Rivista di Diritto SocietarioISSN 1972-9243 / EISSN 2421-7166
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Versamenti in conto capitale, riserve 'targate' e finanziamenti dei soci (nota a Cass., 24 luglio 2007, n. 16393) (di Stefano Ferri)


CORTE DI CASSAZIONE, 24 luglio 2007, n. 16393 – Carnevale Presidente – Del Core Estensiore – Sorrentino P.M. – Maffei S.r.l. c. P.M.R.

Società – Società di capitali – Società per azioni – Organi sociali – Assemblea dei soci – Costituzione – In genere – Verbale di deliberazione assembleare – Identificazione dei soci partecipanti – Assenza – Difetto di costituzione dell’assemblea – Prova concreta – Necessità – “Onus probandi” – A carico del socio impugnante – Fattispecie anteriore al d.lgs. n. 6 del 2003

(Artt. 1421, 2366, 2375, 2379, 2697 c.c.)

L’omessa verbalizzazione dell’identificazione dei soci partecipanti ad un’assemblea di società per azioni non determina automaticamente la nullità assoluta della deliberazione, essendo necessario dimostrare e non soltanto supporre il difetto di costituzione dell’organo deliberante, in quanto l’identificazione può avvenire anche in modo informale ed implicito mediante l’attestazione presidenziale della valida costituzione dell’assemblea (fattispecie anteriore al d.lgs. n. 6 del 2003). (Rigetta, App. Sassari, 25 settembre 2003) (1).

Società – Società di capitali – Società per azioni – Costituzione – Modi di formazione del capitale – Conferimenti – In genere – Versamenti in conto capitale – Natura giuridica – Conferimenti atti a incrementare il patrimonio netto – Destinazione – Costituzione di riserva “di capitale” soggetta alla stessa disciplina della riserva da soprapprezzo – Diritto alla restituzione – Condizioni

(Artt. 2431, 2432 c.c.)

I versamenti in conto capitale costituiscono conferimenti volti a incrementare il patrimonio netto della società e non sono imputabili a capitale, salvo che, con apposita delibera assembleare di modifica dell’atto costitutivo, non ne venga disposto successivamente l’utilizzo per un aumento del capitale sociale; una volta eseguiti, i versamenti vanno a costituire una riserva, non di utili, ma “di capitale”, soggetta alla stessa disciplina della riserva da soprapprezzo (art. 2431 cod. civ.), seppure “personalizzata” o “targata” in quanto di esclusiva pertinenza dei soci che li hanno effettuati. Ne consegue che i soci eroganti possono chiedere la restituzione delle somme versate solo per effetto dello scioglimento della società e nei limiti dell’eventuale residuo attivo del bilancio di liquidazione e che, d’altra parte, i ridetti versamenti, in caso di saturazione della riserva legale, possono con delibera dell’assemblea ordinaria essere distribuiti “durante societate” tra i soci in misura corrispondente a quanto da ognuno versato. (Rigetta, App. Sassari, 25 settembre 2003) (2).

Società – Società di capitali – Società per azioni – Organi sociali – Assemblea dei soci – Deliberazioni – Invalide – Impugnazione – In genere – Delibera adottata con intervento di soci non in regola con il deposito dei certificati azionari – Rilevabilità del vizio – Prova – Onere a carico della parte impugnante – Contenuto

(Artt. 2377, 2379 c.c.; art. 4, legge n. 1745/1962)

In caso di impugnazione di delibera adottata con intervento di soci iscritti nel relativo libro ma non in regola con il deposito dei certificati azionari prescritto dall’art. 4 della legge n. 1745 del 1962, il relativo vizio può essere rilevato solo in conseguenza della prova, il cui onere incombe sulla parte impugnante, della concreta mancanza della qualità di socio in capo al soggetto che vi ha preso parte, poiché è solo quella qualità, e non il previo deposito delle azioni, che legittima ad intervenire all’assemblea. (Rigetta, App. Sassari, 25 settembre 2003) (3).

Società – Società di capitali – Società a responsabilità limitata – Capitale sociale – Conferimenti – In genere – Finanziamenti del socio in favore della società – Nozione – Impugnazione della delibera di rimborso dei finanziamenti in questione – Prova a carico della parte impugnante – Contenuto

(Art. 2467 c.c.)

La proposizione normativa contenuta nell’art. 2467 cod. civ. – secondo cui il rimborso dei finanziamenti dei soci a favore della società è postergato rispetto alla soddisfazione degli altri creditori e, se avvenuto nell’anno precedente la dichiarazione di fallimento della società, deve essere restituito – è applicabile, come reso evidente dal secondo comma della disposizione, non a ogni forma di finanziamento da parte dei soci, ma, esclusivamente, alla figura dei cosiddetti prestiti anomali o “sostitutivi del capitale” al fine di porre rimedio alle ipotesi di sottocapitalizzazione cosiddetta nominale. Pertanto, in caso di impugnazione della delibera assembleare di rimborso di finanziamenti ritenuti anomali nel senso appena chiarito, la parte impugnante deve provare che la deliberazione medesima sia stata adottata in presenza di un eccesso di indebitamento rispetto al patrimonio netto della società, o di una situazione finanziaria in cui sarebbe stato ragionevole un conferimento, ovvero, in una fase in cui la società, in reazione all’attività in concreto esercitata, aveva la necessità delle risorse messe a disposizione dai socie finanziatori e non sarebbe stata in grado di rimborsarli (4).

