Rivista di Diritto SocietarioISSN 1972-9243 / EISSN 2421-7166
G. Giappichelli Editore

indietro

stampa articolo indice fascicolo leggi articolo leggi fascicolo


Un'occasione di confronto fra la riforma societaria e quella fallimentare. L'apologo del comitato dei creditori (di Ruggero Vigo  )


  
SOMMARIO:

1. Il tentativo di valorizzare il comitato - 2. Il modello del diritto societario - 3. La formazione del comitato - 4. La responsabilità dei componenti - 5. La gratuità dell'incarico - 6. I benefici extralucrativi nella s.p.a. - 7. (…) e nel fallimento - 8. Accesso alle opportunità del dissesto - 9. Poteri del comitato - 10. Tentativo di bilancio - 11. Confronto con la s.p.a. - 12. Le due riforme - 13. La delega al professionista - NOTE


1. Il tentativo di valorizzare il comitato

La riforma della legge fallimentare ha dato luogo ad un episodio curioso e istruttivo. Fra i criteri direttivi riguardanti gli organi della procedura, la legge di delega indicò quello di «ampliare le competenze del comitato dei creditori, consentendo una maggiore partecipazione dell’organo alla gestione della crisi dell’impresa». Dispose, inoltre, che il legislatore delegato avrebbe dovuto «coordinare [con quelli del comitato] i poteri degli altri organi della procedura» (art. 5, 6° comma, n. 3, legge 14 maggio 2005, n. 80). Il d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, diede corso a questa indicazione, e la legge fallimentare riformata prevede una sorta di diarchia nella gestione della procedura, alla quale concorrono curatore e comitato dei creditori: quest’ultimo non ha soltanto mansioni di controllo, ma contribuisce all’assunzione delle più rilevanti decisioni, che, conseguentemente, esulano dalla sfera delle competenze del giudice delegato [[1]]. Probabilmente, però, queste norme sottovalutarono l’eventualità che nessun creditore fallimentare intenda assumere quella carica. E pertanto, dopo una breve esperienza applicativa, con il d.lgs. 12 settembre 2007, n. 169, integrando e correggendo la sua recente opera, il legislatore delegato tornò sui suoi passi e stabilì che «in caso di impossibilità di costituzione per insufficienza di numero o indisponibilità dei creditori», in luogo del comitato provvede il giudice delegato (art. 41, 4° comma). Così statuendo, la legge fallimentare prende atto che talvolta il suo è un disegno irrealizzabile, e declassa ad organo non necessario il comitato dei creditori sul quale essa stessa punta(va) tanto [[2]]. In esito alla riforma, la procedura fallimentare conosce, quindi, due varianti: il regime «ordinario», caratterizzato dall’attiva vigilanza del comitato, che è chiamato a condividere con il curatore, numerose e rilevanti decisioni gestionali; e la soluzione «subordinata», nella quale la legge si arrende alla impossibilità di attuare il suo genuino progetto perché il comitato nemmeno si costituisce, onde il giudice delegato ne prende il posto, recuperando le competenze che aveva perduto, e forse acquistando un ruolo ancora più centrale di quello che aveva nel regime anteriore [[3]]. Va detto anche che, almeno [continua ..]


2. Il modello del diritto societario

L’episodio, benché sfortunato, può essere prezioso come, per gli studiosi di scienze fisiche, sono proficui anche gli esperimenti non riusciti, se degli insuccessi si comprendono le ragioni. La decisione di affidare la cogestione del fallimento al comitato è dovuta alla convinzione che, apertasi la procedura, «sono i creditori e non più il debitore, i beneficiari dell’attività di gestione e realizzo del patrimonio del debitore: se questa è efficiente, essi riceveranno di più, se è inefficiente, essi riceveranno di meno» [[4]]. Dunque, rimettere la guida del fallimento ai creditori significa rimetterla a chi ha un proprio interesse al migliore svolgimento della procedura, e sarà più efficiente di una pubblica autorità. Fu necessario, allora, creare le regole nel rispetto delle quali i creditori avrebbero partecipato alla gestione della procedura. E poiché i creditori fallimentari possono essere numerosi e certamente non sono legati fra loro da un vincolo fiduciario, non mancò di esercitare una forte influenza l’analogia con i soci di una s.p.a. aperta. Peraltro, al momento di «privatizzare» il fallimento attingendo alle regole di questa organizzazione societaria, non si poteva ignorare che nel funzionamento della grande s.p.a. sono ravvisabili alcuni difetti: la distorsione del principio maggioritario, causata dall’assenteismo dei piccoli soci, per cui in assemblea prevale una minoranza costituita da grandi soci; il divario fra il processo decisionale formale e quello reale, onde i soci di comando esercitano la loro influenza sugli amministratori, ma sono immuni da ogni responsabilità; l’estrazione di benefici privati del controllo da parte dei medesimi soci di comando, a discapito della maggioranza costituita dai piccoli soci, che a quei benefici non hanno accesso. Con ogni probabilità tali difetti si sarebbero ripresentati nel fallimento, se si fosse proceduto a riformarlo seguendo pedissequamente la falsariga del diritto societario esistente. Pochi creditori, forti del credito concesso al fallito e delle loro competenze imprenditoriali, avrebbero assunto il controllo della procedura, con pericolo di pregiudizio per gli altri creditori. Questa previsione ostacolava il progetto di privatizzare la procedura, e metteva in evidenza alcune ragioni favorevoli a che la gestione del fallimento [continua ..]


