Rivista di Diritto SocietarioISSN 1972-9243 / EISSN 2421-7166
G. Giappichelli Editore

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La “liquidazione forzosa” delle partecipazioni societarie pubbliche destinate alla dismissione (di Giovanni Barbara)


La nota è dedicata al commento di una pronuncia, resa dalla Corte d’Ap­pello di Venezia, nella quale vengono affrontate diverse questioni afferenti al controverso tema della “liquidazione forzosa” delle partecipazioni pubbliche destinate alla dismissione in quanto reputate non più rispondenti alle stringenti condizioni cui la legge sottopone l’acquisto e la conservazione di partecipazioni societarie da parte delle pubbliche amministrazioni, allorquando, in caso di insuccesso del tentativo di cessione mediante procedure ad evidenza pubblica, l’ente si avvalga del diritto a riceverne la liquidazione a carico della società partecipata.

Parole chiave: società – partecipazioni pubbliche – dismissione – evidenza pubblica – liquidazione – liquidazione forzosa.

The “forced liquidation” of public holdings destined for divestment

The paper is dedicated to the comment on a judgement, issued by the Court of Appeal of Venice, in which various issues relating to the controversial subject of the “forced liquidation” of public holdings destined for divestment are dealt with as they are no longer deemed to comply with the stringent conditions the law requires the public administrations to purchase and retain shareholdings in companies, when, in the event of the unsuccessful attempt to sell them through public tender procedures, the entity avails itself of the right to receive the liquidation by the investee company.

Keywords: companies – public holdings – divestment – tender procedures – liquidation – forced liquidation.

MASSIMA: L’oggetto sociale di una holding dinamica non coincide con quello delle sue partecipate e non consiste nello svolgimento, in via indiretta, delle medesime attività, ma ha una valenza del tutto autonoma e distinta, consistendo nell’acquisto e nella vendita di partecipazioni e/o nella prestazione di una serie di servizi in favore delle società partecipate e/o nell’attività di direzione e coordinamento, essa stessa intesa come attività dotata di una propria autonomia concettuale e sostanziale essendo quindi escluso che lo svolgimento di servizi di interesse generale da parte delle controllate sia imputabile in via indiretta alla controllante. Le società a partecipazione pubblica sono necessariamente società ad oggetto sociale esclusivo, sicché la partecipazione ad una società c.d. multiutility è consentita esclusivamente laddove ciascuna delle attività esercitate sia riconducibile, autonomamente e singolarmente, nel novero di quelle non “vietate”, il che valendo anche con riguardo a una società holding e, in generale, alle partecipazioni “indirette”, poiché sarebbe del tutto illogico ed incoerente reputare legittima la partecipazione in una determinata società a prescindere dal fatto che quest’ultima abbia a sua volta partecipazioni, tanto più se di controllo, in società di “secondo (o ulteriore) livello”, la cui attività non sia riconducibile nel novero di quelle non “vietate”. L’ammissibilità delle partecipazioni pubbliche in società che producono servizi di interesse generale individua una facoltà, non un obbligo, essendo rimesso al­l’amministrazione partecipante valutare se la partecipazione risponda o meno ai caratteri della “stretta necessità”. La deliberazione dell’assemblea prevista dall’art. 1, comma 569-bis, della Legge di Stabilità 2014 aveva valenza solo dichiaratamente “interpretativa”, ma di fatto innovativa e il suo perimetro temporale di applicazione è rimasto pertanto circoscritto al tempo tra l’entrata in vigore della novella e la sua abrogazione ad opera del TUSPP. Il ruolo dell’assemblea nell’ambito dell’art. 1, comma 569-bis, della Legge di Stabilità 2014 doveva intendersi relegato alla individuazione delle modalità attraverso cui procedere alla liquidazione delle partecipazioni, non anche alla approvazione dell’istanza di liquidazione da parte del socio pubblico. La deliberazione assembleare con cui si respinge l’istanza di liquidazione da parte del socio pubblico è nulla e non semplicemente annullabile, ponendosi in contrasto con una disciplina volta alla tutela di un prevalente interesse generale di rango pubblicistico. Massima non ufficiale PROVVEDIMENTO: Testo della sentenza [continua..]
SOMMARIO:

1. L’interesse suscitato dalla sentenza della Corte d’Appello di Venezia: il controverso tema della “liquidazione forzosa” delle partecipazioni societarie pubbliche destinate alla dismissione - 2. Il sofferto itinerario di progressivo affinamento del sistema normativo sulla dismissione delle partecipazioni pubbliche non strettamente necessarie: le tappe evolutive anteriori al TUSPP - 3. La disciplina sul riordino delle partecipazioni nel TUSPP - 4. La mancata dismissione e la conseguente “liquidazione” della partecipazione a cura della società partecipata - 5. Liquidazione forzosa e “piani ordinari di razionalizzazione”: contro l’i­potesi della limitata applicazione ai soli “piani di revisione straordinaria” - 6. Le principali questioni affrontate nella sentenza annotata - 7. Holding e “SIG”: cenni - 8. La natura giuridica della liquidazione forzosa, tra “cessazione” della partecipazione, recesso sui generis e fattispecie speciale di scioglimento parziale del rapporto sociale - 9. Alcune conseguenze applicative della prospettata ricostruzione sistematica - 10. Il ruolo dell’assemblea nella liquidazione forzosa della partecipazione prima e dopo il TUSPP - NOTE


1. L’interesse suscitato dalla sentenza della Corte d’Appello di Venezia: il controverso tema della “liquidazione forzosa” delle partecipazioni societarie pubbliche destinate alla dismissione

Con la sentenza che si annota, la Corte d’Appello di Venezia, confermando le conclusioni cui era già pervenuto il Tribunale in primo grado [[1]], si è pronunciata su uno dei temi di più spiccata rilevanza pratica e tra i più controversi in materia di società a partecipazione pubblica. Il tema, su cui tanto si è discusso sia in punto di corretta interpretazione delle norme, sia sul piano delle valutazioni critiche circa l’opportunità “politica” delle soluzioni adottate, è quello relativo al complesso meccanismo attraverso il quale viene assicurata la dismissione delle partecipazioni societarie detenute dalle pubbliche amministrazioni, allorquando le stesse non risultino più rispondenti alle stringenti condizioni cui è subordinata la legittimità della partecipazione pubblica: una dismissione che, in simili frangenti, diventa obbligatoria, al punto tale che, in caso di insuccesso dei tentativi di cessione a terzi mediante procedure di evidenza pubblica, la partecipazione deve essere liquidata, a cura della società, nelle mani dell’amministrazione. Il meccanismo attraverso il quale attuare la “liquidazione”, per vero, è stato, in progresso di tempo, ripetutamente rimaneggiato da parte del legislatore, ma il continuo susseguirsi di novelle e correzioni ha solo contribuito ad acuire, piuttosto che a smorzare, le numerose incertezze interpretative che le norme in questione hanno sollevato e in parte tuttora sollevano, con conseguente e inevitabile alimentazione del contenzioso tra pubbliche amministrazioni invocanti il diritto alla liquidazione e società partecipate che vi si sono spesso opposte e che hanno vissuto il sistema come una intollerabile (e per alcuni anche costituzionalmente illegittima) violazione delle proprie libertà fondamentali. Come si vedrà meglio qui a seguire, difatti, era stato originariamente previsto che la liquidazione fosse la conseguenza di una “cessazione ope legis” della partecipazione stessa. Ma le modalità con cui detta cessazione era destinata ad operare erano apparse tutt’altro che chiare, così come niente affatto univoca era risultata la stessa ricostruzione della natura giuridica del relativo “meccanismo”, pur essenziale per le rilevanti conseguenze che la qualificazione concettuale avrebbe potuto avere sotto il profilo della [continua ..]


