Rivista di Diritto SocietarioISSN 1972-9243 / EISSN 2421-7166
G. Giappichelli Editore

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Ma il provvedimento cautelare di revoca degli amministratori è veramente strumentale rispetto all´azione di responsabilità promossa dal socio di s.r.l.? (nota a Trib. Roma, 22 maggio 2007) (di Giorgio Peta)


TRIBUNALE DI ROMA, 22 maggio 2007 – Monsurrò Presidente – Nazzicone Estensore – L. Piacentini (Avv. Ferretti) c. M. Piacentini (Avv. Di Martino, Ravera)

Società – Società a responsabilità limitata – Amministratori – Adempimento dei doveri gestori – Diligenza professionale – Necessità

(Artt. 2476, 2392, 1176 c.c.)

Per verificare l’esatto adempimento delle obbligazioni incombenti sull’amministratore di società a responsabilità limitata occorre valutare la diligenza tipica richiesta al buon gestore di società di capitali, il quale amministra l’impresa altrui (1).

Società – Società a responsabilità limitata – Amministratori – Azione di responsabilità promossa dal socio – Natura surrogatoria dell’azione – Esclusione – Esercizio in nome proprio e per conto della società – Sussistenza

(Art. 2476 c.c.)

L’azione di responsabilità promossa dal socio di s.r.l. ai sensi dell’art. 2476, 3° comma, c.c. deve qualificarsi come un’azione autonoma, esercitata dal socio in nome proprio e nell’interesse della società; non si tratta pertanto di azione surrogatoria, perché il socio non è qualificabile come creditore della società, né va verificata l’inerzia dell’assemblea (2).

Società – Società a responsabilità limitata – Amministratori – Azione sociale di responsabilità – Legittimazione attiva della società – Sussistenza

(Art. 2476 c.c.; art. 24 Cost.) 

La società a responsabilità limitata è legittimata ad esercitare l’azione di responsabilità nei confronti dei propri amministratori (3).

Società – Società a responsabilità limitata – Amministratori – Azione di responsabilità promossa dal socio – Partecipazione della società al giudizio – Necessità – Azione sociale di responsabilità – Curatore speciale – Legittimazione ad agire – Esclusione

(Art. 2476 c.c.; art. 78 c.p.c.)

La società a responsabilità limitata è litisconsorte necessaria nel giudizio di responsabilità promosso dal socio ex art. 2476, 3° comma, c.c. nei confronti dei propri amministratori e vi partecipa per mezzo di un curatore speciale nominato ai sensi dell’art. 78, 2° comma, c.c.; tuttavia, quest’ultimo non è legittimato ad esercitare l’azione sociale di responsabilità in nome e per conto della società, in mancanza di una decisione dei soci (4).

Società – Società a responsabilità limitata – Amministratori – Azione di responsabilità – Revoca cautelare – Autonoma azione costitutiva di merito – Inammissibilità

(Art. 2476 c.c.)

La revoca degli amministratori di società a responsabilità limitata è una misura cautelare strumentale all’azione di responsabilità promossa dal socio ai sensi dell’art. 2476, 3° comma, c.c. In mancanza di espressa previsione, il socio non ha l’azione di merito per la revoca dell’ammi­nistratore. L’art. 2908 c.c. impone la regola della tassatività delle azioni costitutive previste dall’ordinamento, con la conseguenza che non è consentito all’interprete introdurle ove non previste, nemmeno a mezzo dell’analogia (5).

(omissis) 1. La domanda di risarcimento del danno proposta dall’attrice nel sistema del nuovo art. 2476 c.c.

1.1. Nell’atto di citazione, l’attrice ha chiesto la condanna del convenuto in proprio favore, vuoi per i danni cagionati all’attrice medesima e vuoi per i danni cagionati alla società.

Nella memoria di cui all’art. 6 d. lgs. n. 5/2003, poi, l’at­trice ha precisato di volere esercitare l’azione di responsabilità “in nome proprio e per conto della Serafica Aurora Immobiliare s.r.l., con l’intento espresso di tutelare l’in­tegrità del patrimonio della società, che farà propri i risultati eventualmente utili dell’azione esperita”.

Nell’istanza di fissazione dell’udienza, l’attrice, infine (peraltro in modo improprio non potendosi ammettere il nesso di alternatività tra domande, che rimetta al giudice la determinazione del nesso di subordinazione di una al­l’altra), ha chiesto la condanna in favore proprio “e/o” della società.

La successiva approssimazione delle domande proposte esige alcune considerazioni in ordine al nuovo art. 2476 c.c., per quanto qui rilevi.

1.2. L’art. 2476 c.c., ribadendo la responsabilità solidale degli amministratori verso la società per la violazione dei doveri gestori (“doveri ad essi imposti dalla legge e dall’atto costitutivo per l’amministrazione della società”), ha eliminato il riferimento alla diligenza del mandatario, di cui all’art. 2392 c.c. nel testo anteriore alla riforma: ma rimane la necessità di valutare la diligenza tipica richiesta al buon gestore di società di capitali, il quale amministra l’impresa altrui. La norma prevede che la responsabilità non si estenda agli amministratori “che dimostrino di essere esenti da colpa”, con esplicita menzione dell’inversione dell’onere della prova (già contenuta nell’art. 1218 c.c.).

Il portato innovativo dell’articolo sta soprattutto nel­l’avere introdotto l’azione sociale di responsabilità da parte di ciascun socio.

Circa la natura giuridica dell’azione di responsabilità promossa dalle minoranze va escluso che si tratti di azione surrogatoria, perché il socio non è qualificabile come creditore della società, né va verificata l’inerzia dell’assemblea.

Si tratta, invece, di un’azione autonoma, esercitata dal socio in nome proprio e nell’interesse della società. La legittimazione attiva appartiene al socio, senza requisiti minimi di partecipazione al capitale (a differenza che nella s.p.a.).

La domanda di merito di cui all’art. 2476, 3° comma, c.c. è volta a reintegrare il patrimonio sociale, e la condanna seguirà in favore della società, non di ciascun socio pro quota.

La norma non ha previsto, come invece gli artt. 2393-bis c.c. e 129 t.u.f., la notificazione dell’atto di citazione alla società: ma ciò è da reputare necessario, anche in ragione della possibile condanna alle spese, di cui al quarto comma: infatti, l’art. 2476, 4° comma, c.c., come il coevo art. 2393-bis, 5° comma, c.c. e come prevedeva già l’art. 129 t.u.f., impone il rimborso delle spese sostenute dall’attore, peraltro senza le condizioni alternative nelle altre due disposizioni previste (l’esubero di esse rispetto a quelle poste a carico dei soccombenti e la previa escussione del patrimonio degli amministratori convenuti: è, perciò, da ritenere ammissibile la condanna solidale della società con i soccombenti).

Il litisconsorzio necessario della società serve (si noti: anche per la domanda di revoca, in ragione della quale, nel presente giudizio, con ordinanza del 20.10.2005 il G.D. ha disposto la chiamata in causa della società: ma sull’azione di revoca esperita dall’attrice e dalla società, v. oltre) non per il disposto dell’art. 2900 c.c., ma per evitare azioni a sorpresa o contraddittorie dei soci.

Gli art. 2393-bis e 129 t.u.f. impongono dunque la notificazione dell’atto di citazione alla società “anche in persona del presidente del collegio sindacale”. La congiunzione “anche” di cui a tale espressione, dal legislatore del 2003 recepita nella norma sulle s.p.a., è stata pedissequamente tratta dall’art. 129 t.u.f., ove già aveva lasciato perplessi gli interpreti: infatti, che il presidente del collegio sindacale acquisti, in tali casi, la rappresentanza della società appare alquanto anomalo, specialmente perché una tale deroga alle norme comuni (cfr. l’art. 2384 c.c.) sarebbe stata introdotta nell’ambito di una disposizione, tutto sommato, marginale e di rara applicazione. Secondo una convincente opinione si tratta, quindi, di una mera denunciatio litis, restando dunque pur sempre necessario l’utilizzo dell’art. 78 c.p.c., dato che sussiste la suddetta situazione di conflitto di interessi degli amministratori con la società, cui provvede il secondo comma di tale disposizione.

Invero, litisconsorte necessaria è la società; pertanto, poiché l’amministratore sta in giudizio in proprio, quale legittimato passivo della domanda di risarcimento del danno, sussiste sempre il conflitto di interessi con la società, dal medesimo amministratore rappresentata.

Il conflitto va valutato in astratto e non in concreto, essendo ad esso indifferente la posizione in concreto assunta dalla società, in persona del suo amministratore, legittimato passivo dell’azione risarcitoria: sussiste, per definizione, una situazione di incompatibilità fra l’interesse della società a vedere reintegrato il suo patrimonio, diminuito dagli atti inadempienti dell’amministratore, e l’interesse di questi a preservare il patrimonio personale da ogni pretesa.

