Rivista di Diritto SocietarioISSN 1972-9243 / EISSN 2421-7166
G. Giappichelli Editore

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La clausola compromissoria statutaria di tipo 'binario' non adeguata a quanto prescritto dall'art. 34, d.lgs. n. 5/2003: inefficacia o nullità? (nota a Trib. Milano, 18 settembre 2008) (di Filippo Corsini)


TRIBUNALE DI MILANO, 18 settembre 2008 – Perozziello Presidente – Fiecconi Relatore – Sposati (avv. Pirola) c. Informatica Finanziaria S.r.l. (avv. Affatato e Muscatella)

Arbitrato – Arbitrato societario – Clausola compromissoria binaria – Mancato adeguamento all’art. 34, d.lgs. n. 5/2002 – Inefficacia

(Art. 34, d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 5)

Non è nulla, ma inefficace, la clausola compromissoria di tipo “binario” contenuta nello statuto di una s.r.l. – preesistente alla riforma e non adeguata all’art. 34, 2° comma, d.lgs. n. 5/2003 – in quanto il potere di nomina di tutti gli arbitri deve essere necessariamente attribuito ad un soggetto estraneo alla società; è inapplicabile l’art. 1419, 2° comma, c.c. (1).

Omissis

Motivi della decisione

La società convenuta ha sollevato una preliminare eccezione di compromesso in relazione a una clausola per arbitrato rituale inserita nello statuto della società a responsabilità limitata ove è prevista la nomina degli arbitri ad opera delle parti: la clausola appartiene al novero delle clausole statutarie inserite negli statuti societari non adeguati dopo l’entrata in vigore della riforma del diritto societario. Pertanto, essa a prima vista si pone in contrasto con l’art. 34 d.lgs. 5/03 in tema di arbitrato endosocietario nella parte in cui per le nuove clausole è prescritta la nomina degli arbitri da parte di una terzo a pena di nullità.

Parte convenuta sostiene la generale validità o sopravvivenza delle clausole “vecchio stile” nonostante il mancato adeguamento statutario. A sostegno di questa tesi offre argomenti che traggono spunto da recenti pronunce di alcune corti di merito che propendono per la validità ed efficacia delle clausole “vecchio stile” ritenendo persistente l’operatività dell’arbitrato di diritto comune secondo la filosofia del c.d. “doppio binario”, propugnata da parte della dottrina. L’interpretazione che nega che l’arbitrato societario sia una variante del tipo arbitrale comune e costituisca un rito distinto e in sé concluso, poggia su argomenti letterali e sistematici che non risultano convincenti proprio perché confliggono con il testo e la ratio delle disposizioni sopra richiamate (cfr. Trib. Bologna, 25 maggio 2005 e trib. Genova, 7 marzo 2005, in Giur. Comm., 2006, II, 509 e seg.; App. Torino, 8 marzo 2007, in Giur. It., 2008, p. 906 e seg.). In base a questa tesi, la predilezione dell’ar­bitrato societario imporrebbe alle parti l’unico limite che se si sceglie il modello di arbitrato speciale devono poi applicarsi tutte le norme, ivi compresa quella che prevede la nomina degli arbitri da parte di un soggetto estraneo alle parti; altrimenti, resterebbe pur sempre aperta la via dell’arbitrato comune. Quest’orientamento vede nei rinvìi alla disciplina dell’arbitrato comune contenuti nella relazione integrativa e nella legge speciale la prova della sopravvivenza dell’ar­bitrato di diritto comune in campo endosocietario.

Il tribunale adito, invece, in più decisioni ha ritenuto invalida e inoperativa una clausola di tal tenore, e non ritiene di dover mutare il proprio orientamento negativo in relazione alla possibilità di coesistenza di arbitrato societario e arbitrato rituale comune (Trib. Milano, 25 giugno 2005 e 21 ottobre 2005, in Giur. Comm. 1,2006, parte seconda, 511; Trib. Milano 4 maggio 2005, in Giur. It, 2005, 1653 e seguenti; Trib. Milano,22 settembre 2006, ivi, 2006, 400.).

Un primo rilievo di ordine concettuale a favore del­l’orientamento contrario al sistema del “doppio binario” si porge se solo si considera che la nuova disciplina valevole per le clausole compromissorie statutarie ha un’identità causale uguale a quella del­l’arbitrato di diritto comune, intendendo offrire alle parti un modello di soluzione delle liti alternativo al procedimento ordinario diretto dai giudici. Non sarebbe certamente logico ritenere che il legislatore abbia voluto mantenere in campo societario due modelli, tipologicamente diversi, per raggiungere il medesimo obiettivo. Ma al di là di questa semplice considerazione, vi sono ulteriori argomenti per ritenere non più possibili il ricorso all’arbitrato di diritto comune in campo endosocietario. La seconda considerazione muove da un’analisi testuale della normativa di riferimento, contenente disposizioni che induce a ritenere che il legislatore, escludendo la validità della clausola statutaria che opta per il modello di diritto comune, abbia voluto imporre un arbitrato con un rito speciale, e ciò al fine di raggiungere un obiettivo diverso da quello dell’arbitrato di diritto comune.