2. Il sofferto itinerario di progressivo affinamento del sistema normativo sulla dismissione delle partecipazioni pubbliche non strettamente necessarie: le tappe evolutive anteriori al TUSPP

In limine, proprio per il modo in cui il quadro normativo attualmente vigente si è andato componendo, risulta di particolare utilità ed anzi addirittura ineludibile una pur sintetica ricognizione dell’iter evolutivo, che sarà qui proposta con scansione in sei fasi: una scansione per vero frutto di una semplificazione, con l’intento di evitare una completa – e tuttavia arida – cronistoria e di concentrare invece l’attenzione su quelli che, ad avviso di chi scrive, appaiono gli snodi principali (anche, appunto, in chiave evolutiva) del sistema [[2]]. Fase 1. La norma da cui il tutto ha preso le mosse può pacificamente essere ravvisata nell’art. 3, legge 24 dicembre 2007, n. 244 («Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato»; “Legge Finanziaria 2008”) [[3]]. Al 27° comma, in particolare, veniva introdotto il limite generale, su cui si è andato successivamente ad innestare il meccanismo dell’obbligo di dismissione e della cessazione ex lege delle partecipazioni vietate, con una disposizione che recava l’esplicita professione del fine cui il divieto era ispirato («Al fine di tutelare la concorrenza e il mercato»), individuava le amministrazioni soggette a quel vincolo (tutte le amministrazioni di cui all’art. 1, 2° comma, d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165) ed enunciava il precetto (recante il divieto) attraverso il criterio, che tanto successo avrebbe avuto anche nell’evoluzione normativa successiva, della c.d. “stretta necessità” («non possono costituire società aventi per oggetto attività di produzione di beni e di servizi non strettamente necessarie per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali, né assumere o mantenere direttamente o indirettamente partecipazioni, anche di minoranza, in tali società»). Il sistema veniva in questo modo reso assai più rigido rispetto al passato, in ragione del carattere più stringente del presupposto della stretta necessità rispetto ai criteri classici, come quello della funzionalità, della congruità, della opportunità, della convenienza, ecc., cui è tradizionalmente ispirata l’azione della pubblica amministrazione [[4]], aprendo la via al progetto politico di una drastica riduzione della presenza pubblica. Un’eccezione [continua ..]


3. La disciplina sul riordino delle partecipazioni nel TUSPP

Fase 6. La sesta e ultima fase è quella che conduce all’attuale assetto normativo, come ci è stato consegnato con l’approvazione, ad opera del d.lgs. 19 agosto 2016, n. 175, del «Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica» (“TUSPP”). La disciplina dettata in proposito è quella contenuta negli artt. 4, 20 e 24. L’art. 4: (i) detta le condizioni generali di legittimità dell’acquisizione e del mantenimento delle partecipazioni; (ii) non riproduce l’esplicita enunciazione delle finalità di politica legislativa cui la norma è ispirata («Al fine di tutelare la concorrenza e il mercato», di cui alla disciplina previgente), ma perché il legislatore ha optato per una differente sistematica, tal che le finalità un tempo espresse nelle singole disposizioni sono oggi sostituite da una enunciazione di carattere generale contenuta nell’art. 1, 2° comma, e per la quale «Le disposizioni contenute nel presente decreto sono applicate avendo riguardo all’efficiente gestione delle partecipazioni pubbliche, alla tutela e promozione della concorrenza e del mercato, nonché alla razionalizzazione e riduzione della spesa pubblica»; (iii) risolve testualmente le questioni che la previgente disciplina aveva sollevato con riguardo alle partecipazioni “indirette” e alle holding; (iv) ribadisce il criterio della “stretta necessità” rispetto alle finalità istituzionali dell’ente quale condizione generale di legittimità per l’acquisto o la conservazione della partecipazione; (v) contiene una disciplina piuttosto articolata e parzialmente rivisitata dei profili “procedurali”, dalla individuazione degli organi dell’ente competenti a deliberare sulla partecipazione, ai controlli esterni cui la relativa deliberazione deve essere sottoposta. All’art. 24, rubricato “Revisione straordinaria delle partecipazioni”, è poi dettata una disciplina che, per i contenuti precettivi diretti, avrebbe ormai esaurito la sua portata, destinata a una “prima applicazione” per un tempo ridotto a partire dalla data di entrata in vigore del TUSPP, ma che, sia pure indirettamente, vive invece tuttora, per effetto del rinvio operato, ai commi dal 5° al 9°, dall’art. 20, 7° comma, ult. periodo, TUSPP, [continua ..]


