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1. Premessa - 2. La disciplina introdotta dal d.lgs. 142/08: cenni ricostruttivi - 3. Il capitale nominale: unitarietà della fattispecie e vincoli ricostruttivi - 4. Capitale nominale e organizzazione del finanziamento - 5. Capitale nominale e organizzazione interna - 6. La tutela dei creditori tra capitale minimo e capitale statutario - 7. Bilancio d'esercizio, criteri di valutazione e ricchezza disponibile per la distribuzione ai soci - 8. Perdite di bilancio e integrità del capitale minimo - 9. Conclusioni - NOTE
Il celebre insegnamento di Cesare Vivante [1] «(…) che questo capitale, nominale ed astratto (nomen juris), compie di fronte al patrimonio o capitale reale, la funzione di un recipiente destinato a misurare il grano, che ora supera la misura, ed ora non giunge a colmarla», è stato spesso disatteso nella parte in cui ammoniva che la «confusione fra questi due strumenti della vita sociale, l’uno formale, l’altro materiale, può dar luogo a molti equivoci pericolosi per l’interpretazione della legge, se non si tengono distinti». Ancora oggi, infatti, il capitale [2] è concetto sul quale molte sono le incertezze [3] cui probabilmente è imputabile la recente tendenza orientata a svalutare, se non addirittura a negare, una qual si voglia funzione all’istituto [4]. E, invero, sulla scia delle suggestioni di esperienze maturate nei sistemi di common law, volte a superare il modello disciplinare basato su par value [5] e legal capital [6], tale approccio non solo è assai diffuso [7], ma orienta le scelte normative di molti Paesi ove al capitale è tradizionalmente assegnato un ruolo essenziale, ed esercita una forte influenza sulle opzioni che vanno elaborandosi a livello comunitario [8], come dimostra l’indirizzo della Commissione UE del 10 luglio 2007 per una complessiva semplificazione della legislazione relativa al mercato interno che, per quanto interessa, è incline a ripensare criticamente l’utilità del sistema del capitale, cui ha fatto seguito il recente e voluminoso studio [9] elaborato su specifica richiesta della Commissione stessa.
Come accennato, la tendenza a ripensare funzione e disciplina del capitale si è concretizzata nell’emanazione della Direttiva UE 2006/68/CE [10] (di modifica della II Direttiva 77/91/CEE) la quale consente di introdurre norme meno rigide in tema di (relazione di) stima dei conferimenti non in contanti a condizione che il valore del conferimento possa ricavarsi aliunde con altrettanta obiettività e imparzialità [11] (artt. 10-bis e ter), di alleggerire i limiti all’acquisto delle proprie azioni [12] e di rivedere complessivamente il divieto di assistenza finanziaria [13], imponendo, di contro, l’introduzione di standards omogenei di tutela dei creditori per l’ipotesi di riduzione volontaria del capitale.Il nostro paese – peraltro con singolare celerità [14] – ha inteso recepire le norme comunitarie con il d.lgs. n. 142/2008 ad esclusione di quelle dettate per la riduzione (volontaria) del capitale, sul presupposto – del tutto corretto – che la disciplina vigente fosse già rispondente al precetto sovranazionale. Per quel che direttamente interessa la presente indagine, con l’art. 2343-ter c.c. si è configurato un modello disciplinare semplificato che consente di omettere la stima ex art. 2343 c.c. dei conferimenti non in contanti: in particolare a) per i valori mobiliari e gli strumenti del mercato monetario la valutazione potrà essere effettuata sulla base del prezzo medio ponderato dell’ultimo semestre di negoziazione antecedente la data del conferimento; b) per tutti gli altri beni (e crediti) si potrà utilizzare il valore equo contabile risultante da un bilancio approvato da non oltre un anno [15], purché sottoposto a revisione contabile senza alcun rilievo in merito alla valutazione dei beni oggetto del conferimento [16], ovvero al valore equo risultante da una stima redatta nei sei mesi precedenti [17] il conferimento da un esperto indipendente [18] dotato di adeguata e comprovata professionalità in conformità ai principi generalmente applicati per la valutazione dei beni oggetto del conferimento medesimo.L’art. 2343-quater c.c., provvede, in conformità a quanto disposto dall’art. 10-bis della II Direttiva UE, a disciplinare [continua ..]