La legge delega, per quanto riguarda l’arbitrato societario, all’articolo 12, enuncia che il Governo può prevedere la possibilità che gli statuti delle società commerciali contengano clausole compromissorie, anche in deroga agli articoli 806 e 808 c.p.c., per tutte o alcune tra le controversie societarie di cui al primo comma (diritto societario, comprese le controversie relative al trasferimento delle partecipazioni sociali e ai patti parasociali). L’unico limite posto è che la controversia concerna questioni che non possono formare oggetto di transazione: in questo caso la clausola compromissoria dovrà riferirsi a un arbitrato secondo diritto, restando escluso il giudizio di equità, e il lodo sarà impugnabile anche per violazione di legge. Sembra che la prima preoccupazione del legislatore sia offrire la possibilità di estendere il possibile campo di operatività della clausola compromissoria fino a ricomprendervi materie che in base alle norme di diritto comune non potrebbero formare oggetto di transazione. Già da questo nuovo atteggiamento si ravvisa un’impostazione nuova nel delimitare l’area delle controversie deferibili agli arbitri del tutto impraticabile con l’arbitrato di diritto comune.

Entrando poi nel dettaglio della normativa, l’arti­colo 34 del decreto legislativo 5/2003, al primo com­ma, pone una prima questione a livello interpretativo, attinente proprio all’ambito di applicazione del titolo V in analisi: sulla base di quanto dispone l’ar­ticolo 34 primo comma, si percepisce che la norma è finalizzata a regolare solo l’ipotesi in cui l’atto costitutivo o lo statuto di una società contenga una clausola compromissoria. Pertanto, si tratta di una disciplina espressamente riferita all’arbitrato previsto da una clausola inserita nello statuto di una società, e non ad altre ipotesi di compromesso. Non è un caso che, per espressa scelta del legislatore, non siano menzionati gli arbitrati che, pur avendo oggetto controversie societarie, non trovano fondamento in una clausola compromissoria statutaria. La disciplina speciale, pertanto, non pare indirizzata a regolare le clausole compromissorie stipulate in contratti parasociali, i compromessi stipulati dalla società nelle stesse materie coperte dalla clausola compromissoria statutaria, ove questa fosse presente nello statuto, e in generale tutte quelle pattuizioni costituenti accordo compromissorio che presuppongono già sorta una controversia.

La mancata menzione del compromesso accanto alla clausola compromissoria assume certamente rilievo perché la clausola compromissoria, rivolta precipuamente alle future liti e a soggetti astrattamente diversi dagli stipulanti, non è per nulla equiparabile a un normale accordo compromissorio che, se anche non presuppone già sorta una controversia, pone uno specifico vincolo solo in capo ai soggetti che vi hanno aderito. È arguibile che la mancata menzione del compromesso nella disciplina speciale non sia casuale, perché in realtà offre lo spunto per ritenere che la relazione illustrativa posta a base dell’opposta tesi, laddove specifica che “la norma apprestata contribuisce alla creazione di una compiuta species arbitrale, che si sviluppa senza pretesa di sostituire un modello codicistico (naturalmente operativo anche in materia societaria)”, intenda salvare l’arbitrato comune proprio solo per queste diverse ipotesi.

L’art. 34 d.lgs. 5/03, difatti, sembra non lasciar scam­po per clausole di tenore diverso, perché il comma secondo dell’art. 34, in attuazione della legge delega, si discosta ulteriormente dal modello di diritto comune nella parte in cui dispone che gli atti costitutivi delle società, ad eccezione di quelle che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio a norma dell’art. 2325-bis c.c., debbono mediante clausole compromissorie, prevedere il numero e le modalità di nomina degli arbitri, conferendo in ogni caso, a pena di nullità, il potere di nomina di tutti gli arbitri a un soggetto estraneo alla società; ove il soggetto designato non provveda, la nomina è richiesta al presidente del tribunale del luogo in cui la società ha la sede legale.

Il legislatore ha previsto un’ulteriore eccezione al campo di normale operatività della clausola. Oltre a vincolare la società e tutti i soci in via generale e astratta, inclusi coloro la cui qualità di socio sia oggetto della controversia, può in ipotesi avere ad oggetto controversie promosse da amministratori, liquidatori e sindaci ovvero nei loro confronti, e dunque si estenderebbe anche a una diversa categoria di soggetti che, a seguito dall’accettazione dell’incarico sociale, restano automaticamente vincolati alla sua osservanza.

