Rivista di Diritto SocietarioISSN 1972-9243 / EISSN 2421-7166
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La repressione penale della manipolazione: il primo caso di "risarcimento" alla Consob per danno all'integrità del mercato (di Emanuela Di Lazzaro e Deborah Spedicati)


Tribunale Milano, Sezione III – 27 marzo 2006

Mancinelli, Presidente – Cernuto, Estensore

Nocerino, P.M.

 

MOTIVI DELLA DECISIONE

 

1. Il pubblico ministero contestava il fatto di aggiotaggio manipolativo descritto all’imputazione nei confronti di A. C., dirigente e responsabile pro tempore dell’unità organizzativa Warrants & Equity Derivatives (di seguito, WED) della Unicredit Banca Mobiliare s.p.a. (di seguito UBM), banca di investimento del gruppo bancario Unicredito Italiano; G. Cu., alle dipendenze del C. in qualità di responsabile del trading del desk (ovvero, delle negoziazioni effettuate dalla postazione operativa dalla quale sono partite le proposte di negoziazione in vendita indicate all’impu­tazione); e A. P., anch’ella funzionalmente dipendente dal C. quale responsabile dello sviluppo prodotti dell’unità organizzativa WED di UBM.

Gli ultimi due imputati definivano la loro posizione al­l’udien­za preliminare con sentenza di applicazione della pena; A. C. veniva invece tratto a giudizio.

Nel corso del dibattimento, preliminarmente, la Consob si costituiva parte civile e il pubblico ministero integrava l’im­puta­zione alla luce della sussunzione della fattispecie contestata nella nuova formulazione dell’art. 185 T.U.F.

Il Tribunale acquisiva documentazione, comprensiva delle registrazioni delle telefonate relative alle operazioni di vendita di azioni Banca di Roma effettuate dall’unità diretta dal C. tra le 16.50 e le 16.58 del 31 gennaio 2000; conferiva la perizia di trascrizione di queste telefonate; acquisiva la testimonianza di G. Po. (funzionario che ha coordinato l’istruttoria Consob) e G. A. (responsabile pro tempore dell’in­ternal audit di UBM); sentiva il consulente tecnico della difesa del­l’im­putato P. G.; acquisiva le dichiarazioni degli imputati di reato connesso G. Cu. e A. P.; procedeva all’esa­me del­l’im­putato.

All’esito, le parti rassegnavano le conclusioni in epigrafe trascritte.

 

2. La vicenda trae origine dalla emissione di 9.066 obbligazioni Mediobanca 99 – 01 knock in reverse convertible in azioni Banca di Roma del valore nominale unitario di 3.309 euro ciascuna, della durata di 16 mesi (dal 12 novembre 1999 al 12 marzo 2001) e munite di cedola annuale del 13,75%.

Le obbligazioni reverse convertible sono titoli strutturati in maniera che alla scadenza, al verificarsi di determinati eventi, l’emittente abbia la facoltà di consegnare ai detentori un determinato quantitativo di beni di investimento (definiti valori di base o sottostanti: nella specie, azioni Banca di Roma) invece di rimborsare il capitale in denaro.

Considerato che ai sottoscrittori viene chiesto di versare un capitale ragguagliato al valore di mercato del sottostante ne discende che ai risparmiatori, pur con la denominazione di obbligazione e con un’appa­renza più attraente di quella dei titoli ordinari, determinata dalla cedola munita di un tasso di interesse maggiore, viene offerto in realtà uno strumento finanziario completamente diverso che porta a scommettere sull’an­damento del sottostante nel periodo di durata del prestito e, in caso di evoluzione negativa, può comportare perdite anche ingenti del capitale investito.

L’investitore che acquista una obbligazione reverse convertible in azioni compie infatti, contestualmente, due operazioni:

a) consegnando denaro all’emit­tente, acquista una normale obbligazione

b) accettando il rischio di ricevere a scadenza le azioni sottostanti qualora queste ultime siano scese di valore cede implicitamente all’emittente una opzione put, ovvero il diritto di restituire in luogo del capitale il sottostante nel quantitativo previamente determinato. Per questa ragione, riceve in cambio un interesse più elevato la cui congruità è particolarmente complessa da calcolare ed è in funzione di numerose variabili, tanto da essere quasi impossibile da valutare per il pubblico dei risparmiatori.

L’emissione in questione, dell’am­mon­tare complessivo di circa 30 milioni di euro (precisamente: euro 29.999.394), ha visto il gruppo bancario Unicredito Italiano rivestire il ruolo molteplice di organizzatore del­l­’ope­razione; sottoscrittore integrale; collocatore al dettaglio delle obbligazioni presso la clientela attraverso la rete commerciale del gruppo; assuntore del relativo rischio economico, rilevato dal­l’emit­tente con l’acqui­sto della parte derivativa del prestito (l’opzione put con knock in sottostante, di seguito definita anche put put barrier: il contratto di opzione che attribuiva il diritto di vendere non oltre una certa data una quantità di azioni Banca di Roma ed il cui valore derivava, quindi, da quello di queste ultime) concluso con contratto di swap (ovvero, di scambio di tassi di interesse) del 19 ottobre 1999, prima del collocamento presso i risparmiatori.

L’operazione è stata quindi ideata, gestita ed è costantemente rimasta nell’inte­resse economico di Unicredito Italiano e, in particolare, dell’unità WED di UBM diretta dal C., cui rispondeva gerarchicamente G. Cu., la persona che ne ha sempre seguito materialmente lo sviluppo.

Mediobanca ha emesso il titolo sulla base delle indicazioni ricevute (durata, importo, cedola e azione sottostante), nel contesto di un collocamento privato riservato interamente a Unicredito che prevedeva anche la cessione alla committente del rischio correlato e l’incasso dei controvalore degli interessi da pagare ai sottoscrittori, ad un tasso pari all’Euribor a sei mesi al netto di 22 punti base.

Pur essendo formalmente l’emit­tente, Mediobanca si è dunque limitata a fornire un servizio di confezione dello strumento finanziario e a ricevere, per questa ragione, una commissione pari al 3% dell’importo nozionale del contratto (euro 889.981). Non ha avuto altri interessi e, in particolare, è rimasta del tutto indifferente rispetto al verificarsi delle condizioni di esercizio dell’opzione: per effetto del reverse convertible swap stipulato con Unicredito (in pratica, la cessione a Unicredito di una opzione put eguale a quella incorporata nell’obbligazione) si è resa immune dal rischio dell’ope­ra­zione, così configurata tra le parti alla stregua di un servizio finanziario a costi certi ed “all-inclusive”.

È stato invece l’Unicredito, e in particolare il dipendente del C. G. Cu., a strutturare l’obbli­gazione (ovvero: a combinare in essa la componente obbligazionaria e lo strumento derivato); a definire gli estremi di tale opzione put implicitamente incorporata e a scegliere l’azio­ne sottostante; a disegnare l’ope­razione in maniera da scorporare la put e assumerne il rischio, tramite l’ac­cordo concluso con Mediobanca; a rilevare in tal modo le opportunità economiche connesse all’emissione e a seguirne tutto il ciclo economico.

Il rischio così acquisito non è stato ceduto a nessun altro intermediario.

L’unità WED diretta dall’imputato è stata quindi il centro di imputazione degli interessi economici sottesi al­l’emis­sione; e, come tale, ha provveduto alle attività di gestione del rischio conseguenti (indicate, di seguito, anche con il termine delta hedging), attraverso il mantenimento in portafoglio del numero di azioni Banca di Roma necessario a compensare le oscillazioni di valore dell’opzione put posseduta.

Per recuperare i costi di emissione del­l’ob­bligazione versati a Mediobanca, ammortizzare i rischi dell’ope­ra­zione (riferiti, essenzialmente, al­l’even­tualità che non si verificassero le condizioni di esercizio del­l’op­­zio­ne) e ottimizzare le prospettive di ricavarne un vantaggio economico era infatti necessario bilanciare continuamente il valore della put con un portafoglio di azioni Banca di Roma da cui trarre gli utili necessari a rimborsare gli obbligazionisti, qualora l’opzione non fosse stata esercitabile.

Il valore dell’opzione dipendeva dal corso del sottostante, che ne definiva il valore intrinseco (a condizione che la quotazione dell’azione Banca di Roma fosse al di sotto del prezzo di esercizio della put: in questi casi, l’opzione si definisce in the money); e dal valore temporale, che rifletteva la probabilità di esercitare l’opzione a scadenza ed era in funzione della durata residua del prestito e della volatilità (fascia di oscillazione del prezzo) del sottostante. Di conseguenza, il valore della put aumentava all’approssi­marsi delle condizioni di esercizio, che comportava la diminuzione delle azioni da detenere per ammortizzare il rischio. Viceversa, l’al­lontanamento dalle condizioni di esercizio dell’opzione ne diminuiva il valore e aumentava, per converso, il valore della reverse convertible posseduta dai risparmiatori: in tale situazione occorreva aumentare proporzionalmente il portafoglio azionario del sottostante, per compensare la maggiore probabilità di farvi ricorso alla scadenza del prestito.

Considerato che l’unità WED del C. era tenuta, per disposizioni interne della banca, a rispettare determinati limiti di esposizione al rischio a chiusura di ciascuna giornata, ne discendeva la necessità di una gestione dinamica che seguiva in tempo reale l’andamento del mercato.

La gestione in sé era inoltre cruciale per la redditività di tutta l’ope­ra­zione finanziaria: se bene effettuata, comprando ai minimi e vendendo ai massimi di giornata e facendo adeguato ricorso, ove necessario, a compensazioni e strumenti derivati di copertura, costituiva essa stessa una fonte di profitto. Per questa ragione, ancorché svolta con l’ausilio di un software e tenendo presente un modello di gestione del rischio calibrato su algoritmi matematico-finanziari, non costituiva un automatismo ma rimaneva affidata all’istinto, alla sagacia e alle capacità dei trader chiamati a interpretarla.

 

3. Mentre il concetto tradizionale di obbligazione si basa su uno schema finanziario molto semplice (il sottoscrittore versa una somma di denaro che produce interessi e, ad una scadenza prefissata, viene restituita) i titoli in questione, data la loro atipicità, avevano quindi modalità complesse e aleatorie di determinazione del rendimento, tanto per i risparmiatori quanto per la controparte finanziaria.

Nella specie, con l’incorporazione nel­l’ob­bligazione della put option l’UBM si era riservata la possibilità di restituire, in luogo del capitale, un quantitativo di 2.500 azioni Banca di Roma per obbligazione alla duplice condizione che: alla data del 5 marzo 2001 (sette giorni prima della scadenza del prestito) il prezzo di apertura di questo titolo fosse risultato inferiore al prezzo base prefissato (cosiddetto strike price), indicato in euro 1,3236; tra il 20 ottobre 1999 e il 5 marzo 2001 l’azione avesse segnato almeno una volta un prezzo uguale o inferiore ad euro 1,0922 (cosiddetto prezzo barriera o knock in). In caso contrario, il prestito sarebbe stato rimborsato alla pari e, dunque, a condizioni favorevoli ai risparmiatori, che avrebbero conseguito così il guadagno massimo possibile, costituito dal recupero integrale del capitale più l’inte­resse pattuito, che ammontava a 455 euro per obbligazione.