Non è previsto espressamente l’esercizio dell’azione sociale da parte della società, ma essa non può dirsi esclusa, essendo applicazione dell’art. 1218 c.c.: è data una legittimazione concorrente e disgiuntiva alla società ed ai soci in ordine alla stessa azione.

Restano, infine, ribadite due disposizioni precedenti: l’azione individuale del socio o del terzo verso gli amministratori (come nell’art. 2395 c.c.); l’esclusione dell’effetto di esonero da responsabilità per amministratori e sindaci, in forza della mera approvazione del bilancio da parte dei soci (cfr. già l’art. 2434 c.c.).

1.3. Orbene, nel caso di specie, con l’ausilio di una interpretazione volta a valorizzare l’intenzione effettiva della parte al di là delle parole improprie utilizzate dal difensore, deve ritenersi prospettata da Livia Piacentini l’azione di responsabilità sociale della minoranza prevista dall’art. 2476, 3° comma, c.c.

Infatti, dopo l’emissione della ordinanza resa in sede di reclamo, la quale aveva appunto rilevato la mancata proposizione di un’azione di responsabilità sociale da parte dell’attrice, quest’ultima, nella memoria di cui all’art. 6 d. lgs. n. 5/2003, ha in qualche modo indicato di volere agire a vantaggio della società.

Come è noto, nell’esercizio del potere di interpretazione e qualificazione della domanda il giudice del merito non è condizionato dalla formula adottata dalla parte, dovendo egli tenere conto, piuttosto, del contenuto sostanziale della pretesa così come desumibile dalla situazione dedotta in causa e dalle eventuali precisazioni formulate nel corso del giudizio: fermo restando, però, il limite del rispetto del principio della corrispondenza della pronuncia alla richiesta e di non sostituire d’ufficio una diversa azione a quella formalmente proposta, pena l’error in procedendo (Cass. 20.3.1999, n. 2574; id., 7.7.1997, n. 6100).

E, nel caso di specie, l’attrice ha chiarito intendere rimediare ai danni patiti dal patrimonio della società, in conseguenza degli inadempimenti lamentati.

2, Fondatezza della domanda risarcitoria proposta dal­l’attrice per i danni patiti dalla società.

La domanda è fondata.

In generale, va osservato come sugli amministratori di società di capitali gravino sia l’obbligazione generica di agire nell’espletamento dell’incarico con la diligenza tipica della funzione svolta, come richiedono gli artt. 1176, 2392, 2476 c.c. (cfr. Cass. 24.8.2004, n. 16707), sia le obbligazioni previste da specifiche disposizioni di legge e di statuto, quali ad esempio gli artt. 2390, 2391, 2446-2447, etc. c.c., nonché quelle contenute in leggi speciali, quali gli obblighi tributari, infortunistici ed altri; nell’ambito del rapporto di amministrazione, poi, vigono le disposizioni generali degli artt. 1175 e 1375 c.c.

La prova dell’elemento oggettivo grava sulla società e quella dell’elemento soggettivo è regolata, per le s.r.l., dall’art. 2476, 1° comma, c.c., che, conformemente all’art. 1218 c.c., inverte l’onere probatorio, ponendolo a carico del debitore inadempiente.

Gli inadempimenti specifici, nell’assunto attoreo imputabili al convenuto, concernono l’avere egli compiuto una serie di operazioni contrarie all’interesse sociale e nel perseguimento, invece, di un suo interesse personale, con danno alla società, violando i doveri propri di gestione corretta e diligente della carica, imposti dagli artt. 1175 e 2476, 1° comma, c.c.

In particolare, sono stati lamentati i comportamenti di falsificazione dei bilanci, il mancato deposito dei bilanci dopo il 1995, omissioni fiscali e tributarie e di altri pagamenti, la conclusione del mutuo con la concessione ipoteca sui beni sociali di Via Lombardia 40 e Via Aurora 39, cui è seguita l’appropriazione delle somme relative ed il mancato pagamento delle rate di rimborso, con la finale vendita all’asta del bene.

Infondata è l’eccezione di prescrizione dal convenuto sollevata, dato che egli è ancora in carica e, dunque, ai sensi dell’art. 2941, n. 7, c.c., la prescrizione è sospesa.

Orbene, le condotte dannose vanno distintamente esaminate, in una con il danno derivatone.

1) Appostazioni false in bilancio.

Tale censura è stata solo genericamente formulata dalla società; da essa, soprattutto, non risulta derivato, né ancor prima è stato allegato, un danno al patrimonio sociale.

2) Omesso deposito dei bilanci successivi al 1995.

Dall’inadempimento a tale pur essenziale dovere del­l’am­ministratore non deriva, di per sé, un danno alla società.

3) Omissioni fiscali, tributarie e condominiali.

Anche tale censura è stata solo genericamente formulata dalla società e dunque in nessuna considerazione può essere presa: in particolare, non è nemmeno allegato il danno derivatone.

4) Richiesta di un mutuo, iscrizione di ipoteca, effettuazione di prelevamenti di denaro sociale a fini personali.

Risulta, dai documenti in atti, la conclusione di un contratto di mutuo di £ 2.000.000.000 con la BNL Credito Fondiario s.p.a., mediante rogito del 31.3.1993, ultima rata con scadenza 30.6.1998 e garantito da ipoteca sul­l’immobile sociale; risulta, altresì, l’avvenuto utilizzo di tale importo per l’acquisto di titoli.

Dagli estratti conto in atti, relativi al conto corrente n. 957 presso l’agenzia n. 39 Roma Nord della BNL s.p.a. intestato alla Serafica Aurora Immobiliare s.r.l., emerge poi – a fronte dell’accredito di £ 2.000.000.000 in data 31.3.1993 per il finanziamento – il prelievo, a mezzo di assegno bancario, della somma di £ 1.170.000.000 il 4.3.1993 e di £ 700.000.000 in data 31.3.1993 mediante giroconto a favore del c/c 816.

Risulta ancora che in data 30.4.1993 siano stati acquistati titoli, come segue: C.C.T. per £ 639.275.000 e £ 50.050.000, per un totale di £ 689.325.000, sul c/c n. 10584 intestato a Marcello Piacentini ed Agnese Agostinelli; titoli Enel ind. per £ 760.755.000, sempre su tale conto; titoli Ferrovie dello Stato per £ 61.473.330 sempre su tale conto; titoli BNL-Sacf per £ 270.000.000 sempre su tale conto; C.T.R. Ind. per £ 691.280.265 sul c/c 13851 intestato anch’esso a Marcello Piacentini ed Agnese Agostinelli (docc. 31-35 fasc. attrice).

È, altresì, incontestato l’omesso pagamento delle rate di mutuo, con la conseguente espropriazione immobiliare intrapresa dalla BNL s.p.a. e la vendita all’asta delle unità immobiliari in data 23.6.2004.

Il convenuto, al fine dell’esonero da responsabilità, ha peraltro allegato: a) la conclusione del mutuo nel perseguimento dello scopo sociale; b) l’intestazione dei conti correnti in cui il finanziamento è confluito alla zia dei soci Agnese Agostinelli; c) la mancanza di fondi per pagare le rate del mutuo.

Tali argomenti non integrano, tuttavia, la prova del­l’adempimento né quella della non imputabilità dell’ina­dempimento, ai sensi dell’art. 1218 e 2476, 1° comma, c.c.

a)In primo luogo, infatti, il convenuto non è riuscito a dimostrare, in modo convincente, la coerenza del contratto di mutuo con gli scopi sociali, anche attesa l’entità del­l’im­porto e della corrispondente ipoteca iscritta sugli immobili della società; parimenti, non ha fornito idonee spiegazioni circa l’utilizzo di tale somma a fini sociali.

Deve, dunque, ritenersi che la stipula del mutuo costituisca atto estraneo ai fini sociali e che la somma non sia stata utilizzata per i fini medesimi.

Sul punto, il nuovo art. 2380-bis c.c. prevede espressamente che gli amministratori “compiono le operazioni necessarie per l’attuazione dell’oggetto sociale”: la norma, che esprime un concetto generale per tutte le società di capitali, riguarda l’ambito del potere di gestione ed intende superare la poco chiara dizione del vecchio art. 2384 c.c., destinato ora a disciplinare il potere di rappresentanza. L’espressione, dunque, costituisce una sorta di definizione del “potere gestorio”: esso attiene a tutte quelle “operazioni” (ossia fatti, atti ed attività più complesse) volte ad attuare l’oggetto statutario, ossia che si pongano in rapporto di strumentalità con il suo conseguimento.

L’oggetto sociale è quello concordato fra i soci ed indicato nell’apposita clausola dell’atto costitutivo, che prevede il programma imprenditoriale.

La regola dunque, prima e dopo la riforma societaria, è nel senso che, nell’ambito dell’oggetto sociale, gli amministratori hanno tutti i poteri di ordinaria e straordinaria amministrazione (ma, in tema di società di capitali, non è consentito utilizzare le categorie, elaborate per gli incapaci, di atti di straordinaria e di ordinaria amministrazione: Cass. 26 marzo 1997, n. 2674).