Il sesto comma, infine, prevede una procedura rafforzata per consentire le modifiche dell’atto costitutivo introduttive o soppressive di clausole compromissorie, prevedendo che esse sono approvate dai soci che rappresentino almeno due terzi del capitale sociale. I soci assenti dissenzienti, però, possono, entro successivi 90 giorni, esercitare il diritto di recesso: in tal modo si regolamentano anche i diritti dei soci in ordine a una clausola che viene inevitabilmente a incidere su fondamentali diritti dei singoli soci, involgendo una compressione sostanziale del diritto di agire giudizialmente. Già da questi sintetici richiami testuali si delinea un arbitrato che è capace di coinvolgere innanzitutto parti (soci, amministratori, sindaci o liquidatori) che non hanno eventualmente preso parte all’accordo compromissorio, tant’è che se introdotto o modificato dalla maggioranza dei soci, potrebbe dar luogo al recesso del socio dissenziente; inoltre, esso impone a tutte le parti coinvolte un doppio sacrificio: la rinuncia al diritto di scegliersi il giudice della propria lite, facoltà che costituisce l’architrave dell’arbitrato di diritto comune, compressione massima del diritto di adire il giudice naturale precostituito per legge, di chiara derivazione costituzionale.

Ma le novità non si fermano alle ipotesi sopra considerate poiché tratti salienti dell’arbitrato endosocietario, disciplinato dal legislatore nel successivo art. 35, oltre alla previsione dell’eterodesignazione dell’arbitro e alla vincolatività automatica della clausola statutaria, sono la possibilità d’inter­vento di terzi nel procedimento arbitrale e la potestà arbitrale di concessione della misura cautelare della sospensione dell’efficacia di una delibera con provvedimento non reclamabile: pertanto il doppio sacrificio che la clausola arbitrale impone è controbilanciato dal fatto che il legislatore porge ai suoi fruitori un arbitrato “giurisdizionalizzato” e garantista certamente diverso da quello regolato dal rito comune. Di sicuro, il modello offerto dal legislatore si avvicina di più al rito innanzi all’autorità giudiziaria, essendo previsto un contraddittorio allargato ai terzi, e si allontana di molto e significativamente dal­l’ar­bitrato comune, meno regolato sotto il profilo del rito, proprio in considerazione della particolare destinazione a regolare interessi plurimi.

Volendo sintetizzare quanto sopra espresso, è indiscusso che la caratteristica fondamentale dell’ar­bitrato previsto dalla clausola compromissoria statutaria così come modellato dal legislatore in sede di riforma societaria è data dalla sottrazione in assoluto alle parti del giudizio arbitrale del potere di nominare l’arbitro o gli arbitri. La sua ratio, dunque, si fonda sulla constatazione che la plurisoggettività della controversia è assai frequente in materia societaria e che un arbitrato multiparti ha la necessità che il patto compromissorio sia efficace nei confronti di tutti gli interessati. A questa necessità si affianca quella di dover garantire i pari poteri di tutte le parti nella nomina degli arbitri e nell’esplicazione delle difese.

Così la norma che prevede la nomina degli arbitri da parte di un soggetto totalmente estraneo alla società e alla compagine sociale e amministrativa interna dimostra che il legislatore ha certamente inteso realizzare compiutamente un equilibrio tra i vari interessi implicati in un arbitrato con pluralità di soggetti, nel quale non può esservi garanzia d’im­par­zialità di giudizio ove gli arbitri siano designati dalle parti, non potendosi contraddire il principio in base al quale in un giudizio nessuna parte deve avere più poteri dell’altra nella scelta degli arbitri. Se la scelta potesse, in ipotesi, cadere su soggetti anche solo indirettamente legati ad alcune parti o alla società stessa, verrebbe compromessa l’imparzialità di chi è chia­mato a decidere gli interessi in conflitto di parti che, nelle ipotesi più frequenti, non hanno potuto nominare gli arbitri (basta solo pensare alla presenza in giudizio di una pluralità di attori o di convenuti, come spesso accade nelle liti societarie). La decisione degli arbitri, poi, verrebbe di riflesso a incidere su soggetti terzi, anche se rimasti estranei al giudizio arbitrale.

Il tema di indagine tuttavia non permette di limitarsi a una lettura testuale e teleologica delle norme introdotte dal legislatore, ma sospinge a sondare anche i rapporti che il legislatore ha delineato fra la normativa speciale e la normativa generale, poiché l’arbitrato societario è disciplinato anche tramite il richiamo di norme riferite allo arbitrato di diritto comune.