4. La mancata dismissione e la conseguente “liquidazione” della partecipazione a cura della società partecipata

In particolare, al 5° comma dell’art. 20, applicabile, con i dovuti adattamenti, anche “a regime” in virtù del rinvio operato dall’art. 24, 7° comma, ult. periodo, è statuito che «In caso di mancata adozione dell’atto ricognitivo ovvero di mancata alienazione entro i termini previsti dal comma 4, il socio pubblico non può esercitare i diritti sociali nei confronti della società e, salvo in ogni caso il potere di alienare la partecipazione, la medesima è liquidata in denaro in base ai criteri stabiliti al­l’articolo 2437-ter, secondo comma, e seguendo il procedimento di cui all’articolo 2437-quater del codice civile». Al 6° comma è poi precisato che «Nei casi di cui al sesto e al settimo comma dell’art. 2437-quater del codice civile ovvero in caso di estinzione della partecipazione in una società unipersonale, la società è posta in liquidazione». Le partecipazioni da dismettere, così come risultanti dai piani di revisione straordinaria o, rispettivamente, dai piani di razionalizzazione periodica, sono quindi liquidate nelle mani dell’amministrazione, con un meccanismo che riprende quello delle norme previgenti, ma correttamente abbandonando il concetto di “cessazione” della partecipazione e l’incerto richiamo a una non meglio precisata competenza assembleare e rinviando esplicitamente agli artt. 2437-ter e 2437-quater c.c., in materia di recesso. La sentenza che si annota presenta un particolare interesse anche sotto questo profilo, in quanto, dovendo decidere di una questione sorta sotto il vigore della precedente disciplina, si è fatta carico non solo dell’interpretazione del vecchio disposto, ma ha anche preso in esame le questioni pregiudiziali, che la società aveva sollevato, in punto di possibile contrasto con la Costituzione e con l’ordinamento eurounitario, che ha ritenuto di poter respingere sul presupposto che le modalità di liquidazione previste dall’art. 2437-quater c.c. consentirebbero di ravvisare un punto di equilibrio (un “equo bilanciamento”) tra l’interesse generale e di rango pubblicistico alla dismissione di partecipazioni non strettamente necessarie ai fini istituzionali degli enti partecipanti e l’interesse della società, dei soci e dei creditori sociali, protetto attraverso un sistema [continua ..]


5. Liquidazione forzosa e “piani ordinari di razionalizzazione”: contro l’i­potesi della limitata applicazione ai soli “piani di revisione straordinaria”

Prima di procedere oltre, tuttavia, occorre dare conto della tesi secondo cui la “liquidazione forzosa” non si applicherebbe al caso di mancata cessione delle partecipazioni collocate nei piani ordinari di razionalizzazione periodica, ma sarebbe relegata al solo caso (ormai definitivamente esaurito nella sua portata meramente transitoria) dei piani di revisione straordinaria di cui all’art. 24 TUSPP [[13]]. La conclusione è basata sul rilievo dell’assenza di un termine entro il quale dovrebbe essere effettuata la cessione delle partecipazioni da dismettere: diversamente dal caso dell’art. 24, dove il termine è quello di un anno (così al 4° comma), per i piani di razionalizzazione ordinaria il legislatore stabilisce l’obbligo di procedere alla ricognizione delle partecipazioni da “razionalizzare”, ma poi non fissa anche il tempo entro il quale l’alienazione, ove tale sia l’esito della prospettata razionalizzazione, debba essere effettuata [[14]]. Sembra, tuttavia, ragionevole optare per una diversa lettura, rafforzata dalla necessità di un’interpretazione “conservativa” di un frammento di disciplina che risulterebbe altrimenti del tutto vuoto di contenuto precettivo. Segnatamente: ciò che potrebbe oggettivamente risultare insufficiente all’azionamento del meccanismo della liquidazione coattiva sarebbe la mancata adozione di un piano di razionalizzazione pur allorquando lo stesso dovesse reputarsi frutto di una mera inerzia o, per ipotesi, di una non corretta valutazione circa la presenza dei presupposti che avrebbero dovuto indurre a quel “riassetto”, attraverso la “razionalizzazione”, di cui si parla nei commi 1 e 2 dello stesso art. 20. Per contro, una volta adottato il piano, i relativi provvedimenti, ivi incluse le dismissioni, ove fossero tra gli strumenti contemplati nel piano stesso, dovrebbero essere adottati entro il 31 dicembre del­l’anno successivo, come si desume, sia pure indirettamente, dal comma 4, nel quale è espressamente prescritto che entro quella data le pubbliche amministrazioni «approvano una relazione sull’attuazione del piano, evidenziando i risultati conseguiti». Al 7° comma, infine, sono contenute due previsioni, divise nei due periodi in cui il comma si articola: la prima è quella della sanzione amministrativa pecuniaria, «salvo il [continua ..]


