMENTO DELLA S.D.F. COSTITUITA DA DALOISO IMPORT EXPORT S.R.L., DALOISO TRADE S.R.L. e DALOISO PRODUCE S.R.L., NONCHÉ IN ESTENSIONE DEI SOCI ILLIMITATAMENTE RESPONSABILI DALOISO TRADE S.R.L. E DOLOISO PRODUCE S.R.L., in persona del Curatore avv. G.T., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA FLAMINIA 962, presso l’avvocato DELL’ORCO BARTOLOMEO, che la rappresenta e difende, giusta procura a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1611/2012 della CORTE D’APPELLO di BARI, depositata il 31/12/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 27/11/2015 dal Consigliere Dott. LOREDANA NAZZICONE;

udito, per le ricorrenti, l’Avvocato G. TRISORIO LIUZZI che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;

udito, per la controricorrente, l’Avvocato B. DELL’ORCO che ha chiesto il rigetto del ricorso;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SOLDI Anna Maria che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Il Tribunale di Foggia con sentenza del 23 marzo 2012 dichiarò il fallimento della Daloiso Import Export s.r.l., e, quindi, della società di fatto, riconosciuta insolvente, esistente tra detta società a responsabilità limitata, la Daloiso Trade s.r.l. e la Daloiso Produce s.r.l., provvedendo, infine, a dichiarare il fallimento in estensione del­le due socie illimitatamente responsabili.

La Corte d’appello di Bari con sentenza del 31 dicembre 2012 ha, respinto il reclamo.

La corte territoriale ha ritenuto che il nuovo testo dell’art. 2361 c.c. e art. 111 duodecies att. c.c. abbia risolto la questione dell’ammissibilità della parte­cipazione di società di capitali a società di persone.

Tuttavia, la prima norma, dettata in tema di s.p.a., non è estensibile, quanto alle prescrizioni in essa contenute, anche alla s.r.l., per le quali la partecipazione in esame costituisce atto gestorio proprio degli amministratori, qualora non comporti la modificazione dell’oggetto sociale, a nor­ma dell’art. 2479 c.c., comma 2, n. 5.

Pur ove la norma fosse applicabile, del resto, la deliberazione assembleare, nel contesto del­l’art. 2361 c.c., mira a rimuovere un limite ai po­teri gestori all’unico fine di esonerare gli amministratori da responsabilità sociale, mentre l’as­sun­zione della partecipazione resta valida ed efficace, come in altre fattispecie ove è richiesta la previa deliberazione assembleare (azioni proprie o della controllante); l’indicazione nella nota integrativa, dal suo canto, è posta a tutela dei soli creditori della società di capitali, avendo i soci altri strumenti a disposizione, di carattere preven­tivo e sanzionatorio.

La sottrazione a fallimento, invece, costituirebbe un privilegio discendente da un’omissione e non sarebbe ragionevole, nel bilanciamento degli interessi dei creditori della società di capitali e di quelli della società di fatto che sull’unicità del centro d’imputazione abbiano confidato, preferire i primi, posto che la deliberazione autorizzativa non è soggetta a pubblicità (così come non ricevono alcuna tutela i creditori del socio occulto di società palese).

Ne deriva che, in caso di fallimento della società di persone, la società di capitali dovrà essere dichiarata fallita.

Nella specie, ha osservato la corte territoriale che non si tratta del fallimento in estensione da società di capitali ad altra società di capitali, avendo invece correttamente il tribunale dichiarato il fallimento della società di fatto, riconoscendone prima l’esistenza e poi l’insolvenza, e, quindi, in applicazione dell’art. 147, comma 1, L. Fall., dichiarato il fallimento di ciascun socio della società di fatto medesima.

Gli elementi raccolti, infine, secondo la sentenza impugnata, confermano la prova piena della sussistenza del vincolo sociale e dell’in­solvenza della società di fatto, esistendo plurimi indizi della sussistenza di un’unica struttura economica associativa e dei presupposti della fallibilità; quanto alle altre s.r.l., il fallimento può essere dichiarato in estensione di quello della società di fatto.