In proposito, la relazione accompagnatoria al d.lgs. 5/03 specifica che “è preliminare l’avvertenza che riguarda l’au­tonomia funzionale del testo complessivamente considerato: la materia vi è disciplinata in modo da farne risultare una normativa pressoché sempre autosufficiente, soltanto residualmente integrabile dalla normativa generale del codice di rito (cfr. articolo 1, comma quattro) ... omissis; ... quanto all’ar­bitrato, la soluzione si è orientata nel senso che le clausole compromissorie eventualmente inserite negli statuti delle società diverse da quelle ricorrenti al mercato del capitale di rischio, (essendo – peraltro – esclusa la soluzione del compromesso sulla base di una rigorosa interpretazione della legge di delega) devono necessariamente prevedere, a pena dì nullità, la designazione del collegio da parte di terzi imparziali; e ciò al fine, attesa la pluralità di interessi direttamente o indirettamente coinvolti, di rendere possibile, senza pregiudizio delle concrete possibilità di difesa, l’intervento volontario di terzi nel procedimento arbitrale (e, nel caso questi rivestano la qualità dì soci, anche a norma degli articoli 106 e 107 c.p.c.). In argomento, appare utile segnalare il contributo fornito dall’Associazione Italiana per l’Arbitrato (AIA), dalle cui proposte deriva per esempio l’autorizzazione ex lege alla proroga per una sola volta, qualunque sia l’incremento soggettivo del giudizio, dei termini di resa del lodo in caso di intervento di terzi Circa le controversie arbitrabili – da estendere per volontà del delegante anche a questioni che non possono formare oggetto di transazione – la norma apprestata muove dalla considerazione che l’oggetto principale della controversia debba essere disponibile e che la clausola possa invéce prevedere il potere degli arbitri di conoscere incidenter tantum di questioni non compromettibili, perciò in deroga al vigente articolo 819 primo comma, c.p.c, ma in armonia con scelte altrove compiute in sede di revisione organica della disciplina del codice processuale”.

Il rapporto tra i due modelli di arbitrato sembra quindi costruito a senso unico: la disciplina speciale richiama la legge generale solo a fini integrativi, ma è in sé autosufficiente. E, a parere del tribunale, è in questo stesso senso che deve essere letta anche la parte finale della relazione accompagnatoria, in cui si precisa che “la formulazione complessiva del testo contribuisce alla creazione di una compiuta species arbitrale, che si sviluppa senza pretesa di sostituire il modello codicistico (naturalmente ultrattivo anche in materia societaria) comprendendo numerose opzioni di rango processuale (ma non soltanto: si pensi alla soluzione ex lege dell’opponibilità della clausola com­promissoria contenuta nello statuto a soggetti astrattamente terzi rispetto alla fonte del mandato arbitrale, quali amministratori e sindaci) che appaiono assolutamente funzionali alla promozione della cultura dell’arbitrato-societario .... omissis”.

I rinvii plurimi espressi nella norma speciale alle norme di diritto comune, dunque, non paiono porgere alcun valido argomento per affermare che l’in­troduzione di una clausola “nuovo stile” costituisce, per i soci che desiderino fruire della miglior disciplina prevista dalla riforma, una semplice opzione onde potere accedere al rito speciale giurisdizionalizzato, e non già un obbligo, perché la tecnica dei rinvii al rito comune risponde a un’esigenza di economia legislativa onde evitare inutili ripetizioni di norme identiche che la legge speciale intende solo recepire: il decreto legislativo che disciplina l’ar­bitrato societario, infatti, è costruito non come integrazione delle norme processuali comuni, ma come una disciplina autonoma che introduce un modello processuale nuovo fondato solo in via residuale su quello codicistico (cfr. art. 1 d.lgs. 5/2003).

La tesi che propone la convivenza dei due modelli di arbitrato non considera che la relazione illustrativa sopra esaminata crea un sistema speciale di arbitrato autosufficiente e indica solo residualmente percorribile la via dell’arbitrato di diritto comune in materia societaria, per ipotesi ovviamente diverse dalla clausola statutaria, non potendosi escludere altre forme di compromesso in campo societario. Lasciando, al­l’op­posto, aperta l’opzione dell’ar­bi­trato comune, e quindi il ricorso a clausole con formule “vecchio stile” che ammettono la designazione degli arbitri da parte delle parti, non vi sarebbe stata alcuna valida ragione per delimitare l’ambito di operatività del modello processuale speciale alla sola clausola compromissoria inserita negli statuti. Sembra preferibile ritenere che, disegnando un modello di arbitrato speciale per la sola clausola compromissoria, il legislatore abbia piuttosto voluto innanzitutto legittimare, destinandole una specifica disciplina, una clausola negoziale che necessariamente incide su soggetti astrattamente terzi rispetto alla fonte del mandato arbitrale; che, in pari modo, abbia inteso ritagliare per essa una disciplina processuale speciale e inderogabile perché “più garantista” dei plurimi interessi coinvolti, rendendola perciò incompatibile con il modello comune.