L’Unicredito, che operava attraverso l’unità WED di UBM diretta dal C., pur non essendo l’emit­tente tenuta formalmente ad effettuare il rimborso e apparendo un mero intermediario era, come indicato, l’effettivo detentore dell’in­teresse economico portato dalla put incorporata nello strumento finanziario, opposto a quello dei clienti cui aveva venduto il titolo. Nonostante l’UBM avesse la possibilità teorica di ricavare un utile dall’operazione (costata oltre 2,4 milioni di euro) anche a prescindere dall’eser­cizio dell’opzione, attraverso la auspicata redditività dei meccanismi di copertura del rischio, era evidente che l’essenza dei reverse convertible restava quella di una scom­messa a parti contrapposte, in cui i sottoscrittori avevano puntato sull’incre­mento di valore del sottostante; e la banca sulla diminuzione del prezzo di questo titolo, per massimizzare il valore della componente derivata ed esercitare l’op­zione che, in luogo del capitale, avrebbe consentito dì restituire azioni svalutate.

In maniera direttamente proporzionale al decremento di valore del­l’azio­ne Banca di Roma al momento del regolamento, l’uni­tà diretta dal C. aveva infatti la possibilità di restituire ai propri clienti una somma anche sensibilmente inferiore a quella ricevuta. In linea teorica, la banca avrebbe conseguito il guadagno massimo possibile qualora le azioni avessero perso tutto il loro valore, potendo trattenere tutto il capitale e limitarsi a versare la cedola degli interessi: in tale ipotesi, non solo non avrebbe remunerato il prestito ma avrebbe lucrato la somma di 2845 euro per obbligazione, con un’espo­sizione dei risparmiatori alla perdita massima dell’85% circa del capitale impegnato.

A questo interesse economico della banca, opposto a quello degli obbligazionisti, incentrato sulla determinazione delle condizioni di esercizio dell’opzione e, quindi, anche sulla fissazione tra il 20 ottobre 1999 e il 5 marzo 2001 di un prezzo delle azioni Banca di Roma uguale o inferiore alla barriera di knock in, corrispondeva l’interesse del C. e degli altri imputati giudicati separatamente. In primo luogo, in ragione del rapporto di immedesimazione organica con l’UBM, di cui tutti costituivano l’unità incaricata di gestire l’operazione e che era particolarmente evidente con riferimento al C., data la funzione apicale ricoperta; ma anche a titolo personale, in quanto i trader (e i loro dirigenti) vengono retribuiti in misura variabile commisurata alle per­dite evitate e ai guadagni conseguiti.

Per l’unità WED diretta da A. C. la rottura del valore prestabilito di knock in determinava inoltre, di per sé, il vantaggio di semplificare sensibilmente le attività di gestione del rischio del prestito, con beneficio immediato sotto forma di minore impegno e intensità di lavoro, minori rischi di errore e maggiori probabilità di guadagno nell’as­solvi­mento dei compiti di istituto.

L’incarico di tenere costantemente sotto controllo l’espo­si­zio­ne al rischio andava assolto avendo riguardo a parametri precisi, legati matematicamente alla probabilità che l’opzione risultasse esercitabile a scadenza e indicati nella prassi da lettere dell’al­fabeto greco: il delta (il fattore numerico che misura la variazione del valore dell’opzione al variare del prezzo dello strumento sottostante, definito matematicamente come la derivata prima del prezzo dell’opzione rispetto ai prezzo del­l’azio­ne sottostante. Indica il numero di azioni che occorre pos­sedere in un certo istante per ottenere una condizione di rischio nullo: moltiplicando il delta per il numero di azioni sottostanti alle opzioni possedute si ottiene il numero di azioni da comprare o vendere per immunizzare la posizione dalle variazioni del prezzo del sottostante); il gamma (la variazione del delta al variare del prezzo del titolo sottostante; la derivata seconda che indica l’am­piezza delle variazioni del delta a ciascun livello di prezzo); il vega (la variazione del prezzo dell’op­zione al variare della volatilità del titolo sottostante); il teta (la diminuzione del valore dell’op­zio­ne col trascorrere del tempo).

Le condizioni di equilibrio del valore complessivo delle opzioni e del portafoglio del sottostante, governate da questi fattori, variano secondo una legge non lineare.

Le opzioni put barrier, in particolare, hanno la caratteristica di conoscere variazioni repentine del delta quando il prezzo si avvicina in prossimità del valore di knock in. In tali condizioni, variazioni percentuali molto basse del valore del titolo comportano, nella gestione dei rischio, adeguamenti del portafoglio per quantità consistenti. Questa sensibilità alla variazione del prezzo determina difficoltà operative, espone al rischio di perdite consistenti ed è intrinsecamente onerosa, perché le vendite devono essere affrontate quando il prezzo scende e gli acquisti quando il prezzo sale.

Viceversa, un’opzione put ex knock in, dopo la rottura della barriera di prezzo, diviene una normale opzione put (nella specie di tipo europeo, esercitabile solo il giorno della scadenza con la consegna fisica dei titoli) e può essere gestita secondo modelli molto più semplici e profittevoli.

 

4. La responsabilità della gestione del­l’emis­sione obbligazionaria descritta e della sua redditività ricadeva in primo luogo su A. C.. L’imputato era infatti il dirigente del­l’unità WED di UBM e, dunque, il responsabile immediato e diretto del­l’or­ganizza­zione e del­l’ope­ra­ti­vità di questa unità produttiva.

Come tale, C. sapeva di immedesimarsi organicamente in un intermediario finanziario che aveva un preciso interesse alla fissazione di un prezzo delle azioni Banca di Roma eguale o inferiore al valore di knock in: per incrementare il valore della put in portafoglio, in un momento tra l’altro in cui l’opzione era deep in the money (ampiamente al di sotto del prezzo di esercizio); realizzarne sicuramente una delle due condizioni di esercizio, tra l’altro quella statisticamente meno probabile a verificarsi; e conseguire il vantaggio di gestire il rischio senza tenere conto della barriera di prezzo, in maniera sensibilmente meno costosa e con maggiore probabilità di conseguire gli utili attesi dalle attività di delta hedging.

C. sapeva, inoltre, di dovere rispondere del reddito complessivamente prodotto dall’unità cui era preposto, nei confronti del top management della banca e, per altro verso, anche nei confronti delle persone soggette alla sua direzione e controllo, con riferimento alla parte variabile delle rispettive retribuzioni ancorate alle performance ottenute.

L’imputato era altresì evidentemente interessato a massimizzare i profitti per incrementare la parte variabile della propria retribuzione; e ad alimentare le prospettive personali di carriera, che risulta avere coronato per essere attualmente, sei anni dopo i fatti ma ancora in giovane età, direttore generale di una importante banca nazionale.

Dal punto di vista organizzativo, era autore della scelta di mantenere la gestione operativa del prestito in capo a G. Cu.; e questi aveva nel C. la persona cui riportare gerarchicamente le attività conseguentemente effettuate, come riscontrato dalle registrazioni telefoniche. La posizione dirigenziale ricoperta faceva sì, inoltre, che A. C. fosse tenuto informato (fatto, an­ch’esso, riscontrato dalle registrazioni telefoniche e che sarebbe stato comunque logico desumere dal carattere dell’opera­zione) della gestione materiale della reverse convertible condotta dalla propria unità operativa.

Ad A. C. va attribuita, infine, la professionalità di uno specialista in strumenti finanziari derivati che rivestiva una posizione di rilievo in uno dei players principali sul mercato nazionale di tali titoli.

È questo il quadro di riferimento cui rapportare le registrazioni telefoniche in atti.

Dalle conversazioni emergono chia­ramente le modalità di formazione di una alterazione al ribasso del prezzo del titolo Banca di Roma, cui l’imputato ha contribuito scientemente dopo essere stato messo in condizioni di rappresentarsi tutti gli elementi costitutivi della manipolazione e avendo logicamente presenti le utilità personali – e dell’intermediario finanziario in cui si immedesimava – che ne sarebbero conseguite.

Ne discende, al di là di ogni dubbio ragionevole, la penale responsabilità di A. C. per avere concorso consapevolmente alla consumazione del reato ascritto.

 

5. I fatti si sono articolati come segue.

Alle ore 14.30 circa del 31 gennaio omissis, in una giornata di contrattazioni che vedeva l’azione Banca di Roma segnare in quel momento il prezzo di euro 1,123 con una variazione negativa del­l’1,92% rispetto all’aper­tura a 1,145 euro, l’UBM cominciava ad alleggerire la propria posizione sul titolo.

Dopo avere effettuato una serie di acquisti, da correlare alla gestione sia del­l’op­zione put barrier descritta, sia di una put analoga derivata da una successiva emissione obbligazionaria reverse convertible in azioni Banca di Roma con knock in pari a 1,0854 euro, il desk inseriva nei book di negoziazione una proposta di negoziazione in vendita (ordine di vendita immesso sul mercato telematico azionario: di seguito, PDNV) di 387.500 azioni con limite di prezzo a euro 1,12 che risulta estranea alla strategia fraudolenta di seguito realizzata e veniva immediatamente assorbita dal mercato.

 

 

Successivamente, il prezzo si manteneva su valori oscillanti tra 1,12 e 1,15 euro, vicini ma non prossimi alla soglia critica di 1,104 euro corrispondente all’incirca all’1% in più del valore di knock in della reverse convertible indicata all’impu­ta­zio­ne. A quella quotazione, il modello di gestione del rischio avrebbe prospettato condizioni sempre più critiche di copertura e richiesto modifiche significative del quantitativo di azioni da tenere in portafoglio già in seguito a variazioni percentuali minime del valore.

Secondo il modello di gestione che la stessa UBM ha dichiarato di avere seguito, al prezzo di apertura del titolo (1,145 euro) corrispondeva infatti un delta flat (rischio nullo) di 13.211.797 azioni; alla quotazione media cui sono state effettuate le vendite alle ore 14.30 (1,12 euro) di 13.768.296 azioni (e infatti, medio tempore, i trader avevano arricchito il portafoglio di circa 200.000 titoli); al prezzo spot di 1,104 euro, di 14.202.343 azioni. A quotazioni immediatamente inferiori il gamma diventava però negativo (occorreva vendere il sottostante, piuttosto che comprarlo, in ragione dell’im­pennata delle probabilità di esercizio dell’op­zione) ed accelerava in maniera esponenziale. Al prezzo di 1,102 euro corrispondeva una giacenza di 12.538.550 titoli; a quello di 1,10 euro di 9.797.125 unità; a quello di 1,095 euro di 2.883.103 azioni; a quello di 1,092934 di sole 892 unità. La copertura del delta poteva divenire estremamente complessa e rischiosa.

L’approssimarsi della chiusura delle contrattazioni rendeva la situazione vieppiù delicata per la necessità di rientrare a fine giornata nei limiti di rischio autorizzato, comune a tutti gli operatori, in avvio della fase del mercato intrinsecamente più esposta alle speculazioni.

G. Cu., dopo avere comperato azioni Banca di Roma in mattinata a prezzi più elevati, in caso di movimenti della quotazione al ribasso avrebbe potuto ritrovarsi con la prospettiva immediata di doverne vendere volumi significativi ad un prezzo inferiore, per rientrare nei limiti di rischio previsti; con il pericolo, vieppiù, di dovere sostenere prima della chiusura della seduta di borsa altri acquisti a prezzi crescenti, per coprire eventuali salti dei delta probabili a quei livelli di prezzo e che avrebbero aggravato ulteriormente lo scenario di una giornata segnata da perdite significative su quel titolo.

Alle ore 15.40, in una fase di sostanziale stabilità delle quotazioni che non lo preservava però dal timore di movimenti repentini – ed eventualmente anche speculativi – al ribasso, Cu. cominciava ad effettuare una serie di telefonate sintomatiche della decisione di disimpegnarsi “facendo” egli stesso il mercato e forzando il prezzo sino a rompere la soglia di knock in sicuramente di una – e possibilmente di entrambe – le reverse convertible in azioni Banca di Roma di cui gestiva il rischio.