Anche in tema di società personali, peraltro, si è da tempo puntualizzato in giurisprudenza che gli amministratori compiono tutti gli atti che si pongono come mezzo al fine per il raggiungimento dello scopo sociale e, quindi, in primo luogo quei negozi che attuano essi stessi l’attività imprenditoriale costituente l’oggetto della società (Cass. 13 febbraio 1998, n. 1550) e che i loro poteri gestori vanno individuati con riferimento agli atti che rientrano nell’og­getto sociale (Cass. 12 marzo 1994, n. 2430; Cass. 29 aprile 1992, n. 5155).

Dunque, il principio della competenza degli amministratori a realizzare l’oggetto sociale è generale.

Altra è, poi, la questione dei poteri di rappresentanza, regolata dagli artt. 2475-bis e 2384 c.c. Le nuove disposizioni esordiscono precisando che gli amministratori hanno un potere rappresentativo “generale”, non circoscritto cioè a specifici settori: la rappresentanza degli amministratori, qualora essi siano titolari del potere di spendere il nome della società, è generale e non limitata entro l’ambito dell’oggetto sociale: chi ha la rappresentanza della società, vuol dire che impegna validamente la società stessa. Il terzo sa che, se un soggetto è il legale rappresentante della società, ha i poteri per negoziare validamente per conto di questa.

Proseguono, quindi, le norme precisando che i limiti ai poteri – sia di rappresentanza, sia anche di gestione – imposti agli amministratori, iscritti o no nel registro delle imprese, possono essere opposti ai terzi solo se si provi che abbiano agito intenzionalmente a danno della società, ossia in caso di dolo diretto di questi. Si è così unificato il regime di opponibilità degli atti compiuti dal rappresentante privo del potere di gestione (atti estranei all’oggetto sociale o casi di dissociazione del potere di rappresentanza dal potere di gestione) e degli atti compiuti fuori dai limiti ai poteri rappresentativi o ai poteri gestori: nel precedente sistema, l’art. 2384 c.c. rendeva taluni atti opponibili ai terzi, soltanto qualora questi avessero intenzionalmente agito a danno della società; l’art. 2384-bis c.c., invece, rendeva altri atti opponibili ai terzi soltanto qualora in mala fede (il nuovo art. 2384, 1° comma, c.c. è coerente con l’art. 9, 1° comma, della prima direttiva 68/151/CEE del Consiglio del 9 marzo 1968, il quale intendeva prevedere che il rappresentante avesse il potere di compiere validamente qualsiasi atto per l’ente).

Dunque, sia nel sistema anteriore – da applicare al caso di specie – e sia in quello successivo al d. lgs. n. 6/2003, il rappresentante legale impegna la società, anche se agisce compiendo un atto estraneo all’oggetto sociale o fuori dai poteri rappresentativi conferitigli, salve le eccezioni predette relative alla condizione psicologica del terzo. Ciò, a tutela della sicurezza dei traffici giuridici.

Peraltro, la violazione dei limiti ai poteri degli amministratori – pur non potendo assumere rilevanza nei rapporti con i terzi se non nei casi previsti dalle norme vigenti al momento dei fatti, ossia gli artt. 2384 e 2384-bis c.c. (applicabili alle s.r.l. in virtù del richiamo dell’art. 2487 c.c. ante riforma) – tuttavia, in quanto rappresenta un inadempimento, non resta priva di rilievo nell’ambito dei rapporti interni con la società: sebbene, invero, quest’ultima resti vincolata dall’atto posto in essere dall’amministratore, tuttavia la violazione può integrare una giusta causa di revoca dell’amministratore, comportarne la responsabilità per i danni così cagionati e costituire valido motivo di denuncia al collegio sindacale o al Tribunale, ai sensi degli artt. 2408 e 2409 c.c., ove applicabili.

In definitiva, il primo argomento allegato dall’ammini­stratore è rimasto indimostrato.

b)Il convenuto ha poi affermato che il conto corrente n. 816 è intestato ad Agnese Agostinelli, zia dei soci ed “amministratrice dell’intero patrimonio familiare che si componeva di numerosissime società, di beni mobili ed immobili” e che il conto corrente n. 10584 appartiene alla Molino Pietro Agostinelli s.p.a.

Ma l’assunto non vale ad esonerare il convenuto da responsabilità, posto che persino nell’ambito di società collegate o controllate è necessario dedurre e provare che il depauperamento della società amministrata sia stato compensato da un vantaggio specifico per la stessa (cfr. Cass. 24.8.2004, n. 16707).

La teoria dei vantaggi compensativi è stata espressamente considerata dagli art. 2634 e 2497, 1° comma, ultima parte, c.c.: quest’ultimo richiede di tenere conto – ai fini dell’esonero da responsabilità della capogruppo – del “risultato complessivo dell’attività di direzione e coordinamento” (quindi, il vantaggio deve essere in concreto già derivato, e non soltanto prevedibile, come invece nella fattispecie penale, che resta a sanzionare i fatti più gravi).

I vantaggi compensativi sono stati individuati come quelli ricevuti dalla società sul piano organizzativo, produttivo, commerciale e finanziario e la teoria relativa è accolta in giurisprudenza per valutare la responsabilità degli amministratori nei gruppi (Cass. 21.1.1999, n. 521, sulla rilevanza del danno alle singole società componenti il gruppo di società fiduciaria; Cass. 5.12.1998, n. 12325; Cass. 11.3.1996, n. 2001).

Secondo la Corte Suprema (Cass. 24.8.2004, n. 16707, cit.), in caso di danno alla società amministrata appartenente ad un gruppo è onere degli amministratori, convenuti in giudizio per l’azione di responsabilità sociale, provare il vantaggio ricevuto grazie a tale appartenenza e l’idoneità dello stesso ad azzerare il danno immediato derivato alla singola società amministrata, solo elemento che è onere dell’attore allegare e provare.

Pertanto, l’amministratore di società, gestore di interessi altrui, ha l’obbligo primario di fedeltà all’interesse della società da lui amministrata, che egli deve perseguire, quale adempimento del dovere di protezione della sfera giuridica di questa, anche ove appartenga ad un gruppo societario.

Per tali motivi, l’allegazione dell’utilizzo delle somme mutuate a vantaggio di altra o di altre società del gruppo non esonera l’amministratore, in mancanza della deduzione e della prova di vantaggi compensativi per la società amministrata, dalla responsabilità verso quest’ultima.

c)Nemmeno il convenuto ha provato la causa a lui non imputabile circa il mancato pagamento delle rate di ammortamento, da cui è direttamente derivata la perdita dei beni per la società.

Ed invero, non può il convenuto esonerarsi da responsabilità, allegando l’insufficienza dei fondi sociali a pagare le rate del mutuo: posto che, da un lato, proprio in forza del mutuo era entrata nelle casse sociali la somma di £ 2.000.000.000, della cui destinazione egli non ha dato chiarimento alcuno nelle scritture contabili sociali; e, dall’altro lato, che la Corte Suprema ha, da tempo, affermato il principio, secondo cui la violazione delle norme di redazione delle scritture contabili, lungi dal poter integrare un motivo di esonero da responsabilità per la difficoltà di provare il danno prodotto, costituisce un ulteriore inadempimento, che aggrava la responsabilità degli organi sociali: degli inadempimenti contabili l’ammi­nistratore non si può giovare (Cass. n. 3483/1998). L’orienta­mento è espressione del principio, per il quale l’inadempi­mento di obblighi così rilevanti della carica non può costituire troppo comoda fonte di esonero da responsabilità.

In definitiva, dall’accensione del mutuo, dall’iscrizione della relativa ipoteca sui beni sociali, dall’appropriazione della somma, dall’inadempimento al pagamento delle rate di ammortamento e dall’intrapresa procedura di espropriazione immobiliare, conclusasi con la vendita all’asta dei beni, è derivato un danno al patrimonio sociale.

Nella quantificazione del danno medesimo, occorre tenere conto della somma mutuata e non utilizzata a fini sociali (£ 2.000.000.000), del prezzo degli immobili venduti all’asta (€ 3.628.850, come dichiarato dall’attrice e dal convenuto) quale parametro indicativo del valore di essi, della somma residuata alla società dopo la soddisfazione dei creditori (€ 1.251.600, essendo il credito del creditore procedente di € 2.377.248): danno che, dunque, ai sensi dell’art. 1226 c.c. e tenuto conto di tali parametri, va determinato in € 2.500.000.

Trattandosi di debito di valore, la somma va rivalutata dalla domanda (20.1.2005) e ad essa va aggiunto un importo per lucro cessante, calcolato al tasso equitativo del 2% annuo sulla somma originaria via via rivalutata in base ad un indice medio di rivalutazione (Cass. n. 7192/1997; n. 2796/2000) dalla domanda ad oggi.

