Rivista di Diritto SocietarioISSN 1972-9243 / EISSN 2421-7166
G. Giappichelli Editore

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Considerazioni sistematiche sulla c.d. supersocietà di fatto (di Fabrizio Guerrera)


The paper faces the issue of “piercing the corporate veil”, in case of insolvency of corporation (S.p.A. and S.r.l.) and fraudulent trading by directors of the company, especially when the capital assets are insufficient and the business activity is oriented to defraud creditors. In these cases a current of italian jurisprudence aims at a “substantive consolidation”, shaping a “de facto partnership” between the legal entity and the people who control or manage the company and extending in this way to several subjects the declaration of bankruptcy. The study criticizes the decisions of Italian Supreme Court from the point of view of corporate law, emphasizing the contadictions with the rules of Civil Code in the field of corporate liability and enterprise groups.

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SOMMARIO:

1. Premessa - 2. Problemi di qualificazione della figura - 3. Aspetti sistematici e tipologici - 4. Inammissibilità della c.d. supersocietà di fatto e irrilevanza della disciplina della nullità - 5. Incongruenza dei riferimenti alla disciplina dei gruppi - 6. La (controvertibile) estensione del fallimento della società di capitali ex art. 147, comma 5, legge fall. - 7. Conclusioni - NOTE


1. Premessa

Nell’accettare l’invito della Scuola a questo importante convegno non ho nascosto, per la verità, sin dal primo momento, il mio atteggiamento critico verso que­st’ul­tima creazione giurisprudenziale, che ci riporta indietro nel tempo a un dibattito – quello sulle forme di repressione dell’abuso della personalità giuridica e della tirannia societaria – che ha radici molto antiche; un dibattito che sembrava ormai sopito, anzi sepolto, dalle scelte legislative operate con la riforma delle società e con la riforma organica del fallimento. La giurisprudenza degli anni ’90 sulla fallibilità dell’impresa (individuale o s.d.f.) holding, dalla sentenza sul caso Caltagirone in poi, aveva rappresentato una risposta – anche quella invero molto controversa – proprio all’impossibilità di configurare un vincolo societario occulto o di fatto tra società di capitali e persone fisiche o società personali, al fine di estendere la responsabilità per i debiti della società di capitali insolvente a quelli che chiameremmo oggi “soci-imprenditori”, per lo meno nei casi più gravi di distrazione, appropriazione e confusione patrimoniale. Ma la dottrina era rimasta, per lo più, ferma sulla posizione della necessità di reagire a queste patologie con lo strumentario della responsabilità civile (e penale), senza manipolare la disciplina societaria e senza usare come sanzione impropria l’estensione del fallimento; e il legislatore aveva compiuto negli anni 2000 una precisa scelta di campo in tal senso. È per questo che, sommessamente, ritengo questo orientamento giurisprudenziale un (non giustificato, né opportuno) “ritorno al passato”, che pare criticabile – soprattutto – per ragioni di ordine sistematico.


2. Problemi di qualificazione della figura

L’assunzione “in via di fatto” di una partecipazione in una s.n.c. irregolare da parte di una s.p.a. o s.r.l. non pone tanto (o soltanto) un problema di gestione e di rappresentanza della società (non è solo un “affare” sia pure straordinario), né tanto meno di invalidità della società di persone, sorta in thesi dall’esercizio effettivo in comune dell’attività economica, bensì soprattutto di qualificazione giuridica e tipologica dell’attività esercitata, costituendo la s.n.c. irregolare – com’è noto – un modello organizzativo puramente “residuale”. Rispetto a questa prospettiva, squisitamente “societaria”, appare inappropriato il ricorso sia allo schema dell’interposizione reale di persona, sia a quello dell’uni­ficazione forzata dei centri soggettivi di direzione dell’attività imprenditoriale, tanto più in un sistema che legittima pienamente la persona fisica-holding e la società di persone-holding (regolare o irregolare). Ne danno ampia riprova, sia la disciplina dei gruppi di società e delle società unipersonali, sia l’evoluzione del concetto di “controllo congiunto” (alla luce del nesso tra gli artt. 2359, 2341-bis, lett. c) e 2497 e ss. c.c.), sia le varie possibili forme di direzione e coordinamento “contrattuale” delle società (cfr. art. 2497-septies c.c.) e di cooperazione negoziale tra le imprese. Quest’ultima creazione giurisprudenziale, infatti, non tiene conto né della tendenza del sistema alla “specializzazione” della responsabilità patrimoniale (patrimoni e finanziamenti destinati, SPV, NewCo, società unipersonali, ecc.), né della fenomenologia e del regime del controllo congiunto e dell’eterodirezione condivisa, né dell’esigenza di salvaguardare le forme di cooperazione contrattuale tra società indipendenti (consorzi, reti di imprese, joint-venture, ecc.), che sarebbero altrimenti gravemente minacciate dal rischio della “riqualificazione”. L’estensione del fallimento ai soggetti dominanti dell’impresa di gruppo, basata sulla loro veste di soci di fatto della “super-società”, appare [continua ..]