6. Le principali questioni affrontate nella sentenza annotata

Nel caso affrontato dalla Corte d’Appello di Venezia, le principali questioni dibattute e su cui era incentrata la contesa tra le parti afferiscono al se e al come la disciplina sulla obbligatoria dismissione delle partecipazioni, nella legislazione vigente in epoca anteriore al TUSPP, dovesse trovare applicazione ove la partecipazione da dismettere fosse in una società “holding” (questione che si intrecciava con la possibilità o meno di qualificare come “servizio di interesse generale” quello di gestione di una tratta autostradale e, in caso di risposta affermativa, con la possibilità o meno di ritenere che la medesima qualificazione potesse estendersi anche alla holding detentrice di una partecipazione di controllo nella società concessionaria); e al significato e all’efficacia da riconoscere a una deliberazione assembleare della società partecipata con la quale la maggioranza, composta da soci “privati”, aveva deliberato di opporsi alla richiesta di liquidazione avanzata dall’ente partecipante; con in mezzo (a fungere anche da guida per la soluzione delle diverse questioni applicative) il tema della natura giuridica del meccanismo che conduce alla liquidazione della partecipazione a cura della società partecipata. L’ente partecipante, che aveva adottato un provvedimento con cui aveva individuato la partecipazione tra quelle da dismettere per il venir meno delle condizioni di legge, aveva esperito infruttuosamente il tentativo di vendita mediante il ricorso a procedure ad evidenza pubblica ed aveva pertanto invocato il diritto alla liquidazione a cura della società, reputando che la partecipazione dovesse considerarsi “cessata” ope legis. La disciplina all’epoca vigente era, invero, quella di cui all’art. 3, 27° comma, legge n. 244/2007 e all’art. 1, 569° comma, legge n. 147/2013. La richiesta, corredata dalla sollecitazione a far conoscere il valore attribuito alla quota ai sensi dell’art. 2437-ter c.c., anche al fine di valutarne eventuali contestazioni, era stata respinta dalla società, anche – come si diceva – sulla scorta di una deliberazione in tal senso adottata dalla stessa assemblea degli azionisti, nonché sul rilievo che la società partecipata svolgesse un servizio di interesse generale (la gestione di una tratta autostradale), sia pure per il tramite di una [continua ..]


7. Holding e “SIG”: cenni

La prima questione che la sentenza affronta e che riveste particolare interesse in chiave sistematica è, dunque, quella relativa alla natura dell’attività esercitata da una società holding. Nella specie, la società partecipata era difatti una holding detentrice di partecipazioni in società operanti in diversi settori, con prevalenza di quello relativo alla gestione in concessione di una importante tratta autostradale. Non occorre certo rammentare come il tema sia ben noto in dottrina, dove – come si ribadirà più avanti – si segnala la tesi per la quale l’oggetto sociale della holding sarebbe lo stesso delle sue controllate, nel senso che la medesima attività sarebbe esercitata in via diretta da queste ultime e in via indiretta dalla holding, che si avvarrebbe delle controllate come una sorta di “braccio operativo”. Nel caso di specie, la questione si intrecciava con quella relativa alla possibilità o meno di estendere alla holding la stessa qualificazione della propria attività come “servizio di interesse generale” (SIG), allorquando detta qualificazione possa essere attribuita alle sue controllate operative. Al tema nella sua configurazione generale, pertanto, si affiancava questa ulteriore e più specifica connotazione di specialità, non essendo così scontato che l’accoglimento della concezione della holding come società ad oggetto sociale indiretto debba necessariamente comportare il riconoscimento in capo alla stessa holding degli estremi delle fattispecie normative che, in ambito pubblicistico, presuppongono la natura di SIG dell’attività esercitata da un determinato soggetto giuridico (e, dunque, l’imputabilità alla holding degli effetti giuridici, positivi e negativi, che dalla qualificazione di un’attività come SIG di volta in volta discendono). A tale proposito, la Corte d’Appello veneziana ha ritenuto di dover distinguere tra holding “statica” (o “pura”) e holding “dinamica” (o “operativa”). Solo rispetto alla prima, il cui oggetto sociale cioè si sostanzia, e si esaurisce, nella detenzione delle partecipazioni, sarebbe ancora sostenibile – per chi condivida la concezione sopra ricordata – che l’attività sia, se pure in termini indiretti e sostanziali, quella svolta dalle [continua ..]