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Nel giugno 1996 P.M.R., M.C. e M.A., quali eredi legittimi di M.G., morto il (OMISSIS), e l’ultima anche in proprio, citarono in giudizio davanti al Tribunale di Tempio Pausania la Maffei s.r.l. sedente in (OMISSIS), esponendo che: al momento del decesso del loro dante causa, le azioni della allora Maffei s.p.a. erano di proprietà di quest’ultimo e della di lui figlia A.; in seguito, le azioni del loro, rispettivamente, marito e padre erano state cedute a terzi; in data 12 febbraio 1987 l’assemblea ordinaria della Maffei s.p.a. aveva deciso di trasformare, con decorrenza 1 maggio 1987, “da conto capitale a conto corrente” il debito, pari a L. 292.560.000, esistente nei confronti dei soci e di riconoscere altresì l’interesse legale del 5% da calcolarsi a fine anno; tuttavia, la società non aveva provveduto a effettuare le dovute restituzioni;

pertanto, ciascuno di essi era creditore iuxe haereditario, nella misura di un terzo, della somma di L. 292.560.000 e la sola M. A. anche della somma di L. 292.560. Su tali premesse, gli attori domandarono la condanna della società convenuta a corrispondere loro le relative somme maggiorate degli interessi legali.

La Maffei s.r.l. resistette alla pretesa e, in via riconvenzionale, chiese dichiararsi la nullità, per una pluralità di motivi, della Delib. presa in data 12 febbraio 1987.

La domanda attorea venne accolta dal Tribunale adito. Proposto gravame dalla soccombente, la Corte d’Appello di Cagliari, sezione distaccata di Sassari, con sentenza non definitiva del 21 marzo 2002, ne respinse i motivi volti a contestare la legittimazione attiva degli attori e la validità della Delib. assembleare febbraio 1987, ritenendo fondato l’atto impugnatorio solo con riferimento alla misura degli importi dovuti dalla società. Quindi, con sentenza del 25 settembre 2003, in accoglimento di altro motivo di appello, ridusse a L. 160.908.000 la somma che gli appellati avevano diritto a ricevere, pro quota ereditaria, dalla s.r.l. Maffei. Con la prima delle due sentenze, la Corte osservò che: la mancata convocazione dei soci e l’omessa comunicazione dell’ordine del giorno non avevano comportato nullità della delibera, in quanto adottata da assemblea totalitaria (art. 2366 c.c., comma 3); neanche la mancata identificazione dei partecipanti costituisce motivo di nullità, trattandosi di adempimento non soggetto a particolari formalità cui è possibile supplire con la personale conoscenza da parte del presidente dell’assemblea, sicché è sufficiente la dichiarazione, riportata nel verbale, della regolare costituzione dell’adunanza;

l’omesso deposito delle azioni costituisce non un caso di nullità, ma di vizio dell’assemblea, da farsi valere nel termine di tre mesi di cui all’art. 2377 c.c., comma 2, e, quindi, non più invocabile da parte della società che non provi la concreta mancanza della qualità di socio in capo a uno o a entrambi i partecipanti o la mancata convocazione di terzi, acquirenti di azioni; la deliberazione relativa alla trasformazione dei versamenti effettuati dai soci è legittima in quanto, benché i versamenti “in conto capitale” debbano essere restituiti soltanto all’atto dello scioglimento della società, non è esplicitamente previsto che non se ne possa mutare la destinazione e disporre la restituzione ai soci, ove vengano osservate le norme dettate dall’art. 2445 c.c., per la riduzione del capitale sociale. Per il resto, occorreva appurare la misura dei conferimenti a suo tempo effettuati da M.G. e, eventualmente, anche da M.A. e stabilire se, al momento dell’apertura della successione, il credito per il rimborso del conferimento fosse ancora da computarsi nel patrimonio relitto dal de cuius. Nessun titolo avevano gli appellati a richiedere la restituzione delle somme già dovute all’altro socio M.E.. Con la sentenza definitiva, la Corte sarda rilevò come dall’esame della prodotta documentazione fosse risultato che M.A. non aveva effettuato alcun conferimento, che M.G. era titolare del 55% delle azioni e che quest’ultimo e M.E. avevano effettuato versamenti in conto capitale per l’ammontare complessivo di L. 292.500.000; il credito maturato in capo al predetto e trasmesso ai di lui eredi era quindi pari a L. (292.500.000 – 45% =) 160.908.000.

Avverso entrambe le sopra compendiate sentenze la Maffei s.r.l. ha proposto ricorso per Cassazione sulla base di cinque motivi, cui resistono con controricorso P.M.R., M.C. e M.A., quali eredi legittimi di M.G..

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo, si denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 2366 e 2375 c.c., omessa o insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia. La corte Territoriale ha ritenuto sanati i vizi della convocazione dell’assemblea, poiché totalitaria, senza tenere conto dell’ulteriore motivo di nullità della deliberazione basato sull’omessa identificazione dei partecipanti. Il carattere plenario dell’adunanza non poteva ritenersi provato sulla scorta di un giudizio formulato dal presidente, insuscettibile di verifica, non risultando nominate né identificate, con apposita indicazione della loro generalità nel verbale dell’assemblea, le persone intervenutevi. Nessun rilievo poteva attribuirsi all’affermazione del presidente relativamente alla regolare costituzione dell’assemblea, trattandosi di giudizio di cui non era possibile controllare la correttezza, proprio a causa della mancata identificazione dei partecipanti.

Con il secondo motivo, la ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione della L. 29 dicembre 1962, n. 1745, artt. 4 e 5, artt. 2375, 2377 e 2379 c.c., omessa o insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia. Era, anzitutto, onere degli attori dimostrare l’avve­nuto preventivo deposito dei titoli azionar da parte degli intervenuti all’assemblea, non risultando dal relativo verbale l’adempimento di questa ineludibile formalità. Contrariamente a quanto opinato dalla Corte d’Appello, il mancato deposito dei titoli importa vizio di inesistenza o nullità assoluta della deliberazione assembleare.

I sopra compendiati motivi esigono trattazione congiunta poiché implicano la risoluzione di questioni comuni (invalidità della delibera assembleare per pretesi vizi di costituzione dell’assemblea) ed è unica la ragione del loro rigetto, prima di esplicitare la quale è d’uopo svolgere alcune premesse.