Per un corretto approccio metodologico, e per superare per quanto possibile il «dramma dell’incomunicabilità» [29] tra le diverse posizioni sul ruolo del capitale nominale, credo occorra lasciare sullo sfondo il problema del capitale minimo, delle regole predisposte per assicurarne l’integrità nel corso dell’iniziativa economica, e abbandonare – dopo la breve digressione del paragrafo precedente – il tema della c.d. area del conferibile, che riguarda la tipologia delle utilità economiche che l’investitore può assoggettare a una determinata disciplina per il finanziamento dell’impresa e i correlati profili di valutazione. Si tratta, infatti, di questioni che in sostanza attengono ai valori (che possono essere) sottoposti al regime previsto per il capitale [30] (il come è regolato un fenomeno) – e su cui si appuntano molte delle critiche, invero «non radicali» [31] –, mentre l’interrogativo cui si cercherà di dare risposta attiene al perché è prevista una specifica disciplina di quei valori [32]. A tal fine, muoverei dall’osservazione che il capitale rappresenta la regola basilare del finanziamento delle strutture organizzate secondo il paradigma societario [33], intesa nella più ampia accezione di strumento volto anche a disciplinare, e quindi, inevitabilmente, a misurare [34], l’eventuale plusvalore dell’attivo, detratte le passività di gestione, sulla ricchezza stabilmente destinata allo svolgimento di un’attività economica [35], al fine di rimarcare l’esigenza di attingere esclusivamente ai segmenti disciplinari comuni a tutti i tipi societari [36]. Qualche utile elemento di riflessione è offerto già dall’art. 2247 c.c., che, nel qualificare il contratto di società, identifica come necessario il conferimento di beni o servizi per l’esercizio in comune di un’attività economica allo scopo di dividere gli utili [37]. Emerge allora da un lato il rilievo tipologico del riconoscimento a coloro che hanno compiuto la (libera) scelta di destinare (conferire) una porzione del risparmio individuale a capitale, e cioè ai soci, di un’esclusiva pretesa sulla ricchezza eccedente quella vincolata al pagamento dei creditori, e [continua ..]
Già la disciplina richiamata consente di individuare l’essenza del fenomeno nell’esigenza di distinguere i soggetti che assumono il rischio d’impresa da quelli che le concedono credito, assumendo il diverso rischio della sua insolvenza [48]. Ciò nel senso che diverse sono, e devono restare per l’intera durata dell’iniziativa economica, le regole di remunerazione della ricchezza destinata allo svolgimento di una determinata attività; per i soci essa si articola secondo il principio del risultato conseguito, e ciò in quanto, appunto, sono costoro ad assumere il relativo rischio, onde solo se vi è un surplus attivo vi potrà essere remunerazione di quella ricchezza; per i terzi, invece, la remunerazione è predefinita e, quindi, almeno direttamente essi non corrono alcun rischio d’impresa [49]. È questa regola basilare di qualsiasi modello imprenditoriale [50], che nelle società assume anche un significato organizzativo per l’intima e imprescindibile correlazione con la formazione di un diverso e autonomo centro d’imputazione giuridica a rilievo metaindividuale [51]: se non è immaginabile un sistema ove tutti coloro che mettono a disposizione i fattori della produzione vengano remunerati in modo prestabilito, nelle società tale regola trova concreta applicazione mediante la previsione che i soci potranno essere remunerati solo su quanto residua dopo aver soddisfatto tutti gli altri soggetti che vantano legittime pretese sul patrimonio della società. I soci, quindi, in quanto residual claimants saranno esposti per primi alle perdite sofferte dalla società e, se non hanno scelto uno dei tipi societari che consente una limitazione del rischio, dovranno sopportarne interamente l’incidenza. Naturalmente non ci si riferisce alla responsabilità per debito della società, esterna rispetto al modello disciplinare dell’organizzazione societaria, che connota la posizione del socio verso i creditori sociali anche in assenza di perdite [52], ma alla soggezione del socio, rectius di tutti i soci in tutte le società, al disavanzo patrimoniale che implica il parziale o mancato rimborso del valore corrispondente al conferimento effettuato e che, nel caso di responsabilità illimitata, può estendersi oltre tale [continua ..]