8. La natura giuridica della liquidazione forzosa, tra “cessazione” della partecipazione, recesso sui generis e fattispecie speciale di scioglimento parziale del rapporto sociale

La Corte veneziana si è posta anche il tema della natura giuridica del meccanismo che conduce alla liquidazione della partecipazione “cessata”, nelle mani della PA cessante e a cura della società partecipata: una questione che – come anticipato – si poneva anche e soprattutto quale sfondo sistematico su cui inquadrare l’inter­rogativo della natura e della portata della deliberazione assembleare contemplata dalla normativa vigente all’epoca dei fatti ed oggi non più riprodotta nella disciplina del TUSPP. Come del pari anticipato, l’art. 20 TUSPP, in combinato disposto con l’art. 24, stabilisce oggi che le partecipazioni che, stando ai piani ordinari di razionalizzazione periodica, devono essere dismesse, una volta esperito infruttuosamente il tentativo di cessione a terzi, vengono liquidate a valori calcolati con i criteri di cui al­l’art. 2437-ter c.c. e attraverso le modalità di cui all’art. 2437-quater c.c. Risulta, in tal modo, definitivamente riprodotto il sistema per il quale l’ente pubblico socio matura un vero e proprio diritto alla liquidazione. Un diritto, dunque, di natura “potestativa”, che vede la società partecipata in un corrispondente stato di “soggezione”, e che sul piano sistematico presuppone (ponendovisi in rapporto di connessione genetica) una qualche forma di cessazione, se non della “partecipazione”, del rapporto sociale: cessazione che, a sua volta, potrebbe essere qualificata come frutto di un autentico recesso o (deve reputarsi) più correttamente come risoluzione parziale ex lege del rapporto sociale frutto di una fattispecie di diritto speciale [[28]], che certamente trae origine da una opzione lato sensu “volontaristica” del socio pubblico, ma che presenta peculiarità tali da non consentire una completa sovrapposizione all’istituto del recesso. In favore della qualificazione come recesso sia pure sui generis, invero, potrebbe – in linea astratta e teorica – essere spesa un’argomentazione sistematica indiretta che si volesse ricavare dal richiamo esplicito agli artt. 2437-ter e 2437-quater c.c., entrambi dedicati al recesso. Ma a ben vedere si tratterebbe di ragionamento labile. Intanto perché le norme richiamate sono solo quelle che regolano il profilo relativo alla valutazione della quota ai fini della sua liquidazione e alle [continua ..]


