L’articolo esamina il tema della supersocietà di fatto, mettendo in evidenza alcuni profili critici della ricostruzione giurisprudenziale offerta in tema dalle corti di merito e dalla corte di legittimità.
This article addresses the issue of the de facto supercompany, focusing on certain critical aspects of the jurisprudential view on the subject expressed by the courts of merit, and by the court of legitimacy.
Keywords: de facto supercompany - legitimacy - limited and unlimited liability – abuse.
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1. Premessa - 2. Inquadramento della questione - 3. Il primo profilo di indagine: l’ammissibilità della «supersocietà» di fatto - 3.1. Il ruolo dell’assemblea e i limiti legali (semplice questione di forma?) - 3.2. La ricostruzione giurisprudenziale e le argomentazioni «ancillari» - 3.3. La nullità in ambito societario e la posizione dei soci - 4. Il secondo profilo di indagine: il versante fallimentare e le posizioni «abusate». L’approccio «gattopardiano» del c.c.i.i.? - 5. Conclusioni - NOTE
Tanto in giurisprudenza [[1]]-[[2]], quanto in dottrina [[3]], alcuni argomenti, più di altri, divengono ciclicamente oggetto di particolare attenzione e curiosità. Tra questi si segnala un tema «insidioso» [[4]] – o, forse, sarebbe meglio dire scivoloso, in quanto «posto su di un crinale costituito dalla linea di confine tra rispetto della forma e repressione dell’abuso» [[5]] – per operatori e studiosi: quello della configurabilità della c.d. «supersocietà» di fatto tra (o con) società di capitali e delle potenzialità estensive del suo fallimento. Lo scritto che segue, lungi dall’offrire una disamina troppo dettagliata di questioni che, per complessità e spessore storico [[6]], rischiano di sfuggire alle capacità di chi scrive, si propone di indagare, nello spazio di alcune pagine [[7]], un tale profilo. E ciò con l’intento esplicito di offrire, in conclusione, alcune annotazioni critiche nei confronti delle aperture in merito accolte e suggerite da recenti pronunce di legittimità e da autorevoli posizioni accademiche [[8]] in quanto, per un verso, basate su numerose forzature interpretative di un dato normativo che parrebbe a tratti venire impropriamente relegato a questione di mera forma e, per l’altro verso, finanche traduttive di un bilanciamento di interessi che non pare, in realtà, effettivamente equilibrato.
In via preliminare alla trattazione che segue, è opportuno sintetizzare i punti essenziali di una questione che gravita attorno a un duplice quesito: (i) se sia o meno ammissibile, da parte dell’ordinamento, la c.d. «supersocietà» di fatto come sopra definita; e, a fronte di una risposta positiva a tale domanda, (ii) quali siano le conseguenze di natura fallimentare in via di ipotesi ricorrenti in caso di insolvenza di quest’ultima. Per quanto attiene al profilo sub (i), va anticipato che la soluzione attualmente in auge porta a confermare il diritto di cittadinanza a favore della fattispecie in oggetto, essenzialmente attraverso una ricostruzione «orientata» del dato positivo e, così, dei presidi normativi consacrati dall’art. 2361, 2° comma, c.c., ancor più laddove relazionati al disposto di cui all’art. 2384 c.c. [[9]]. Questa ricostruzione, nondimeno, trova supporto in alcune altre argomentazioni «ancillari» che, facendo perno su considerazioni di indiscussa rilevanza teorica – relative alla disciplina della nullità del contratto di società ex art. 2332 c.c. e alla (a detta di alcuni) invariata posizione dei soci anche in caso di acquisto di partecipazioni pericolose da parte della propria società – hanno condotto i giudici di legittimità a confermare la bontà dell’architettura societaria in esame. Con riferimento al profilo sub (ii), invece, la lettura oggi maggiormente condivisa (quantomeno in giurisprudenza) è quella indirizzata ad affermare l’applicazione del fallimento della «supersocietà» di fatto insolvente anche in estensione ai propri soci, ancorché in bonis, con il fine dichiarato di dare risposta a una richiesta di tutela avanzata da quei terzi che, con detta società (di fatto), hanno contratto in buona fede. Risposta, questa, anche comprensibile ma forse eccessivamente tranchante se rapportata a un quadro di riferimento composto da una pluralità di interessi, in verità tutti ugualmente meritevoli di adeguata tutela.