Avverso questa sentenza propongono ricorso la Daloiso Trade s.r.l. e la Daloiso Produce s.r.l., affidato ad un motivo. Resiste la curatela con controricorso. Le parti hanno depositando pure le memorie di cui all’art. 378 c.p.c.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

  1. – Con l’unico motivo, le ricorrenti denunziano la violazione o la falsa applicazione degli artt. 2361, 2384 e 2479 c.c. e dell’art. 147 L. Fall., in quanto l’acquisto della partecipazione, da parte di una società di capitali, in una società di persone è di competenza esclusiva dell’as­semblea, quale limite legale ai poteri gestori e di rappresentanza degli amministratori, onde esso deve essere necessariamente espresso, restando inefficace ove compiuto senza le condizioni previste dall’art. 2361 c.c.

In sostanza, è inammissibile la società di fatto tra società di capitali, essendo consentita solo quella in società regolare, con disposizione applicabile in via diretta alla s.r.l., per la quale l’art. 2479 c.c., da leggere alla luce dell’art. 2361, palesa come vi sia un’area inderogabile di competenze dei soci, fra cui è senz’altro da ricondurre l’assun­zione della partecipazione in discorso. Ciò, a tutela dei soci e dei creditori di società di capitali, che vedrebbero la propria società assumere, a loro insaputa, lo status di soggetto fallibile per in assenza di insolvenza, come avviene per il fallimento in estensione ai sensi dell’art. 147, comma 4, L. Fall.

Né l’estensione del fallimento iniziale di una società di capitali ad una presunta società di fatto potrebbe fondarsi sull’art. 147, comma 5, L. Fall., norma eccezionale e riferibile solo all’ini­ziale fallimento di un imprenditore individuale.

 

  1. – Il complesso motivo proposto pone la questione relativa alla fallibilità di una società di capitali, nella specie società a responsabilità limitata, che si accerti essere socia di una società di fatto insolvente, allorché la partecipazione sia stata assunta in mancanza della previa deliberazione assembleare e della successiva indicazione nella nota integrativa al bilancio, richieste dal­l’art. 2361 c.c., comma 2.

Tale riassuntiva questione ne contiene, quali necessari passaggi logico-giuridici, diverse:

1) se sia ammissibile la partecipazione di una società di capitali, nella specie s.r.l., ad una società personale;

2) quale sia il contenuto precettivo dell’art. 2361 c.c., comma 2, in ordine alle prescrizioni, ivi contenute, sulla previa deliberazione assembleare e sulla indicazione della partecipazione nella nota integrativa al bilancio, ed agli effetti dell’inottemperanza;

3) se le prescrizioni di cui all’art. 2361 c.c., comma 2, trovino applicazione anche alle s.r.l.;

4) l’estensibilità del fallimento della società di fatto alla società di capitali, nella specie s.r.l., quale socia illimitatamente responsabile.

  1. – La prima questione è unanimemente reputata risolta in senso affermativo, per tutte le società di capitali, dalla riforma societaria del 2003, con gli art. 2361 c.c. e art. 111 duodecies att. c.c., richiamati pure dalla sentenza impugnata; onde su di essa non occorre oltre soffermarsi
  2. – Essendosi il dibattito processuale tra le parti interamente svolto con riguardo all’inter­pre­tazione dell’art. 2361 c.c., comma 2, – norma introdotta dalla riforma del 2003 – si rende opportuno esaminarne la portata precettiva all’in­terno del sistema della s.p.a., prima di valutare la sua applicabilità alla s.r.l.

Nella menzionata disposizione, la “partecipazione in altre imprese” non (necessariamente) sna­tura l’oggetto (come invece è previsto dal comma 1), ma implica il sorgere della responsabilità illimitata in capo alla società di capitali che ne sia diventata socia.

Si tratta, dunque, di una partecipazione in società personale, anche di fatto, posto che anche quest’ultima è caratterizzata dal regime desunto dall’art. 2297 c.c., e quindi dall’art. 2291 c.c., con la responsabilità illimitata e solidale di tutti i soci.

In “tal caso, però, il legislatore, a differenza che nel comma 1 – che preesisteva alla riforma del diritto societario (salva la sostituzione della parola “atto costitutivo” con “statuto”) e che è precetto imperative preclusivo della partecipazione della società per azioni anche in altra società di capitali “rivolto ad evitare modificazioni tacite e informali dell’oggetto sociale” (così Cass., sez. un., 17 ottobre 1988, n. 5636) – non ha posto una norma di divieto.