(omissis)

4. La domanda di revoca di Marcello Piacentini dalla carica di amministratore unico.

L’attrice ha, altresì, chiesto la revoca del Piacentini dalla carica di amministratore unico della Serafica Aurora Immobiliare s.r.l. e la nomina di un “amministratore/li­qui­da­tore giudiziale”.

L’art. 2393, 3° comma, c.c. prevedeva, con disposizione applicabile alle s.r.l. in virtù del rinvio di cui all’art. 2487 c.c. del 1942, la decadenza automatica dalla carica del­l’am­ministratore in presenza della deliberazione assembleare di esercitare l’azione di responsabilità sociale assunta almeno dal quinto del capitale sociale.

La norma non è stata riprodotta nel sistema delle nuove s.r.l.; il legislatore non ha nemmeno inteso conservare l’istituto dell’art. 2409 c.c. per tale tipo sociale; infine, ad esse non si applica l’art. 2259 c.c.

In luogo di tali strumenti, la riforma ha introdotto la nuova misura della revoca dell’amministratore in sede cautelare, che esime dalla verifica della strumentalità della cautela con la domanda risarcitoria di merito: presupposto della revoca è l’esigenza di adottarla al fine di evitare, a fronte della prova di gravi irregolarità gestorie, che il danno, che già deve sussistere in concreto, sia portato ad ulteriori conseguenze.

Dunque, l’art. 2476 c.c. prevede, quale strumento cautelare tipico, la revoca dell’amministratore per gravi irregolarità in relazione alla domanda di merito, volta alla condanna del medesimo al risarcimento del danno patito dalla società, azione esercitabile da ciascun socio, ma volta a reintegrare il patrimonio sociale del pregiudizio a questo cagionato.

Soltanto in relazione all’azione di responsabilità sociale esercitata dalla minoranza la legge prevede la misura cautelare della revoca dell’amministratore, allorché – accanto al fumus del diritto al risarcimento del danno alla società – sussista l’ulteriore elemento della commissione di irregolarità gravi, tali da rendere verosimile l’aggravarsi del danno (che, peraltro, deve già essere provato in concreto, sia pure con la cognizione sommaria propria del procedimento cautelare), che la revoca cautelare mira a scongiurare.

L’espressione “gravi irregolarità” evoca significati ad essa attribuiti lungo decenni di utilizzo della norma, durante i quali, qualunque fosse il comportamento concreto denunziato, è stato costantemente sottolineato l’interesse sotteso alla denuncia al tribunale da parte delle minoranze, ossia quello al ripristino della corretta gestione della società: dunque, una misura di tutela reale, non obbligatoria.

Nella nuova sede, invece, la cautela è strumentale alla sentenza definitiva di condanna della società al risarcimento del danno causato dall’amministratore: pertanto, nel delinearne i requisiti del fumus e del periculum in mora, non si può trascurare la particolare collocazione della misura, da adottarsi nel corso di un giudizio di cognizione di responsabilità sociale.

Si apprezza, sotto tale profilo, la differenza dal sistema dell’art. 2409 c.c. e dunque l’inusuale utilizzo, nella stesura dell’art. 2476 c.c., della nozione di gravi irregolarità, la quale, nella originaria sede della denunzia al tribunale, è il presupposto per l’adozione di misure (fra cui la revoca è solo la più grave) volte al ripristino della corretta gestione, non a sanzionare l’amministratore inadempiente.

Il pericolo di inattuazione della condanna al risarcimento del danno è, in sé, estraneo alla misura cautelare della revoca, che appare giustificabile, sotto il profilo dell’ur­genza di provvedere con lo strumento dell’ordinanza, soltanto se si ha riguardo al diverso pericolo di reiterazione delle condotte inadempienti. Né risolve la questione il riferimento all’art. 2058 c.c.: il quale prevede il risarcimento del danno in forma specifica (tecnica di tutela restitutoria), nozione che non si attaglia del tutto alla revoca in esame (tecnica di tutela preventiva). La revoca cautelare ha il fine di scongiurare l’aggravarsi dei danni, ma, nel contempo, ha un’inevitabile portata sanzionatoria degli amministratori, dato che si inserisce in un giudizio di responsabilità.

In mancanza di espressa previsione, il socio non ha, invece, l’azione di merito per la revoca dell’amministratore. L’art. 2908 c.c. impone, infatti, la regola della tassatività delle azioni costitutive previste dall’ordinamento, con la conseguenza che non è consentito all’interprete introdurle ove non previste, nemmeno a mezzo dell’analogia.

È vero che, in tal modo, il socio di società a responsabilità limitata riceve un trattamento deteriore sia rispetto al socio di s.p.a. (che può ricorrere alla denunzia al tribunale ai sensi dell’art. 2409 c.c.), sia rispetto a quello di società personale (che ha lo strumento, di merito e cautelare, di cui all’art. 2259 c.c., il quale richiede solo la sussistenza di una giusta causa di revoca, ossia fatti anche diversi dalla violazione delle norme di legittimità che regolano l’agire gestorio e attinenti alle sue scelte di merito).

Ma l’avere il legislatore introdotto la nuova misura di cui all’art. 2476, 3° comma, c.c. nelle s.r.l. in parallelo alla eliminazione del controllo giudiziario sulla gestione non può comunque indurre a dilatare l’operatività del disposto del terzo comma dell’art. 2476 c.c. sino a coprire tutte le esigenze di tutela in passato svolte dall’art. 2409 c.c., esigenze cui il legislatore non ha voluto rispondere anche prevedendo che il socio potesse agire (non soltanto per reintegrare il patrimonio sociale, ma anche) per rimuovere dalla carica l’amministratore in via definitiva, senza una decisione dell’assemblea in tal senso.

Basti, inoltre, considerare a quali conseguenze condurrebbe il volere reputare, con una palese forzatura, introdotta l’azione di merito dallo stesso terzo comma dell’art. 2476 c.c.

Infatti, vi è chi, ragionando appunto nel senso che in tal modo il socio di s.r.l. riceve una tutela deteriore rispetto agli altri tipi di società e che la presenza di un’azione cautelare è la spia di una corrispondente azione di merito, reputa comunque individuabile tale ultima azione nel disposto della norma in esame.

Tuttavia, la tesi non convince.

Anzitutto, occorre considerare come la tendenza più recente del legislatore, espressa già nel d. lgs. n. 5/2003 e poi nella recente riforma del rito ordinario del codice di rito con la l. n. 80/2005, sia nel senso di rendere, entro taluni limiti, autonoma l’azione cautelare da quella di merito, mediante le regole della perdurante efficacia del provvedimento cautelare anche nel caso di azione di merito non intrapresa o estinta, per i provvedimenti anticipatori, almeno in parte, degli effetti della decisione di merito (cfr.: art. 23, 1° comma, in deroga all’art. 669-octies c.p.c. ed art. 23, 4° comma; nella recente miniriforma del c.p.c., art. 669-octies, 6° comma, c.p.c.). Sia detto per inciso che ciò in nessun caso fa il venir meno il requisito di contenuto del ricorso cautelare ante causam, consistente nella necessità di enunciare la proponenda azione di merito. Invero, è noto che, in generale, requisito di ammissibilità di qualsiasi ricorso cautelare ed elemento indispensabile per la sua completezza è l’indicazione dell’azione sostanziale, che la parte intende cautelare. Non indicando né l’art. 669-bis c.p.c., né gli art. 23 ss. d. lgs. n. 5/2003 gli specifici requisiti di contenuto del ricorso, deve farsi riferimento alla norma generale dell’art. 125 c.p.c.: e, nell’ambito della necessaria indicazione dell’oggetto e delle ragioni del ricorso cautelare, questo deve contenere la precisazione della domanda di merito rispetto a cui esso si pone come strumentale, indispensabile a molteplici fini, ovvero: a) la valutazione della competenza, la quale è quella del giudizio di merito (art. 669-ter c.p.c.); b) l’individuazione delle parti del procedimento cautelare, che sono le stesse del giudizio di merito; c) l’accertamento della sussistenza del fumus boni iuris, il quale non può che essere lo stesso diritto da far valere nel giudizio di merito; d) la valutazione della strumentalità della misura richiesta rispetto al futuro giudizio di merito; e) la verifica dell’effettiva instaurazione del giudizio stesso nel termine concesso ai sensi dell’art. 669-octies c.p.c., fra l’altro ai fini dell’accertamento dell’inef­ficacia del provvedimento di accoglimento ai sensi dell’art. 669-novies c.p.c. Onde, nel caso in cui la misura, in quanto anticipatoria, sia stata resa in parte autonoma, negli effetti, da un successivo provvedimento di merito, ciò concerne soltanto l’ultima delle funzioni predette, restando valide tutte le altre (si parla, infatti, di mera strumentalità attenuata, non inesistente).

