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In caso di fusione tra società di capitali, ad eccezione di alcune particolari ipotesi, il capitale della società risultante dalla fusione può essere liberamente determinato entro i seguenti due estremi: la somma dei patrimoni netti delle società interessate alla fusione, da intendersi quale limite superiore; in misura almeno pari al capitale minimo previsto dalla legge per il tipo societario cui appartiene la società risultante dalla fusione, da intendersi quale limite inferiore.
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1. La fattispecie ed il quesito - 2. La soluzione - 3. La motivazione: inesistenza di parametri rigidi per la determinazione del capitale sociale della società risultante dalla fusione - 4. Segue: il limite massimo - 5. Segue: il limite minimo - NOTE
Il controllo notarile nell’ambito delle operazioni di fusione investe, tra gli altri aspetti, anche quello relativo alla determinazione del capitale della società risultante dalla fusione: al notaio compete la verifica dell’importo indicato nel progetto di fusione, la cui ammissibilità deve trovare giustificazione nel netto patrimoniale delle società interessate alla fusione stessa, ossia nella somma algebrica dei capitali e delle riserve evidenziate dalle situazioni patrimoniali poste a base dell’operazione. Alla luce di tali considerazioni si pongono i seguenti dubbi: a) se l’autonomia delle parti possa dispiegare i suoi effetti senza che esse siano vincolate da parametri rigidi o da automatismi nella determinazione dell’importo; b) quali siano, in caso di risposta affermativa al primo quesito, il limite minimo e massimo all’interno dei quali quest’ultima possa operare.
Si ritiene di poter fornire al primo quesito una risposta positiva, in quanto non vi è nessuna norma giuridica, principio desumibile dall’ordinamento od esigenza pratica legata all’esecuzione dell’operazione, che limiti tale libertà. Quanto al secondo, conseguente, quesito può rispondersi che l’autonomia delle parti trova un limite massimo nella somma dei patrimoni netti della società coinvolte nella fusione; salva la possibilità, peraltro non pacificamente accolta dalla dottrina, di ricorrere alla predisposizione di una perizia giurata di stima che offra “copertura” alla parte di capitale della società risultante dalla fusione eccedente tale soglia. Il limite minimo pare, invece, dover essere individuato nel capitale minimo previsto dalla legge per il tipo societario cui appartiene la società risultante dalla fusione e non, come sostenuto da parte della dottrina, nel capitale della società incorporante ante-fusione, piuttosto che nella somma dei capitali delle società coinvolte in caso di fusione propria.
La prevalente ricostruzione della natura della fusione offre un solido appiglio a sostegno della libertà nella determinazione del capitale della società risultante: la valenza dell’operazione, “organizzativa” e meramente modificativa dello statuto [1], investe non solo il profilo effettuale, ma permette anche di concepire la fusione come una profonda riorganizzazione dell’impresa che concerne, tra gli altri aspetti, il patrimonio e quindi le poste di bilancio della società risultante. Essa, pertanto, potrà procedere ad una riallocazione del patrimonio netto delle società coinvolte nella fusione, liberamente appostando tale valore complessivo a riserva, piuttosto che a capitale [2]. Anche la necessità, nel caso di incorporazione, di redistribuire tra tutti i soci delle società interessate le partecipazioni della società risultante dalla fusione proporzionalmente al rapporto di cambio indicato nel progetto, non pone sotto il profilo in esame alcun vincolo. Vi sono casi nei quali può risultare più pratico ricorrere alla fissazione di un capitale pari alla somma di quelli delle società ante fusione: ma tale metodo configura solo una delle ipotesi percorribili, come ha dimostrato la dottrina superando le obiezioni avanzate in un primo momento dalla giurisprudenza [3]. Quanto sin qui precisato opera indifferentemente per ogni tipologia di fusione, propria piuttosto che per incorporazione, e trova un limite invalicabile solo nel principio posto dall’art. 2504 ter c.c. a tutela di una formazione non fittizia del capitale della risultante [4].