3. La formazione del comitato

Il problema della regola di maggioranza sorge perché la riforma non dispone che i creditori esercitino direttamente i poteri di controllo e gestionali, nonostante che le tecniche di comunicazione a distanza oggi esistenti potrebbero rendere meno problematico il funzionamento di un collegio molto numeroso [[7]]. È necessario allora istituire un organo ristretto al quale attribuire quelle competenze. Se la legge fallimentare avesse regolato la nomina dei componenti di questo collegio in stretta analogia con le regole della s.p.a., l’adunanza dei creditori ammessi al passivo avrebbe eletto i titolari della carica nel rispetto di una norma simile a quella dell’art. 2369, 4° comma, c.c., e quindi a maggioranza semplice dei votanti. Presumibilmente pochi grandi creditori, pur non rappresentando la maggioranza dei crediti ammessi al passivo, avrebbero potuto designare persone di loro fiducia. Quest’assetto sarebbe stato giustificabile adducendo che nell’una e nell’altra fattispecie «si presume che [la maggioranza] decida bene perché è quella che rischia di più in conseguenza di decisioni errate». In questo senso la maggioranza avrebbe «i corretti incentivi ad operare nell’interesse di tutto il gruppo» [[8]]. Analogamente ai grandi soci, «i grandi creditori [dovrebbero controllare] la procedura (…) ricevendo dalla legge una sorta di delega a prendere le decisioni nell’interesse del gruppo», fermo restando, naturalmente, che la legge deve fissare limiti inviolabili ai poteri della maggioranza» [[9]]. In questa prospettiva, peraltro, si sarebbe dovuto tenere conto che maggiormente interessati al «governo» del fallimento non sono tanto i creditori socialmente o economicamente «forti», quanto, invece, i creditori privi di ogni diritto di prelazione, e quantitativamente più esposti verso il fallito. Si potrebbe dire: i «grandi creditori chirografari» [[10]]. E pertanto, la legge fallimentare avrebbe dovuto disporre accorgimenti atti a fare spazio a questi creditori a discapito di quelli privilegiati. Ma la norma fallimentare è ancora diversa perché intende rimediare in modo drastico alla distorsione del principio maggioritario. Il legislatore delegante ha intuito che sarebbe stato incongruo accrescere i poteri del comitato senza ripensare i criteri e le [continua ..]


4. La responsabilità dei componenti

Seguendo il modello dell’art. 2380-bis, 2° comma, e 2397, 1° comma, c.c. sulla nomina degli amministratori e dei sindaci, l’esercizio dei poteri di gestione potrebbe essere affidato anche a non creditori, ma la legge fallimentare decide diversamente, vuole che il comitato sia composto soltanto da creditori e vieta che i creditori nominino professionisti ai quali delegare la cura degli interessi del gruppo. L’importanza di questa decisione è quasi nascosta perché essa conferma una regola preesistente, che, anzi, potrebbe essere stata mantenuta senza una piena consapevolezza della sua funzione. Specie nella s.p.a. aperta può avvenire che i grandi soci assumano una parte indefinita delle decisioni che sono formalmente imputate agli amministratori. Il diritto societario vigente consente che i soci di comando esercitino informalmente un’influenza dominante sulla società. Viceversa, la legge fallimentare vuol impedire che un simile divario fra il processo decisionale reale e quello formale si ripeta nel fallimento e riserva ai creditori la partecipazione al comitato eponimo, assegnando loro poteri formali circoscritti. In breve, quello dei soci di comando è un potere di fatto, mentre i creditori influenti sono incardinati in un organo della procedura. Dettando questa norma, la legge di riforma elimina anche un altro difetto del modello societario, e cioè la irresponsabilità dei soci di comando (salvo il nuovo art. 2497 c.c.), giacché l’art. 41, 7° comma, legge fall., impone ai creditori del comitato di agire «con la professionalità e la diligenza richieste dalla natura dell’incarico» [[12]].