Dalle osservazioni svolte emerge il significato, se si vuole formale, ma cui la legge riconduce valenza precipua richiedendone l’indicazione nell’atto costitutivo – salvo il caso peculiare delle società cooperative – che assume il capitale, inteso come cifra/numero dei valori che lo compongono; si tratta non solo di evidenziare come esso rappresenti elemento indispensabile dell’organizzazione del finanziamento nelle società commerciali, ma anche di valorizzare il significato che assume la decisione di conferire, apprezzata come scelta di assoggettare una porzione della ricchezza personale a una particolare disciplina. Occorre allora, in via generale, che si rispetti la regola, se si vuole anch’essa formale, del conferire e quella altrettanto formale dei limiti e dei modi previsti per avere accesso ai singoli tipi societari [60], per assumere quella particolare posizione giuridica nell’ambito della classe dei finanziatori dell’impresa che l’ordinamento distingue da qualsiasi altra anche quando fondata su un titolo di compartecipazione al risultato dell’attività svolta [61]. La relazione individuata, inoltre, consente di chiarire come al capitale sociale non è intrinsecamente riconducibile la c.d. funzione organizzativa interna, con ciò intendendosi alludere alla capacità di misurare la posizione amministrativa assunta da ciascun socio nell’ambito dell’organizzazione. Osservato che non si tratta di elemento tipico della fattispecie, in quanto l’articolazione ordinatrice delle posizioni corporative può aversi anche in mancanza di un modello fondato sul capitale, deve essere precisato che proprio nelle società di capitali lucrative [62], dove più evidente è il (solo) naturale rapporto tra partecipazione (inteso in senso quantitativo e, forse, oggi anche qualitativo: azioni correlate) al capitale e potere di indirizzo o di iniziativa [63], si riconosce uno spazio maggiore al potere di articolare diversamente l’assetto organizzativo [64]. L’esempio più nitido, è la possibilità di emettere azioni a voto escluso, dove i titolari pur avendo assunto la qualità di socio e quindi il conseguente rischio finanziario, sono sostanzialmente privati dei poteri amministrativi correlati al diritto di voto. D’altra parte, se [continua ..]