Portando l’attenzione sul rapporto con il modello di processo comune, più in generale, si osserva che nel rito societario non è possibile alcun interscambio tra il modello processuale ordinario e societario, qualora si tratti di controversie societarie innanzi all’au­to­rità giudiziaria, e ciò anche dopo la riforma dell’art. 70 ter disp. att. c.p.c., che lo ha reso applicabile in via alternativa solo per le cause ordinarie e non viceversa: all’interno di un sistema processuale così concepito, non si vede come si possa far sopravvivere il rito arbitrale comune nel ristretto ambito di operatività della clausola compromissoria regolata sostanzialmente e ritualmente da una legge processuale speciale. Come avviene per il rito speciale societario, per il quale non è applicabile il modello processuale comune se non in via integrativa e residuale (art. 1 d.lgs. 5/03), non sembra in ugual modo sostenibile che alle parti processuali sia data la possibilità di optare indifferentemente per l’uno o l’altro modello di arbitrato, a seconda del tenore della clausola statutaria.

In conclusione, alla luce di quanto sopra, paiono esservi più argomenti per ritenere che: la disciplina introdotta dalle norme di cui agli articoli 34 seguenti del d.lgs. 5/03, costruisce in maniera estremamente sintetica, ma completa, uno speciale procedimento arbitrale destinato a risolvere le controversie interne alla società, prevedendone una sua sostanziale giurisdizionalizzazione, con l’intento di porgere alle parti tenute all’osservanza delle clausole statutarie un modello alternativo di soluzione delle controversie. Sicché la piana formulazione letterale della norma, nonché la ratio ivi sottesa, non lascia spazio a residuali dubbi: qualsiasi clausola statutaria non conforme, vecchia o nuova che sia, non permette di accedere al rito arbitrale come previsto.

Per quanto riguarda le clausole statutarie non adeguate dopo la riforma si pone un ulteriore problema relativo alla loro eventuale sopravvivenza, posto che la legge non regola che per l’avvenire ex art. 11 preleggi.

Come già espresso da questo tribunale nelle pronunce sopra richiamate, in forza dell’articolo 41 d.lgs. 5/2003 che regola la disciplina processuale nella fase transitoria, in base al quale ai giudizi arbitrali pendenti alla data di entrata in vigore del presente decreto si applicano le norme anteriormente vigenti ha carattere processuale e non sostanziale. Questa disposizione, dunque, certamente non può rendere applicabile la clausola arbitrale “vecchio stile” non adeguata ai giudizi instaurati dopo l’entrata in vigore della riforma.

È ben vero che la nullità prevista nell’art. 34 costituisce un vizio genetico dell’accordo delle parti, risalente alla situazione di fatto e di diritto esistente nel momento della conclusione del contratto, incapace quindi di incidere su accordi negoziali già perfezionatisi e che hanno validamente prodotto i loro effetti obbligatori.

Ma è anche vero che l’articolo 35 d.lgs. 5 del 2003 considera l’inderogabilità una caratteristica intrinseca ed interna della normativa processuale, e non solo sostanziale, in tema di arbitrato endosocietario, composta da norme da applicare tutte insieme (comprese quelle riferite all’impugnazione del lodo, all’intervento dei terzi e alla potestà cautelare degli arbitri).

Di conseguenza, qualora si voglia dare vita a un arbitrato in forza di una clausola compromissoria inserita in uno statuto non potrebbe certamente rivivere un separato corpo di norme comuni che sarebbe in aperto conflitto con l’intera disciplina predisposta dal legislatore; in ogni caso non sarebbe tollerabile un meccanismo di nomina arbitrale che si scontri con la dichiarata necessità che in un giudizio arbitrale multiparti e a contrapposti plurimi interessi gli arbitri rimangano in posizione di equidistanza e neutralità (cfr. relazione accompagnatoria alla legge delegata sopra citata). Pertanto, è preferibile ritenere che le clausole statutarie non adeguate debbano intendersi inefficaci, perché divenute incompatibili con l’arbitrato endosocietario, regolato con un rito a sé stante non più equiparabile all’ar­bitrato comune; mentre la sanzione della nullità non potrà che colpire le clausole predisposte in aperto contrasto con l’articolo 34 successivamente alla sua entrata in vigore, allorquando esse non prevedano la nomina del­l’arbitro da parte di un terzo soggetto indipendente dalle parti o anche solo prevedano il ricorso alle regole dell’arbitrato comune, in contrasto con la disciplina speciale prevista nell’art. 35.

Posto che la norma in esame impone l’attribuzione al terzo del potere di nomina degli arbitri a pena di nullità, in via del tutto residuale, c’è da chiedersi se la sanzione della nullità (o la sua sopravvenuta inefficacia) si riferisca all’inte­ra clausola, oppure se possa darsi corso al meccanismo so­stitutivo indicato nel­l’art. 2419 comma 2, c.c., come rite­nuto ammissibile da parte della dottrina e della giurisprudenza.