3. Aspetti sistematici e tipologici

Non può condividersi pertanto, delle sentenze in discussione, la svalutazione del metodo sistematico, e in particolare della prospettiva tipologica. L’esercizio dell’impresa in forma societaria deve, infatti, uniformarsi ai modelli organizzativi predisposti dal legislatore, per cui non è ammissibile – se non entro i limiti stabiliti dal legislatore – una “commistione” tra tipi societari (art. 2247 c.c.), quale quella derivante dal contemporaneo utilizzo dello schema capitalistico e dello schema personalistico, del tutto eterogenei tra di loro, come pure una “inversione tipologica”, quale quella discendente dalla “riqualificazione” come s.n.c. di attività organizzate in forma societaria capitalistica. Deve segnalarsi, piuttosto, “l’ete­rogenesi dei fini” a cui il nuovo filone di giurisprudenza sembra avere condannato la norma dell’art. 2361, 2° comma, c.c., rispetto all’in­tento di apertura ai (del tutto differenti) modelli stranieri che l’avevano ispirata nel previgente contesto normativo (si pensi soprattutto alla figura della GmbH&Co-Kommanditgesellschaft). Nel caso della s.p.a. (holding), l’esercizio “mediato” dell’attività economica attraverso la partecipazione a una società di persone, che comporta di per sé l’as­sun­zione di una responsabilità illimitata per le obbligazioni derivanti da atti di gestione compiuti da soggetti alieni all’organizzazione societaria, è possibile solo se deliberato previamente dall’assemblea (art. 2361, 2° comma, c.c.). Non si tratta però di una autorizzazione volta a integrare il potere degli amministratori e soggetta al regime di cui agli artt. 2380-bis e 2364, n. 5, c.c., bensì di una vera e propria decisione di esclusiva competenza assembleare, spettando per l’appunto ai soci – e soltanto a loro – l’adozione, nelle forme previste, di un siffatto modulo organizzativo “ibrido”. Conseguentemente, trattandosi di una norma “organizzativa” di fonte legale, non si pone neanche un problema di opponibilità ai terzi dei limiti statutari ai poteri rappresentativi degli amministratori (art. 2384 c.c.). Nel caso della s.r.l., parimenti, siffatta decisione è [continua ..]


4. Inammissibilità della c.d. supersocietà di fatto e irrilevanza della disciplina della nullità

È per questo che, in assenza di una delibera assembleare resa pubblica attraverso il deposito del bilancio e della nota integrativa che ne dà specifica informazione ex art. 2361, 2° comma, c.c. (seppure certamente sarebbe stata preferibile una pubblicità legale piena e, addirittura, con effetti costitutivi), la partecipazione di una società di capitali in una società di persone – e a fortiori quella in una società di fatto (totalmente deformalizzata nella struttura e nella compagine sociale, prima che nell’organizzazione) – non può neanche configurarsi, perché dà vita a una struttura “non riconosciuta” ex art. 2249 c.c. Si tratta, cioè, di una qualificazione giuridica non ammissibile, in linea di principio, che non può applicarsi neanche in omaggio al preteso principio di “effettività”, ma contraddicendo il sistema tipologico, formale e pubblicitario delle società commerciali e, soprattutto, stravolgendo la “scelta del tipo” e il valore dell’auto­nomia negoziale in campo imprenditoriale e societario (art. 41 Cost.). Del resto, il disposto del’art. 111-duodecies disp. att. c.c., là dove contempla la possibilità di una s.n.c. “consapevole” con (o tra) società di capitali o di una s.a.s. composta soltanto da società di capitali (ed è perciò tenuta a redigere il bilancio secondo le norme dettate per le s.p.a.) non muta affatto i termini del problema e anzi conferma la prospettiva tipologica qui propugnata. Ciò premesso, non dovrebbe neanche venire in rilievo il problema della “nullità” della società e della conversione del preteso vizio in causa di scioglimento e di liquidazione, operante in applicazione analogica dell’art. 2332 c.c. Questo tema è affrontato, peraltro incidentalmente, dalla S.C. per escluderne l’influenza sulla fallibilità “in estensione” della società di capitali come socio di fatto, ma è in realtà invocato erroneamente perché fondato sul presupposto della riconducibilità allo schema della società in nome collettivo irregolare, anziché della direzione e coordinamento da parte dell’impresa holding (questa sì [continua ..]