5. La gratuità dell'incarico

Più visibile, anzi vistosa, un’ulteriore revisione imposta al modello societario: la gratuità della carica di componente il comitato, che non ha corrispondenza nelle cariche elettive della s.p.a. L’art. 37-bis, ultimo comma, legge fall., dispone che l’opera dei creditori all’interno del comitato non è retribuita, salvo che la maggioranza dei creditori ammessi al passivo, in seno all’adunanza per l’esame dello stato passivo, decida di erogare loro un compenso, di cui, peraltro, la legge fissa un massimale inadeguato secondo gli standard professionali, specie se si considera che è stato disposto quel rigoroso regime di responsabilità (art. 41, 7° comma, legge fall.) [[13]]. La norma poggia sull’idea che i creditori che compongono il comitato partecipino alla direzione del fallimento per curare il loro interesse alla buona gestione della procedura, ma così facendo sono «costretti» a perseguire anche l’interesse di tutta la categoria cui appartengono, con il quale coincide quello personale [[14]]. Pertanto, può non esservi alcun compenso, ed anche quando vi è, il creditore del comitato non è considerato un amministratore di affari altrui, ma il gestore di un interesse proprio e comune ad altri [[15]]. Forse non del tutto avvertitamente, la legge si trova a capovolgere il fenomeno del free rider: non teme che qualcuno si faccia trasportare dagli altri, ma confida che un’intera collettività sarà trasportata da pochissimi suoi componenti. Non avverte il pericolo di un comportamento opportunistico, ma prevede una condotta doppiamente utile (si potrebbe dire: ego-altruistica) [[16]]. La riforma ha creduto toto corde che la comunanza di interessi economici sia una motivazione sufficiente per indurre alcuni componenti di un gruppo ad assumere su se stessi l’onere di svolgere, anche a beneficio di altri, mansioni gravose e rischiose. E pertanto ha imperniato lo svolgimento della procedura sull’assunto che tre o cinque creditori facciano da breadwinner per altri imprenditori, professionisti, fornitori, finanziatori, lavoratori, con i quali non hanno alcun rapporto. Quest’assunto potrebbe essere fondato nei fallimenti in cui vi sono pochissimi creditori, o in relazione ai creditori chirografari di somme particolarmente elevate, e sempre che dall’opera [continua ..]


6. I benefici extralucrativi nella s.p.a.

 Ma il punto centrale sul quale la riforma fallimentare ha inteso sottoporre a revisione il diritto societario «reale» attiene ai benefici extralucrativi. Il legislatore fallimentare era avvertito che il funzionamento della s.p.a. aperta non è imperniato semplicemente sull’interesse dei soci di comando alla più efficiente gestione dell’impresa e quindi alla sua redditività. I soci di comando della s.p.a. non divengono tali (talvolta sostenendo anche il pagamento del premio di maggioranza, o, addirittura sottoponendosi alla disciplina dell’o.p.a. obbligatoria) per perseguire con maggiore efficacia il comune scopo lucrativo e quindi per trarre (e far trarre) dalla partecipazione maggiori utili d’impresa. A tali guadagni i soci di comando partecipano come i soci risparmiatori, ed anzi in misura proporzionalmente inferiore, non soltanto se hanno pagato quel premio (e quindi se hanno effettuato un investimento unitario maggiore rispetto a quello sopportato dagli altri soci), ma anche se essi si intestano azioni ordinarie e propongono ai soci esclusi dal comando azioni privilegiate negli utili. Il socio di comando della s.p.a. cerca, acquisisce ed esercita il controllo societario nell’in­tento di ricavarne benefici diversi dalla partecipazione agli utili d’impresa, ed aggiuntivi ad essi. La legge consente che ciò avvenga, quantomeno, nelle società indipendenti, nella misura in cui non vi è pericolo di pregiudicare l’interesse lucrativo [[18]], e, nelle società sottoposte ad altrui direzione e coordinamento, nei limiti dell’art. 2497 c.c. [[19]]. È il fenomeno della c.d. estrazione dei benefici privati del controllo, che consistono, ad esempio, nella assunzione di cariche sociali remunerate, nella possibilità di stipulare contratti con la società (contratti di fornitura, appalto, consulenza, locazione, finanziamenti, mandato, garanzia), di acquisire notizie di affari e opportunità di mercato che non perverrebbero al socio di comando se egli non fosse tale; nella possibilità di indurre la società a non assumere talune iniziative o ad assumerne altre che indirettamente o in un secondo momento si risolvono a beneficio del socio, e così via. La prospettiva dei guadagni personali spiega perché sovente i soci di comando accettano di essere penalizzati nella ripartizione degli utili [continua ..]