In merito, questo tribunale si riporta agli argomenti indicati nelle passate – già richiamate – pronunce che non hanno ritenuto possibile effettuare un’inte­grazione ex lege di un clausola contrattuale divenuta in ogni caso inefficace, sul presupposto che la clausola “vecchio stile” non è certamente riferibile ai giudizi instaurati dopo la riforma, in assenza di una norma di legge che preveda un meccanismo sostitutivo e di integrazione della volontà delle parti.

Sarebbe certamente contrario ai principi dell’or­dina­mento ammettere un meccanismo d’integra­zione eteronomo di una convenzione che sottrae alle parti soggette all’osser­van­za degli statuti sociali la vecchia via dell’ar­bi­trato comune a vantaggio della nuova e diversa via dell’ar­bi­trato speciale endosocietario, non equiparabile all’arbi­trato comune cui si riferisce la clausola compromissoria “vecchio stile”. Infatti, detto inserimento automatico obbligherebbe le parti coinvolte a seguire le regole di un procedimento arbitrale speciale sicuramente non scelto da alcuna di esse, venendo così a tradire in radice il principio volontaristico su cui si fonda ogni opzione arbitrale: si tratta di un valore che lo stesso legislatore ha inteso rispettare al massimo, laddove ha previsto per i soci dissenzienti la facoltà di recedere in caso d’inserimento o soppressione per via assembleare di una clausola compromissoria con la maggioranza dei due terzi (cfr. art. 34, co. 6). Del resto, è lo stesso disposto dell’art. 2419, comma 1, c.c. a vietare all’interprete una pronuncia di nullità parziale laddove risulti che i contraenti non avrebbero concluso il contratto senza quella parte del suo contenuto che è colpita dalla nullità: sostituendo il meccanismo dì nomina degli arbitri da parte delle parti con quello legale di nomina da parte di un terzo, sicuramente non previsto dalle parti se non in via residuale in caso di mutuo dissenso, si viene a incidere sulla ragione stessa del ricorso all’arbitrato comune inteso come una forma convenzionale di soluzione di contrasti, e non proprio come un rito alternativo per la definizione delle liti.

In conclusione, deve ritenersi che la clausola statutaria “vecchio stile” in esame non è più applicabile perché l’arbitrato comune non può più valere per la clausola statutaria compromissoria; che una siffatta clausola, se non adeguata dall’assemblea dei soci con le maggioranze previste, non può essere integrata e diversamente regolata dalla speciale nuova disciplina, introdotta dal legislatore solo per le clausole “nuovo stile” come approvate dall’assemblea dei soci dopo la riforma (con le diverse maggioranze previste dallo stesso legislatore); che le clausole compromissorie statutarie, in generale, sono valide e applicabili solo se intendono richiamare e applicare la particolare e speciale disciplina dell’arbitrato endosocietario, introdotta dal legislatore nel 2003 come disciplina speciale e autonoma inderogabile di clausole che, per loro natura e struttura, impongono astrattamente a più parti una deroga alla giurisdizione ordinaria, con preventiva parziale attenuazione di diritti costituzionalmente garantiti (art. 24, 101, 111 Cost.).

Alla luce di quanto sopra, si dichiara infondata l’eccezione di compromesso sollevata dalla parte convenuta con riferimento alla sopravvivenza dell’arbi­trato di diritto comune in caso di clausola statutaria di arbitrato rituale “vecchio stile”, non adeguata dopo la riforma societaria, con conseguente affermazione di competenza del giudice adito.

Superata l’eccezione preliminare sollevata dalla società convenuta, occorre ora entrare nel merito della controversia.

Il telegramma contenente la convocazione dell’as­sem­blea dei soci per il giorno 14/06/07 – con o.d.g. approvazione del bilancio – è stato recapitato al­l’attore, detentore del 40% delle quote della società convenuta, in data 5/06/07, quindi solo 9 giorni prima della data prevista per la convocazione dell’as­sem­blea e al di fuori del termine indicato dall’art. 8 dello Statuto prevedente “non meno di quindici giorni prima della data fissata per l’adunanza”.

Tale violazione statutaria configura, secondo il disposto dall’art. 2479 ter c.c., l’annullabilità della delibera adottata in data 14/06/07 con la conseguente possibilità di impugnazione entro il termine di 90 giorni ad opera dei soci (nonché amministratori o sindaci) che non vi hanno consentito.