Il legislatore, invero, si è qui limitato a prevedere solo due adempimenti formali: che l’as­sunzione della partecipazione sia “deliberata dall’assemblea” e che riceva una “specifica informazione nella nota integrativa del bilancio”.

Le due condizioni potrebbero non sussistere, anche disgiuntamente l’una dall’altra: come quan­do gli amministratori, senza affatto chiamare i soci a decidere, acquisiscano la detta partecipazione o senz’altro svolgano in concreto attività d’impresa con altri soggetti, individuali o collettivi, mediante una c.d. società di fatto; e, in aggiunta o indipendentemente dal primo inadempimento, omettano di rendere la dovuta informazione in bilancio.

Reputa il Collegio che simili evenienze lascino sussistere una valida ed efficace assunzione della partecipazione, sia essa formale o sostanziale, nell’altra impresa sul mercato, a tale conclusione inducendo plurime considerazioni.

4.1. – Nessuna disposizione sancisce il divieto di assumere la partecipazione in una società che preveda la responsabilità illimitata della società azionaria esistendo, al contrario, una norma di permesso – né commina al riguardo, ai sensi del­­l’art. 1418 c.c., comma 3, la nullità della partecipazione stessa, sol perché manchi la previa deliberazione assembleare o l’indicazione nella nota integrativa; quanto all’inadempimento degli amministratori a detto obbligo di darne notizia nella nota integrativa al bilancio, ancor più dubbio è che da ciò possa derivare, quale adempimento successivo all’assunzione della partecipazione ed in mancanza di espressa previsione contraria, tale conseguenza.

Il legislatore della riforma, invero, aveva di fronte il chiaro testo di divieto previsto al preesistente art. 2361 c.c., comma 1, (“non è consentita”), che ben avrebbe potuto mutuare nella sua struttura: ma ha dettato una disposizione abilitativa costruita all’inverso.

Giova inoltre ricordare come la più rilevante pronuncia di legittimità, la quale aveva definitivamente espunto dall’ordinamento, quale diritto vivente, l’ammissibilità della partecipazione di società di capitali in società di persone (cfr. la citata Cass. n. 5636 del 1988), reputasse fra tutti decisivo, nel senso dell’illiceità, l’argomento del “contrasto che, nell’amministrazione del nuovo ed abnorme ente sociale verrebbe a determinarsi con la normativa dettata per la società azionaria, dove la legge riserva inderogabilmente agli amministratori la gestione del patrimonio sociale, mentre, ammettendosi la partecipazione ad una società di persone e a fortiori di fatto, priva di ogni garanzia di pubblicità, il patrimonio verrebbe fatalmente gestito, almeno in parte, da soggetti diversi, e, quindi, sottratto ai controlli predisposti per l’ammi­nistrazione della società di capitali”.

Tale perplessità è stata evidentemente superata dal legislatore della riforma, quando ha contemplato espressamente la fattispecie; pur avendo, poi, richiesto la deliberazione assembleare, l’indicazione in nota integrativa e la redazione anche da parte della società personale del bilancio secondo i criteri previsti per le società per azioni, oltre al bilancio consolidato in presenza dei presupposti di legge.

Invece, assai poco rilevanti, dalla sentenza citata e dal legislatore del 2003, sono stati ritenuti gli altri argomenti tradizionalmente addotti contro l’ammissibilità della partecipazione, quali la pretesa inconfigurabilità di un intuitus personae e il fatto che i soci della società di capitali finirebbero per gestire la società personale senza esporsi a responsabilità illimitata.

Se, dunque, la preoccupazione da fugare era quella di una finale gestione extrasociale del patrimonio sociale da parte di soggetti che non sono gli amministratori della società per azioni, con il venir meno dei vincoli e dei controlli che li disciplinano, il legislatore della riforma vi ha fatto fronte: mediante la previsione della sottoposizione ai soci della proposta, che deve essere portata a loro conoscenza e formare oggetto di discussione (la deliberazione assembleare); la trasparenza nel bilancio della s.p.a. (con la nota integrativa); l’imposizione degli stessi vincoli contabili (la redazione del bilancio di esercizio e del bilancio consolidato).

Tutto ciò a tutela soprattutto dei soci, e poi anche dei terzi che entrano in contatto con le società partecipante e partecipata: ma pur sempre secondo un’opzione legislativa pianamente favorevole alla figura, espressione di autonomia imprenditoriale: favor palesato anche dalla mancanza di una norma di divieto o che ne sancisca la nullità in assenza delle descritte cautele; le quali, già per tale aspetto, non paiono perciò co­stituirne condizioni di validità o di efficacia.