7. (…) e nel fallimento

 Non è dato sapere se ed in quale misura nella realtà economica la gestione della crisi racchiuda per i creditori occasioni di guadagni personali diversi e supplementari rispetto alla mera partecipazione pro quota al ricavato della liquidazione fallimentare. A questo riguardo la fenomenologia delle procedure fallimentari è multiforme per ragioni soggettive ed oggettive; per ragioni legate, cioè, sia alla persona dei creditori, sia ai caratteri dell’impresa in crisi [[20]]. Sul piano soggettivo, molti creditori non sono in grado di cogliere le possibilità racchiuse in quel fallimento. Tali sono i meri finanziatori (ad esempio, gli obbligazionisti), i lavoratori, i professionisti. Diverso è soltanto il caso dei creditori che sono essi stessi imprenditori ed in particolare diverso è il caso dei creditori che operano professionalmente nel mercato finanziario: questi ultimi potrebbero avere risorse, conoscenze e «tecnologie» adeguate a cogliere talune opportunità imprenditoriali racchiuse nella impresa in crisi. Pertanto si può ipotizzare che vi siano fallimenti nei quali è presente un creditore o un gruppo di creditori interessati a svolgere un ruolo di comando, e fallimenti nei quali la presenza di tali creditori è meno rilevante o inesistente. Peraltro, mentre il socio della s.p.a. è entrato volontariamente a far parte della compagine sociale, e forse ha progettato già al momento della costituzione della società o della acquisizione delle quote, di esercitare il controllo e trarne i benefici, lo stesso presumibilmente non può dirsi per i creditori, a meno che non si formi un mercato dei crediti esistenti nei confronti delle società in crisi o, addirittura, verso le società sottoposte a fallimento. Ma non risulta che ciò avvenga in misura apprezzabile, anche se talvolta i fondi di private equity entrano in contatto con la società o acquistano le sue passività allo scopo di governarne il fallimento [[21]]. Anche sul piano oggettivo la risposta deve essere molto articolata, giacché le risorse racchiuse nell’impresa in crisi dipendono dalle dimensioni di questa, dalla gravità del dissesto, e dalle sue cause, dal settore nel quale l’impresa opera, e forse anche da fattori ancora diversi che in concreto possono presentarsi. Vi sono quindi [continua ..]


8. Accesso alle opportunità del dissesto

 Meno incerta, anzi, immediata, la risposta ad un quesito successivo, e cioè se il legislatore della riforma fallimentare ha favorito, tollerato o represso l’acquisizione di quei profitti personali. Non è significativa a tal riguardo la ovvia norma sul conflitto di interessi (art. 40, 5° comma, legge fall.) [[22]]; lo sono invece le norme fallimentari che tendono a far sì che non soltanto i creditori presenti nel comitato, ma ogni creditore, ed anzi chiunque ne sia capace abbia pari possibilità di cogliere le opportunità connesse al dissesto. Le norme sulla proposta di concordato fallimentare e quelle relative alla liquidazione dell’attivo (che si svolge nel rispetto di procedure competitive) [[23]], ma anche le nuove discipline del concordato preventivo, degli accordi di ristrutturazione e dei piani di risanamento, fanno sì che le opportunità economiche connesse alla crisi dell’impresa possano essere colte anche da chi non siede nel comitato. La convenienza di esercitare il controllo «interno» della procedura, partecipando al comitato dei creditori, è dunque abbassata dalla stessa riforma che valorizza il comitato.  