La prospettiva della manipolazione si è manifestata, quindi, tra le ore 14.30 e le ore 15.40.

Durante questo arco di tempo, piuttosto che continuare a seguire le indicazioni del modello di gestione in termini di copertura dinamica, Cu. si è configurato l’obiettivo di determinare egli stesso la rottura del knock in; ha scelto di effettuare egli stesso una speculazione anziché seguire il mercato e correre eventualmente il rischio di subirne una; ed ha predisposto le attività necessarie a pilotare il prezzo ai livelli desiderati, considerando razionalmente la preferibilità di tale condotta benché integrativa di un abuso di mercato penalmente vietato.

Per procurarsi le informazioni necessarie a realizzare l’arti­ficio ribassista Cu. telefonava quindi più volte ai trader di un’al­tra unità operativa dell’UBM per essere certo di quante azioni fosse necessario vendere per centrare l’obiettivo.

Sentiva in particolare un trader che si trovava alla postazione di negoziazione (vale a dire: innanzi ad un computer con la possibilità di visionare l’insieme delle proposte di acquisto e di vendita del titolo Banca di Roma, denominato book di negoziazione) per chiedergli esplicitamente quante azioni era necessario vendere per fare scendere il prezzo a 1,092 euro, sino a toccare la soglia di knock indell’opzione interessata.

Da questo momento in poi le telefonate trascritte indicano in modo evidente che Cu., pur consapevole di ricorrere ad un’ope­ratività anomala sul titolo, si muove unicamente nell’ot­tica di rompere questa barriera di prezzo e intende espressamente influenzare la quotazione dell’azione Banca di Roma piuttosto che realizzare la copertura del rischio connesso alle emissioni obbligazionarie affidate alle sue cure: tanto più che in base alle quotazioni segnate sul mercato il modello di gestione, a quell’ora, gli chiedeva semmai di acquistare o mantenere il sottostante e non di “accorciare” il delta.

Alle ore 15.50, accertato che per segnare il prezzo desiderato si trattava di deprimere la quotazione dell’azione del 2%, Cu. telefona al suo superiore gerarchico C., che riceve un report sulla situazione e approva l’operazione.

Testualmente, Cu. comunica a C. che “c’è un knock in su Banca di Roma che è vicino ai prezzi che abbiamo ... dovremmo però ... È tra il due per cento ... perché il trade è grosso sono ventidue milioni di opzioni che abbiamo fuori ... cosa dici di fare? Dovremmo tirarla giù del due per cento l’azione”.

C. chiede quante azioni occorre vendere, riceve risposta, e dispone:

«Informa A. e poi lo fai».

Che già in questo momento l’in­tento di C. non fosse quello di assumere la decisione dopo avere sentito l’opinione di G. A., responsabile del controllo interno, ma di contribuire consapevolmente all’operazione rimuovendo anticipatamente eventuali ostacoli che avrebbero potuto essere frapposti dalla funzione di audit della banca lo confermano le parole immediatamente successive: “informa A. e gli dici: adesso devo vendere, faccio scendere la Banca di Roma, però devo farlo, se poi va giù e io non riesco a vendere perdiamo un sacco di soldi”.

Risulta, in mancanza di interpretazioni alternative plausibili, che C.: ha inquadrato la situazione ed è consapevole della natura artificiosa dell’operazione; sa, in particolare, di disporre una manovra intesa a influire sul prezzo dell’azione (cfr. il riferimento esplicito ai knock in) piuttosto che a realizzare una copertura del rischio, perché di questo lo informa Cu. che, tra l’altro, non avrebbe avuto ragione di farsi autorizzare un’at­tività routinaria di delta hedging; sa che l’altera­zione è sensibile, per provocare un ribasso del 2% circa con sostanziale raddoppio delle perdite subite dal titolo in quella giornata, perché anche questo gli viene comunicato con la telefonata; è quindi consapevole delle presumibili obiezioni da parte del responsabile del controllo interno e intende prevenirle; senza che Cu. lo abbia sollecitato al proposito, gli ordina di entrare in contatto con A. e gli indica addirittura le parole da utilizzare per superarne i probabili rilievi.

C. sa anche che la manovra è conveniente, nell’interesse proprio e della banca, perché al contempo previene il rischio di subire condizioni di mercato sfavorevoli e centra l’obiettivo di rompere il knock in: tanto più importante quanto più l’op­zione si trovava, in quel momento, deep in the money, ampiamente al di sotto del prezzo di esercizio, e si venivano a determinare così entrambe le condizioni per esercitare il rimborso del prestito a condizioni di estremo vantaggio per l’inter­mediario in cui si immedesimava. Per questa ragione, non solo autorizza Cu. a procedere ma gli indica come attivarsi per rimuovere il probabile ostacolo costituito dall’organo di controllo presso la propria unità organizzativa.

Seguono altre telefonate di Cu., ormai forte del consenso del suo superiore gerarchico, dirette a calibrare esattamente le quantità di azioni da offrire in vendita per essere sicuri di causare un ribasso del titolo sufficiente a rompere la barriera di knock in: in particolare, Cu. si preoccupa che sul book di negoziazione vi siano proposte di acquisto “asteriscate”, ovvero prive dell’indicazione precisa delle quantità richieste.

La circostanza, insignificante in rapporto all’eventualità di vendere il titolo per coprire il rischio, era invece determinante per centrare il risultato fraudolento esposto a C. e su cui questi aveva acconsentito (“lo fai”).

Cu. aveva l’esigenza di conoscere esattamente lo spessore del book di negoziazione (ovvero, l’esistenza di ordini di acquisto o vendita a prezzi inferiori o superiori a quelli correnti) e soprattutto la sua profondità (il volume degli ordini da eseguire per ogni possibile livello di prezzo) per fare segnare all’azione il prezzo desiderato. Eventuali proposte di negoziazione in acquisto (di seguito: PDNA) la cui quantità fosse solo parzialmente esposta rischiavano infatti di vanificare l’artifi­cio che stava realizzando, per la presenza di quantità imprecisate di titoli in grado di assorbire le quantità offerte a livelli di prezzo superiori a quelle di knock in.

Va precisato, al proposito, che in base al regolamento di borsa le PDNV con limite di prezzo inserite durante la fase di negoziazione continua vengono abbinate automaticamente alle PDNA aventi prezzo superiore o eguale a quello indicato e ordinate a prezzi decrescenti. In pratica, una volta definito il prezzo minimo di vendita, il sistema abbina l’of­ferta alle proposte di acquisto in maniera da concludere i contratti al miglior prezzo per il venditore, cui non basta dunque indicare un prezzo limite minimo per concludere almeno uno scambio al valore così definito, a meno che le quantità offerte eccedano le quantità richieste a prezzi superiori.

Non conoscendo le quantità richieste dal mercato si correva il rischio di non segnare il prezzo: e l’informa­zione, benché irrilevante nella prospettiva della copertura del delta, che era anzi interesse realizzare vendendo le azioni al miglior prezzo possibile, diveniva fondamentale nell’ottica di manipolare i corsi azionari assunta con l’approvazione del C..

Dopo avere avviato il monitoraggio del book di negoziazione con riferimento alla presenza di “asterischi” Cu. telefonava quindi ad A., come disposto da C., e apriva la comunicazione cercandone l’avallo all’operazione, giusto nei termini indicati dall’odierno imputato.

Nel corso di una conversazione particolarmente lunga e tesa A. coglie invece l’effettiva natura della manovra, nonostante l’interlocu­tore tentasse di rappresentarla diversamente; espone in maniera esplicita le riserve sulla sua legittimità; non tratto in inganno dalla spiegazione concordata con C., intesa a fargli credere che ci si muovesse nell’ottica di un delta hedging e, quindi, di un’at­tività regolare e di mercato; suggerisce di acquistare le azioni fuori dei mercati regolamentati per ottenere il risultato della copertura del rischio senza provocare alterazioni del prezzo ufficiale del titolo; obbliga Cu., con le sue obiezioni, a scoprirsi e a dichiarare l’obiettivo effettivo di rom­pere la barriera di knock in, a prescindere dalle esigenze di copertura, e di influire artificiosamente sul prezzo ufficiale del titolo; invita più volte a fare attenzione e indica esplicitamente che si tratta di una manipolazione e, quindi, di una condotta vietata; provoca in tal modo l’inter­vento risentito di A. P., che si inserisce nella conversazione e stigmatizza la scelta di metterlo a conoscenza della situazione (... se non ti avessi detto niente, probabilmente, né tu né la Consob si sarebbe accorta di niente ... e allora adesso lo facciamo, punto e basta!); indica la possibilità di effettuare una serie di vendite scaglionate, in maniera da consentire al book di riformarsi e non deprimere artificiosamente il prezzo, ricevendo la risposta che invece era proprio questo l’obiettivo da perseguire; chiude la conversazione restando sulle sue posizioni e ricevendo l’invito a raggiungere i trader al desk.

Segue, alle ore 16.45, la telefonata di C. che di propria iniziativa contatta Cu. per sincerarsi della situazione.

Cu. lo informa di trovarsi insieme ad A. e dell’opposizione di questi, che aveva ricondotto l’ope­ra­zio­ne ad una manipolazione. C. risponde, testualmente “Manipolazione ... questa è trade based ...”, con espressione che nella cornice dei fatti accertati sottende la rappresentazione dell’effettiva qualificazione della condotta alla stregua di una trade based manipulation: vale a dire, una strategia manipolativa del prezzo realizzata attraverso la combinazione di operazioni svolte sul mercato. Coglie l’im­ba­razzo di Cu., che chiede implicitamente conferma dell’or­dine di procedere, avendo avuto sia la disposizione in tal senso sia quella di evitare contrasti con il controllo interno della banca. Ribadisce che l’ope­razione andava fatta e, come nel corso della telefonata che lo aveva visto precedentemente protagonista, indica a Cu. come comportarsi con A., insistendo con la tesi della presentazione dell’attività alla stregua di una copertura del rischio in attesa del suo personale intervento, presumibilmente direttamente al desk di negoziazione dove in precedenza Cu. (cfr. la telefonata n. 9, in fine) aveva chiesto ad A. di raggiungerlo (testualmente: “Va beh, adesso io sto arrivando. Se dobbiamo fare la copertura, partiamo prima e tra l’altro puoi fargli presente che l’informazione sul nostro ... è pubblica, il fatto che c’è knock in non è che lo sappiamo solo noi, eh?”). Con le ultime parole C. dimostra ulteriormente di essere consapevole della prospettazione di un illecito da parte di A. e istruisce Cu. sulla maniera di confutarlo in ordine a tale convincimento, quanto meno con riferimento ad un’ipotesi di manipolazione informativa.

Va rilevata inoltre l’incertezza manifestata da Cu. nel corso della telefonata (... Ho chiamato te non è che ...) e la natura determinante del­l’in­tervento di C., che con la sua autorità di dirigente ha inteso ribadire la decisione comunicata con la precedente telefonata nel senso di procedere: ma, proprio perché si trattava di attività censurabile dal controllo interno, cercando di gestire al meglio le osservazioni del responsabile di questo servizio.

In ambedue le telefonate C., pur senza avere ideato l’ope­razione, concorre attivamente ad integrare il proposito di manipolare al ribasso il prezzo dell’azione Banca di Roma; e, in occasione dell’ultimo contatto, preannuncia il proprio intervento, personale e diretto, per rimuovere l’osta­colo rappresentato dal responsabile del­l’audi­ting che vi si opponeva.