Orbene, l’autonomia, entro dati limiti, dell’azione cautelare dalla domanda di merito è particolarmente evidente nel terzo comma dell’art. 2476 c.c., ove la prima è funzionale ad un’azione risarcitoria di merito, onde è il legislatore stesso che sancisce tale strumentalità: né da ciò si può, al contrario, sulla base di un’adesione a tesi astratte, inferirne una implicita azione di merito.

L’interpretazione dell’art. 2476, 3° comma, c.c. deve, quindi, essere condotta alla stregua della norma cardine sancita dall’art. 12 disp. prel. c.c.: il senso “fatto palese dal significato proprio dalle parole” deve guidare l’interprete, in una, ove necessario, con l’“intenzione del legislatore”; mentre al secondo comma dell’art. 12, quindi all’analogia, non è possibile fare ricorso, non soltanto per il disposto del già richiamato dell’art. 2908 c.c., ma anche perché, nel caso in esame, non è ravvisabile una lacuna, presupposto indefettibile del ricorso all’analogia legis e iuris, secondo l’incipit del precetto (“se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione…”).

Ne deriva che non solo non può applicarsi analogicamente l’art. 2259 c.c., ma nemmeno può seguirsi la tesi di chi propugna l’applicazione analogica dell’art. 1723 ss. in tema di mandato (contro tale ultima opinione vale anche l’argomento, secondo cui mandante è la società, non il singolo socio, e nessuna legittimazione sostitutiva la legge gli ha conferito).

È evidente che prevedere tale azione cautelare di revoca, da parte del legislatore, era indispensabile, ove egli volesse, come è stata sua intenzione, attribuire al socio uno strumento provvisorio di rimozione dell’amministratore dalla carica: infatti, in caso contrario, non sarebbe stata ammissibile un’azione cautelare di revoca dell’ammini­stratore, non potendo applicarsi l’art. 700 c.p.c. a tal fine, proprio per l’insussistenza di un’azione di merito di revoca. Ma da tale considerazione non si può, invertendo i termini, dedurne che allora debba ritenersi necessariamente introdotta anche l’azione di merito: si ripete, il legislatore è arbitro di prevedere un’azione cautelare sganciata dai precisi effetti propri dell’azione di merito, all’interno della quale la prima abbia concesso.

Dalla forzatura della legge deriverebbero, inoltre, conseguenze poco desiderabili, in quanto l’interprete sarebbe poi costretto ad immaginare anche altre norme, complementari e collegate.

Ad esempio, se esiste l’azione di merito, allora deve ritenersi che il socio abbia sempre l’onere di proporre, o di enunciare la volontà di proporre, la medesima, qualora intenda chiedere la revoca cautelare: ciò perché, una volta ripristinato, in via interpretativa, il nesso imprescindibile azione cautelare-azione di merito per la revoca dell’am­ministratore (tanto è vero che proprio dalla presenza dell’azione cautelare si inferisce la necessaria ed implicita presenza dell’uguale azione di merito), allora occorre parimenti ripristinare anche il nesso di necessaria strumentalità tipologica (e non solo funzionale, come è per l’inter­pretazione dal Collegio propugnata) fra azione cautelare ed azione di merito: con la conseguenza della dichiarazione di inammissibilità di tutte le azioni cautelari di revoca, ante causam (ove ammesse) ed in corso di causa, non accompagnate rispettivamente dall’enunciazione o dalla proposizione dell’azione di revoca nel merito, ma, in ipotesi, dall’enunciazione o dalla proposizione soltanto dell’azione sociale di risarcimento del danno proposta dal singolo socio.

Inoltre, dovrebbe allora ritenersi che presupposto, anche della revoca di merito, siano le gravi irregolarità di gestione: quindi, esattamente quello dell’art. 2409 c.c., con una sorta di reintroduzione di tale istituto, salvo che esso sarebbe qui regolato dal rito ordinario; ma, se il presupposto della revoca di merito fossero le gravi irregolarità, allora non sarebbe per nulla necessario un danno concreto al patrimonio sociale per ottenere la sentenza che revochi l’amministratore, e, nel procedimento cautelare di revoca, non occorrerebbe più il fumus di tale danno, nemmeno nell’ambito dell’accertamento sommario tipico di quel procedimento, dovendo guardarsi – proprio come nell’art. 2409 c.c. – soltanto al pericolo di danno (che se poi, ritenendo tale requisito introdotto dal nuovo art. 2409 c.c., si ragionasse nel senso che l’art. 2476 c.c. non lo richiedesse affatto, sarebbero sufficienti le gravi irregolarità pregresse).

Non può, peraltro, negarsi che il quadro disegnato dal legislatore – azione cautelare di revoca senza corrispondente azione di merito a tale contenuto – presenta alcune difficoltà intepretative: in particolare, per il caso di sentenza di accoglimento dell’azione risarcitoria, vi sono dubbi se la misura cautelare della revoca sia destinata ad essere caducata, perché non anticipatoria, o se, invece, sia ultrattiva, sebbene priva di forza di giudicato perché non assorbita nel contenuto dalla sentenza di merito e dato che, secondo il meccanismo della legge, il petitum di merito è svincolato da quello cautelare (la situazione sarebbe analoga a quella prevista per i provvedimenti cautelari anticipatori dall’art. 24, 3° comma, d. lgs. n. 5/2003 per il caso di estinzione del giudizio di merito, salvo che, nel caso in esame, non vi sarebbe alcuna funzione anticipatoria di una decisione di merito di ugual contenuto).

Pare invece più agevole ritenere che, in caso di rigetto della domanda di merito, automaticamente decada il provvedimento cautelare (art. 669-novies c.p.c.).

Parimenti, in caso di mancata proposizione dell’azione sociale di responsabilità, la revoca ante causam decade, come pure nell’ipotesi di estinzione del giudizio di merito, perché non esiste un’azione di revoca di merito e la revoca cautelare non è anticipatoria in senso tecnico dell’azione di danni (il legislatore può fissare come vuole il nesso di strumentalità, ma non può modificare le nozioni giuridiche da lui stesso recepite, ossia la nozione di provvedimento anticipatorio quale quello che anticipa gli effetti della decisione di merito: art. 23, 1° comma, d. lgs. n. 5 del 2003; e nemmeno la nozione in questione pare modificabile dall’interprete, pur se parte della dottrina ha proposto di ampliare la nozione di provvedimenti anticipatori a quelli di c.d. regolamentazione provvisoria, per includervi anche quello in esame, limitando la nozione di provvedimenti conservativi ai sequestri ed alla istruzione preventiva: ma non è possibile affrontare la questione in questa sede).

Solo per completezza si rileva, poi, come alla revoca dell’amministratore, anche cautelare, non possa seguire la nomina di un amministratore giudiziario, come nel caso di specie l’attrice ha richiesto. Non è, infatti, ammesso che il tribunale, in applicazione analogica di altre norme (artt. 1105, 1129, 2409 c.c.) nomini un amministratore, dato che si tratta di disposizioni tipiche e la riforma ha posto particolarmente l’accento sul consenso dei soci (sul problema similare delle società di persone allorché l’ammi­ni­stratore sia revocato ex art. 2259 c.c., in senso negativo Trib. Napoli 2 marzo 1994, in Soc., 1994, 1074 e id., 18 dicembre 1987, ivi, 1988, 591; Pret. Milano 28 febbraio 1991, in Italgiure; Trib. Reggio Emilia 17 novembre 1983, in Soc., 1984, 681; in senso opposto, incidentalmente, la remota Cass. 7 maggio 1963, n. 1113, in Dir. fall., 1963, II, 483; invece, la Cass. 19 luglio 2000, n. 9464, in Fall., 2001, 670, non prende posizione sul punto, perché estraneo al tema della decisione, in una vicenda in cui il tribunale aveva operato tale nomina).

(omissis)

7. L’azione di responsabilità sociale proposta dalla società.

7.1. Nel costituirsi in giudizio, in persona del curatore, la società ha chiesto la condanna di Marcello Piacentini al risarcimento del danno in proprio favore.

La pur scarna comparsa di costituzione della società permette comunque di riferire la causa petendi alle medesime condotte inadempienti allegate dall’attrice.

Deve ricordasi che, come sopra esposto, sebbene l’art. 2476 c.c. non indichi l’esercizio diretto dell’azione sociale da parte della società, essa non può dirsi esclusa, essendo applicazione dell’art. 1218 c.c.: invero, poiché è la società titolare del diritto al risarcimento del danno, che ciascun socio di s.r.l. è altresì legittimato ad esercitare in nome proprio, non può negarsi la sussistenza dell’azione sociale, così come essa permane nelle s.p.a., quotate e no.