4.2. – È vero, peraltro, che la c.d. nullità virtuale, di cui all’art. 1418 c.c., comma 1, non è necessario sia comminata espressamente dalla legge; dunque occorre svolgere ulteriori argomenti.

La previsione di cui all’art. 2361 c.c., comma 2, come tutti gli interpreti concordano, è posta soprattutto a tutela dei soci nella sua prima parte ed anche dei creditori, quanto all’indicazione in bilancio.

Oltre a non porre una norma di divieto – nel difetto dell’autorizzazione assembleare – di acquisire la partecipazione stessa, il legislatore pare qui essenzialmente tutelare gli interessi particolari dei soci.

Ma, ove pure si ritenesse la previsione dettata nell’interesse generale, tuttavia ciò non basterebbe a dimostrare che la sua violazione comporti la nullità dell’assunzione della partecipazione stessa, posto che la nullità per contrarietà a norme imperative ex art. 1418 c.c., comma 1, “postula violazioni attinenti ad elementi intrinseci della fattispecie negoziale, relativi alla struttura o al contenuto del contratto” (cfr., per tutti, Cass., sez. un., 19 dicembre 2007, n. 26724): come non è nel caso in questione, in cui invece la partecipazione è di principio ammessa.

La natura e la valenza della deliberazione assembleare nell’ambito della fattispecie destinata a concludersi con l’assunzione della partecipazione comportante responsabilità illimitata in capo alla socia (fondatrice o nuova) per le obbligazioni sociali, in definitiva, deve essere ricostruita alla stregua del complessivo sistema della società per azioni.

4.3. – Per l’art. 2384 c.c., agli amministratori è attribuito un potere di rappresentanza generale e le limitazioni ai loro poteri che risultano dallo statuto o da una decisione degli organi competenti non sono opponibili ai terzi, anche se pubblicate, salvo che si provi che questi abbiano intenzionalmente agito a danno della società.

L’art. 2380-bis c.c., dal suo canto, precisa che gli amministratori compiono le operazioni necessarie per l’attuazione dell’oggetto sociale; dunque, sussiste il potere degli amministratori di attuare l’oggetto programmato sotto ogni aspetto, ma anche al di fuori dell’oggetto essi sono in grado di impegnare la società.

Tale regime regola lo speciale sottosistema del diritto delle società (si veda infatti pure l’art. 2475-ter c.c., di cui oltre), in rilevante difformità dalla disciplina comune dell’art. 1398 c.c. e dalla stessa disposizione generale sull’opponibilità degli atti societari, derivante dall’art. 2193 c.c.

Il legislatore del 2003 ha inteso, anzi, modificare il regime dell’opponibilità dei limiti ai poteri dell’organo amministrativo nei confronti dei terzi in senso ancor più restrittivo rispetto al testo previgente, pur sempre nell’ambito delle prescrizioni della direttiva CEE n. 151 del 9 marzo 1968 (c.d. prima direttiva in tema di società), che agli art. 7-9 ha regolato la materia, ora “codificata” nella direttiva 2009/101/CE, artt. 8-10.

Come è noto, nella sezione “Validità degli obblighi della società”, l’art. 9 della dir. 68/151/CEE affermava che “(a)nche se pubblicate, le limitazioni dei poteri degli organi sociali che risultano dallo statuto o da una decisione degli organi competenti non sono opponibili ai terzi”, e che “(g)li atti compiuti dagli organi sociali obbligano la società nei confronti dei terzi, anche quando tali atti sono estranei all’oggetto sociale, a meno che eccedano i poteri che la legge conferisce o consente di conferire ai predetti organi”. La norma è passata invariata nell’art. 10 della direttiva codificata.

Riprendendo analoga premessa della prima direttiva, i considerando 2 e 9 della direttiva codificata, inoltre, sottolineano l’“importanza particolare, soprattutto in ordine alla tutela degli interessi dei terzi”, del coordinamento delle disposizioni nazionali, uniformità che “dovrebbe essere assicurata mediante disposizioni che limitino, per quanto possibile, le cause di invalidità delle obbligazioni assunte in nome della società”.