Di lì a pochi minuti, tempo sufficiente a consentire all’impu­tato di raggiungere il desk ove Cu. ha effettuato materialmente l’operazio­ne “do­po consultazione interna” (come risulta dalle lettere di UBM alla Consob in data 20.11.2001 e 29.11.2002), le quattro proposte di negoziazione in vendita a prezzi decrescenti destinate a deprimere artificiosamente il prezzo del titolo avevano luogo.

Alle ore 16.50.45, dopo che l’ulti­mo contratto era stato concluso sul mercato a 1,115 euro, il desk del­l’uni­tà operativa del C. immetteva un primo ordine di vendita di 500.000 titoli al prezzo limitato di 1,103 euro, che trovava esecuzione integrale in 31 secondi e comportava una variazione negativa del prezzo dell’1,076%.

Il mercato reagiva con un rimbalzo verso l’alto, significativo del valore fisiologicamente più elevato riconosciuto al titolo, e riportava in pochi secondi la quotazione a 1,114 euro (+ 1%).

Alle ore 16.52.09, al fine evidente di saggiare l’elasticità del prezzo e valutare le quantità da offrire per segnare effettivamente la quotazione desiderata, veniva immesso un ordine di vendita di sole 10.000 azioni al prezzo limitato di 1,105 euro, che trovava esecuzione immediata e provocava un calo percentuale dello 0,63%.

Il prezzo risaliva nuovamente a 1,112 euro (+0,63%).

Alle ore 16.57.10 seguiva la terza PDNV di 130.000 titoli al prezzo limitato di 1,101 euro, che trovava esecuzione in dieci secondi e determinava una variazione pari a –0,72%.

Il prezzo risaliva nei secondi successivi a 1,107, valore ancora superiore al limite fissato con la prima PDNV (+0,54%).

A questo punto però alle ore 16.58.02, ormai saggiata la reattività del book, veniva immessa la PDNV di 1.482.500 titoli a prezzo limitato a 1,09 euro destinata a rompere la barriera di knock in, che trovava esecuzione al limite minimo di prezzo prefissato e abbatteva di per sé sola il valore del titolo dell’1,53%.

Portato il prezzo ufficiale dell’azio­ne al di sotto del prezzo barriera l’UBM cessava i propri interventi distorsivi e il mercato si riallineava. Nella mezzora circa di contrattazioni svolte prima della chiusura, l’azio­ne rientrava su quotazioni simili a quelle registrate prima dell’inter­vento manipolativo e l’ultimo contratto veniva concluso al prezzo di 1,11 euro.

Nel complesso, in sette minuti e diciassette secondi UBM ha venduto 2.122.500 titoli su un totale di 2.407.500 scambiati sul mercato e concentrato, in tal modo, il 76% delle vendite effettuate nella giornata. Questa operatività ha rappresentato da sola il 10% degli scambi complessivi della seduta di borsa sul titolo e determinato bruscamente una variazione negativa del prezzo pari all’1,8%.

 

6. Si è trattato, all’evidenza, di una oggettiva manipolazione del mercato delle azioni Banca di Roma, che ha falsato il meccanismo di fissazione del prezzo ed è stata condotta al di fuori dei presupposti di una attività legittimamente speculativa. L’im­missione di uno o più ordini di compravendita all’unico fine di influenzare il prezzo di uno strumento finanziario costituisce infatti un artificio, sanzionato come aggiotaggio già dal­l’art. 181 com­ma 1 T.U.F. con una norma confluita prima nel­l’art. 2637 cod. civ. e ora nell’art. 185 T.U.F.

Il risultato è stato quello di una distorsione del regolare svolgimento delle transazioni, sviluppata in maniera artificiosa e traendo in inganno gli operatori che si trovavano sul mercato: l’attività non ha avuto infatti come riferimento il valore intrinseco del titolo ma l’intenzione di interferire sul prezzo che era stato scelto come valore di riferimento per il regolamento di uno strumento finanziario derivato cui si aveva interesse.

La conseguente deviazione dai normali rischi finanziari cui vanno incontro gli investitori mobiliari è stata ottenuta con l’espe­diente fraudolento dell’inserimento in tempi ristretti delle quattro PDNV a prezzo limitato decrescente intenzionalmente inferiore a quello di mercato e con una graduazione parallela dei volumi offerti finalizzata a fare segnare artificiosamente il prezzo direttamente indicato con l’ultima PDNV.

La variazione, in considerazione del­l’am­piezza e dell’inter­vallo temporale brevissimo in cui si è verificata, non può che essere definita “sensibile”, nell’acce­zione contemplata dal testo dell’art. 181 T.U.F. vigente al­l’epo­ca dei fatti, ripresa dall’art. 185 T.U.F. attuale.

Orientativamente, vanno ritenute sensibili le oscillazioni determinate da un unico ordine che eccedono, in percentuale positiva o negativa, lo 0,5%. Nella specie, la medesimezza del disegno sottostante alle quattro FDNV introdotte giustifica la qualificazione unitaria dell’ope­ra­zione e la valutazione del superamento della soglia di rilevanza con riferimento alla condotta nel suo complesso, che ha alterato la fissazione del prezzo ufficiale nella misura dell’1,8%.

Ad ogni buon conto ciascuna delle offerte, pur considerata singolarmente, ha inciso sui corsi dell’azione abbattendoli di più dello 0,5%; tutte sono state inserite a prezzi limitati notevolmente inferiori a quelli di mercato registrati al momento; e l’ul­tima, che ha concluso l’illecito manipolativo, non solo ha determinato una variazione negativa del prezzo superiore all’1,5% ma si è distinta per avere concentrato più del 50% delle vendite sul titolo effettuate da UBM nell’intera giornata di contrattazioni in un unico ordine: espressamente finalizzato – per essere tale il limite di prezzo fissato – a rompere la barriera di knock in; ed effettuato ai minimi di giornata provocati dalla propria stessa operatività, laddove una normale strategia di delta hedging orientata a redditività avrebbe richiesto un atteggiamento completamente diverso.

Di conseguenza, l’artificio non solo era concretamente idoneo a provocare la sensibile alterazione del prezzo dello strumento finanziario oggetto della speculazione (condizione sufficiente alla consumazione del reato) ma ha effettivamente determinato il risultato criminoso perseguito.

Qualora le quattro PDNV non fossero state effettuate non solo il knock in non sarebbe stato toccato ma la quotazione del titolo si sarebbe verosimilmente mantenuta intorno al valore di 1,115 euro, che costituiva il prezzo di conclusione dell’ultimo contratto prima dell’av­vio della turbativa realizzata. Nonostante il presumibile effetto di trascinamento determinato dal brusco ribasso provocato dagli imputati, nei pochi minuti residui prima della chiusura del mercato il titolo ha infatti riguadagnato quasi tutta la perdita indotta artificiosamente ed è tornato su valori molto vicini a quelli immediatamente precedenti alla manipolazione: chiudendo a 1,11 euro con una variazione in aumento, rispetto al minimo fatto toccare fraudolentemente, dell’1,62%.

Al contempo, i rimbalzi di valore sistematici registrati dopo ciascuna delle PDNV dimostrano che UBM non ha operato nel solco del trend del mercato, orientato invece alla stabilità della quotazione, ma con il deliberato proposito di fare il prezzo e forzarlo al ribasso.

Condotte siffatte non trovano giustificazione in alcuna ipotesi di operatività regolare e, in particolare, di delta hedging.

Il volume delle vendite non era reso necessario dal movimento delle quotazioni precedente al momento in cui la manovra è stata avviata e, in rapporto al prezzo spot di 1,15 euro rilevato all’atto dell’inserimento della prima PDNV, il modello di copertura del rischio non richiedeva l’assun­zio­ne di iniziative del genere per essere ancora sufficientemente distante la quotazione di 1,104 che costituiva, come si è visto, la soglia oltre la quale le dinamiche di copertura comportavano la vendita di un volume significativo di titoli. In ogni caso, pure in ipotesi di vendite giustificate da un accorciamento del delta sarebbe stata comunque significativa del proposito effettivo di abbattere il prezzo la altrimenti illogica concentrazione in meno di otto minuti delle PDNV e la loro articolazione orientata a minimizzarne il controvalore, contrariamente al normale interesse economico di un venditore, per effetto di vendite concluse al ribasso e a prezzi sistematicamente inferiori a quelli di mercato: con modalità palesemente contrarie alla convenienza economica di chi, invece, fosse stato effettivamente impegnato in una attività di copertura del rischio.

La natura manipolativa delle quattro PDNV considerate è quindi oggettiva e discende dal comportamento delle persone che ne sono state gli autori: come risulta evidente dalle caratteristiche essenziali degli ordini di vendita, inseriti con una successione calibrata nei tempi, nei volumi offerti e nella graduazione a prezzi limitati decrescenti compatibile unicamente con la finalità di arrivare a toccare il prezzo barriera; e dalla conduzione di condotte prodromiche altrimenti inspiegabili, quali il sondaggio preventivo della profondità del book, oggetto di una pluralità di consultazioni telefoniche.

A ciò deve aggiungersi il contenuto univoco delle registrazioni telefoniche, che descrivono esplicitamente la preordinazione e il coordinamento delle condotte poste in essere – per quel che ne occupa dal C. – e da cui si desume la prova insuperabile dell’illi­ceità del­l’ope­ra­zione, data l’intenzione esplicita di alterare artificiosamente il prezzo dell’azione Banca di Roma assunta dagli imputati e presupposta da tutti gli interlocutori che hanno preso parte alle conversazioni trascritte: compreso A. che risulta essere stato l’unico ad essersi, inutilmente, opposto.

Va escluso, dunque, che gli imputati abbiano agito per motivi legittimi o si siano conformati a una prassi legittima del mercato su cui operavano.

Il fatto è irriconducibile a spiegazioni alternative a quella di una alterazione deliberata della quotazione: e non sono plausibili ricostruzioni diverse, ivi compresa quella proposta dalla consulenza tecnica della difesa dell’imputato nel tentativo di fondare l’ipotesi che si siano realizzate normali attività di mercato.

Le conclusioni ivi riportate, secondo cui l’imputato avrebbe avallato un’operatività che ha seguito il mercato in un trend al ribasso e avrebbe adottato una normale strategia di gestione del rischio, restando costretto a subire il ribasso del prezzo del titolo Banca di Roma alla stregua di una esternalità “gradita ma inevitabile”, sono in palese contrasto con l’ac­cer­tamento dei fatti che discende dalla viva voce dei protagonisti e dalla oggettiva ed evidente artificiosità delle operazioni condotte.

 

7. A. C. si è rappresentato e ha voluto la manipolazione del prezzo così realizzata. Ha agito con piena consapevolezza del­l’ar­ti­fi­cio­si­tà, della concreta idoneità manipolativa e delle caratteristiche distorsive di tale abuso di mercato, finalizzato a massimizzare il valore di uno strumento derivato in portafoglio (l’op­zio­ne put) a vantaggio proprio e del­l’intermediario finanziario per cui lavorava ma in danno del mercato e dei clienti di questa stessa banca cui la reverse convertibile era stata venduta.