9. Poteri del comitato

 A ciò si aggiunge che l’influenza dei soci di comando della s.p.a. deriva dal potere di nominare e revocare (mediante delibere assembleari) gli amministratori. I creditori che siedono nel comitato non hanno un simile potere nei confronti del curatore. Inoltre, il comitato può bloccare ogni iniziativa del curatore, ma non ha poteri propositivi in relazione alle decisioni gestionali. In tal modo, in effetti, i componenti del comitato potrebbero orientare ex ante le proposte che il curatore sottopone loro, dal momento che il curatore ha interesse a «sintonizzarsi» con i creditori del comitato affinché la sua gestione abbia successo. Peraltro, la forza del curatore e quella del comitato dipendono anche dai rapporti con l’a.g., giacché l’eventuale conflitto fra gli organi non giudiziari, in definitiva, potrebbe essere risolto da quelli giudiziari revocando l’uno o l’altro [[24]]. Per queste ragioni vi è da credere che la riforma del diritto fallimentare non attribuisce ai creditori che fanno parte del comitato poteri paragonabili a quelli di cui sono muniti i soci di comando della s.p.a. La riforma non ha inteso assicurare, ed anzi ha voluto osteggiare l’acquisizione di benefici privati da parte dei creditori che compongono il comitato. Essa si è sforzata di creare nel fallimento l’assetto organizzativo più «limpido» che un gruppo di soggetti legati da uno scopo comune possa avere, ed ha disegnato un organo pluripersonale esente da ogni contaminazione con interessi singolari. Si potrebbe dire che ha cercato di istituire fra i creditori fallimentari una «società legale» più pura di quanto non lo siano le società contrattuali del libro V del codice civile [[25]].


10. Tentativo di bilancio

Se si tentasse di redigere un bilancio delle soluzioni predisposte nella riforma si constaterebbe che la distorsione del principio maggioritario è stata corretta, ma ad un prezzo alto, in quanto è molto difficile che i componenti del comitato siano scelti dai creditori, ed è più probabile che siano designati dalla autorità. In tal modo la legge non ottiene che i creditori facciano un corretto uso del loro potere, ma li priva di esso. Il divario fra i due processi decisionali è stato eliminato, ma al prezzo di far sedere nel comitato creditori sulla cui competenza professionale nulla è disposto [[26]]. Infine, vi è da credere che realmente il comitato, a differenza del c.d.a., non sia la sede nella quale taluno estrae benefici personali dalla sua carica, ma il prezzo è più che mai esoso: in molti fallimenti il comitato non è nominato e il giudice delegato riprende le sue competenze. L’esperienza della riforma, se i primi dati empirici sono veritieri e se saranno confermati in futuro, fa intendere che quando la legge considera difetti e distorsioni quelli che, piuttosto, sono componenti fisiologici del meccanismo societario, rischia di ingaggiare battaglie di cui sono discutibili le motivazioni ed incerti gli esiti. In questo caso, in particolare, la «filosofia» della privatizzazione, rinunciando a trapiantare le regole societarie quali esse sono, ed accettando di modificarle, ha conseguito una vittoria di Pirro, giacché ha ottenuto molti nuovi poteri per un comitato che spesso non viene ad esistenza, onde a questa privatizzazione nominale ha fatto seguito la «ripubblicizzazione» reale della leadership della procedura [[27]].


11. Confronto con la s.p.a.

In realtà, la prudenza, anzi la diffidenza del legislatore fallimentare verso il vero modo di essere della s.p.a. aperta sono ragionevoli, se non necessarie. Fra il socio di comando di una s.p.a. ed il creditore fallimentare forte corre una differenza difficilmente colmabile, in quanto il primo, pur puntando all’acquisizione dei benefici privati del controllo, ha anche interesse a che i consoci siano soddisfatti dal loro investimento, nella misura in cui egli ha bisogno dei loro finanziamenti e non esclude che in futuro ne chiederà loro ancora altri in sede di aumento di capitale. Si dice, inoltre, che egli può temere una scalata ed ha quindi interesse a che il corso dei titoli non deluda i soci finanziatori. In questo senso si potrebbe ritenere che il socio di comando è legato agli altri soci non tanto dal comune scopo lucrativo, quanto dalla sua convenienza a soddisfare lo scopo lucrativo degli altri soci. L’equilibrio ed il successo della grande impresa derivano, in ultimo, da questa sagace e un po’ disincantata combinazione: mediante la sua influenza sulla gestione dell’impresa, il socio di comando riesce a prendere per sé vantaggi economici che non divide con gli altri soci, all’investimento dei quali, nel contempo, egli ha interesse ad assicurare una adeguata remunerazione. Ma un creditore fallimentare «di comando», che potesse acquisire ipotetici profitti personali, non avrebbe un analogo interesse a soddisfare le aspettative degli altri creditori: ad essi non chiederà in futuro di effettuare altri investimenti, essi non possono disinvestire, la sua revoca non dipende in alcun modo dalle loro valutazioni. E pertanto, se la gestione del fallimento racchiudesse allettanti opportunità economiche per il creditore forte, non vi sarebbe ragione di confidare che, pur di acquisire e conservare i benefici privati di una posizione di controllo, egli si darebbe carico di gestire in modo efficiente la procedura, e quindi di curare gli interessi degli altri creditori. Non senza ragione, allora, il legislatore della riforma ha portato quest’organo fuori dalla sfera di controllo dei grandi creditori, ha bilanciato i poteri del comitato con quelli di altri organi, ed ha reso i profitti personali inaccessibili ai creditori del comitato.  