Le censure in questione in tanto possono essere scrutinate “nel merito” in quanto con esse si supponga che la società abbia inteso sollecitare i poteri di rilevazione di ufficio della nullità o della inesistenza della delibera ai sensi del combinato disposto degli artt. 2379 e 1421 c.c., evidente essendo che, per l’annullabilità della delibera assembleare (art. 2377 c.c.), la società difetterebbe di legittimazione attiva. Particolare, questo, che sembra essere sfuggito alla Corte d’Appello la quale, a proposito del dedotto mancato deposito delle azioni, parla, sia pure con argomentazione di rincalzo, di decadenza della società dal diritto di far valere il conseguente vizio (ritenuto di annullabilità) della delibera, per essere decorso il termine di cui all’art. 2377 c.c., comma 2, laddove più corretto sarebbe stato semmai rilevare il difetto di legittimazione attiva della convenuta, attrice in riconvenzione.

La soluzione della questione che indirettamente viene sottoposta all’esame di questa Corte – id est, la natura del vizio da cui può essere affetta la deliberazione di società per azioni adottata senza l’identificazione a verbale dei partecipanti o da soci intervenuti in assemblea senza aver preventivamente provveduto al deposito delle proprie azioni – non può essere data perché deve aversi riguardo a un elemento logicamente e ineludibilmente anteriore, e cioè alla prova richiesta per fare valere quei vizi in sede di impugnazione della delibera.

L’art. 2377 c.c. e l’art. 2379 c.c. (vecchio testo) sanciscono, rispettivamente, l’annullabilità delle deliberazioni non adottate in conformità della legge o dell’atto costitutivo e la nullità delle deliberazioni recanti un oggetto illecito o impossibile. Di esse consentono l’impugnazione (la prima norma a determinati interessati), con l’ovvio onere di colui che la propone di allegare e dimostrare, secondo i principi generali dell’azione, lo specifico fatto che produce la difformità invalidante o l’impossibilità o l’illiceità del­l’og­getto.

Dato che nel caso in ispecie si discute sulla valida costituzione dell’assemblea in relazione alla legittimazione dei partecipanti e quest’ultima deriva da una condizione sostanziale (qualità di socio o titolarità di un diritto sul­l’azio­ne, al quale è connesso il diritto di voto), ciò che l’attore deve allegare e provare a fondamento dell’im­pu­gnazione è il concreto difetto, rispetto a taluno dei partecipanti, di tale condizione e non l’astratta possibilità che essa non sussista. Al riguardo, va richiamata la giurisprudenza di questa Corte, la quale, pur negando il carattere per cosi dire analitico del verbale delle deliberazioni assembleari e, dunque, escludendo che ad esso debba essere “attribuito lo scopo e l’efficacia di mezzo di documentazione posto a tutela dei soci dissenzienti o assenti e comunque delle minoranze che non abbiano votato a favore”, non ha dubitato che la società sia tenuta a conservare non solo la documentazione relativa alle deleghe di rappresentanza (come espressamente prescritto dall’art. 2372 c.c., comma 1), ma, per la stessa ragione, anche quella concernente la verifica del diritto di intervento dei soci, vale a dire di tutti i fattori di costituzione dell’assemblea secondo il disposto dell’art. 2370 c.c. Sicché, pur se non allegato al verbale e perciò non parte integrante di esso, l’elenco dei soci ammessi e partecipanti, idoneamente formato dagli organi della società e conservato ai suoi atti, costituisce la fonte primaria di prova della composizione dell’assemblea e, indirettamente, delle assenze (vedi Cass. nn. 2263/1970, 3107/1956).

Per la soluzione della questione sollevata più specificamente con il secondo motivo, non offre argomento decisivo la sentenza di questa Corte n. 5197 dell’8 ottobre 1979, richiamata dalla ricorrente a conforto della propria tesi, riguardando essa un caso in cui i partecipanti all’as­semblea erano risultati (provatamente) tutti privi del diritto di voto, non avendo potuto effettuare, ai sensi della L. 29 dicembre 1962, n. 1745, art. 4, il previo deposito delle azioni, di cui non erano più in possesso per averle dato in pegno.

Svolte le superiori premesse, con riferimento al primo motivo va osservato come sia ovviamente buona norma che, ai fini della regolarità formale, il verbale di assemblea di una società per azioni dia atto dell’avvenuta identificazione dei partecipanti, ma non può certo seguirsi la tesi della ricorrente secondo cui l’omessa verbalizzazione del­l’avvenuta identificazione dei partecipanti importi automaticamente l’invalidità della deliberazione assembleare, quasi che questa dovesse, in tal caso, presumersi adottata da soggetti non legittimati.

In contrario, va anzitutto rammentato che, perlomeno con riferimento all’assetto normativo vigente all’epoca dei fatti di causa, l’identificazione dei partecipanti può avvenire anche in modo informale, in base alla loro diretta conoscenza da parte del presidente o dei suoi immediati collaboratori (ciò pure nelle grandi società per la frequenza con cui i piccoli azionisti concentrano la loro rappresentanza in poche, e di solito abituali, persone fisiche) e che l’attestazione presidenziale della valida costituzione dell’assemblea può implicitamente voler dire che l’identificazione degli intervenuti abbia avuto luogo almeno nel modo suddetto (vedi Cass. nn. 5542/1997, 693/1976, 2263/1970).