Quanto al primo profilo di indagine, si è anticipato che l’iter argomentativo che conduce ad affermare, in modo diffuso e si direbbe pacifico, ma con autorevoli voci contrarie[[10]], l’ammissibilità della «supersocietà» di fatto, è strutturato attraverso una lettura «eterodossa» ed «estensiva» di alcuni articoli – cfr. artt. 2361, 2384 e 2332 c.c. – che parrebbero venire plasmati, non senza alcune perplessità, in modo tale da garantire il raggiungimento del risultato sperato. Più in particolare, la consecutio logica-interpretativa che legittimerebbe la fattispecie in esame risulta composta da una serie di passaggi chiave che, seppur frutto di interpretazioni certamente «possibili», tutto sommato ammettono pur sempre una «prova contraria» o, quantomeno, un’analisi ricostruttiva capace di condurre a risultati opposti rispetto a quelli oggi genericamente «consacrati». Tali passaggi chiave, in particolare, vertono attorno (i) all’inquadramento del ruolo dell’assemblea in caso di assunzione, da parte di una società di capitali, di partecipazioni pericolose, in quanto comportanti una responsabilità illimitata, e all’identificazione delle conseguenze nel caso in cui la citata assunzione avvenga senza il rispetto dei «paletti normativi» disegnati dal legislatore [[11]]; nonché (ii) al richiamo attuato, da parte della giurisprudenza di legittimità, alla disciplina della nullità in ambito societario; e (iii) alla sostanziale supposta indifferenza dei soci della società di capitali, ormai socia di società di fatto e con responsabilità illimitata, verso l’assunzione della partecipazione in questione (assunzione che, come noto, si manifesterebbe, agli occhi di questi ultimi, a cose fatte, così traducendo la famosa società del c.d. «fatto compiuto»!) [[12]]. Pare dunque utile soffermarsi su ciascuno di questi passaggi, ponendo attenzione prima alle questioni di forma, e poi a quelle di sostanza.
Che una società di capitali possa partecipare a una società di persone è dato ormai pacifico e confortato dall’attuale previsione di cui all’art. 2361, 2° comma, c.c. (e del correlato art. 111-duodecies disp. att. c.c.), ai sensi della quale, come noto, «l’assunzione di partecipazioni in altre imprese comportante una responsabilità illimitata per le obbligazioni delle medesime deve essere deliberata dall’assemblea; di tali partecipazioni gli amministratori danno specifica informazione nella nota integrativa del bilancio, indicando la denominazione, la sede legale e la forma giuridica di ciascun soggetto partecipato». Una tale attività rientra quindi oggi, a pieno titolo, tra quelle che, fisiologicamente, una società di capitali può compiere, ciò peraltro confermando l’opportunità di indirizzarsi verso un sistema economico il più possibile elastico e, come tale, emancipato da alcuni «dogmi» appartenenti a tempi passati. Questione non altrettanto «scontata» è, invece, quella che riguarda un profilo che definirei – fin da subito – «patologico» e che si sostanzia nell’assunzione della partecipazione in questione se compiuta nella noncuranza dei passaggi formali appena menzionati, in merito ai quali è da rilevare (soprattutto con riferimento al coinvolgimento dell’assemblea) un contrasto interpretativo composto da una duplicità di posizioni, non propriamente antitetiche e come tali entrambe meritevoli di apprezzamento. La prima, particolarmente – e, a detta di chi scrive, correttamente, già solo se rapportata ai canoni delineati dall’art. 12 delle Preleggi – aderente al dato positivo, e come tale intesa a leggere nella previsione normativa poc’anzi indicata e nella scelta terminologica del verbo «deliberare» la chiara e inequivocabile volontà del legislatore di affidare all’assemblea una competenza decisoria esclusiva per le operazioni in oggetto [[13]]. La seconda, invece non del tutto attenta al dato testuale [[14]], e indirizzata a riconoscere all’assemblea non già il potere di decidere bensì quello di autorizzare (o ratificare) l’assunzione in questione da parte dei gestori i quali, secondo le regole generali, ben potrebbero non procedere con l’acquisto [continua ..]