12. Le due riforme

Il legislatore fallimentare ha cercato di dettare la più coerente disciplina della cura di uno scopo comune perché vi è stato indotto dalla convinzione che il traguardo del diritto societario sia una s.p.a. esclusivamente lucrativa, nella quale tutti i soci partecipino al comando dell’impresa soltanto per renderla più redditizia [[28]]. Peraltro, la riforma societaria di poco anteriore non si è mossa in questa direzione. Anzi, dopo la riforma, il diritto societario è meno «lucrativista» del passato, e sa che se volesse correggere le distorsioni del principio maggioritario, se volesse enfatizzare lo scopo comune, e se aggravasse eccessivamente il regime della responsabilità dei soci di comando, proprio come nell’alveare di de Mandeville, rischierebbe di distruggere la stessa impresa societaria. Saggiamente, quindi, il legislatore societario non ha ragionato come quello fallimentare che l’avrebbe seguito a breve distanza: non ha combattuto a testa bassa il controllo che i grandi azionisti esercitano sulla società e la loro ricerca di profitti personali, ma ne ha preso atto come di un aspetto non necessariamente biasimevole dell’impresa collettiva. Anzi, ha legittimato quella ricerca allo scopo di imporle trasparenza e far sì che essa non travalichi gli incerti limiti della correttezza [[29]]. In un certo senso, l’episodio del comitato dei creditori offre una controprova favorevole alle scelte del diritto societario. L’insuccesso dell’esperimento del diritto fallimentare rafforza le probabilità che dia un buon risultato la disciplina societaria di opposta ispirazione.  


13. La delega al professionista

La riforma fallimentare insegna che, seppure esiste, è molto stretta la terza via fra un regime modellato sul diritto societario, quale esso è, e la «ripubblicizzazione» della procedura. Tuttavia, una chance potrebbe essere data dalle norme riguardanti il comitato dei creditori che prevedono anche che l’opzione professionale sia praticata in una particolare modalità. L’art. 40, ultimo comma, legge fall., consente che ciascun componente del comitato deleghi «in tutto o in parte l’espletamento delle proprie funzioni ad uno dei soggetti aventi i requisiti» per la nomina a curatore [[30]]. E se la retribuzione del professionista delegato dal creditore costituisce una spesa rimborsabile ai sensi dell’art. 42, 6° comma, legge fall., si dissolve la remora della gratuità della carica di componente il comitato [[31]]. Inoltre, la norma sulla responsabilità dei creditori potrebbe essere riletta tenendo conto della delega concessa al professionista, e ciò potrebbe indurre taluni creditori ad accettare un ufficio meno gravoso sia in termini di incombenze conseguenti, sia in termini di responsabilità. Può avvenire quindi che attraverso la doppia nomina (prima dei creditori da parte del giudice delegato, e poi dei delegati da parte dei creditori) alcuni professionisti curino gli interessi delle categorie di creditori presenti nella procedura. Ogni professionista delegato avrebbe con il creditore delegante un rapporto fiduciario, e, questo creditore, a sua volta, sarebbe rappresentativo della sottocategoria di creditori fallimentari cui appartiene. Peraltro, spesso il potere del creditore delegante non si fonderebbe sul criterio maggioritario, ma sulla designazione del giudice delegato. Solo la sperimentazione, se vi sarà, potrà chiarire se un simile assetto è realmente praticabile ed a quali risultati conduce [[32]].


NOTE
Fascicolo 3 - 2009