L’articolo in esame, infatti, rubricato come “invalidità delle decisioni dei soci”, distingue tra ipotesi di annullabilità (I comma) e di nullità (III comma) delle delibere assembleari, riservando ai soli soci assenti o dissenzienti il rimedio di annullare le decisioni assunte in violazione della legge o del­l’atto costitutivo nel termine di 90 giorni decorrente dalla loro trascrizione nel libro delle decisioni dei soci. Nel caso in esame, l’im­pugnazione della delibera assembleare, del 14/06/07 (e in pari data trascritta nel libero delle decisioni dei soci), effettuata con atto di citazione notificato alla società convenuta in data 10/10/07 è da ritenersi, a tutti gli effetti, rientrante nel termine di 90 giorni prescritto dalla legge, non essendo condivisibile l’eccezione preliminare di decadenza rilevata dalla società convenuta stante l’intervenuta sospensione feriale. A tal proposito la Corte di Cassazione, sez. 1, sent. n. 3351 del 18/04/1997 (Rv. 503784), ha specificato che “tra i termini processuali per i quali l’art. 1 della legge n. 742 del 1969 prevede la sospensione nel periodo feriale vanno compresi non soltanto i termini inerenti alle fasi successive all’introduzione del processo, ma anche il termine entro il quale il processo deve essere instaurato, quando l’azione in giudizio rappresenta l’unico strumento a tutela dei diritti dell’attore” concludendo quindi per l’appli­cabilità della sospensione “anche con riferimento al termine di tre mesi previsto dall’art. 2377 cod. civ. per l’impugnazione della delibera del­l’as­semblea di una società per azioni”.

Alla luce di quanto sopra esposto, la domanda del­l’at­tore merita, quindi, accoglimento. Di conseguenza, la delibera assembleare del 14/06/07 assunta in violazione del termine statutario previsto per la convocazione dell’as­semblea e impugnata dal socio assente Sposati con provvedimento notificato in data 10/10/07, deve essere annullata, ex art. 2479 ter 1° comma, c.c.: nessuna decadenza può essersi verificata dovendosi considerare anche il margine di tempo trascorso in costanza della sospensione dei termini processuali. L’annullamento della delibera de qua travolge consequenzialmente ogni decisione, atto, provvedimento ad essa connessa o comunque da essa derivante.

Le spese di lite seguono la soccombenza ex art. 91 c.p.c. e vengono di seguito liquidate.

P.Q.M.

Il Tribunale, definitivamente pronunciando, ogni diversa istanza disattesa o assorbita,

1. rigetta l’eccezione preliminare dichiarandosi competente;

2. accoglie la domanda di parte attrice e conseguentemente annulla la delibera assunta in data 14/06/07;

3. condanna altresì la parte convenuta a rimborsare alla parte attrice le spese di lite

omissis

 

(1) La clausola compromissoria statutaria di tipo «binario» non adeguata a quanto prescritto dall’art. 34, d.lgs. n. 5/2003: inefficacia o nullità?

 

 

  
SOMMARIO:

1. Il caso - 2. La normativa di riferimento - 3. I precedenti giurisprudenziali e la dottrina - 4. Il commento - NOTE


1. Il caso

Un socio di una s.r.l. la cita in giudizio, al fine di ottenere l’annullamento di una delibera assembleare, fondando la propria domanda sul mancato rispetto del termine previsto dallo statuto per l’invio del­l’avviso di convocazione. La società si costituisce eccependo l’esistenza nello statuto di una clausola compromissoria la quale, secondo quanto si può evincere dalla motivazione della sentenza in epigrafe, demandava la risoluzione di tutte le controversie sociali ad arbitri nominati dalle parti. Il Tribunale di Milano respinge l’eccezione ed accoglie, anche nel merito, la domanda, ritenendo la clausola compromissoria de qua inefficace, in quanto non adeguata a quanto prescritto dall’art. 34, 2° comma, d.lgs. n. 5/2003.  


2. La normativa di riferimento

L’art. 34, 1° comma, d.lgs. n. 5/2003 dispone che gli atti costitutivi delle società, ad eccezione di quelle che ricorrono al capitale di rischio ex art. 2325-bis c.c., possono contenere clausole compromissorie, tramite cui devolvere ad arbitri la decisione di controversie aventi ad oggetto diritti disponibili relativi al rapporto sociale; l’art. 34, 2° comma, d.lgs. n. 5/2003 prevede che tali clausole devono conferire «in ogni caso, a pena di nullità, il potere di nomina di tutti gli arbitri a soggetto estraneo alla società». La sentenza in commento – che riguarda una clausola compromissoria inserita nello statuto sociale di una s.r.l. prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 5/2003 – si sofferma anche sull’art. 41, 1° comma, d.lgs. n. 5/2003, relativo alla disciplina transitoria, ai sensi del quale «ai giudizi pendenti alla data di entrata in vigore del presente decreto si applicano le disposizioni anteriormente vigenti». Viene in rilievo, infine, l’art. 1419 c.c., per cui la nullità di singole clausole comporta la nullità dell’intero contratto, quando risulta che i contraenti non lo avrebbero concluso senza tali clausole, fermo restando che la nullità è comunque esclusa, quando le clausole nulle sono sostituite di diritto da norme imperative.  