È noto che la giurisprudenza di legittimità, al termine di un percorso ondivago, al quale hanno preso parte, con diverse opinioni tra loro anche contrastanti, le corti territoriali [[19]], ha ammesso la configurabilità della «supersocietà» di fatto e l’applicazione, in estensione, del suo fallimento in caso di insolvenza. La scelta è parsa infatti capace di assicurare un più rigoroso rispetto dei principi di stabilità dell’agire societario e della certezza dei traffici, cui sono ispirati gli assi cartesiani del diritto commerciale riformato. La stessa, tuttavia, pare presentare talune debolezze di cui risulta corretto dare atto in questa sede, sia con riferimento alle argomentazioni «ancillari» formulate a supporto della suddetta apertura, sia con riferimento al piano dei rapporti tra interessi contrapposti. Se con riferimento al secondo punto risulta opportuno un discorso a parte, in merito al quale si rinvia alle considerazioni esposte infra, è in relazione al primo profilo che si vogliono ora offrire alcuni ulteriori rilievi, volti a evidenziare possibili fragilità del fenomeno in questione. In particolare, al di là del dato formale sopra analizzato, è infatti utile sottolineare che le tesi esposte, a più riprese, dai giudici di legittimità, confermano la necessità di rapportarsi a un fenomeno traslativo di partecipazioni pericolose in capo a una società di capitali senz’altro compiuto nell’assenza di quanto prescritto dal dato normativo ma ormai avvenuto. Un fenomeno traslativo foriero di specifiche conseguenze di sistema, in merito alle quali pareva essere giunta l’ora di una decisa «scelta di campo». Tale «scelta di campo», come noto, era (ed è) ispirata anche da ragioni di «giustizia sostanziale» e trova forza non solo in un’interpretazione estensiva del dato normativo (che, come appena descritto, nella «migliore» delle ipotesi, è letto nel senso di «degradare» l’intervento dei soci a mera autorizzazione), bensì anche in due ulteriori considerazioni: la prima, volta a richiamare all’attenzione la disciplina della nullità in ambito societario; la seconda, invece, indirizzata a interrogarsi circa l’effettivo interesse dei soci a essere o meno coinvolti nella vicenda in [continua ..]
La giurisprudenza, si è detto, concede piena cittadinanza alla «supersocietà» di fatto. Tale costruzione, infatti, regge agli occhi dei giudici di legittimità e ciò, come accennato, sulla base non solo di una determinata interpretazione delle norme sopra indicate, ma anche della considerazione per cui, quand’anche l’assunzione della partecipazione in questione fosse da ritenersi inefficace, la società di fatto (conseguentemente) nulla continuerebbe ad esistere sino alla definizione dei rapporti giuridici pendenti ex art. 2332 c.c., con la conseguenza che rimarrebbero fermi i diritti acquisiti nei suoi confronti dai terzi creditori di buona fede e, soprattutto, la sua soggezione al fallimento in caso di insolvenza. Nondimeno, la partecipazione di una s.r.l. a una società di persone operata dagli amministratori senza il consenso dell’assemblea non concretizzerebbe, a detta dei giudici, «una rilevante modificazione dei diritti dei soci», come tale riservata alla competenza assembleare ai sensi dell’art. 2479, 2° comma, n. 5, c.c., non mutando perciò la posizione di questi ultimi, pur sempre vincolati nei limiti del conferimento. Orbene, in merito a questi profili alcune osservazioni paiono opportune, onde evitare che i passaggi anzidetti prestino il fianco a interpretazioni sbrigative, capaci di condurre a facili automatismi volti ad affermare la ricorrenza di una «supersocietà» di fatto a prescindere da un attento e rigoroso esame del contesto di riferimento. Per quanto attiene al primo profilo – pur risultando evidente «l’esigenza di riconoscere gli effetti prodotti dall’operare effettivo dell’ente collettivo sorto in violazione delle regole preposte alla sua costituzione» [[20]] – non può infatti essere taciuto che la riconducibilità della previsione speciale in tema di nullità di s.p.a., e conversione di questa in causa di scioglimento, allo schema tipologico delle società personali, ancorché sicuramente efficiente e come tale accolta da autorevole dottrina [[21]], è stata oggetto di una opposta, diffusa e altrettanto importante opinione dottrinale, secondo la quale la disposizione di cui all’art. 2332 c.c. ha «carattere eccezionale e non [è] applicabile per analogia alle società di persone», trovando [continua ..]