La riforma del 2003 ha abrogato il vecchio art. 2384-bis c.c., uniformando per tutti i casi il regi­me nel senso della regola generale della inopponibilità, proprio riprendendo l’espressione om­ni­comprensiva della direttiva, e facendo salva uni­camente l’exceptio doli; il tutto con la premessa, densa di significato, che “il potere di rappresentanza attribuito agli amministratori dallo statuto o dalla deliberazione di nomina è generale”.

Si noti che l’opzione permessa (secondo cui gli Stati potrebbero stabilire che la società non sia obbligata quando il terzo sapeva che l’atto superava i limiti dell’oggetto o non poteva ignorarlo) non è stata operata dal legislatore della riforma, a sottolineare l’intento di maggiore certezza per i terzi.

L’ambito stesso dell’agire gestorio in funzione del raggiungimento dell’oggetto programmato, con­templato nell’atto costitutivo e presidiato da numerose e stringenti regole (si pensi alle numerose cautele che sempre circondano per legge la scelta dell’oggetto sociale, la sua liceità, le sue modificazioni e il suo raggiungimento: art. 2247; art. 2295, n. 5, 2328, comma 2, n. 3, 2521, comma 3, n. 3; art. 2332; art. 2369; art. 2379, comma 1, ultima parte e art. 2479-ter, comma 3; art. 2436; art. 2437, 2473 e 2497– quater, con varie distinzioni; art. 2271, n. 2, e art. 2484, n. 2; tutti gli oggetti riservati a società di dati tipi e caratteristiche; le disposizioni sugli oggetti sociali esclusivi; etc.), così, resta di regola inopponibile ai terzi.

Ne deriva che, attesa la ricordata disposizione della direttiva, va valorizzato l’accento ivi posto sull’eccesso dai poteri agli amministratori conferiti per legge ed anche da quelli che essa “consente di conferire” loro: proprio i casi, come quello in esame, in cui l’assemblea è chiamata ad assumere la decisione preliminare (ma lo stesso ove fosse richiesta la previa deliberazione consiliare).

In questa prospettiva, che legge l’art. 2384 c.c. secondo il senso fatto palese dal significato proprio delle parole e dall’intenzione del legislatore (art. 12 preleggi, comma 1) e non trascura la lettera e la ratio della norma primaria comunitaria, il riferimento alle limitazioni per gli atti conclusi in nome della società senza una previa decisione degli organi competenti può intendersi non solo con riguardo alla fonte della limitazione dei poteri degli amministratori, nel senso che essa sia richiesta ad iniziativa (per quanto ora interessa) dell’assemblea, ma anche con riferimento alla previa deliberazione assembleare tout court, pur quando l’assunzione della stessa fosse (come nel caso in esame) richiesta da fonte legale.

Ciò, in coerenza con il favor generale della riforma, tracciato dalla legge di delega, per la tutela del mercato, la stabilità dell’agire societario e la certezza dei traffici, nell’intento di incentivare il reperimento di capitale di rischio e di credito verso gli organismi societari.

Si ricordi pure come, secondo l’interpre­ta­zione estensiva dell’art. 2384 c.c. già espressa da questa Corte nel testo previgente (Cass. 7 febbraio 2000, n. 1325) e ribadita dopo la riforma (Cass. 4 settembre 2007, n. 18574; 26 gennaio 2006, n. 1525), la norma va applicata altresì alle ipotesi di dissociazione del potere rappresentativo dal potere di gestione: anche l’eventuale rilevanza esterna di tale dissociazione, così come le limitazioni al potere rappresentativo derivanti dallo statuto, si porrebbe in contrasto con la finalità perseguita dal legislatore, “minando alla base ogni possibilità di garantire ai terzi la necessaria sicurezza in ordine alla validità degli atti compiuti dall’organo che ha formalmente la rappresentanza della società” (così Cass. n. 18574 del 2007, cit.).

Come questa Corte ha osservato (Cass. n. 1525 del 2006, cit.), in tal modo “il rischio delle violazioni commesse dagli amministratori, mediante il compimento di atti eccedenti i poteri loro conferiti, è stato trasferito sulla società, offrendo ai terzi la sicurezza che essa avrebbe fatto fronte agli atti posti in essere, nel suo nome, dagli amministratori, anche se in violazione dei limiti posti”, principio “che, come non si è mancato di rilevare, lungi dal penalizzare le società, consente una più intensa valorizzazione delle loro potenzialità, eliminando una possibile remora alla instaurazione di rapporti con esse”.