La previsione dell’autonomo art. 2476 c.c. vale, pertanto, ad escludere l’applicazione di altre disposizioni, esse sì tipiche delle società per azioni: così, non è più ritenuto, dalla tesi prevalente, presupposto processuale la deliberazione assembleare di esercizio dell’azione di responsabilità (salvo che, naturalmente, essa in fatto ben può essere assunta); di conseguenza, non è più prevista la decadenza automatica degli amministratori in caso di deliberazione assunta con una data percentuale del capitale sociale (art. 2393, 4° comma, c.c.), e ciò, si noti, nemmeno qualora la deliberazione assembleare di esercizio dell’azione, come si è detto non certo vietata, sia stata comunque assunta. Invero, nessuna applicazione analogica dell’attuale art. 2393, 4° comma, c.c. sarebbe ammissibile, perché non vi è una lacuna da riempire con l’interpretazione (art. 12, 2° comma, disp. prel. c.c.). Peraltro, invece, un argomento a favore della tesi della insussistenza del venir meno della carica gestoria una volta assunta con una data percentuale la delibera di esercitare l’azione di responsabilità potrebbe ricercarsi nel nuovo art. 2479 c.c., per il fatto che esso non preveda, fra le competenze rimesse alla decisione dei soci, quella della revoca degli amministratori: sia perché, nonostante l’omissione, non si vede a quale altro organo potrebbe appartenere il potere di revoca (non certo agli amministratori stessi), e sia in quanto l’attuale art. 2393, 4° comma, c.c. non prevede una revoca, ma una decadenza automatica dell’organo gestorio, come dottrina autorevole non ha mancato di precisare ormai vari decenni or sono.

La proposizione di due azioni concorrenti comporta che il socio non vada estromesso dal giudizio, non essendo quella della minoranza azione ex art. 2900 c.c.

7.2. Il problema da affrontare è però quello di valutare se il curatore speciale, nominato alla società litisconsorte nel giudizio promosso dal socio e costituitosi in quanto munito della legittimazione processuale in sostituzione provvisoria del legale rappresentante in conflitto di interessi, abbia non soltanto il potere di ricevere la notificazione rivolta alla società, ma anche quelli – in un progressivo crescendo – di costituirsi in giudizio, di chiedere il rigetto della domanda, di agire per la condanna dell’amministrazione al risarcimento del danno in favore dell’ente stesso.

La materia dei poteri del curatore speciale è stata, per la verità, poco indagata dagli studiosi, specialmente in tempi meno remoti.

L’art. 78 c.p.c., come altre norme che attribuiscano ad un curatore il compito di rappresentare in un processo un altro soggetto, conferisce al medesimo (dato che il decreto del giudice è soltanto individuante della persona, cui il potere in questione spetta in forza della norma) la legittimazione processuale, sottratta all’incapace e, per quanto ora ci occupa, all’amministratore della società in conflitto di interessi.

Ai sensi dell’art. 75 c.p.c., le persone giuridiche stanno in giudizio per mezzo di chi le rappresenta a norma di legge o statuto.

Per le società di capitali, si parla, com’è noto, di rappresentanza organica: l’amministratore, nominato dall’assem­blea, agisce imputando direttamente alla società l’attività, oltre agli effetti dell’atto compiuto. L’art. 75 c.p.c. enuncia appunto la regola, per la quale, a mezzo del proprio legale rappresentante, la società ha la legittimazione processuale, oltre ad essere titolare della legittimazione ad agire.

Mediante lo strumento dell’art. 78, 2° comma, c.p.c., invece, il legislatore contempla un caso speciale, in cui, ferma restando la titolarità del diritto in capo alla società, viene conferita ad un curatore la legittimazione processuale a stare in giudizio, ossia la funzione di gestire provvisoriamente gli interessi processuali della società.

Una ricostruzione massimamente restrittiva dei limiti e della funzione dell’istituto del curatore speciale – il soggetto che, in virtù dell’art. 78 c.p.c., assume la rappresentanza della parte nel processo – escluderebbe qualsiasi potere di iniziativa dello stesso.

Il curatore verrebbe nominato, dunque, per permettere di evocare in giudizio un soggetto privo momentaneamente di legittima rappresentanza nel processo, soltanto quale destinatario della editio actionis e della vocatio in ius, nell’interesse della società; ma non assumerebbe in nessun modo i poteri propri del legale rappresentante della stessa, nemmeno processuali. Si suole distinguere fra poteri di gestione (potere di iniziativa verso l’assemblea, potere esecutivo, potere di gestire l’impresa sociale in senso stretto) e poteri di rappresentanza, sostanziale e processuale, del­l’am­ministratore di società.

Nella più ristretta prospettiva, non potrebbe dunque ritenersi che il decreto di cui all’art. 80 c.p.c. attribuisca il potere di assumere autonome determinazioni nemmeno nel processo: nessuna decisione, che si riverberi nel processo, il curatore speciale potrebbe assumere nell’interesse della società, al di fuori di quella di ricevere l’atto processuale e scegliere se costituirsi in giudizio: ma ciò, tutt’al più, al fine di portare a conoscenza del giudice alcuni fatti appresi nel corso dell’incarico. Anzi, a ben vedere, addirittura sullo stesso potere di dedurre fatti nuovi in causa sorgerebbero dubbi, perché già questa attività potrebbe modificare le sorti del processo, influendo sul convincimento del giudice o comportando rilievi d’ufficio. Nelle proprie conclusioni, egli potrebbe soltanto esprimere una sorta di parere sulle domande oggetto del giudizio, rimettendosi al giudice quanto alla decisione, senza alcuna possibilità di proporre domande, nemmeno di accertamento negativo o rigetto, né tanto meno domande autonome o riconvenzionali.

Altri hanno invece proposto una lettura, all’opposto, assai lata dei poteri del curatore. Si parte dalla considerazione secondo cui l’art. 78 c.p.c. prevede il curatore speciale – nell’ambito del titolo III (Delle parti e dei difensori) e del capo I (Delle parti) – non soltanto quale mero destinatario passivo di un atto di citazione che altri intenda notificare, ma, più genericamente, per il caso in cui “manca la persona a cui spetta la rappresentanza o l’assistenza” e quando “vi è conflitto d’interessi col rappresentante”: dunque, anche qualora l’ente o l’incapace siano nella situazione di promuovere un giudizio.

Si è così osservato che la legge non pone nessuna ulteriore limitazione ai poteri del titolare dell’ufficio di cui agli art. 78 ss. c.p.c.; anche se si tratta comunque di soggetto cui è temporaneamente conferita la rappresentanza processuale, e dunque si pone su di un piano diverso rispetto a quelle disposizioni, in cui al curatore speciale competono pure poteri negoziali (cfr. artt. 320, 321, 360, c.c. ed in generale nelle norme in materia di minori, incapaci, beni: norme che, come afferma es. Cass. 6.8.2001, n. 10822, presuppongono un conflitto relativo non soltanto al singolo processo, ma che investe altri atti sostanziali e processuali, in una complessa situazione che esiga una valutazione globale degli interessi del rappresentato e dei suoi rapporti con il rappresentante).

Le uniche indicazioni del legislatore nell’art. 78 c.p.c., si è così osservato, sono quelle, data la sedes materiae, della nomina ai fini del giudizio ed in attesa che “subentri colui al quale spetta la rappresentanza o l’assistenza” (art. 78, 1° com­ma, c.p.c.). L’indicazione della norma è nel senso che i poteri del curatore sono conferiti – dalla legge, ché il giudice si limita a provvedere alla nomina (salvo particolari indicazioni nel decreto stesso) – per un periodo temporale delimitato auspicabilmente provvisorio: come è confermato anche da quella disposizione che impone la comunicazione della nomina al pubblico ministero perché provochi, quando occorre, i provvedimenti per la costituzione della normale rappresentanza o assistenza (art. 80, 2° comma, c.p.c.).

Il curatore avrebbe in tal modo tutti i poteri della parte del processo, ivi compreso quello di proporre autonome domande nel giudizio in corso.

Sotto questo ultimo profilo, deve comunque osservarsi che non potrebbe che ritenersi operante il limite, ricavabile dall’art. 36 c.p.c., della previa appartenenza al giudizio dell’oggetto o del titolo della sua pretesa, per comunanza della situazione nella c.d. connessione oggettiva qualificata: nozione in cui rientrerebbe l’autonoma proposizione dell’azione sociale, che anzi è la stessa azione già esercitata in via sostitutiva dal socio.