Accennavo all’inizio che per un corretto approccio alla materia occorre evitare qualsiasi contaminazione con il diverso – e certo di pari rilevanza – profilo della formazione del capitale reale, e che di conseguenza l’analisi deve essere impostata in modo da non intersecare con la disciplina dei conferimenti, che oggi presenta, sia in riferimento ai beni/valori conferibili, sia all’esigenza di garantirne l’oggettiva determinazione valoristica, una diversa articolazione disciplinare nella s.p.a. e nella s.r.l. [67], che di per sé – almeno ai fini della presente indagine – ne ridimensiona il rilievo. In particolare va sottolineato come molti equivoci sorgono in ragione del fatto che l’analisi è svolta avendo riguardo al capitale minimo fissato per le società di capitali lucrative dagli artt. 2327 e 2463, 2° comma, n. 4) c.c., cui fa seguito l’ovvia osservazione che tali importi sono assolutamente irrisori per qualsiasi iniziativa economica coerente con la scelta di utilizzare un modello organizzativo personificato; qualche utilità, invece, può avere il rilievo che in sede di riforma delle società di capitali da un lato non si è provveduto ad adeguarne il valore, e dall’altro si è ridotta la percentuale del versamento dei conferimenti in denaro. Considerato, pertanto, che il legislatore non ha avvertito alcuna necessità di elevare la soglia legalmente prestabilita [68], si rafforza l’idea che al capitale minimo non sono riconducibili né una, sia pur generica, funzione di garanzia dei creditori [69], né una funzione produttiva [70] nel senso di somma di valori destinata a misurare la capacità produttiva dell’organismo, da cui è derivata la costruzione che ritiene necessario un rapporto di non manifesta incongruenza tra mezzi propri ed efficiente svolgimento dell’impresa [71]. Del resto, escludendo le società sottoposte al vincolo della disciplina Comunitaria, nell’ultimo decennio si è assistito a una concorrenza del mercato delle regole [72] tutta giocata verso il basso [73] al fine di non disperdere, quando addirittura ad attrarre, la platea dei soggetti economici operanti nei singoli Paesi [74] dell’Unione Europea. Non è il caso di esprimere giudizi [75]; val la pena [continua ..]
Altrettanto chiaro diviene allora che il tema non interseca minimamente con la disciplina del bilancio d’esercizio e, in particolare, con la recente adozione a livello Comunitario di un sistema di valutazione fondato sul fair value [85] e sul recepimento dei principi contabili internazionali [86]; postulato che il bilancio, e in ciò sta la sua effettiva utilità, misura convenzionalmente una realtà che sfugge a valutazioni assolute ed oggettive, non può negarsi che gli International Accounting Standard Board [87] privilegiano l’informazione [88] sulle performance della società per meglio consentire all’investitore [89], rafforzandone la tutela, di fare scelte finanziarie consapevoli [90], mentre in qualche misura sacrificano quello dei creditori [91], almeno se si confronta tale modello con quello tradizionale, originariamente previsto nella IV Direttiva UE, fondato sulla generale applicazione del criterio del costo storico quale estrinsecazione del generale principio di prudenza [92]. Ma tale disciplina incide su un piano del tutto diverso che investe la diacronica funzione informativa e organizzativa [93] del bilancio d’esercizio e dove le soluzioni al momento adottate aspirano comunque ad impedire che i ricavi non realizzati, ma tuttavia maturati e rilevabili in misura attendibile, entrino a far parte della c.d. porzione del netto disponibile che, pertanto, i soci sono liberi di riassegnarsi a titolo di dividendo [94]. Del resto, qualsiasi sistema di rilevazione della ricchezza esistente e di quella disponibile, e quindi dell’utile distribuibile, si pone a valle del capitale, che è cifra statutariamente prefissata e che non sollecita, né si presta, ad un’analisi circa i profili di (una sua) valutazione, bensì esclusivamente di sua conservazione intesa come costante corrispondenza tra il valore fisso e i valori presenti e rappresentati nel patrimonio della società. Il sistema fondato sul fair value [95] comporterà di certo più sensibili oscillazioni delle performances aziendali in quanto funzionale a misurare la capacità dell’impresa di generare per il futuro flussi finanziari, che possono interferire con la disciplina posta a presidio della conservazione del capitale sociale esclusivamente riguardo [continua ..]