Peraltro, la mancanza nel verbale di una specifica attestazione circa l’avvenuta identificazione dei partecipanti – anche qualora se ne volesse inferire una reale omissione e, quindi, un’irregolarità sostanziale anziché solo formale, come invece deve ritenersi di fronte all’attestazione presidenziale della valida costituzione dell’assemblea – non configura altro che un’astratta possibilità di vizio della delibera per difetto di costituzione dell’organo deliberante. Ma perché il Giudice possa dichiarare l’invalidità della deliberazione occorre concretamente dimostrarne e non soltanto supporne la difformità dalla legge o dall’atto costitutivo ovvero l’oggetto illecito o impossibile. E poiché, in definitiva, la ricorrente si è limitata ad ipotizzare un vizio di costituzione dell’assemblea, esattamente la Corte di merito (cui nessuna prova di specifici fatti invalidanti sotto il profilo qui considerato è stata offerta) ha comunque respinto l’im­pugnazione della delibera, per invalidare la quale la società avrebbe dovuto dimostrare che tutti coloro di cui non è stata accertata la legittimazione a partecipare allariunione assembleare ne erano effettivamente privi.

Stesso discorso va fatto per il dedotto mancato deposito delle azioni cinque giorni prima dell’assemblea in cui fu adottata la delibera impugnata (secondo motivo). Quand’an­che si volesse ritenere che la delibera sia stata adottata con il concorso di soci iscritti nel relativo libro ma non in regola con il deposito dei certificati azionari prescritto dalla L. n. 1745 del 1962, art. 4, il vizio potrebbe essere rilevato solo in conseguenza della prova (il cui onere incombe su chi vuole far valere il vizio) della concreta mancanza della qualità di socio in capo al soggetto che vi ha preso parte, poiché è solo quella qualità (e non il previo deposito delle azioni) che legittima ad intervenire all’assemblea. Di conseguenza, nel caso in cui il socio, ancorché inadempiente, partecipi all’assemblea, il difetto di legittimazione all’inter­vento (in relazione al successivo calcolo dei quorum e delle maggioranze) deve essere dedotta non già con la semplice contestazione del mancato deposito, bensì con la negazione della qualità di socio in capo al soggetto inadempiente. Infatti, il previo deposito delle azioni è onere imposto dalla legge al fine di consentire agli organi sociali il controllo degli aventi diritto alla partecipazione e l’unica sanzione del relativo inadempimento non può essere che la non ammissione all’assemblea; ove però tale sanzione non sia stata applicata, la legittimità della partecipazione non può essere contestata se non denunciando la non appartenenza dell’intervenuto alla compagine sociale. Correttamente, dunque, la Corte Territoriale ha rilevato che, vertendosi in ipotesi di assemblea totalitaria, il mancato deposito delle azioni supponeva in ogni caso la prova incombente sulla società – tenuta a conservare tutta la documentazione inerente l’intervento dei soci nelle riunioni assembleari – che alcuno o entrambi i partecipanti avessero ceduto le proprie azioni.

Nella specie, quindi, non è stato provato che i partecipanti all’assemblea non erano soci, ma si continua a insistere per la nullità della delibera, mettendo in dubbio quanto attestato dal presidente dell’assemblea, e si pretende che siano gli attori a dare prova dei partecipanti alla riunione e del regolare deposito dei titoli azionari. Di contro, tanto l’identità dei partecipanti alla riunione quanto l’omesso deposito delle azioni, cinque giorni prima della assemblea, dovevano essere dimostrati documentalmente in base alle scritture che la società deve conservare come espressamente prescritto per i documenti inerenti alla convocazione e alla riunione dell’assemblea e per le deleghe di rappresentanza, a comprova, se richiesto dagli interessati, della legalità del procedimento assembleare.

Prescindendo, dunque, dalle problematiche relative alla latitudine dell’obbligo di procedere direttamente all’identi­ficazione di coloro che intervengono alla riunione assembleare e alla forma (analitica o sintetica) del relativo verbale, deve ribadirsi che colui il quale abbia motivo di dubitare della legittimazione di taluni dei partecipanti (e si proponga di impugnare sotto questo profilo la deliberazione contraria ai suoi interessi) ha l’onere di fare le specifiche contestazioni in assemblea, per sollecitare l’accertamento formale della loro identità, e le specifiche allegazioni (con la produzione delle relative prove) in sede giudiziaria, per ottenere l’annullamento della deliberazione. È, quindi, da condividere l’affermazione del Giudice a quo secondo cui tale onere probatorio incombeva comunque sulla società, non solo perché essa, in quanto tenuta a conservare tutta la documentazione riguardante le operazioni di verifica del diritto di intervento e di voto dei soci, aveva la disponibilità materiale della fonte di conoscenza della legittimazione degli attori, ma proprio in ossequio ai principi che presiedono alla ripartizione dell’onere della prova. Chi impugna una delibera societaria ha l’obbligo di dimostrarne i presupposti in fatto e in diritto.

Con il terzo motivo, la ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 2365, 2379 e 2445 c.c., nonché omessa o insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia.

La delibera era nulla poiché, non ricorrendo le condizioni previste dall’art. 2445 c.c., non poteva essere disposta la restituzione anticipata, rispetto alla liquidazione, dei versamenti in conto capitale, da ritenersi assoggettati al rischio di impresa e assimilabili alle riserve indisponibili. Richiama precedenti di questa Corte, secondo cui, non potendosi i versamenti in conto capitale equiparare ai mutui, e non essendo essi divenuti capitale, l’eventuale mutamento di destinazione delle relative somme potrebbe avvenire in corso di vigenza della società, a condizione che vengano osservate le norme di cui all’art. 2445 c.c., per la riduzione del capitale sociale. Erroneamente i giudici di appello hanno ritenuto, nel caso di specie, rispettata la predetta norma, in quanto la restituzione non è stata disposta per motivi di riduzione del capitale e pertanto l’uni­ca formalità prescritta era l’indicazione dei motivi della re­stituzione nell’avviso di convocazione, adempimento tuttavia superato dal carattere totalitario dell’assemblea che ave­va adottato la deliberazione. Invero, nel presupposto del­l’applicabilità dell’articolo sopra citato, si sarebbe dovuto rilevare che la deliberazione non era stata assunta, come dovuto, in una assemblea straordinaria, bensì in una assemblea ordinaria, quale era stata quella del 12 febbraio 1987. Inoltre, per esigenze minime di tutela dei terzi, la delibera avrebbe dovuto contenere i termini della eventuale esuberanza dei conferimenti dei soci e dimostrare i fatti specifici a fondamento del relativo giudizio.