In una delle rare sentenze che abbiano esaminato la figura del curatore speciale di cui all’art. 78 c.p.c., la Cassazione (Cass. 6.8.2001, n. 10822) ha osservato come esso, rispetto ad altre norme in materia di tutela anche sostanziale del minore – nel caso di specie, si trattava dell’art. 360 c.c. – si ponga in un ambito diverso (volontaria giurisdizione in luogo del giudizio ordinario di cognizione), abbia differenti presupposti (il conflitto processuale, in luogo del conflitto sostanziale) e conduca all’emissione di un provvedimento di difforme natura (decisione giurisdizionale, non a carattere amministrativo). Ha, quindi, affermato la Corte che, in tema di rappresentanza sostanziale nel processo (riservando essa la nozione di rappresentanza processuale al solo rapporto tra la parte ed il difensore ai sensi degli art. 82 ss. c.p.c.), “sussiste una situazione di conflitto d’interessi tra rappresentante e rappresentato, tale da comportare la necessità della nomina di un curatore speciale, ogniqualvolta sia dedotta in giudizio una situazione giuridica idonea a determinare la possibilità che il potere rappresentativo sia esercitato dal rappresentante in contrasto con l’interesse del rappresentato, essendo il primo portatore d’interesse personale ad un esito della lite diverso da quello vantaggioso per il secondo. Si determina, in tal caso, una condizione di antitesi tra rappresentante e rappresentato, incompatibile con la funzione della rappresentanza, non potendosi, se pure solo in astratto, escludere che la condotta processuale del rappresentante possa essere influenzata dal proprio interesse e che questi ne sia indotto, pertanto, a chiedere un provvedimento giurisdizionale per sé vantaggioso ma pregiudizievole all’interesse del rappresentato. Condizione da ritenersi sussistente anche quando si presenti soltanto potenziale, non essendo necessaria l’evidente ricorrenza di sintomi indicativi dell’effettività del conflitto, in quanto va egualmente rimossa a titolo precauzionale giusta la ratio dell’art. 78 c.p.c., che mira a prevenire il verificarsi dell’eventuale danno in ragione della più pregnante salvaguardia che l’ordinamento ritiene di dover apprestare in tali casi. Ove si riscontri situazione processuale siffatta, deve necessariamente provvedersi alla nomina d’un curatore speciale che rappresenti gli interessi dell’incapace nel giudizio, e, qualora in tal senso non si sia provveduto, devesi constatare e dichiarare la nullità dell’intero giudizio, stanti il vizio insanabile della costituzione del rapporto processuale e la consequenziale violazione del principio del contraddittorio, in quanto l’individuazione del contrasto d’interessi tra rappresentante e rappresentato costituisce applicazione ne­cessaria del disposto dell’art. 78, 2° comma, c.p.c. che, inquadrandosi nel più generale principio imperativo della garanzia costituzionale del diritto di difesa inviolabile ex art. 24 Cost., impone al giudice il controllo della regolare costituzione del contraddittorio sotto il profilo specifico della presenza in giudizio della parte, cui l’ordinamento ne riconosca il diritto, mediante l’assistenza dell’organo all’uopo espressamente deputato dall’ordinamento stesso” (Cass. n. 10822/2001, cit.).

Già in precedenza, la Cassazione aveva operato il collegamento fra l’art. 78, 2° comma, c.p.c. e l’art. 24 Cost., sempre in ambito societario (citazione proposta dal socio contro la società, di cui era coamministratore con poteri congiunti, così che la società non aveva potuto costituirsi in giudizio per la conflittualità fra i due coamministratori), per affermare che la prima è posta “a garanzia dell’effettività e genuinità del dibattito giudiziario e della validità del rapporto processuale”, nell’ambito del “generale principio imperativo del diritto inviolabile di difesa in giudizio” [Cass., 10 marzo 1995, n. 2800, Società, 1995, 1292].

Sono certo condivisibili tali osservazioni sul diritto di difesa, ma esse devono essere coordinate con il sistema nor­mativo speciale dettato per le società di capitali: il quale porta, nell’ambito esaminato, a propendere per una tesi intermedia circa i poteri del curatore.

Alla luce di tale sistema, pare invero arduo ritenere che il curatore speciale, nominato ai sensi dell’art. 78 c.p.c. nel giudizio di responsabilità sociale promosso dalla minoranza e quale titolare di un ufficio processuale, abbia il potere di proporre egli stesso l’azione sociale di responsabilità in nome e per conto della società.

Con riguardo a tale azione, il legislatore si è invero preoccupato di limitare lo stesso potere del rappresentante organico, esigendo all’art. 2393, 1° comma, c.c. il presupposto processuale della previa deliberazione assembleare volta all’esercizio dell’azione sociale di responsabilità. Parimenti, la rinuncia all’azione sociale di responsabilità esige la previa deliberazione assembleare, ai sensi dell’art. 2393, 5° comma, c.c.

Dunque, quando sia stato nominato alla s.p.a. un curatore speciale, appare necessario rispettare il procedimento previsto, non trattandosi di un soggetto nominato dal tribunale in sostituzione dell’organo amministrativo di emanazione assembleare (si pensi invece all’amministratore giudiziario) ed avendo egli soltanto la rappresentanza processuale, in presenza della situazione contingente di conflitto di interessi che la nomina abbia originato. Al curatore, quindi, viene conferito soltanto l’incarico di rappresentare processualmente la società, ma non quello di operare autonome valutazioni sostanziali e di merito circa la sussistenza degli inadempimenti, tali da condurre ad una prognosi favorevole di accoglimento dell’azione sociale di responsabilità, o, comunque, alla decisione circa l’esercizio di tale azione.

Pertanto, occorrerà la previa deliberazione assembleare, per ritenere che egli all’esterno possa proporre la relativa azione sociale di responsabilità o rinunciare o transigere la medesima.

Si tratterà, peraltro, di una mera facoltà del curatore di agire nel senso deliberato dall’assemblea, in quanto, proprio per la sua autonoma funzione processuale, egli non è obbligato dal­l’esistenza della deliberazione assembleare e non sussiste la cogenza di una simile deliberazione per il medesimo.

Per quanto riguarda le s.r.l., la legge nulla dice circa l’azione di responsabilità sociale, esercitata dalla stessa società, e, dunque, nemmeno ha previsto il suddetto presupposto processuale. Come si è visto, è preferibile ritenere che la società, titolare del diritto al risarcimento del danno, non sia stata privata della relativa azione.

Quanto al presupposto di cui all’art. 2393, 1° comma, c.c. nelle s.r.l., ed indipendentemente dalla opinione che si abbia circa la sua applicabilità nelle ipotesi normali di esercizio dell’azione di responsabilità da parte dell’organo amministrativo, sembra arduo reputare che, mentre nelle s.p.a. il curatore non abbia alcun potere autonomo di determinarsi all’esercizio dell’azione, nelle s.r.l. tale potere sussista: infatti, non si tratta di un istituto diverso nei due tipi sociali.

Non può, peraltro, ritenersi che, nelle s.r.l., all’assem­blea sia precluso di assumere la decisione di esercitare l’azione sociale di responsabilità: e, dunque, se vi sia tale decisione, il curatore speciale ha la legittimazione processuale rispetto ad essa. In definitiva, in tal caso la deliberazione di esercizio dell’azione di responsabilità è necessario presupposto processuale per il curatore speciale, quale atto integrativo dei suoi poteri.

In mancanza (e questa, certo, sarà la regola, dato che infatti il socio di minoranza si è determinato ad esercitare l’azione sociale: ma si pensi alla deliberazione di esercitare l’azione sociale di responsabilità assunta dall’assemblea, con l’astensione necessaria dell’amministratore in conflitto, art. 2373 c.c.), il curatore speciale di cui all’art. 78 c.p.c. non può esercitare l’azione di responsabilità sociale in nome e per conto della società, ove evocato in giudizio dal socio con l’azione di cui all’art. 2476, 3° comma, c.c. La conclusione non comporta alcuna particolare compressione dei diritti della società, posto che proprio per superare l’impasse della mancanza dell’esercizio dell’azione da parte dell’organo gestorio il legislatore ha introdotto le azioni di responsabilità sociale esercitate dalle minoranze negli artt. 129 t.u.f., 2393-bis, 2476 c.c.

Restano, però, in capo al curatore speciale, pur in mancanza di qualsiasi deliberazione assembleare, non soltanto ovviamente il potere di ricevere la notificazione rivolta alla società, ma anche quelli di costituirsi in giudizio, di dedurre argomenti, di produrre documenti o articolare prove, di chiedere il rigetto della domanda proposta dalla minoranza o, invece, l’accoglimento, e così via.

8. Spese.

Le spese di lite seguono la soccombenza del convenuto verso l’attrice e sono liquidate d’ufficio, in assenza di notula. Parimenti a carico del convenuto, per il principio di causalità, gravano le spese sostenute dalla società, perché, al di là della inammissibilità dell’azione da questa proposta (questione peraltro nuova), la costituzione della stessa in giudizio è stata resa necessaria dalla condotta del Piacentini.

P.Q.M.

 

(1-2-3-4-5) Ma il provvedimento cautelare di revoca degli amministratori è veramente strumentale rispetto all’azione di responsabilità promossa dal socio di s.r.l.?