Già in seguito alla prima telefonata con Cu., l’imputato è stato consapevole dell’ampiezza della variazione negativa di prezzo prospettata (il 2%) e dell’inten­zione di un suo dipendente di creare autonomamente le condizioni per raggiungerla, come sarebbe stato impossibile nel rispetto delle normali dinamiche di mercato; ma ha contribuito egualmente alla sua realizzazione, indirizzando le iniziative del responsabile delle negoziazioni effettuate dalla propria unità operativa e guidando quest’ultimo a contrastare le obiezioni, preventivate, del responsabile del servizio di controllo interno. Ha agito conoscendo il tornaconto che ne derivava per sé e l’impresa bancaria di cui era dirigente; e, benché reso edotto della ricorrenza di una trade based manipulation secondo l’opinione qualificata del responsabile del controllo interno della banca e pur avendo dichiarato l’interesse ad evitare contrasti con tale figura, si è speso personalmente per perfezionare l’opera­zio­ne, come confermato anche dalla telefonata effettuata di iniziativa al responsabile del trading nell’orario cruciale in cui le PDNV non potevano essere più differite e dall’intervento personale al deskpreannunciato a Cu. telefonicamente.

È significativo, inoltre, che l’ope­ra­zio­ne sia stata svolta effettivamente subito dopo che C. aveva preannunciato il suo arrivo alla postazione da cui le PDNV sono state effettuate e dopo che l’autore materiale delle negoziazioni, Cu., ne aveva sollecitato il coinvolgimento anche per superare le obiezioni di A.: opposizione che, evidentemente, solo l’im­pu­tato in quanto dirigente del­l’uni­tà organizzativa aveva l’autorità di sciogliere.

In questa cornice, occorre desumere che senza il contributo consapevole di A. C. e l’efficienza causale del suo intervento, che è discesa anche dal profilo professionale e dalla posizione ricoperta, l’illecito non sarebbe stato consumato.

Non sono attendibili, in contrario, le dichiarazioni rese in dibattimento nella parte in cui non convergono con la ricostruzione illustrata.

Le dissonanze vertono in sostanza sulla mancata memoria del contributo di C. all’operazione e trovano adeguata spiegazione nell’indebo­li­men­to del ricordo, a sei anni dai fatti.

Le circostanze che G. Cu. sia tuttora alle dipendenze della banca di cui l’imputato è divenuto direttore generale; e che G. A. sia tuttora responsabile del controllo interno del gruppo Unicredito, ovvero del soggetto giuridico nel cui principale interesse l’illecito è stato realizzato, possono inoltre avere ulteriormente influenzato le rispettive deposizioni sotto il profilo della sovrapposizione, nel ricordo, di fatti analoghi. L’even­tualità non appare improbabile per persone che hanno continuato ad appartenere ad un circuito lavorativo bancario al cui interno le emissioni reverse convertible sono state, specie in quegli anni, particolarmente diffuse, tanto è vero che ce n’era un’altra strutturata sullo stesso valore di base in corso giusto all’epo­ca dei fatti e che si distingueva per pochissimi elementi (la durata, di poco diversa, e il valore di knock in) particolarmente difficili da focalizzare a distanza di tempo.

La possibilità di confusione discende anche dalla circostanza che, al­l’epoca, episodi del genere sono stati presumibilmente tutt’altro che infrequenti e vissuti alla stregua di situazioni ordinarie, che non vi era ragione di fissare nel ricordo: come occorre desumere già dalla normalità complessiva di approccio dei trader registrati telefonicamente (compresi quelli che non sono stati imputati) ad un fatto che pur costituiva un reato; e come risulta anche dalla notazione, comunicata dalla Consob, secondo cui pressoché tutte le emissioni reverse convertible effettuate in quegli anni si sono concluse con l’eser­cizio della put, a vantaggio degli intermediari e a svantaggio dei risparmiatori.

 

8. Il contenuto delle telefonate e la successione degli eventi, nel complesso delle acquisizioni istruttorie, fondano dunque la penale responsabilità dell’im­putato al di là di ogni dubbio ragionevole.

Le modifiche normative intercorse tra il momento della consumazione del reato e quello del giudizio non hanno inciso sulla permanente qualificazione giuridica del fatto come reato, in quanto sussumibile nella definizione di “altri artifici idonei a provocare una sensibile alterazione del prezzo di strumenti finanziari” costantemente mantenuta dalla fattispecie incriminatrice: quella originariamente vigente; quella inglobata nel­l’art. 2637 cod. civ. nella formulazione introdotta dall’art. 1 del decr. l.vo n.° 61/2002; e quella riportata nell’art. 185 comma 1 T.U.F. attualmente vigente, quale modalità attuativa di una manipolazione del mercato con riferimento agli strumenti finanziari descritti dall’art. 180 T.U.F.

A questo ultimo proposito l’unica diversità lessicale, costituita dal­l’in­se­­rimento nella formulazione dell’art. 2637 cod. civ. successivamente ripresa dall’art. 185 comma 1 del T.U.F. dell’av­verbio “concretamente”, rappresenta una specificazione del­l’ido­­neità lesiva degli artifizi che non ha inciso sulla perdurante natura criminale dei fatti e va ricondotta al piano di una migliore determinatezza della fattispecie, confermata in occasione del recepimento della direttiva europea sul market abuse (Direttiva 2003/CE del Parlamento europeo e del Consiglio d’Euro­pa del 28 gennaio 2003) disposto dalla legge 18 aprile 2005 n.° 62.

Il delitto di aggiotaggio su strumenti finanziari ha sempre conservato la configurazione di reato di pericolo concreto, in cui la valutazione del­l’ido­neità delle operazioni simulate o degli artifici ad alterare il prezzo dei titoli consegue ad un giudizio di prognosi postuma, da relazionare ex ante agli elementi circostanziali del fatto presenti al momento della condotta, a prescindere dai fattori conosciuti in seguito alla verificazione dell’evento.

Parimenti, non sono mutati gli elementi costitutivi del reato e la struttura del fatto tipico; né il bene protetto, costituito dall’efficienza allocativa del mercato degli strumenti finanziari.

Non vi sono quindi ragioni per mettere in dubbio la continuità normativa tra il delitto vigente all’epoca dei fatti e quello attuale di manipolazione del mercato.

La modifica lessicale costituita dal­l’in­serimento nella fattispecie dell’av­verbio “concretamente”, seppur dotata di efficacia selettiva rispetto alla formulazione previgente e astrattamente idonea a delimitare il perimetro delle condotte sanzionate, non rifluisce in concreto sul presente giudizio: che, per le ragioni già esposte, attiene ad una manipolazione del mercato talmente dotata di concreta idoneità alterativa da avere non solo leso l’affida­mento dei terzi interessati ma effettivamente provocato l’evento dell’alterazione sensibile con rottura del knock in del prezzo del titolo Banca di Roma.

 

9. In ordine al trattamento sanzionatorio il Tribunale, valutati gli elementi di cui all’art. 133 c.p., reputa equo infliggere la pena di quattro mesi di reclusione e diecimila euro di multa, così definita: pena base mesi sei di reclusione ed euro quindicimila di multa; ridotta all’inflitto ex art. 62-bis c.p. data la concessione, per l’in­cen­suratezza, delle circostanze attenuanti generiche.

L’incensuratezza consente altresì di concedere la sospensione condizionale della pena, previa formulazione di un giudizio prognostico positivo sull’eventua­lità che l’imputato si astenga dalla consumazione di ulteriori reati, e il beneficio della non menzione.

La pena è stata determinata avendo riguardo alla sanzione più favorevole (reclusione fino a tre anni e multa fino a cinquanta milioni di lire) contemplata dall’articolo 181 del T.U.F. vigente al­l’epo­ca dei fatti. Il Tribunale ha tenuto conto dei caratteri obiettivi della condotta, dell’alterazione del mercato cagionata e del pericolo di danno concretamente arrecato agli obbligazionisti (che solo per fatto indipendente dalla volontà del C. non ha determinato un rimborso fraudolento dell’obbli­ga­zione con azioni del valore sotto la pari), che giustificano lo scostamento dal minimo della pena e collocano il fatto in una fascia mediana di gravità; e del tempo trascorso, che giustifica il temperamento della sanzione nei termini indicati dal Collegio.

L’imputato ha agito nell’esercizio delle funzioni dirigenziali dell’unità organizzativa Warrant & Equity Derivatives della UBM. L’aggravante ex art. 181 comma 3 lettera b) T.U.F. vigente al­l’epo­ca dei fatti, oggi confluita nella più ampia facoltà di aumentare la pena contemplata dall’art. 185 comma 2 del T.U.F. in ragione delle qualità personali del colpevole, non è stata però espressamente contestata; e il Tribunale, in mancanza di indicazione chiara e precisa della qualifica di dirigente di una banca che esercita servizi di investimento, intrinsecamente diversa e più specifica della qualifica di responsabile indicata all’imputa­zione, non l’ha ritenuta contestata neppure in fatto. Non si è entrati quindi nel merito dell’ap­plicabilità del raddoppio della pena ivi previsto.

Parimenti, alla luce della formulazione dell’imputazione, benché la ricostruzione dell’occorso abbia consentito di accertare che si è verificata la sensibile alterazione del prezzo del­l’azio­ne Banca di Roma, non si è tenuto conto della relativa aggravante ex art. 181 comma 2 T.U.F. previgente, in mancanza della relativa contestazione.

Conseguono le ulteriori statuizioni riportate in dispositivo.

In primo luogo: l’inflizione delle pene accessorie contemplate dall’art. 182 (oggi 186) T.U.F. (l’interdizione dai pubblici uffici; l’interdizione dalla capacità di esercitare mestieri, arti, industrie, commerci o professioni per cui sia richiesto uno speciale permesso o una speciale abilitazione, autorizzazione o licenza dell’Auto­rità; la decadenza dai permessi, abilitazioni, autorizzazioni o licenze anzidette eventual­mente posseduti; l’interdi­zio­ne dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese; l’incapa­ci­tà di contrattare con la pubblica amministrazione) determinate, quanto alla du­rata, nel minimo di legge di sei mesi.

Le esigenze socialpreventive, che nella loro oggettività avrebbero giustificato una definizione temporale più ampia, risultano temperate dal tempo trascorso.

Conseguono, inoltre, la condanna alla pubblicazione della sentenza; e, in favore della Consob, alla rifusione delle spese di costituzione e giudizio, che si liquidano come indicato in dispositivo ritenuta congrua la determinazione analitica esposta nella notula di parte, ad eccezione delle spese generali forfetarie del 12,5% che non sono riconoscibili in quanto duplicano la richiesta, accolta, di rifusione delle spese di superiore entità ivi specificamente indicate.

 

10. Il Tribunale accoglie, infine, la domanda risarcitoria avanzata dalla Consob in qualità di parte civile.

La statuizione applica l’art. 187-undecies comma 2 T.U.F. introdotto dalla legge 18 aprile 2005 n.° 62. Nei procedimenti per i reati di abuso di informazioni privilegiate e manipolazione del mercato la Consob, cui era già riconosciuto l’esercizio dei diritti e delle facoltà attribuiti dal codice di procedura penale agli enti e alle associazioni rappresentativi di interessi lesi dal reato, ha ora il diritto di costituirsi parte civile e “a titolo di riparazione dei danni all’integrità del mercato cagionati dal reato, una somma determinata anche in via equitativa tenendo comunque conto della offensività del fatto, delle qualità personali del colpevole e dell’entità del prodotto o del profitto conseguito dal reato”.

La norma attribuisce alla Autorità, in aggiunta allo status di ente pubblico legittimato ad esercitare i poteri di intervento nel processo penale, la legittimazione a costituirsi parte civile quale vero e proprio danneggiato.