La censura non è fondata, anche se coglie l’erroneità di talune affermazioni dell’impugnata sentenza, peraltro emendabili ai sensi dell’art. 384 c.p.c., essendo il dispositivo conforme a diritto.

Preliminarmente, va osservato che la destinazione “in conto capitale” dei versamenti oggetto di delibera costituisce circostanza pacifica in causa. D’altra parte, non appare dubitabile che con tale imputazione essi fossero stati registrati in contabilità.

Specifiche ragioni di dissenso, compendiate nel motivo in esame, investono invece la disciplina in concreto applicabile a questo tipo di apporti. La ricorrente si duole della ritenuta possibilità di una successiva valida rimozione, da parte della società, del vincolo di indisponibilità che caratterizzava ab origine i versamenti in questione.

In relazione a tali critiche, sono da approfondire le considerazioni svolte dalla ricorrente sull’indisponibilità delle somme versate e sulla postergazione della loro restituzione.

I versamenti in conto capitale si inseriscono tra gli apporti finanziari o i conferimenti eseguiti, normalmente in società sottocapitalizzate, al di fuori degli schemi giuridico-formali previsti dal codice civile per la originaria costituzione della società o per l’aumento del capitale sociale; si traducono in un incremento del solo patrimonio netto della società e non sono imputabili a capitale, salvo che, con apposita delibera assembleare di modifica dell’atto costitutivo, non ne venga disposto successivamente l’utilizzo per un aumento del capitale sociale. Dalla prassi si ricava che i versamenti in conto capitale – diffusisi sia in ragione dei benefici fiscali ad essi collegati, sia, soprattutto, perché costituiscono un efficace e flessibile strumento che i soci possono utilizzare per fare fronte a varie esigenze della società – sono diretti a creare disponibilità finanziarie discrezionalmente destinabili dagli amministratori a scopi attinenti all’oggetto sociale.

Sono, quindi, destinati a costituire frazioni del “capitale di rischio”, ovverosia “mezzi propri” della società beneficiaria. Non essendo imputabili a capitale nel senso appena chiarito, i versamenti in discorso, una volta eseguiti, vanno a costituire una riserva non di utili ma, come usa dirsi, “di capitale”, soggetta, secondo la condivisibile opinione della dottrina prevalente, alla stessa disciplina della riserva da soprapprezzo, seppure, si precisa, “personalizzata” o “targata” in quanto di esclusiva pertinenza dei soci che hanno effettuato i versamenti in relazione all’entità delle somme da ciascuno erogate.

L’analogia tra apporti di patrimonio e soprapprezzo è evidente. Il socio, infatti, sia che versi un soprapprezzo al momento della sottoscrizione delle azioni, sia che apporti entità patrimoniali indipendenti dall’emissione di azioni, mette durevolmente a disposizione della società mezzi economici per lo svolgimento dell’attività di impresa in vista dei risultati cui è chiamato a partecipare. Il che spiega perché l’apporto aggiuntivo del socio – di patrimonio o di sopraprezzo – possa essere non proporzionale alla partecipazione al capitale. Infatti, in tutti i tipi di società è possibile derogare al rapporto di proporzionalità tra conferimento e partecipazione ai risultati della società e tale deroga non è soggetta ad alcun vincolo di procedura o di forma quando discende da un comportamento spontaneo del socio.

La disciplina del soprapprezzo prevede che il relativo fondo, fino al momento dell’integrale costituzione della riserva legale, non sia disponibile per intero o, secondo un’interpretazione meno restrittiva, solo per la parte corrispondente alla quota di riserva legale mancante. Verificatesi comunque le condizioni di disponibilità, l’eventuale eccedenza del fondo di soprapprezzo diventa assimilabile a una qualsiasi riserva facoltativa, distribuibile a seguito di una semplice decisione dell’assemblea ordinaria.

Le conseguenze, in termini di disciplina, di tale impostazione (assimilazione della riserva in oggetto alla riserva da soprapprezzo), sono facilmente immaginabili. Una volta che le somme in conto capitale siano confluite nel coacervo del patrimonio comune, è escluso che i soci eroganti, finché dura la società, possano esercitare pretese restitutorie. Quindi, a differenza dei finanziamenti, cioè dei prestiti, i versamenti in questione non generano crediti esigibili dei soci nei confronti della società; la definitiva aggregazione al patrimonio netto dell’ente – dotato per tale via di ulteriori mezzi propri di cui poter disporre – evidentemente non sarebbe possibile se l’acquisizione delle somme erogate fosse bilanciata, al passivo, da debiti per restituzione di pari importo in favore dei soci. Gli apporti in discorso possono essere utilizzati per l’aumento gratuito del capitale, con attribuzione delle azioni di nuova emissione a tutti i soci, o impiegati per l’acquisto di azioni proprie. I soci possono chiedere la restituzione delle somme versate solo per effetto dello scioglimento della società e nei limiti del­l’eventuale residuo attivo del bilancio di liquidazione (quindi, dopo la liquidazione di tutte le passività sociali). I ridetti versamenti, tuttavia, in caso di saturazione della riserva legale, possono essere distribuiti durante societate e le relative somme andranno ripartite tra i soci (non in proporzione delle rispettive quote di partecipazione al capitale da ciascuno possedute ma) in misura corrispondente a quanto da ognuno versato; in diversi termini, la riserva formata con detti apporti sarà distribuitale nel corso della vita normale della società ai sensi e nei limiti dell’art. 2431 c.c., naturalmente con delibera dell’assemblea ordinaria.