 

  
SOMMARIO:

1. Il caso - 2. Normativa di riferimento - 3. Orientamenti di giurisprudenza e dottrina - 4. Il commento - NOTE


1. Il caso

Il socio di minoranza di una s.r.l. immobiliare con­viene in giudizio l’amministratore unico, chiedendone la revoca, con conseguente nomina di un amministratore giudiziario, e la condanna in proprio favore al risarcimento dei danni patiti dalla società e dallo stesso attore «ai sensi dell’art. 2476, terzo comma, c.c.», nonché di quelli da esso direttamente subiti «ai sensi dell’art. 2476, sesto comma, c.c.» [1]. Gli inadempimenti pregiudizievoli che il socio contesta all’amministratore sono i seguenti: 1) falsificazione dei bilanci; 2) mancato deposito degli stessi a partire dal 1995; 3) omissioni fiscali, tributarie e condominiali in relazione agli immobili sociali; 4) stipulazione di un contratto di mutuo in nome e per conto della società con rogito del 31 marzo 1993 per un importo di £ 2.000.000.000, garantito da ipoteca sugli immobili sociali, senza alcuna utilità per la società; 5) appropriazione di tale somma per un ammontare pari a £ 1.900.000.000 attraverso giroconto del 31 marzo 1993 a favore di un proprio conto corrente e successivo utilizzo della stessa per l’acquisto di titoli su altri conti correnti personali; 6) mancato pagamento delle rate del mutuo, cui è seguita l’espro­­priazione immobiliare intrapresa dal mutuante e culminata con la vendita all’asta degli immobili sociali. Costituitosi in giudizio, il convenuto eccepisce l’infondatezza delle azioni di responsabilità promosse dal socio nel proprio interesse, poiché quest’ul­timo non ha allegato alcun danno diretto al patrimonio personale. Ai fini dell’esonero da responsabilità, l’amministratore deduce comunque che le rate del mutuo, così come gli altri debiti sociali, non sono stati pagati per mancanza di risorse e che il finanziamento, confluito in un conto corrente intestato alla zia dei soci, è stato richiesto per l’attua­zione dell’oggetto sociale. In conseguenza di tali difese, il socio, nei successivi scritti difensivi, precisa di aver esercitato l’azio­ne di responsabilità ex art. 2476, 3° comma, c.c. in nome proprio e nell’interesse della società, al fine di tutelare l’integrità del patrimonio sociale. In pendenza del procedimento l’attore, su invito del giudice [continua ..]


2. Normativa di riferimento

I principi enunciati nel provvedimento in epigrafe prendono le mosse da un dato normativo che il legislatore della riforma del diritto delle società di capitali ha reso autosufficiente ed ampiamente derogabile dall’autonomia statutaria «al fine di accentuare il distacco della s.r.l. dalla s.p.a. e di farne un modello societario particolarmente elastico, che consenta di valorizzare i profili di carattere personale presenti soprattutto nelle piccole e medie imprese» [2]. In questa prospettiva, anche la materia della responsabilità degli amministratori di una s.r.l. trova oggi un’autonoma disciplina, la cui derogabilità si esaurisce, peraltro, nella sola possibilità di modificare in sede statutaria i quorum necessari per deliberare la rinuncia o la transazione dell’azione di responsabilità (art. 2476, 5° comma, c.c.). In particolare, l’art. 2476 c.c. dispone, al primo comma, che la responsabilità degli amministratori verso la società per i danni derivanti dall’inosser­vanza dei doveri gestori ha natura solidale e non si estende a coloro che dimostrino di essere esenti da colpa e, essendo a cognizione che l’atto dannoso si stava per compiere, abbiano fatto constare il loro dis­senso. Tale disposizione, a differenza degli artt. 2392, 1° comma, e 2260, 1° comma, c.c. dettati, rispettivamente, in tema di s.p.a. e di società di persone, non prevede che gli amministratori di una s.r.l. devono adempiere i propri doveri diligenter [3]. Inoltre, non viene espressamente disciplinato un esercizio assembleare dell’azione sociale di responsabilità, mentre trova conferma la regola per la quale l’appro­vazione del bilancio non implica liberazione degli amministratori per le responsabilità incorse nella gestione sociale (art. 2476, 7° comma, c.c.). In base al 3° comma dell’art. 2476 c.c., ciascun socio è legittimato ad agire in giudizio per far valere la responsabilità degli amministratori [4] e può altresì chiedere che sia adottato, in caso di gravi irregolarità nella gestione della società, un provvedimento cautelare di revoca degli amministratori, che il giudice può subordinare alla prestazione di apposita cauzione (art. 2476, 3° comma, c.c.) [5]. Ad una siffatta tutela cautelare non corrisponde, [continua ..]


3. Orientamenti di giurisprudenza e dottrina

Le statuizioni contenute nella sentenza in epigrafe intervengono in un tema che ha già trovato ampia trattazione nelle nostre aule giudiziarie e costituito oggetto di numerose prese di posizione, anche autorevoli, da parte della dottrina. Del resto, da una lettura, sia pure solo sommaria, del dato normativo emergono i numerosi e delicati interrogativi posti dalla nuova disciplina della responsabilità degli amministratori di una s.r.l. soprattutto per ciò che in essa evidentemente manca. Vista la complessità dell’argomento, ci si limiterà a segnalare gli orientamenti che appaiono utili per discutere le soluzioni date al caso concreto. 3.1.Nonostante il singolare silenzio del legislatore, è opinione diffusa che il criterio della diligenza continui a rilevare nella valutazione della responsabilità dell’amministratore di una s.r.l. e, prim’ancora, a svolgere una funzione integrativa dello stesso contenuto della prestazione gestoria. Infatti, si ritiene che tra gli obblighi di fonte legale che gli amministratori sono tenuti ad adempiere ai sensi dell’art. 2476, 1° comma, c.c. rientrano, accanto a quelli aventi un contenuto specifico determinato, i c.d. doveri generali di comportamento, ovvero l’obbligo di perseguire l’interesse sociale senza conflitti di interessi e di amministrare con diligenza [7]. Non è chiaro, però, quale sia in concreto il metro di misura della diligenza da utilizzare per valutare l’operato degli amministratori di una s.r.l. Parte della dottrina, sulla base di un confronto tipologico tra le peculiarità delle s.r.l. e quelle dei tipi per i quali si rinviene un’esplicita indicazione di legge, sostiene che nel tipo normativo della s.r.l. debba applicarsi analogicamente il criterio della diligenza del mandatario cui rinvia l’art. 2260, 1° comma, c.c. dettato in tema di società di persone, mentre potrà operare la regola prevista dall’art. 2392, 1° comma, c.c. soltanto ove il modello reale sia conformato secondo gli schemi legali tipici della s.p.a. [8]. Questa regola, secondo la riferita opinione, è stata introdotta dal legislatore al fine di porre l’accento sul significato professionale dell’opera degli amministratori di una s.p.a. in virtù della divisione del lavoro che si realizza con tale tipo societario, ovvero della sua tipica separazione tra [continua ..]


4. Il commento

Il dato normativo ed il novero di opinioni dottrinali e giurisprudenziali riportate sinteticamente consentono, ad avviso di chi scrive, di concordare solo in parte con le conclusioni cui giunge la sentenza in epigrafe. Sicuramente condivisibile è l’affermazione di un generale dovere di diligenza gravante sugli amministratori di società di capitali in base agli artt. 1176, 2° comma, 2392, 1° comma, e 2476, 1° comma, c.c., vista la sua coerenza con i principi generali in tema di diligenza nell’attuazione del rapporto obbligatorio. Ove si ritenesse il contrario, com’è stato rilevato, non si comprenderebbe il perché non ci si debba attendere un livello di diligenza maggiore da parte dell’amministratore di una s.r.l. chiamato a svolgere un’attività professionale e nominato in ragione delle specifiche competenze in suo possesso [50]. Altrettanto indiscutibile pare la configurabilità dell’azione sociale responsabilità anche nelle s.r.l. Escluderne l’esistenza significherebbe adottare una visione fortemente «riduzionistica» della personalità giuridica che non sembrerebbe trovare un valido riscontro sul piano normativo [51], se si eccettua la connotazione eventuale (ma pur sempre residuale) del­l’organizzazione corporativa della s.r.l. [52]. Né sembra possibile giungere a tale conclusione [53] mediante un accostamento dell’azione «sociale» di responsabilità esperibile dal socio di s.r.l. a quella che, nonostante il silenzio del legislatore, parte della dottrina e della giurisprudenza ritengono esercitabile da qualsiasi socio di società di persone [54]. Infatti, se si aderisce alla tesi prevalente che ricostruisce l’auto­nomia patrimoniale delle società di persone in chiave soggettiva [55], l’interrogativo che si pone è se solo la società sia legittimata ad agire ai sensi dell’art. 2260, 2° comma, c.c., in persona dei soci amministratori muniti del potere di rappresentanza, o anche ciascun socio in nome proprio e nell’interesse della società. Ed in questa prospettiva, è proprio l’attri­buzione al socio di s.r.l. della legittimazione all’eser­cizio del­l’azione di responsabilità che può costituire un valido argomento per sostenere il [continua ..]


NOTE
Fascicolo 2 - 2009