La nuova fattispecie processuale va rapportata alla natura giuridica di autorità amministrativa indipendente dell’ente; alla netta distinzione che intercorre tra l’intervento nel processo penale e l’eser­cizio al suo interno dell’azione civile, istituti ben distinti sul piano sistematico oltre che nei risvolti applicativi; e ai principi generali che governano l’azione risarcitoria, che non vengono meno per il fatto della proposizione mediante costituzione di parte civile.

L’ordinamento non consente, in particolare, di separare l’azione civile dall’esi­stenza di un danno risarcibile individuato nei suoi elementi costitutivi e, innanzi tutto, nella titolarità in capo all’attore che agisce in giudizio.

Anche nel processo penale e con riferimento a un ente pubblico la costituzione di parte civile non può infatti prescindere dalla lesione di uno specifico interesse e dall’esistenza del diritto in capo a chi ne chiede la riparazione. Il danno così lamentato non può che essere distinto dal danno criminale e da tutti gli eventi lesivi che, eventualmente cagionati dal me­desimo fatto reato, abbiano attinto la sfera giuridica di altri e diversi soggetti, causando loro un danno ingiusto.

Ne discende che la somma liquidabile alla Consob ai sensi dell’art. 187-undecies T.U.F. non può essere considerata esponenziale di tutti i danni, da chiunque subiti, che siano stati conseguenza della manipolazione del mercato; ma costituisce la riparazione delle conseguenze pregiudizievoli dell’il­le­cito effettivamente e specificamente arrecate all’ente costituito in giudizio. Alla Consob non è stata attribuita la facoltà di surrogarsi agli altri soggetti giuridici eventualmente danneggiati, cui continua ad essere riconosciuto il rispettivo diritto ad esercitare l’azione civile; ma la le­git­timazione ad agire a tutela dei diritti che le sono specificamente riferiti.

Di conseguenza, i danni eventualmente arrecati alla platea di consumatori, risparmiatori, investitori, intermediari e operatori i cui diritti soggettivi sono normalmente lesi dagli abusi di mercato non sono azionabili dalla Consob e costituiscono unicamente un riferimento nella determinazione del quantum risarcitorio, quale gradiente indiretto del danno arrecato all’ente, sotto il profilo del­l’ap­prez­zamento dell’offensività del fatto e del­l’en­tità dei profitti conseguiti dal reato.

Le coordinate essenziali del danno risarcibile ai sensi dell’art. 187-unde­cies T.U.F. discendono invece dal fatto che la lesione dell’inte­resse pub­blico al regolare andamento del mercato e delle contrattazioni implica, di per sé, un danno immediato e diretto in capo alla Autorità di vigilanza, in quanto compromette la piena ed efficace realizzazione delle finalità istituzionali che ne costituiscono la ragione di esistere.

La Consob è dunque legittimata a chiedere il ristoro del danno sofferto in seguito alla frustrazione dei propri fini istituzionali di tutela dell’integrità del mercato, espressamente delineati nel T.U.F. sia con riferimento alle finalità dei poteri di vigilanza (cfr. ad esempio gli articoli 63 comma 1 lett. b), 74 e 91), sia con riferimento alla potestà sanzionatoria amministrativa che le è autonomamente riconosciuta.

In ragione del rapporto di continenza tra il bene giuridico tutelato dalla fattispecie incriminatrice (la regolare formazione dei prezzi degli strumenti finanziari e la regolarità dell’andamento dei mercati fi­nan­ziari, la cui turbativa compromette l’effi­­cienza e la trasparenza dei meccanismi di mercato in danno dell’eco­no­mia pubblica) e la missione istituzionale del­l’ente, l’esistenza di questo danno va ritenuta una conseguenza normale del reato e non necessita di prova specifica: il che spiega anche la sineddoche (il riferimento all’in­tegrità del mercato globalmente considerata, senza specificarne l’ac­­cezione di parte sostantiva delle finalità istituzionali della Consob) sottesa alla formulazione normativa.

Dovendosi apprezzare le conseguenze pregiudizievoli di un illecito che non si presta ad una valutazione monetaria di mercato, non ne discende un risarcimento ma una riparazione: coerentemente con una fattispecie lesiva che si colloca nel­l’area del danno non patrimoniale ed è suscettibile di liquidazione equitativa, come espressamente previsto dalla norma.

Il termine “danno all’integrità del mercato” riportato nella formulazione dell’art. 187-undecies T.U.F. va quindi riferito alla lesione arrecata alla omonima finalità istituzionale di tutela in capo alla Consob; spetta all’Autorità quale soggetto titolare di diritti; discende, di per sé, dalla consumazione del reato e attiene a un danno non patrimoniale risarcibile (anche) in via equitativa.

 

11. Alcune considerazioni di ordine sistematico ostano ad una ricostruzione che muova, diversamente, dalla fictio di una personificazione nel­l’Au­torità della cifra esponenziale dei soggetti pubblici e privati che compongono il mercato, assimilando il danno liquidabile (e la sua quantificazione) alla riparazione delle disfunzioni generalmente arrecate dal reato al sistema dell’economia pubblica di mercato.

La lesione di questo interesse generale è implicita nella compromissione del bene giuridico tutelato dalla fattispecie penale; è attratta, anche alla luce dell’arti­colo 47 Cost., all’alveo dell’of­fesa agli interessi pubblici di rilevanza costituzionale garantiti dallo Stato; attiene alla tutela dell’or­dine pubblico economico e trova riscontro nella sanzione penale, con riferimento ai profili retributivi e preventivi che la sostanziano.

Assume particolare rilievo, al proposito, la formulazione dell’art. 185 comma 2 T.U.F. (non applicabile al caso di specie, in ragione del principio dell’irretroattività della legge penale sfavorevole) secondo cui “il giudice può aumentare la multa fino al triplo (e quindi fino a quindici milioni di euro) o fino al maggiore importo di dieci volte il prodotto o il profitto conseguito dal reato quando, per la rilevante offensività del fatto, per le qualità, personali del colpevole o per l’entità del prodotto o del profitto conseguito dal reato, essa appare inadeguata anche se applicata nel massimo”.

A conferma dei principi generali che segnano il confine tra danno pubblico e danno privato e tra gli strumenti, rispettivamente sanzionatori e riparatori, relativamente previsti dall’ordi­namento, il legislatore ha così espressamente ribadito la riserva alla sanzione criminale della funzione di retribuire l’offesa all’integrità del mercato generalmente inteso ed escluso al contempo la riferibilità di tale funzione al risarcimento riconosciuto alla Consob. Il nuovo statuto della pena pecuniaria, improntato ad azzerare i guadagni conseguenti al reato e a garantire l’efficienza della sanzione in termini di un multiplo dei profitti conseguiti, attribuisce all’of­fen­sività del fatto (comprensiva, a fortiori, della latitudine del danno arrecato al mercato quale sintesi concettuale dei soggetti che lo compongono) una funzione fondante del ragguaglio della pena. In tal modo, si viene non solo a compensare ma anche a retribuire con un multiplo dei profitti conseguiti la lesione all’inte­grità del mercato nei profili che eccedono l’in­teresse soggettivo della Consob, specificamente e separatamente tutelato dal­l’art. 187-undecies T.U.F., e riguardano il piano generale del pregiudizio all’ordine pubblico economico.

La disposizione riecheggia, nel meccanismo di commisurazione della sanzione, l’esperienza dei punitive ed exemplary damages maturata, rispettivamente, negli USA e in Gran Bretagna e derivata dal sistema di equity anglosassone, che non conosceva la differenza tra diritto civile e penale. Il legislatore, piuttosto che recepirla – come sarebbe stato astrattamente possibile – secondo modelli privatistici e riservando all’inizia­tiva della Consob la sanzione pecuniaria delle condotte che mettono concretamente in pericolo il valore generale del­l’in­tegrità ed efficienza del mercato degli strumenti finanziari, ha scelto di configurare una sanzione penale proporzionale e modulabile come un multiplo dei profitti generati dal reato, in maniera da esercitare una deterrenza effettiva: evitando così l’in­tro­duzione di una categoria di danno punitivo di diritto privato che avrebbe potuto comportare, tra l’altro, problemi di inquadramento alla luce del principio generale secondo cui la conseguenza di un’azione illecita è, sul piano civile, il risarcimento del danno e non anche l’arricchimento del danneggiato.

Considerato che in difetto del coordinamento tra sanzione civile e sanzione penale il reo andrebbe incontro a una duplicità di sanzione per lo stesso fatto; e che il danno cagionato all’integrità del mercato, in questa più ampia accezione, è stato attratto alla sfera della sanzione criminale, ne consegue l’impos­sibilità di riferire alla Consob, in applicazione dell’art. 187-undecies T.U.F., un dan­no che ecceda il perimetro della lesione del diritto soggettivo della parte civile all’esplicazione delle proprie finalità istituzionali.

L’assunto trova conferma, a ben vedere, nella mancanza di un vincolo di destinazione funzionale a carico delle somme liquidate alla Consob a titolo riparatorio, a differenza di quanto disposto, ad esempio, dall’art. 166 del decr. l.vo n.° 196/2003 con riferimento alle somme riscosse dal­l’Au­torità Garante per la protezione dei dati personali in seguito all’irro­gazione di sanzioni amministrative.

In mancanza di forme di ristorno al mercato, sia pure indirette e mediate da un vincolo di destinazione, la riparazione va riferita all’Autorità quale soggetto portatore di diritti e fatta corrispondere, coerentemente, ad un diritto soggettivo del­l’en­te medesimo.

Infine, una ipotetica funzione (rectius: finzione) di rappresentanza unitaria di tutti i soggetti che compongono il mercato sarebbe vieppiù complessa da ricostruire, nei suoi profili sistematici, data la diversità ontologica della Consob dagli altri attori che vi operano, in ragione della missione istituzionale attribuita; e di quel che ne consegue con riferimento specifico al rapporto coi risparmiatori eventualmente danneggiati da un abuso di mercato che, secondo un’elabo­ra­zio­ne giurisprudenziale ormai consolidata, in conseguenza di ciò non sono “rappresentati” dall’Autorità ma piuttosto legittimati a citarla in giudizio qualora si ritengano lesi da eventuali carenze nell’eser­cizio dei poteri istituzionali che le sono attribuiti.

In questa cornice, la circostanza che i parametri di commisurazione della sanzione penale pecuniaria e quelli di ragguaglio del danno civile alla Consob siano i medesimi costituisce il riflesso delle funzioni istituzionali attribuite all’Autorità, a garanzia di interessi generali; e del fatto che entrambi gli istituti siano destinati a sanzionare il danno all’integrità del mercato, l’uno sul piano generale della lesione dell’ordine pubblico economico, l’al­tro sul piano specifico dell’ostacolo arrecato all’Autorità preposta a vigilare su tale pubblico interesse. Non giustifica però alcuna confusione concettuale in ordine alle rispettive sfere di pertinenza.

In definitiva, il danno liquidabile ai sensi dell’art. 187-unde­cies T.U.F. riguarda la riparazione della lesione inferta all’en­te legittimato a costituirsi parte civile sotto il profilo dell’osta­colo all’esercizio delle funzioni istituzionali di tutela del mercato; non può eccedere tali limiti, salvo incorrere in una sovrapposizione con le funzioni della sanzione penale; non trascende nella retribuzione del danno al mercato inteso in senso lato e non costituisce un nuovo genere di danno risarcibile, riconducibile al modello dei punitive damages.