Nella specie, non essendo neanche dedotto che la società fosse in fase liquidatoria o che sussistessero ostacoli connessi al livello della riserva legale (nel senso che questa fosse al di sotto del limite di legge), nulla impediva che la Maffei s.p.a., di sua spontanea volontà, decidesse di restituire detti apporti ai soci conferenti.

La conclusione cui è pervenuta la Corte Territoriale è, dunque, corretta anche se è errato il riferimento all’art. 2445 c.c., quasi che il rimborso ai soci dei versamenti in conto capitale implicasse l’adozione di una delibera di riduzione del capitale esuberante.

Ribadito, infatti, che i versamenti in conto capitale non vanno imputati al capitale ma al patrimonio, che la volontà degli autori dei versamenti è proprio quella di non assoggettarli, fino a futura diversa decisione, al regime del capitale e che, rispetto a detti apporti, sarebbe erroneo parlare di aumenti di fatto di capitale, in quanto nella disciplina codicistica il capitale può essere costituito e aumentato solo con procedure tipizzate, non sussistono, all’evidenza, i presupposti per ritenere la restituzione dei versamenti disciplinata dalla norma (l’art. 2445 c.c.) che riguarda la riduzione, mediante rimborso di quote ai soci, del capitale formalmente costituito. Dunque, in assenza di prova della successiva imputazione a capitale dei versamenti a suo tempo eseguiti dai due soci della Maffei s.p.a., la restituzione delle relative somme ai soci medesimi poteva essere disposta al di fuori del paradigma normativo di cui all’art. 2445 c.c..

Con il quarto motivo, la ricorrente denunzia la violazione dell’art. 2467 c.c., che, nel nuovo testo introdotto dalla riforma del diritto societario (D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 6), posterga il rimborso dei finanziamenti dei soci alla soddisfazione degli altri creditori. Ad avviso della ricorrente, la norma predetta sarebbe applicabile alla destinazione dei versamenti dei soci all’atto della deliberazione contestata, in considerazione che in quel momento gli stessi assolvevano indiscutibilmente una funzione simile a quella del capitale, per le esigenze della attività sociale.

Il motivo è inammissibile e comunque infondato.

Sotto il primo profilo, va osservato che la norma è entrata in vigore il 1 gennaio 2004, vale a dire a ben 17 anni di distanza dalla delibera contestata; non si vede, pertanto, come se ne possa invocare la" applicazione per valutare la legittimità del deliberato assembleare. Al tempo stesso, la questione sollevata con il mezzo in esame è dichiaratamente nuova, essendosi il giudizio di appello concluso prima della entrata in vigore della disciplina invocata.

Ma, come anticipato, la censura è anche infondata.

Al riguardo, è opportuno chiarire, che nonostante l’uso, già nella rubrica, della locuzione “finanziamenti dei soci”, la proposizione normativa contenuta nell’art. 2467 c.c., è applicabile non a ogni forma di finanziamento da parte dei soci, ma, esclusivamente, alla figura dei cosiddetti prestiti anomali (o “sostitutivi del capitale”) al fine di porre rimedio alle ipotesi di sottocapitalizzazione c.d. nominale.

Per come chiaramente specificato nel comma 2, “ai fini del precedente comma si intendono finanziamenti dei soci a favore della società quelli, in qualsiasi forma effettuati, che sono stati concessi in un momento in cui, anche in considerazione del tipo di attività esercitata dalla società, risulta un eccessivo squilibrio dell’indebitamento rispetto al patrimonio netto oppure in una situazione finanziaria della società nella quale sarebbe stato ragionevole un conferimento”.

È stato, quindi, introdotto, per le imprese che siano entrate o stiano per entrare in una situazione di crisi, un principio di corretto finanziamento la cui violazione comporta una riqualificazione imperativa del “prestito” in “prestito postergato” (rispetto alla soddisfazione degli altri creditori).

Nel caso di specie, la ricorrente non ha nemmeno dedotto che il rimborso del finanziamento durante societate sia avvenuto in presenza di un eccesso di indebitamento rispetto al patrimonio netto (dunque rispetto ai mezzi propri, non già al capitale sociale), o di una situazione finanziaria in cui sarebbe stato ragionevole un conferimento, ovvero, in altre parole, in una fase in cui la società, in relazione all’attività in concreto esercitata, aveva la necessità delle risorse messe a disposizione dai soci (finanziatori) e non sarebbe stata in grado di rimborsarli.

Inoltre, la norma è prevista per le società a responsabilità limitata, pur se viene estesa anche alle società per azioni quando facciano parte di un gruppo (art. 2497 quinquies c.c.). All’epoca della delibera impugnata la M. era una s.p.a. e non risulta che facesse parte di qualche gruppo.

Con il quinto motivo, la ricorrente denunzia la violazione e la falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., e vizi motivazionali. La Corte sarda ha erroneamente ricavato la prova, ricadente sugli appellati, dell’entità dei versamenti di M.G. dalla quota azionaria (55%) di cui egli risultava titolare in base alle scritture contabili. In realtà, non è provato che, rispetto all’intero montante dei versamenti, la somma conferita dal dante causa degli attori corrispondesse in percentuale alla sua partecipazione azionaria.

Il motivo è infondato.

Se è vero, e lo si è detto in precedenza, che l’apporto aggiuntivo del socio – si tratti di apporto di patrimonio o di soprapprezzo – può essere non proporzionale alla partecipazione al capitale, altrettanto indubbio è che, nella maggioranza dei casi, detti apporti sono eseguiti dai soci in proporzione alle rispettive quote di partecipazione.