La tutela degli interessi coinvolti è argomento che conduce a riflettere in merito al profilo fallimentare della materia e così, più in particolare, al disposto dell’art. 147 legge fall. e al meccanismo estensivo del fallimento ivi previsto[[29]]. Dovendosi inoltre segnalare che l’entrata in vigore del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14) e, in particolare, del suo art. 256, parrebbe non mutare, nella sostanza (e al di là di altre questioni, anche terminologiche), le considerazioni svolte nel presente paragrafo. Orbene, in argomento va innanzitutto rilevato che la norma in commento risulta ispirata al raggiungimento di precise e adeguate soluzioni operative, nello specifico volte a massimizzare le possibilità per la procedura di «rifarsi» non già solo sul patrimonio della società, bensì anche su quelli dei soci di questa illimitatamente responsabili, ancor più in caso di utilizzo improprio dello schermo societario. Una norma, dunque, ispirata da precise finalità «concorsuali» e volta ad assicurare un certo grado di giustizia sostanziale anche, e ancor più, a fronte di utilizzi «abusivi» della personalità giuridica [[30]]. Tema, quest’ultimo, «fortemente intriso di ambiguità» [[31]]. Quanto precede è confermato – in particolare e prescindendo dall’ipotesi standard di cui al 1° comma (socio palese di società palese) – dalla ricomprensione nella previsione in esame tanto del caso di socio occulto di società palese (cfr. 4° comma), quanto nell’ipotesi di socio occulto di società occulta, l’attività della quale è, all’apparenza, imputabile in via esclusiva ad un imprenditore individuale già dichiarato fallito (cfr. 5° comma). Nonché, come anticipato, anche nelle nuove previsioni del codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza [[32]]. Nello specifico, e al di là delle attente osservazioni puntualmente mosse da chi, già in fase di primo commento, ha correttamente evidenziato le ricadute critiche sull’ordinamento di un principio – quello enucleato inizialmente dall’art. 147 legge fall. – che «ha determinato l’accumularsi, nel tempo, di un immenso e talvolta inestricabile [continua ..]
In conclusione, emerge in chi scrive la sensazione chiara di essere posti innanzi, nella materia in esame, a una costruzione che risulta «instabile» e, pertanto, non ammissibile, ancor meno se automaticamente, tra i caratteri di un ordinamento che, sulla base di un’interpretazione letterale e ortodossa dei propri paletti normativi contenuti nel Codice civile, parrebbe di contro inteso a negare, con evidenza, il diritto di cittadinanza alla c.d. «supersocietà» di fatto, in quanto frutto di una contraddizione in termini e di un’evidente noncuranza di principi normativi e di insegnamenti consolidati in tema di personalità giuridica. Le remore che spingono a vedere con un elevato grado di diffidenza la fattispecie di cui si è discusso non riguardano solo la controvertibile interpretazione di un dato positivo che, come supra argomentato, oltre che «scavalcato» ben potrebbe condurre a soluzioni diametralmente opposte, ma si spingono ad affrontare, altresì, il profilo degli effetti sul terreno degli interessi regolati, in particolare con riferimento alle conseguenze asimmetriche che, in punto di tutela dei soggetti a vario titolo coinvolti nel fenomeno in analisi, vengono a realizzarsi ancor più in chiave fallimentare. Proprio in merito a tale ultimo aspetto, la soluzione prospettata da giudici e da parte della dottrina parrebbe infatti tradurre una forzatura del dato normativo, senza che ciò assicuri, tuttavia, un’adeguata composizione degli interessi coinvolti. Così tramutandosi la questione, al più, in un problema di mera «allocazione» dei risultati negativi ricorrenti in caso di insolvenza dell’ente di fatto, cui attualmente consegue un’arbitraria preferenza dei creditori di quest’ultimo rispetto ai creditori – e ai soci – della società di capitali partecipante la società di persone irregolare. Ad avviso di chi scrive è evidente che, norme alla mano, la «supersocietà» di fatto non possa che essere inquadrata come un’eccezione da trattare con il massimo rigore (interpretativo) possibile. In altri termini, dunque, la «supersocietà» di fatto andrebbe letta come «una sovrastruttura inutile e fuorviante, una superfetazione di cui liberarsi rapidamente o con un coraggioso revirement della Suprema Corte o con un intervento di chiarificazione e [continua ..]