 

12. Il Tribunale ritiene equo determinare l’importo di questo danno non patrimoniale in euro trentamila.

Si è tenuto conto, a contenimento della quantificazione che altrimenti sarebbe stata superiore, delle qualità personali del colpevole, persona incensurata; dell’en­tità del profitto determinato dalla consumazione del reato, conseguito in termini di semplificazione nella gestione del rischio dell’opzione put indicata all’impu­ta­zione e verosimilmente – ma non ve ne è prova certa e non se ne è quindi tenuto conto – sotto forma di incremento della parte variabile delle retribuzioni degli imputati; dell’of­fensi­vità conseguentemente contenuta del fatto.

A questo ultimo proposito, è particolarmente rilevante che il rimborso dell’ob­bligazione reverse convertible su cui il reato era destinato ad influire sia avvenuto senza pregiudizio alcuno per i risparmiatori, ancorché non per scelta dell’im­putato. In ragione di un errore nella predisposizione dei contratti sottoscritti con la clientela, che non hanno riportato le clausole di regolamento del prestito in maniera esattamente reciproca agli accordi di predisposizione dell’emissione conclusi con Mediobanca, alla rottura fraudolenta del knock in non è infatti seguito l’esercizio della put da parte di Unicredito e non ne è derivato un danno per gli obbligazionisti: cui, secondo i corsi del titolo Banca di Roma al momento del regolamento del prestito, sarebbe stata altrimenti restituita una somma inferiore nell’or­di­ne dei milioni di euro.

Ai fini della commisurazione si è infine provveduto d’ufficio, a mente dell’art. 1227 comma 1 cod. civ. (cfr. Cassaz. civ., sez. III, sentenza 23 gennaio 2006 n.° 1213, RV n.° 587997), a verificare l’eventuale ricorrenza di un concorso di colpa della Consob nella causazione del danno, astrattamente possibile in conseguenza di autonome carenze nel­l’eser­cizio delle funzioni istituzionali di vigilanza; mentre ai sensi del com­ma 2 dello stesso articolo di legge sarebbe stato da valutare su eccezione di parte, che non è stata avanzata, un eventuale concorso colposo incidente sull’entità del risarcimento.

Il Tribunale ha effettuato la verifica cui era tenuto d’ufficio e non ha rilevato condotte della parte civile che abbiano concorso eziologicamente alla lesione dell’integrità del mercato e, quindi, alla determinazione del danno.

 

13. In seguito alla costituzione di parte civile la Consob ha diritto altresì di allegare e provare anche altri titoli di danno, di natura patrimoniale o non patrimoniale: ad esempio, il danno all’immagine (che, nella specie, non è stato richiesto).

A parere del Tribunale, la formulazione letterale dell’art. 187-undecies T.U.F. “La Consob può costituirsi parte civile e richiedere …” non comprime l’esercizio dei diritti risarcitori nel perimetro dei danni cagionati all’integrità del mercato (come sarebbe se si interpretasse la “e” alla stregua di una consecuzione); ma va intesa come una congiunzione, secondo cui la facoltà di costituirsi parte civile, ormai riconosciuta ed esercitabile per fare valere qualsiasi danno risarcibile, si accompagna alla possibilità di chiedere la riparazione del danno cagionato all’inte­grità del mercato nell’ac­ce­zione appena esposta.

È quindi risarcibile il danno patrimoniale lamentato dalla Consob con riferimento al costo (in termini di risorse umane impegnate, spese vive e sviamento da altre attività) delle funzioni che è stato necessario attivare, in attuazione del mandato istituzionale, in seguito alla consumazione del reato. Tale ultima voce di danno è stata esposta in euro 62.122,00 specificando, nelle conclusioni formulate oralmente, che si tratta del corrispettivo delle attività svolte in conseguenza del reato commesso, ivi compreso il valore delle ore di lavoro dei dirigenti, funzionari e del personale conseguentemente impegnato e del costo alternativo costituito dalla distrazione dalle altre attività di istituto.

L’esistenza del danno risulta provata nell’an, alla luce anche dell’infor­mativa trasmessa all’ufficio del pubblico ministero e delle attività complessivamente svolte di cui vi è traccia nella documentazione prodotta e di cui ha parlato, tra l’altro, il teste Po.; e la quantificazione (escluse dal computo, ovviamente, le attività del­l’ufficio legale oggetto di separata liquidazione) è verosimile. I limiti intrinseci ad un accertamento svolto in sede penale non hanno però consentito di acquisire gli elementi necessari ad una determinazione precisa che, invero, la Consob non ha agevolato limitandosi ad indicare l’am­montare dedotto, senza precisare i nominativi del personale interessato, le attività effettuate, l’impegno orario corrispondente ed il controvalore attribuito a ciascuna attività.

La liquidazione va quindi riservata ad un separato giudizio civile.

 

P.Q.M.

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

IL TRIBUNALE DI MILANO – TERZA SEZIONE PENALE

 

Visti gli artt. 533, 535 c.p.p.,

DICHIARA

C. A. colpevole del reato ascritto e, concesse le circostanze attenuanti generiche, lo

CONDANNA

alla pena di mesi quattro di reclusione ed euro 10.000,00 (diecimila) di multa, oltre al pagamento delle spese processuali.

CONDANNA

C. A. al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali in favore della parte civile costituita CONSOB, che si liquidano in euro 30.000,00 (trentamila) limitatamente ai danni non patrimoniali

RISERVA

la quantificazione del danno patrimoniale al separato giudizio civile

 

CONDANNA

C. A. a rifondere alla parte civile costituita le spese di assistenza e difesa, che si liquidano in complessivi euro 14.680,00 (quattordicimilaseicentottanta), di cui euro 9.010,00 (novemiladieci) a titolo di onorari ed il rimanente per spese.

 

APPLICA

a C. A. le pene accessorie di cui agli articoli 28, 30, 32-bis e 32-ter cod.pen., per la durata di mesi sei.

ORDINA

la pubblicazione della presente sentenza, una sola volta e per estratto, a cura della Cancelleria ed a spese dell’imputato, sui quotidiani “Il Corriere della Sera” e “Il Sole 24 Ore”.

 

CONCEDE

a C. A. la sospensione condizionale della pena e il beneficio della non menzione.

Termine di giorni novanta per la stesura della motivazione. Milano, 27.3.2006.

SOMMARIO:

1. Le massime - 2. Il caso - 3. La normativa - 3.1. La disciplina in materia di manipolazione del mercato - 3.1.1. L’evoluzione della normativa - 3.2. Il bene giuridico tutelato e la legittimazione della Consob alla costituzione di parte civile - 4. I precedenti giurisprudenziali - 5. La dottrina - 6. La sentenza del Trib. Milano, Sez. III, n. 3406/2006 - NOTE


1. Le massime

I. L’immissione di uno o più ordini di compravendita al­l’uni­co fine di influenzare il prezzo di uno strumento finanziario costituisce (…) un artificio, sanzionato come aggiotaggio già dall’art. 181, 1° comma, t.u.f. con una norma confluita prima nell’art. 2637 c.c. e ora nell’art. 185 t.u.f. II. Le coordinate essenziali del danno risarcibile ai sensi dell’art. 187-undecies t.u.f. discendono (…) dal fatto che la lesione dell’interesse pubblico al regolare andamento del mercato e delle contrattazioni implica, di per sé, un danno immediato e diretto in capo alla Autorità di vigilanza, in quanto compromette la piena ed efficace realizzazione delle finalità istituzionali che ne costituiscono la ragione di esistere. La Consob è dunque legittimata a chiedere il ristoro del danno sofferto in seguito alla frustrazione dei propri fini istituzionali di tutela dell’integrità del mercato, espressamente delineati nel t.u.f. sia con riferimento alle finalità dei poteri di vigilanza (cfr. ad esempio gli artt. 63, 1° comma, lett. b), 74 e 91), sia con riferimento alla potestà sanzionatoria amministrativa che le è autonomamente riconosciuta. III. Il termine «danno all’integrità del mercato» riportato nella formulazione dell’art. 187-undecies t.u.f. va riferito alla lesione arrecata alla omonima finalità istituzionale di tutela in capo alla Consob; spetta all’Auto­rità quale soggetto titolare di diritti; discende, di per sé, dalla consumazione del reato e attiene a un danno non patrimoniale risarcibile (anche) in via equitativa.


2. Il caso

Con la sentenza in epigrafe emessa il 27 marzo 2006 e depositata il successivo 24 giugno, il Tribunale di Milano – Sezione III penale – ha condannato il responsabile pro tempore dell’Unità Warrants & Equity Derivatives di UBM per il reato di cui all’art. 185 del d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 (d’ora in poi anche t.u.f.) a 4 mesi di reclusione e 10.000 Euro di multa, applicando altresì all’im­putato, per la durata di sei mesi, le pene accessorie di cui agli artt. 28, 30, 32-bis e 32-ter c.p., richiamate dall’art. 186 t.u.f., per aver posto in essere artifici idonei a provocare una sensibile alterazione al ribasso del prezzo ufficiale del titolo Banca di Roma, al fine di consentire la c.d. «rottura» del knock-in di un’op­zione put barrier, detenuta dall’in­ter­me­dia­rio UniCredit Banca Mobiliare S.p.A. (UBM) e collegata a un’emis­sione di obbligazioni Mediobanca 99-01 reverse convertible, con clausola di knock in, avente ad oggetto le medesime azioni Banca di Roma il cui valore era, tra l’altro, determinante per il regolamento dello stesso prestito. La pronuncia in discorso costituisce una pietra miliare nel panorama giurisprudenziale italiano, infatti oltre ad essere la seconda condanna per aggiotaggio manipolativo pronunciata nel Paese, la sentenza ha accolto per la prima volta la domanda risarcitoria pro­posta dalla Consob nella veste di parte civile, condannando l’im­putato al risarcimento del danno non patrimoniale consistente nella lesione dell’inte­resse all’integrità del mercato, liquidato in 30.000 Euro, oltre al risarcimento del danno patrimoniale, da liquidarsi in separato giudizio. Il procedimento è stato instaurato a seguito di un’ap­po­sita segnalazione, ai sensi del previgente art. 186 t.u.f., trasmessa dalla Commissione alla competente Autorità Giudiziaria concernente gli esiti degli accertamenti svolti a seguito dell’anda­mento anomalo del prezzo delle azioni Banca di Roma S.p.A. registrato nella seduta di borsa del 31 gennaio 2000. Infatti in tale seduta di borsa il titolo, dopo aver toccato il massimo della giornata (1,147 Euro) al termine della fase di apertura, registrava, nella seconda parte della seduta, un trend al ribasso che lo ha portato ad oscillare intorno a 1,115 Euro. [continua ..]


3. La normativa

A fondamento delle statuizioni della sentenza in epigrafe, il Tribunale ha applicato l’art. 181 t.u.f., ora art. 185 t.u.f., l’art. 182 t.u.f., ora 186 t.u.f. e l’art. 187-undecies t.u.f.


3.1. La disciplina in materia di manipolazione del mercato

Al fine di rendere più chiare le riflessioni che saranno svolte in merito alla sentenza in commento, si ritiene utile delineare, in via preliminare, il quadro normativo di riferimento, atteso che la disciplina in materia di manipolazione del mercato è caratterizzata da una stratificazione di provvedimenti legislativi succedutisi negli anni: la fattispecie incriminata, infatti, è stata posta in essere nel vigore dell’art. 181 t.u.f. e giudicata dopo l’in­tro­duzione del nuovo art. 185 t.u.f.