La riserva posta dall’art. 2384 c.c., comma 2 post riforma rappresenta un rimedio diretto ad evitare che il terzo possa abusare della tutela offertagli dal principio dell’inopponibilità, attribuendo alla società una vera e propria exceptio doli, volta a garantire che la regola del contenuto inderogabile della rappresentanza non sia utilizzata per finalità contrastanti con gli interessi tipici che il legislatore ha inteso tutelare.

In sostanza, qui la soluzione prescelta per la tutela dei terzi, come gli interpreti hanno osservato, non utilizza il criterio della tutela dell’affi­da­mento incolpevole, ma è più radicale, ricorrendo il legislatore ad un’astrazione del potere di rappresentanza dal sottostante potere di gestione.

4.4. – Sul piano definitorio, può parlarsi di autorizzazione (sulla falsariga della previsione generale di cui all’art. 2364 c.c., comma 2, n. 5), quale atto che integra poteri già esistenti in capo all’organo amministrativo; ma ciò potrebbe non risolvere ancora la questione, posto che non dice se essa, nel diritto privato societario, costituisca una condizione di efficacia dell’atto dell’organo autorizzato opponibile a chiunque, o se abbia solo una valenza organizzativa interna: fine al quale provvede allora il ricordato art. 2384 c.c.

Previsioni analoghe, le quali richiedono la previa autorizzazione assembleare per il compimento di un atto degli amministratori, sono peraltro dalla legge configurate nel senso di non attribuire all’assemblea il potere gestorio e della loro efficacia puramente interna.

Così è l’art. 2343-bis c.c., che sanziona l’ac­quisto dei beni dei promotori, soci o amministratori, privo della necessaria autorizzazione assembleare, con la responsabilità, fra di loro solidale, dell’organo amministrativo e del dante causa per i danni cagionati a società, soci e terzi.

Per gli artt. 2357, 2359-bis e 2359-ter c.c. e art. 121 t.u.f., l’acquisto di azioni proprie o della controllante contro i divieti di legge comporta unicamente l’obbligo dell’alienazione, o in subordine di annullamento delle azioni.

L’art. 2390 c.c., dal suo canto, si segnala per la preminenza di un’attività materiale nella sua fattispecie, proprio come nel caso di partecipazione a società personale di fatto; peraltro, qui si tratta di attività compiuta dall’amministratore nell’am­bito della sua sfera giuridica. L’autorizzazione del­l’assemblea, in tal caso e come si evince dal comma 2, è dichiaratamente mera condizione di esonero da responsabilità sociale e dalle altre conseguenze, impedendo di qualificare la condotta del medesimo come inadempimento.

L’esplicita disposizione, che rimette all’assem­blea dei soci la decisione su alcuni atti di amministrazione – art. 2364 c.c., comma 1, n. 5, – non implica il trasferimento dei poteri gestori in capo al­l’assemblea, né la valenza invalidante, o condizionante l’efficacia, dell’autorizzazione assembleare, la cui mancanza si riflette unicamente nei rapporti interni. In quei casi, il socio concorre alla formazio­ne di una decisione gestoria, che resta pur sempre propria degli amministratori. Anche per le materie sottoposte all’assemblea dei soci deve, quindi, ritenersi che il potere gestorio e rappresentativo permanga in capo agli amministratori. La pronuncia assembleare lascia in capo agli amministratori il po­tere-dovere di valutare essi stessi l’operazione e la sua conformità all’interesse sociale. Proprio questo è stato l’intento del nuovo art. 2364 c.c.:

evidenziare l’”uscita” delle competenze degli azionisti dal governo dell’impresa sociale, affidata agli amministratori da loro scelti secondo le direttrici ed i valori che all’impresa i primi intendano imprimere.

Il sistema ordinamentale della società azionaria esclude, in via di principio, la nullità o l’i­nef­ficacia dell’atto negoziale compiuto dagli amministratori in violazione delle disposizioni sull’au­to­rizzazione assembleare, nelle fattispecie che la richiedano in occasione di determinati negozi: tutto ciò in coerenza con la scelta di fondo della riforma del 2003 in favore di una tutela di tipo obbligatorio, piuttosto che caducatoria.