Al fine di contestare l’efficienza del modello normativo fondato sul capitale sociale [98], si è, inoltre, richiamata la disciplina contenuta negli artt. 2447, 2482-ter e 2484, 1° comma, n. 4), c.c., che sanziona la riduzione per perdite del capitale sotto il plafond minimo con lo scioglimento della società, la liquidazione del patrimonio e la conseguente estinzione dell’ente. A prescindere dalla più generale considerazione che si tratta di disciplina applicabile solo alle società lucrative [99] per le quali è imposto un capitale minimo, tant’è che nelle società di persone la perdita del capitale non è apprezzata quale autonoma causa di scioglimento, non direi nel nostro ordinamento sia ravvisabile un principio che corrisponde allo slogan ricapitalizza o liquida [100]. Infatti, l’art. 2484, 1° comma, n. 4), c.c. si limita a ritenere intollerabile che il patrimonio netto scenda al di sotto della soglia legale stabilita per il capitale sociale, senza instaurare alcuna relazione con l’ipotetico declino dell’impresa [101] ed i correlati benefici per i creditori che, dall’imposta interruzione dell’attività, sarebbero almeno affrancati dal rischio di un aggravamento dello stato di crisi e dal più che probabile incremento dell’esposizione debitoria. L’esistenza di una perdita certamente consistente, non implica necessariamente che la società sia insolvente [102] o prossima alla decozione [103], sia perché la reazione dell’ordinamento si produce solo quando il rapporto patrimonio/capitale minimo è ridotto di almeno 1/3 [104], sia perché – al fine di evitare lo scioglimento – la società anziché assorbire interamente la perdita e contestualmente aumentare il capitale almeno nella misura necessaria a ripristinare il minimo di legge, può deliberare la trasformazione, che è fattispecie inidonea a modificare la pregressa situazione economica e finanziaria, ma che pur tuttavia postula la continuazione dell’attività [105]. Da ciò emerge che la disciplina in esame non è funzionale a prevenire una traslazione del rischio d’impresa sui creditori, poiché appronta un rimedio che può lasciare assolutamente inalterato il [continua ..]
Prima di formulare qualche osservazione conclusiva, occorre riflettere sulla seguente articolazione procedimentale prevista per le s.p.a.: determinazione della cifra (valore) del capitale nominale, successiva ripartizione in (sue) frazioni, e, infine, assegnazione di esse ai soci [125]. Da ciò, infatti, si ricava una significativa conferma che la definizione quantitativa del complessivo investimento iniziale rappresenta un prius, e che solo con l’attribuzione delle azioni si misura, e prima ancora si riconosce e si rende riconoscibile, la posizione giuridica tipica del socio. Infatti dalla disciplina prevista dagli artt. 2364, 4° comma, e 2468, 2° comma, c.c. si desume che la partecipazione sociale è condizionata esclusivamente dalla presenza di una relazione formale con il titolo rappresentativo di una porzione del capitale nominale, senza che si abbia l’obbligatoria intermediazione del conferimento personale [126]. Inoltre, dal principio per cui la somma del valore dei conferimenti deve essere almeno uguale al capitale nominale, discende che, una volta assicurata tale corrispondenza – che seleziona, con effetti di natura metaindividuale, le diverse sfere di competenza [127] (poteri) riconosciute a coloro che vantano pretese su un determinato patrimonio – termina la funzione regolatrice del capitale stesso, aprendosi viceversa lo spazio ai rapporti interni tra soci, che, per sua natura, è retto dal principio di libertà [128] per la migliore composizione dei vari interessi coinvolti. Il fatto che sia consentito derogare vuoi al rapporto di proporzionalità tra valore del conferito rispetto al capitale cifra e numero di azioni assegnate, vuoi alla regola che il valore complessivo della partecipazione ricevuta non superi quello del conferimento [129], traccia significativamente un’ideale continuità tra l’art. 2263, 1° comma, c.c. dove la regola suppletiva, che pertanto apre alla libera negoziazione tra coloro che si caratterizzano per l’identica posizione corporativa, pone una presunzione di proporzionalità tra conferimenti e misurazione dei guadagni e delle perdite, finendo anche per selezionare tipologicamente il titolo necessario per acquisire la posizione di socio [130], e gli artt. 2436 e 2468 c.c. che nel consentire, in ragione della diversa disciplina finanziaria dell’organizzazione societaria, [continua ..]