3.1.1. L’evoluzione della normativa

È noto che la fattispecie penale della manipolazione del mercato è stata introdotta per la prima volta nell’or­di­namento italiano con la legge 17 maggio 1991, n. 157 [3], la quale, oltre a dare attuazione della Direttiva 89/592/CEE in materia di insider trading, ha altresì disciplinato l’ipo­tesi delittuosa in discorso. L’art. 5 della stessa legge vietava infatti la diffusione di notizie false, esagerate o tendenziose o l’effettua­zione di operazioni simulate o altri artifici idonei ad influenzare sensibilmente il corso dei titoli quotati. Successivamente, la legge n. 157/1991 è stata abrogata dal d.lgs. n. 58/1998, il quale, nel riunire e riorganizzare in un unico testo normativo tutte le disposizioni di settore originariamente previste da singoli provvedimenti normativi, ha contestualmente disciplinato la materia dell’in­sider trading e dell’aggio­tag­gio su strumenti finanziari agli artt. 180-187 t.u.f., ivi compresa la relativa attività di accertamento della Consob [4]. In particolare, l’art. 181, 1° comma, t.u.f. (che aveva sostituito l’art. 5 della legge n. 157/1991) puniva con la pena della reclusione fino a tre anni e con la multa da uno a cinquanta milioni di lire «Chiunque divulga notizie false, esagerate o tendenziose, ovvero pone in essere operazioni simulate o altri artifizi idonei a provocare una sensibile alterazione del prezzo di strumenti finanziari o l’ap­parenza di un mercato attivo dei medesimi», soggiungendo, al 2° comma, che «Se si verifica la sensibile alterazione del prezzo o l’apparenza di un mercato attivo, le pene sono aumentate». Il successivo 3° comma, prevedeva infine il raddoppio della pena, oltre che nelle ipotesi indicate dal­l’art. 501, 3° comma, c.p., quando il fatto venisse posto in essere da soggetti particolarmente qualificati, ivi espressamente indicati quali azionisti di controllo, amministratori, liquidatori, sindaci, dirigenti, revisori di imprese di investimento o di banche che esercitano imprese di investimento, agenti di borsa e componenti o dipendenti Consob, ovvero fosse commesso a mezzo della stampa o altri mezzi di comunicazione di massa. In seguito, l’art. 181 t.u.f. è stato abrogato ad opera del d.lgs. n. 61/2002 (art. 8) e la relativa fattispecie delittuosa è stata disciplinata dal [continua ..]


3.2. Il bene giuridico tutelato e la legittimazione della Consob alla costituzione di parte civile

Come anticipato, nonostante la illustrata successione nel tempo della disciplina in materia di manipolazione, immutato è il bene giuridico tutelato, che era e rimane quello della corretta formazione dei prezzi degli strumenti finanziari, presupposto indefettibile dell’efficiente funzionamento del mercato finanziario: la norma, pertanto, tutela l’interesse all’efficienza ed alla trasparenza del mercato finanziario e, per tal via, l’economia pubblica [11]. La tutela della correttezza delle negoziazioni, con particolare riguardo ai meccanismi di formazione del prezzo dei titoli, si giustifica con la considerazione che quest’ultimo, nel­l’ottica di un mercato efficiente, dovrebbe costituire esclusivamente la «risultante delle aspettative che gli operatori, considerate le informazioni a loro disposizione, hanno sull’an­damento del titolo stesso» [12] senza essere influenzato da atti o fatti artificiosi e fraudolenti. In tale prospettiva, l’oggetto di tutela è da rinvenire in una corretta funzione segnaletica dei prezzi in modo da garantire non solo che tutti gli operatori «giochino alla pari», ma che risulti accresciuta la fiducia degli operatori stessi nei mercati. Si consideri, ora, che il bene giuridico tutelato dalla previsione del delitto di aggiotaggio su strumenti finanziari coincide con uno degli interessi, per l’appunto quello all’effi­cienza ed alla trasparenza del mercato finanziario, la cui tutela è dalla legge attribuita alle cure della Consob, interesse, per quanto detto, pubblico e, pertanto, riferibile in via primaria ed istituzionale alla stessa Consob, persona giuridica di diritto pubblico. Che la Consob annoveri tra i suoi fini istituzionali proprio la tutela del­l’interesse (pubblico) all’effi­cien­te, corretto e trasparente funzionamento del mercato, emerge chiaramente dalle finalità dei poteri di vigilanza ad essa attribuiti dalla legge [13]. Il ruolo della Consob quale ente esponenziale dell’in­te­resse protetto dalla norma repressiva dell’aggio­tag­gio era, poi, affermato espressamente dall’art. 187 t.u.f. nel testo anteriore alla novella del 2005 ed è oggi ribadito dall’art. 187-undecies t.u.f. il quale, al 1° comma, stabilisce, che «Nei procedimenti per i reati previsti dagli artt. 184 e 185, la [continua ..]


4. I precedenti giurisprudenziali

L’aumentata e diffusa sensibilità per la pericolosità e il disvalore degli abusi di mercato, che ha portato il legislatore a seguire via via un indirizzo sempre più rigoroso nella risposta punitiva a tali fattispecie criminose rispetto alle scelte operate in generale per i reati di tipo comune, si è riflessa anche sull’ef­fettiva repressione dei delitti in discorso, per i quali negli ultimi anni sono stati avviati numerosi procedimenti penali, molti dei quali sono ancora in corso. Tuttavia i precedenti giurisprudenziali in materia di manipolazione del mercato sono nel nostro Paese ancora scarsissimi (poche di più sono le pronunce in materia di insider trading); ciò trova giustificazione essenzialmente nella circostanza che molti giudizi si sono conclusi con sentenze di applicazione della pena su richiesta delle parti ex art. 444 c.p.p. Numerose sono inoltre le ordinanze emesse nel­l’am­bito degli stessi procedimenti che affrontano aspetti specifici della disciplina quali la legittimazione della Consob alla costituzione di parte civile, la competenza territoriale, la continuità normativa. In specie, la sussistenza della continuità normativa, ora ribadita dalla sentenza in commento (v. oltre, par. 5), è stata più volte affermata dal Tribunale di Milano anche a seguito dell’entrata in vigore della legge n. 62/2005, proprio con specifico riferimento al­l’abu­so della manipolazione del mercato [15]. Ebbene, ad oggi, i giudizi definiti con sentenze di condanna per aggiotaggio su strumenti finanziari risultano in tutto quattro. Due hanno avuto ad oggetto un’ipo­tesi di manipolazione informativa contestata ai rispettivi imputati per aver fornito alla stampa notizie false in relazione all’avvenuta effettuazione di operazioni societarie price sensitives. Nel primo caso, il Tribunale di Milano, con sentenza 16 novembre 1994, confermata in appello [16], ha condannato a quattro mesi di reclusione e venti milioni di multa un operatore finanziario, che dopo aver proposto ad un banchiere una complessa operazione comportante anche la cessione della partecipazione di controllo di una nota banca quotata, nel corso delle trattative, quando ancora la proposta non era stata accettata, ha comunicato alla stampa l’avvenuto perfezionamento del contratto di cessione di tale quota ad un prezzo pari al doppio di [continua ..]


5. La dottrina

Con riguardo ai contributi dottrinali, si ritiene utile ai fini di una più agevole comprensione della vicenda oggetto della sentenza in commento, richiamare i più rilevanti orientamenti emersi a seguito delle modifiche apportate dal­l’art. 2637 c.c. rispetto alla formulazione del previgente art. 181 t.u.f., atteso che, come evidenziato, l’attuale art. 185 t.u.f., introdotto dalla legge n. 62/2005 [22] di recepimento della direttiva in tema di market abuse [23], ricalca fedelmente il testo del menzionato art. 2637 c.c. [24]. Al riguardo si rileva, in primo luogo, che dal testo di quest’ultima norma è stato eliminato il riferimento alle informazioni «esagerate o tendenziose», le quali possono comunque ritenersi riconducibili alla nozione di notizie false [25] o, in ogni caso, al concetto di «altri artifici» [26] contemplato dalla stessa disposizione. La formulazione dell’art. 2637 c.c. specificava inoltre che le notizie false, le operazioni simulate o altri artifici dovessero essere «concretamente» idonei a provocare una sensibile alterazione del prezzo degli strumenti finanziari. Nella relazione al d.lgs. n. 61/2002 si legge che tale avverbio ha la finalità di realizzare «un affinamento sul piano della concreta lesività del fatto», da cui discenderebbe la «necessità che le notizie mendaci o le operazioni simulate o gli altri artifici siano price sensitivity, in modo da configurare il reato in questione come reato di pericolo in concreto». Peraltro, secondo l’opinione dominante espressa in dottrina e giurisprudenza, il delitto aggiotaggio su strumenti finanziari è sempre stato ritenuto, anche nelle precedenti formulazioni, reato di pericolo, non prevedendo la legge, ai fini del perfezionamento della fattispecie, il verificarsi di un’ef­fettiva alterazione del prezzo degli stru­menti finanziari. Tale evento avrebbe invece determinato l’ap­pli­cazione della specifica aggravante contemplata dal­l’abro­gato 181, 2° comma, t.u.f. e ancor prima dal­l’art. 5, 3° comma, legge n. 157/1991. In particolare la valutazione circa l’idoneità delle operazioni simulate o degli artifici ad alterare il prezzo dei titoli deve essere svolta con un giudizio da effettuarsi ex ante al momento del [continua ..]


6. La sentenza del Trib. Milano, Sez. III, n. 3406/2006

La sentenza in commento è indiscutibilmente destinata a costituire un precedente necessario nella futura evoluzione degli orientamenti giurisprudenziali in materia di repressione degli abusi di mercato ed, in specie, della manipolazione posta in essere mediante la modalità degli «altri artifici». Gli aspetti di fondamentale rilievo sono per la verità molteplici, ma mentre alcuni, oggetto di analisi da parte della dottrina, sono stati già recepiti dalla sia pur scarna giurisprudenza sopra richiamata, altri, sia di natura processuale che sostanziale, presentano profili di assoluta novità e pertanto saranno maggiormente approfonditi nel corso delle riflessioni che seguiranno. Un primo importante rilievo riguarda il piano probatorio. Dopo aver descritto il complesso contesto economico-fi­nan­ziario nel quale si inquadra la condotta incriminata, emerge dalla sentenza il peso determinante, ai fini dell’ac­cer­tamento della responsabilità del­l’im­pu­tato, del­l’acqui­sizione agli atti, disposta con ordinanza del 9 gennaio 2006 nel corso dell’istruzione dibattimentale, di un’audio­cassetta contenente le registrazioni delle conversazioni telefoniche [30] intercorse tra alcuni dipendenti dell’in­ter­me­diario, ivi compresi l’imputato, il responsabile del­l’In­ter­­nal Audit e i traders che hanno patteggiato, nell’ora immediatamente precedente l’immis­sione dei quattro ordini di vendita in cui si sostanzia la condotta manipolativa. Come si è detto, proprio il terreno probatorio è quello che si dimostra solitamente più scivoloso nei procedimenti in esame, atteso che la condotta vietata si compone di un insieme di operazioni singolarmente lecite. In questo caso, invece, è risultato molto più agevole per i giudici milanesi, che nelle motivazioni hanno riportato ampi stralci di tali registrazioni, ricostruire, sotto il profilo oggettivo, l’effettivo svolgimento dei fatti e valutare, sotto quello soggettivo, il concorso causale dell’im­putato. Così, il Tribunale ha potuto affermare che dal «contenuto univoco delle registrazioni telefoniche, che descrivono esplicitamente la preordinazione e il coordinamento delle condotte poste in essere, si desume la prova insuperabile dell’illiceità [continua ..]


NOTE
Fascicolo 1 - 2007