4.5. – Nel bilanciamento fra gli interessi dei creditori e dei soci partecipanti alla società azionaria (e dei loro creditori) e quelli esistenti in capo ai creditori della società di fatto, non è contrario ai principi del diritto societario riformato che prevalgano questi ultimi, a tutela della sicurezza dei traffici, in coerenza con la storia del diritto dei commerci, più sensibile al dato fattuale ed alle esigenze di protezione dell’affidamento dei terzi.

Il soggetto che entra in contatto con la società personale, partecipata dalla società di capitali, non ha modo di verificare da pubblici registri la previa deliberazione assembleare, posto che di essa non è prevista l’iscrizione ex artt. 2193 e 2436 c.c. Dunque, il terzo sa solo, in caso di società registrata, che la controparte società personale è partecipata da una società di capitali, dato che potrà risultare dal registro delle imprese, ai sensi dell’art. 2300 c.c.; ove si tratti di mera società irregolare o di fatto, il terzo sa ciò che vede, ossia l’esistenza del rapporto di svolgimento in comune di attività economica, in ipotesi, tra persone fisiche e giuridiche.

Pertanto, coglie solo una frazione della situazione reale chi afferma che la deroga agli effetti della pubblicità legale ex art. 2193 c.c., posta dal­l’art. 2384 c.c. a tutela dell’affidamento dei terzi, non potrebbe sussistere per le limitazioni di natura legale in quanto queste sarebbero conoscibili da chiunque: ed invero, ciò che chiunque conosce è l’art. 2361 c.c., ossia una norma, per la quale solo potrebbe valere quindi il principio ignorantia legis non excusat (e si ricordi che perfino con riguardo al rigido disposto dell’art. 5 c.p. la Corte cost. 24 marzo 1988, n. 364 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della disposizione “nella parte in cui non esclude dall’ine­scu­sabilità dell’ignoranza della legge penale l’igno­ranza inevitabile”, ossia la buona fede con efficacia scusante; per l’art. 47 c.p., l’errore su una legge diversa dalla legge penale esclude la punibilità, quando ha cagionato un errore sul fatto che costituisce il reato); mentre ciò che dovrebbe essere oggetto di pubblicità-notizia ex art. 2193 c.c., perché possa valere la ricordata obiezione, è la deliberazione assembleare, ove esistente; laddove essa non è soggetta affatto ad iscrizione nel registro delle imprese.

La stessa omessa indicazione, nella nota integrativa, della partecipazione nella società personale –pur richiesta dal legislatore – non sarebbe, per i terzi, decisiva o suppletiva di un’apposita pubblicità legale della deliberazione autorizzativa: perché dall’omessa iscrizione (o pubblicità) di un evento non potrebbe trarsi la prova della sua inesistenza, ben potendo comunque sussistere la deliberazione assembleare, pur in assenza degli adempimenti contabili. Onde l’omessa informazione in bilancio potrebbe solo mettere il terzo sull’avviso, inducendo un indizio, ma non costituire una prova sicura della (perorata) inefficacia di quella partecipazione.

Né sembra possibile riversare sul terzo, sol perciò qualificandolo in stato di mala fede, l’one­re di esigere chiarimenti anche documentali circa l’esistenza della deliberazione assembleare di cui all’art. 2361 c.c., comma 2, dal cui inadempimento far derivare allora l’insussistenza della responsabilità della socia illimitatamente responsabile.

Ciò che vale, in definitiva, è il ricordato regime intra-societario dell’art. 2384 c.c.: le limitazioni al potere di rappresentanza degli amministratori non operano nei confronti dei terzi, salva la prova che essi abbiano intenzionalmente agito in danno della società: onde si “esclude sia la sussistenza di un onere del terzo di accertarsi preventivamente dell’esistenza di tali limitazioni, sia la rilevanza della mera conoscenza delle stesse da parte del terzo” (cfr. Cass. 6 febbraio 1993, n. 1506, nel confronto della passata locuzione “agire intenzionalmente in danno” con la diversa disciplina cambiaria ex art. 12 L. camb.). Il terzo deve poter confidare sull’ef­fi­cace spendita del nome della società da parte di chi ne abbia la rappresentanza, senza onere di accertare se, nel caso contingente, esistano i presupposti procedimentali “interni” previsti dalla legge: ciò in presenza di tutte quelle attività ed operazioni gestorie che gli amministratori, sia pure a certe condizioni (come appunto la previa deliberazione assembleare), potrebbero efficacemente realizzare con terzi. Il sistema normativo esclude che sul terzo gravi l’onere di attivarsi, in quanto è proprio al regime ordinario degli effetti della pubblicità degli atti societari che la direttiva 151/68/ CEE ha inteso derogare.