5. Incongruenza dei riferimenti alla disciplina dei gruppi

Altrettanto erroneo appare il riferimento al “gruppo orizzontale”, che affiora in una delle sentenze della S.C., sebbene volto al fine meritorio di precisare i confini della c.d. supersocietà di fatto rispetto alla fattispecie dell’attività di direzione e coordinamento e a delimitare il ricorso alla nuova figura giurisprudenziale (per cui si richiede “la rigorosa dimostrazione del comune intento sociale perseguito, che dev’essere conforme, e non contrario, all’interesse dei soci, dovendosi ritenere che allorquando le singole società perseguano, invece, l’interesse delle persone fisiche che ne hanno il controllo, ciò costituirebbe, piuttosto, prova contraria all’esistenza della super-società di fatto e, viceversa, a favore dell’esistenza della “holding” di fatto”). Difatti, l’art. 2497-septies c.c. sancisce l’applicabilità della disciplina del­l’attività di direzione e coordinamento anche al gruppo c.d. paritetico o orizzontale, tipico del mondo cooperativo, che non si fonda sul modello organizzativo “gerarchico” o “verticale”, bensì appunto su un “contratto” o un “accordo” (di coordinamento) tra le imprese. D’altronde, appare illusoria o comunque sommamente incerta e inaffidabile la ricerca (ex post, sul piano del fatto e con metodo indiziario) di un “comune intento sociale” tra i soggetti appartenenti alla c.d. supersocietà di fatto, così come di un patrimonio e di un’attività realmente “comuni” o di una collaborazione nell’eser­cizio dell’impresa o di una compartecipazione ai profitti e alle perdite dell’attività. Tale interesse “super-sociale” è, infatti, molto più sfuggente del c.d. interesse di gruppo, che ha una base normativa nel principio giuridico dei c.d. vantaggi compensativi, ragion per cui la giurisprudenza sarà costretta a utilizzare gli stessi indici di “esteriorizzazione” del vincolo societario (confusione patrimoniale, assistenza finanziaria, rapporti incrociati, garanzie personali, ecc.) impiegati per applicare l’art. 147 legge fall. Tali “indici” sono tipici e significativi della s.d.f. tra persone fisiche, mentre, con riferimento all’esercizio [continua ..]


6. La (controvertibile) estensione del fallimento della società di capitali ex art. 147, comma 5, legge fall.

In ogni caso, allorquando l’art. 147, 5° comma, legge fall. prescrive l’estensione del fallimento per i casi in cui “dopo la dichiarazione di fallimento di un imprenditore individuale risulti che l’impresa è riferibile ad una società di cui il fallito è socio illimitatamente responsabile”, disciplina una situazione di fatto del tutto particolare, in cui si giustifica la riqualificazione in chiave collettiva personale dell’e­ser­cizio individuale dell’impresa: ipotesi, questa, che non si concilia logicamente con quella in cui l’imprenditore fallito è di per sé (id est: è formalmente organizzata e riconosciuta dall’ordinamento, secondo il principio di tipicità e il sistema della pubblicità, appunto, come) una società commerciale di tipo capitalistico. Questa situazione imporrebbe di fare riferimento, perciò, all’art. 147, 1° comma, legge fall.: norma che, tuttavia, segue rigorosamente il principio “tipologico” e, peraltro, prevede espressamente il fallimento “automatico” dei soci illimitatamente responsabili “pur se non persone fisiche”, con ciò instaurando un chiaro e coerente collegamento sistematico con l’art. 2361, 2° comma, c.c., che non può essere certo obliterato. L’attività commerciale cui corrisponde l’impresa fallibile deve essere, infatti, “imputata” alla società come tale e non al singolo socio, e ciò anche in virtù della “spendita del nome” della medesima. La persona fisica o il gruppo di persone (anche riunite in s.d.f. holding) che detiene il controllo (maggioritario o anche totalitario) di plurime società di capitali e che esercita sulle stesse il potere di direzione unitaria nel proprio “interesse imprenditoriale” può essere sanzionato con la responsabilità ex artt. 2497 e 2476, 7° comma, c.c., oltre che, se ne ricorrono i presupposti, come “amministratore di fatto” o come soggetto “concorrente” nei reati di bancarotta fallimentare e concordataria (il che sembra talvolta esser dimenticato). Questa responsabilità risarcitoria, se azionata con la dovuta efficacia, è pienamente satisfattiva delle esigenze di tutela dei creditori sociali e di [continua ..]


7. Conclusioni

Alla luce di tutte queste considerazioni, la c.d. supersocietà di fatto appare una sovrastruttura inutile e fuorviante, una superfetazione di cui liberarsi rapidamente o con un coraggioso revirement della Suprema Corte o con un intervento di chiarificazione e precisazione legislativo. Tutto ciò, prima che l’uso del nuovo strumento si diffonda nella giurisprudenza di merito, senza effettive possibilità di difesa da parte dei soggetti coinvolti (e dei loro creditori personali), date la rigorosa uniformità – allo stato – dell’indirizzo della Cassazione e, sul piano del fatto, l’e­strema difficoltà di censurare, sul piano procedurale, gli eventuali vizi motivazionali nella configurazione del vincolo societario.


NOTE