L’identificazione del limite massimo nella somma dei patrimoni netti delle società coinvolte nella fusione è tema che non ha tradizionalmente sollevato ardue questioni e sul quale il consenso è pressoché unanime [5]: la correttezza della conclusione appare ulteriormente rafforzata dall’esplicita affermazione operata dal legislatore della riforma in merito al principio di continuità dei bilanci di cui all’art. 2504 bis, comma quarto, c.c. Una questione invece tuttora aperta, ma sulla quale sta formandosi un consenso sempre maggiore, è quella relativa alla possibilità di superare il limite appena indicato e, soprattutto, quali siano, ove si assuma tale decisione, le eventuali cautele da adottare. L’art. 2501 sexies c.c. ha chiarito definitivamente che la necessità di una relazione giurata di stima è riservata alle operazioni che coinvolgono le società di persone e che, quindi, ove interessate siano società di capitali, è sufficiente utilizzare le poste risultanti dalle situazioni patrimoniali poste a base della fusione stessa. L’art. 2343 c.c. può però essere utile – ed anzi appare ai più indispensabile strumento – nel caso in esame: lo scostamento dal principio di continuità contabile e la fissazione di un capitale della società risultante dalla fusione superiore alla somma dei patrimoni netti delle società fuse, infatti, può trovare un’adeguata “copertura” giuridica e fornire una sufficiente garanzia economica ai terzi proprio in presenza di una relazione giurata di stima, le cui risultanze confermino che il patrimonio stimato è almeno pari al capitale stesso [6]. Si segnala, peraltro, che secondo un’autorevole linea di pensiero, ancor più liberale, non vi sarebbe necessità di ricorrere alla relazione di cui all’art. 2343 c.c., poiché già quella di stima degli esperti sulla congruità del rapporto di cambio assolverebbe a tale funzione [7].
L’individuazione del limite minimo pone maggiori problemi e richiede uno sforzo argomentativo maggiore. Una premessa, condivisa dalla dottrina assolutamente prevalente, è quella che poggia sulla sostanziale omogeneità di tutela offerta ai creditori dal meccanismo dell’opposizione alla fusione, di cui all’art. 2503 c.c., con quello previsto in caso di riduzione reale del capitale sociale, di cui agli artt. 2445 e 2482 c.c. [8]. Ma il comune dato di partenza non conduce a risultati omogenei, ed anzi offre soluzioni divergenti, se taluno ha affermato che nel caso di incorporazione, ad esempio, l’entità del capitale della incorporante ante-fusione costituisce il limite minimo invalicabile del capitale post-fusione: vertendosi altrimenti in un’ipotesi di riduzione reale (allora per esuberanza) del capitale, suscettibile di far scattare la disciplina relativa e quindi di dilatare il termine per l’opposizione sino a novanta giorni dall’iscrizione della delibera nel registro delle imprese [9]. Una simile prospettazione non pare condivisibile e sembra invece preferibile ritenere che l’autonomia possa spingersi a ridurre il capitale della società risultante dalla fusione sino all’unico, autentico, invalicabile limite, rappresentato dal minimo legale previsto per il tipo societario cui la società appartiene [10]. Ciò sembra essere coerente con le seguenti osservazioni: 1. la soluzione non può essere differente in ragione del tipo di fusione, posto che i medesimi principi governano sia le incorporazioni sia le fusioni proprie; 2. se la tutela offerta dall’art. 2503 c.c. è considerata idonea nelle ipotesi più frequenti – quando il capitale della risultante della fusione propria viene individuato in una somma inferiore alla somma dei capitali delle società ante-fusione – che pur sempre configurano una riduzione non nominale del capitale, tale caratteristica non può venire meno a fronte di una variazione semplicemente quantitativa – riduzione del capitale della società incorporante a cifra inferiore a quella ante-fusione – ma non qualitativa dell’operazione; 3. la natura meramente organizzativa e modificativa della fusione non può impedire all’autonomia delle società coinvolte di svilupparsi anche nella composizione delle poste del passivo della [continua ..]