Il Giudice a quo, ha pertanto legittimamente presunto, in base all’id quod plerumque accidit, che i versamenti fossero stati effettuati dai due soci della Maffei s.p.a. in rapporto alla rispettiva partecipazione sociale.

Come noto, è riservata al Giudice di merito la facoltà di valutare discrezionalmente se sia opportuno fare ricorso a presunzioni e se sussistano i requisiti di precisione, gravità e concordanza richiesti dalla legge per valorizzare elementi di fatto come circostanze idonee a giustificare illazioni secondo il criterio dell’id quod plerumque accidit; l’unico sindacato riservato in proposito al Giudice di legittimità è quello sulla congruenza della relativa motivazione. D’altra parte, le presunzioni semplici costituiscono una prova completa alla quale il Giudice di merito può attribuire rilevanza, anche in via esclusiva, ai fini della formazione del proprio convincimento, nell’esercizio del potere discrezionale, istituzionalmente demandatogli, di individuare le fonti di prova, controllarne l’attendibilità e la concludenza e, infine, scegliere, fra gli elementi probatori sottoposti al suo esame, quelli ritenuti più idonei a dimostrare i fatti costitutivi della domanda o dell’eccezione e valutarne la rispondenza ai requisiti di legge, con apprezzamento di fatto che, ove adeguatamente motivato, sfugge al sindacato di le­git­ti­mità (cfr. Cass. nn. 10135/2005, 9225/2005, 21047/2004, 16831/­2003, 15737/2003, 15706/2002, 15399/2002, 12980/­2002, 3974/2002).

A questo riguardo è peraltro inammissibile il profilo di censura relativo alla motivazione addotta sul punto dalla Corte isolana. La censura per vizio di motivazione in ordine al ragionamento presuntivo ne deve fare emergere l’as­so­luta illogicità e contraddittorietà e non può limitarsi ad affermare un convincimento diverso da quello espresso dal giudice di merito.

Al rigetto del ricorso segue la condanna della sua proponente alle spese.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alle spese del giudizio di cassazione, liquidate in Euro 3.600,00, di cui Euro 3.500,00 per onorari d’avvocato, oltre spese generali e accessori di legge.

 

(1-2-3-4Versamenti in conto capitale, riserve “targate” e finanziamenti dei soci

 

 

  
SOMMARIO:

1. Premessa - 2. Il fatto - 3. I precedenti giurisprudenziali e la dottrina. I versamenti in conto capitale: i principi generali confermati dalla sentenza - 4. (Segue). Versamenti in conto capitale e 'riserve targate' - 5. (Segue). I finanziamenti dei soci e l'art. 2467 c.c. - NOTE


1. Premessa

La sentenza in commento suscita interesse per due ragioni: da un lato accoglie – ed è la prima volta che ciò accade in un giudizio di legittimità – il concetto di riserva «targata» o «personalizzata» [1] (con tale locuzione intendendosi la riserva patrimoniale formata grazie agli apporti spontanei in favore della società da parte di uno o alcuni soci soltanto, ovvero di tutti i soci, ma in misura non proporzionale alle rispettive partecipazioni al capitale sociale); dall’altro lato offre alcuni significativi spunti per la ricostruzione della disciplina sui finanziamenti dei soci prevista dall’art. 2467 c.c.  


2. Il fatto

I soci di una società per azioni avevano provveduto ad erogare in favore di questa delle somme di denaro, registrate contabilmente come «versamenti in conto capitale». Successivamente l’assemblea ordinaria della società deliberava di riqualificare quelle poste come rimesse «in conto corrente», con conseguente diritto dei soci ad ottenere durante societate il pagamento del saldo attivo sussistente in loro favore alla chiusura del conto, oltre agli interessi legali, fissati nella misura legale; pagamento che tuttavia mai si verificò. Deceduto l’azionista di maggioranza, i suoi eredi legittimi citavano in giudizio la società (nel frattempo trasformatasi in società a responsabilità limitata), domandandone la condanna al pagamento del suddetto debito. La società resisteva invocando la nullità della menzionata delibera, sia per la natura «sintetica» del relativo verbale, sia per l’inosservanza del­l’art. 2445 c.c., recante la disciplina della riduzione reale del capitale sociale. La sentenza di primo grado accoglieva la domanda attorea, e veniva confermata in appello, salvo che sotto il profilo – che qui tuttavia non rileva – del quantum debeatur; la Suprema Corte respingeva infine il ricorso proposto dalla società convenuta, sia contestando l’affer­mazione difensiva secondo cui la sinteticità del verbale sarebbe valsa di per sé ad invalidare una deliberazione assembleare [2], sia sulla scorta di consolidati principi in materia di versamenti in conto capitale [3], che sinteticamente si passa ad esporre.


3. I precedenti giurisprudenziali e la dottrina. I versamenti in conto capitale: i principi generali confermati dalla sentenza