9. Alcune conseguenze applicative della prospettata ricostruzione sistematica

La diversa qualificazione della fattispecie come scioglimento (in senso lato) parziale del rapporto sociale di diritto speciale comporta alcune non indifferenti conseguenze applicative. In prima battuta, non sarebbero applicabili, neanche per estensione e tanto meno per analogia, i termini di decadenza previsti dalla legge per l’esercizio del diritto di recesso. Per di più si tratta di termini che la legge collega all’adozione delle deliberazioni che condurrebbero alla modificazione dei patti sociali legittimanti il recesso, ciò che nella specie, come detto, non ricorre. Né sarebbe possibile “adattare” il sistema, salvandone la valenza decadenziale attraverso una diversa collocazione del dies a quo ai fini del computo, non foss’altro perché si farebbe fatica ad individuare il diverso dies a quo, non potendo lo stesso ravvisarsi nella mera adozione del piano ordinario di razionalizzazione periodica, al quale consegue ancora l’obbligo di procedere con i tentativi di cessione ad evidenza pubblica e non già, ipso iure, il diritto alla liquidazione a cura della società partecipata. Né, del resto, sarebbe agevole collocare il termine iniziale nell’insuccesso dei tentativi di cessione sul mercato, se si considera che le stesse procedure ad evidenza pubblica possono presentare diverse configurazioni e, quindi, atteggiarsi in modo diverso anche sotto il profilo del tempo a partire dal quale possano dirsi definitivamente esaurite. Per vero, tali argomentazioni potrebbero ancora apparire non decisive e potrebbero forse risultare in qualche modo superabili. Il fatto che il dies a quo sarebbe qui più sfumato rispetto alle fattispecie di diritto comune – si potrebbe obiettare – non significa che vi sarebbe una assoluta impossibilità di individuare un termine: lo stesso esperimento delle procedure di evidenza pubblica potrebbe reputarsi definitivamente esaurito avendo riguardo a come la delibera sia stata formulata e/o a come i relativi “bandi” saranno stati concepiti. Inoltre – potrebbe astrattamente ancora aggiungersi – un termine di decadenza contribuirebbe a bilanciare posizioni ed interessi contrapposti, evitando che la società partecipata si trovi soggetta sine die al rischio della invocazione del diritto alla liquidazione e alla conseguente impossibilità di effettuare una sana programmazione delle risorse e [continua ..]


10. Il ruolo dell’assemblea nella liquidazione forzosa della partecipazione prima e dopo il TUSPP

Di estremo interesse è, infine, l’altra tra le principali questioni esaminate dalla Corte veneziana: quella relativa alla natura (oggetto e portata) della competenza che, come si è visto, la disciplina previgente attribuiva espressamente all’assemblea dei soci della società partecipata. È pur vero che il tema, per come trattato nella pronuncia, non si porrebbe più nel contesto normativo oggi vigente, come delineato nel TUSPP. Ma ciò non lo priva affatto d’interesse, per almeno due ordini di ragioni. Innanzitutto, perché il contenzioso generato dalle richieste di liquidazione presentate da pubbliche amministrazioni sotto il vigore della disciplina previgente parrebbe non essersi ancora completamente esaurito, sicché l’arricchimento del quadro giurisprudenziale attraverso la sentenza qui annotata fornisce un ulteriore contributo alla riflessione, anche dottrinaria, su una disciplina che presenta profili, sia pure residuali, di attualità (o, se si vuole, di “ultrattività” residua). Inoltre, perché l’interpretazione del sistema antecedente al TUSPP, attraverso l’argomentazione “storico/evolutiva” ed unitamente a spunti di ordine sistematico, fornisce elementi valutativi utili anche ai fini dell’interpretazione del sistema attualmente in vigore [[45]]. Ebbene, prendendo le mosse dalla previgente disciplina, si è già detto di come un ruolo dell’assemblea fosse stato delineato dalla normativa applicabile nel limitato arco temporale tra l’entrata in vigore del comma 569-bis della legge n. 147/2013, come introdotto con l’art. 7, comma 8°-bis, d.l. n. 78/2015 in sede di conversione del decreto legge e la sua successiva abrogazione da parte del TUSPP. Ci si chiedeva, peraltro, se lo stesso potesse valere anche per fattispecie di “cessazione” della partecipazione già perfezionatesi prima dell’entrata in vigore della novella, attesa la natura dichiaratamente “interpretativa” di quest’ultima. Ma la soluzione apparsa più corretta – ed accolta anche dalla pronuncia qui in commento – era nel senso che la norma, al di là di quanto “auto-proclamato”, avesse valenza sostanzialmente innovativa, così come innovativa sarebbe quindi risultata la sua rimozione dal sistema, a seguito dell’entrata in vigore [continua ..]


NOTE