3. I precedenti giurisprudenziali e la dottrina

Non vi è uniformità di opinioni circa la validità di una clausola compromissoria statutaria che, diversamente da quanto prescritto dall’art. 34, 2° comma, d.lgs. n. 5/2003, non preveda la nomina dell’intero collegio da parte di un soggetto estraneo alla società, ma contenga il tradizionale metodo «binario» di nomina; tale metodo comporta che ciascuna della parti designi un arbitro e che il presidente del collegio sia individuato di comune accordo dai contendenti, ovvero dagli arbitri già nominati, od ancora da un terzo. La tesi prevalente – ed assolutamente condivisibile – [1] considera nulle le clausole compromissorie statutarie di tipo «binario»; questa opinione si fonda sia sul tenore letterale dell’art. 34, 2° comma, d.lgs. n. 5/2003, sia sull’esigenza di garantire al massimo grado le esigenze di terzietà ed indipendenza del collegio arbitrale nelle liti tipiche dei gruppi sociali organizzati, le quali sovente interessano, direttamente od indirettamente, non solo i contendenti, ma anche un più vasto ambito di soggetti [2]. L’esclusività dell’arbitrato ex art. 34 ss., d.lgs. n. 5/2003 è confermata anche dall’art. 41, 2° comma, d.lgs. n. 5/2003, il quale stabilisce l’inapplicabilità del diritto di recesso e della maggioranza qualificata di cui all’art. 34, 6° comma, d.lgs. n. 5/2003 nel caso in cui, nel periodo transitorio, vengano deliberate modifiche ai sensi degli artt. 223-bis e 223-duode­cies disp. att. c.c., per adeguare le clausole compromissorie preesistenti alle disposizioni «inderogabili» del d.lgs. n. 5/2003. È allora evidente come le disposizioni inderogabili relative alle clausole compromissorie siano solo quelle riguardanti la nomina del­l’intero collegio arbitrale ad opera di un terzo estraneo alla società, poiché, al proposito, non può certo rilevare l’art. 35, d.lgs. n. 5/2003; questa norma, infatti, detta una disciplina inderogabile del procedimento arbitrale, che tuttavia non deve essere riflessa all’interno della clausola compromissoria statutaria, venendo in gioco in un momento successivo ed essendo direttamente applicabile, anche senza una sua formale ricezione ad opera delle parti nell’accor­do compromissorio. Non manca però una [continua ..]


4. Il commento

La sentenza in epigrafe, in modo condivisibile, non si lascia suggestionare dalla teoria del «doppio binario» e pertanto respinge l’eccezione di compromesso sollevata dal convenuto. Meno persuasivamente, però, afferma che la clausola compromissoria statutaria – preesistente alla riforma e non adeguata all’art. 34, 2° comma, d.lgs. n. 5/2003 – non è nulla, bensì inefficace. Quest’ultimo è il passaggio della motivazione in cui senza dubbio risiede il maggiore interesse, perché meno arato in dottrina e giurisprudenza; desideriamo pertanto soffermarci su tale profilo, senza dilungarci sull’esposizione delle ragioni che conducono una confutazione degli argomenti, ricordati nel paragrafo 3, per solito utilizzati a favore della tesi della perdurante ammissibilità di una clausola compromissoria di diritto comune in materia societaria [8]. Il Tribunale di Milano afferma che le clausole com­promissorie «binarie», già introdotte negli statuti prima della data di entrata in vigore del d.lgs. n. 5/2003, sarebbero inefficaci «perché divenute incompatibili con l’arbitrato endosocietario, regolato con un rito a sé stante non più equiparabile all’ar­bitrato comune»; la sanzione della nullità, invece, dovrebbe essere riservata alle clausole compromissorie «binarie», inserite nello statuto dopo tale data. A nostro avviso, questa distinzione non merita di essere accolta, dovendosi sempre ritenere nulla quella convenzione arbitrale che non devolva il potere di nomina di tutti gli arbitri ad un soggetto estraneo alla società, sia se presente nello statuto sociale prima della riforma, sia se inserita successivamente. A favore della soluzione da noi preferita milita in primo luogo l’art. 34, 2° comma, d.lgs. n. 5/2003 il quale, in modo inequivocabile, sancisce la nullità e non l’inefficacia delle clausole compromissorie statutarie che non prevedono tale modalità di nomina, senza distinguere il momento in cui la clausola è stata introdotta nello statuto. Semplicemente, qualora la clausola sia preesistente, si tratterà di una pattuizione in origine valida, ma divenuta nulla per il sopravvenire di una legge che prescrive la devoluzione ad un terzo del potere di designare tutti gli arbitri. Siamo consapevoli del fatto che la nullità [continua ..]


NOTE
Fascicolo 2 - 2009