Nell’affrontare la tematica dei versamenti in conto capitale, la S.C. esordisce affermando che i soci – anche a prescindere da una formale procedura di aumento del capitale sociale a pagamento [4] – possono effettuare versamenti nelle casse della società (specialmente se sottocapitalizzata) onde accrescerne le risorse economico-patrimoniali. Le somme in oggetto vengono così acquisite in maniera stabile e definitiva dalla società [5], di cui vanno ad incrementare il patrimonio netto [6], confluendo in una vera e propria riserva [7]. Ciò significa che tali versamenti diventano sin dall’inizio «mezzi propri» (c.d. capitale di rischio) della società alla stessa stregua dei conferimenti in senso tecnico [8], da cui tuttavia si differenziano fondamentalmente: – per il sistema di acquisizione al patrimonio sociale (mancano infatti vincoli di natura procedimentale [9]; – per la appostazione contabile, poiché, andando a costituire una riserva, sfuggono al regime vincolistico del capitale sociale nominale [10]. Le ragioni che nella prassi inducono i soci ad effettuare tali versamenti in favore della società sono le più varie; vi si possono annoverare – come puntualizzato anche dai giudici di legittimità nel presente caso – sia i benefici fiscali ad essi collegati [11], sia la praticità e la flessibilità di questo modus operandi, che consente in particolare un rapido ed informale reperimento delle risorse finanziarie di cui la società necessita in determinate circostanze. In ogni caso tali versamenti sono destinati al perseguimento dello scopo sociale, sotto forma di potenziamento del patrimonio sociale: si parla infatti comunemente di causa societatis con riferimento alla «funzione» delle elargizioni patrimoniali in esame [12]. Ulteriore caratteristica di tali attribuzioni patrimoniali, che la S.C. non ha mancato di evidenziare anche in questa occasione, è rappresentata dalla loro es­senziale «spontaneità»: sono infatti i soci (tutti o soltanto alcuni di essi) che in piena autonomia decidono se effettuarli o meno [13]; al limite, essi possono essere provocati dalla società attraverso il proprio organo amministrativo, che in assemblea (tanto ordinaria quanto [continua ..]


4. (Segue). Versamenti in conto capitale e 'riserve targate'

Secondo la communis opinio della dottrina, trattandosi di apporti di patrimonio e non di capitale, i versamenti in conto capitale (analogamente ai versamenti a fondo perduto o a copertura perdite), una volta effettuati, si caratterizzerebbero per l’assenza di un obbligo di rimborso da parte della società [23]. Le conseguenze scaturenti da tale opzione interpretativa possono essere così sintetizzate: – durante societate le somme così versate potranno essere in seguito distribuite tra tutti i soci, compresi quelli che nulla hanno versato, in proporzione alle rispettive quote di partecipazione al capitale sociale; – durante societate le riserve formate con le suddette somme potranno essere impiegate ai fini di un aumento gratuito del capitale sociale, con conseguente incremento proporzionale delle partecipazioni di tutti i soci, compresi quelli che nulla hanno versato; – durante societate sarà possibile procedere al­l’acquisto di azioni proprie utilizzando tali versamenti; – durante societate eventuali perdite sociali incideranno su tali riserve secondo il consueto ordine gerarchico [24]; – in sede di liquidazione della società tali somme saranno suscettibili di ripartizione proporzionale tra tutti i soci, ovviamente nei limiti in cui dal bilancio di liquidazione emerga un residuo attivo. Critica nei confronti di questa impostazione si è tuttavia mostrata altra parte della dottrina [25] secondo cui, alla luce del principio di parità di trattamento tra i soci, le conclusioni testè esposte sono condivisibili solo nei limiti in cui i versamenti in conto capitale risultino essere stati effettuati da tutti i soci in proporzione alle rispettive quote di partecipazione al capitale sociale ovvero – se effettuati solo da alcuni oppure da tutti ma non proporzionalmente (c.d. versamenti «ineguali») – con la rinuncia (anche implicita) [26] a qualsiasi pretesa restitutoria. In caso contrario si darebbe luogo ad evidenti alterazioni nei rapporti interni tra i soci, dal momento che quelli che nulla hanno versato o che hanno versato in misura men che proporzionale si avvantaggerebbero ingiustificatamente rispetto a quelli che al contrario hanno effettuato i versamenti in conto capitale, magari anche in misura più che proporzionale [27]. Sotto il profilo pratico, [continua ..]


5. (Segue). I finanziamenti dei soci e l'art. 2467 c.c.

Un altro profilo affrontato dalla sentenza in esame attiene ai rapporti tra versamenti in conto capitale e finanziamenti dei soci, con particolare riferimento alla disciplina dettata dall’art. 2467 c.c. Dopo aver chiarito che i finanziamenti, a differenza dei versamenti in conto capitale, costituiscono ca­pitale «di credito», con conseguente obbligo di restituzione da parte della società di quanto ricevuto [36], la S.C. passa al vaglio uno dei motivi di ricorso prospettati dalla difesa della società ricorrente, facente leva sulla pretesa natura sostanziale di conferimenti dei versamenti oggetto di causa; argomentazione in base alla quale si invocava la applicazione al caso in esame dell’art. 2467 c.c. Al riguardo la Cassazione ha evidentemente buon gioco nel dichiarare inammissibile il motivo de quo, per la notevole distanza temporale (ben 17 anni) tra la data di entrata in vigore dell’art. 2467 c.c. nuovo testo e la data in cui fu assunta la delibera contestata, per cui di certo non si sarebbe potuto invocare quella norma nel presente caso; da un punto di vista più strettamente processuale, poi, la questione così sollevata è dichiaratamente «nuova», essendosi il giudizio di secondo grado concluso anteriormente al 1° gennaio 2004, data di entrata in vigore della Riforma. Ma la S.C., che a questo punto ben potrebbe passare ad esaminare il quinto ed ultimo motivo di ricorso, preferisce invece soffermarsi a spiegare le ragioni per cui ritiene anche infondato nel merito detto motivo di ricorso, non reputando neppure astrattamente applicabile nella fattispecie in esame la norma invocata dalla ricorrente. In questo modo un contributo della giurisprudenza di legittimità (sia pure espresso attraverso un mero obiter dictum) si inserisce nel quadro dell’ampio e vivace dibattito dottrinario che si è sviluppato intorno alla nuova norma già all’indomani della sua entrata in vigore [37]. Com’è noto, con l’art. 2467 c.c. il legislatore ha dettato una disciplina ad hoc volta a porre rimedio sia al fenomeno della sottocapitalizzazione c.d. nominale (tipica soprattutto delle società a responsabilità limitata), sia al collegato fenomeno dei pseudo-finanziamenti dei soci, che in realtà altro non sono che veri e propri apporti «camuffati» di capitale di [continua ..]


NOTE
Fascicolo 2 - 2009