Infine, una tutela nient’affatto equivalente forniscono gli artt. 2497 c.c. e ss., pur richiamati da taluni in alternativa all’efficacia della partecipazione nella società personale, anche di fatto, non accompagnata dagli adempimenti di legge, trattandosi di mera responsabilità della capogruppo e solo in presenza di un abuso dell’attività di direzione e coordinamento: laddove, per lo più, nelle vicende concrete sussiste, all’opposto, proprio l’intento di collaborare e svolgere attività in comune.

Né va dimenticato che una tutela della quota di patrimonio conferita nella società personale può es­sere comunque ricercata nella disciplina di questa, sia nell’ambito delle norme sul potere di veto nel­l’amministrazione disgiuntiva (art. 2257 c.c.), sia in quelle sulla revoca dell’ammi­ni­stra­tore e l’esclu­sio­ne dei soci inadempienti (artt. 2259 e 2286 c.c.), sia nell’obbligo di rendiconto (art. 2261 c.c.).

Quanto all’interesse dei creditori della s.p.a. partecipante, che pure si voglia richiamare nel bilanciamento degli interessi coinvolti, per essi parimenti non è dato accertare l’esistenza della deliberazione dal registro delle imprese, onde tale adempimento non rileva ai fini della loro si­tuazione di affidamento; l’indicazione della partecipazione in società personale nella nota integrativa, invece, fornirebbe tale informazione, ma successiva all’assunzione di essa.

4.6. – Tutto quanto esposto va riferito anche alla partecipazione concreta della società azionaria in un’impresa esercitata da società di fatto.

La società di fatto si caratterizza per la mancanza di forme e formalità, pur essendo effettivo lo svolgimento di attività economica in comune, ossia l’impresa collettiva; questa poi, per definizione, consiste nel materiale e continuo esercizio di attività economica organizzata.

Si ricordino, al riguardo, le previsioni organizzative, economiche e materiali degli artt. 2247 e 2082 c.c., ma anche il rilievo che l’attività svolta in sé assume negli art. 2497 c.c., nell’art. 10, comma 2, L. Fall. od ai fini della giurisdizione in ipotesi di fittizio trasferimento all’estero, ove appunto rileva il luogo in cui sia effettivamente esercitata attività economica ed esista il centro del­l’attività direttiva, amministrativa ed organizzativa dell’impresa (e multis, Cass., sez. un., 11 marzo 2013, n. 5945).

Non sarebbe, dunque, giustificabile ammettere che la società di capitali, la quale abbia svolto attività d’impresa operando in società di fatto con altri, possa in seguito sottrarsi alle relative conseguenze proprio in forza di una violazione di legge perpetrata dai suoi amministratori. Se tale condotta di inadempimento è tale da giustificare i rimedi che l’or­dinamento rispetto a ciò predispone (azioni di responsabilità, revoca, denunzia al tribunale), non rende però, essa stessa, invalido l’atto compiuto o inefficace l’attività imprenditoriale di fatto svolta. Al potere di scegliere liberamente la persona che rivesta la carica di organo amministrativo vanno ricondotte, se si vuole, le conseguenze di un eventuale errore in capo alla società che lo abbia nominato.

Del resto, come si è osservato da molti, sarebbe assai semplice, per gli amministratori della società, aggirare le norme sulla responsabilità pa­trimoniale e quelle a ciò collegate, invocando la mancata autorizzazione in caso di risultati negativi e, invece, acquisire gli effetti favorevoli di quella partecipazione.

La verità è che lo svolgimento di un’attività economica comune con altra società, di capitali o di persone, o con una persona fisica è fatto or­mai avvenuto, condividendo esso la natura materiale ed empirica dell’attività d’impresa, per il c.d. principio di effettività.

PQM

La Corte rigetta il ricorso, compensando per intero le spese di lite.

Da atto che sussistono i presupposti per il raddoppio del versamento del contributo unificato, ai sensi del D.P.R. 30 maggio, n. 115, art. 13, comma 1 quater.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 27 novembre 2015.

Depositato in Cancelleria il 21 gennaio 2016