Rivista di Diritto SocietarioISSN 1972-9243 / EISSN 2421-7166
G. Giappichelli Editore

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La tutela delle minoranze azionarie nelle società quotate: l'amministratore di minoranza. Un´analisi comparata (di Emanuele Stabile)


Il presente articolo si propone di studiare in ottica comparatistica la tutela delle minoranze azionarie negli emittenti. Per fare ciò, innanzitutto, ci si interrogherà sulla nozione di minoranza, sul suo ruolo nelle società quotate e sulle esigenze che hanno spinto il Legislatore, non solo italiano, a prevedere meccanismi di tutela in loro favore. Si esaminerà, in secondo luogo, la disciplina italiana con particolare attenzione al voto di lista e, soprattutto, all’amministratore di minoranza mettendone in luce vantaggi e svantaggi. Ci si interrogherà, in terzo luogo, sulle soluzioni adottate da altri ordinamenti – sia di civil law, sia di common law – per tutelate le minoranze azionarie. In particolare, si studieranno, da un lato, l’esperienza inglese e statunitense e, dall’altro, quella francese e tedesca. Per concludere, si esamineranno criticamente i risultati dell’analisi condotta fornendo alcuni innovativi spunti di riflessione.

Parole chiave: Corporate Governance – società quotate – tutela delle minoranze azionarie – voto di lista – amministratore di minoranza.

The protection of minority shareholders in listed companies: the minority director. A comparative analysis

This article aims to study the protection of minority shareholders in listed companies in a comparative perspective. To do this, first of all, we will reflect on the notion of minority, its role in listed companies and the needs that have prompted the Legislator, not only in Italy, to provide protection mechanisms in its favor. Secondly, the Italian discipline will be examined paying particular attention to the list voting and, above all, to the minority director, highlighting their advantages and disadvantages. Thirdly, we will analyze the solutions adopted by other legal systems – both of civil law and common law – to protect minority shareholders. In particular, we will study, on the one hand, the English and American experience and, on the other, the French and German experience. To conclude, we will critically examine the results of the analysis carried out by providing some innovative reflections.

Keywords: Corporate Governance – listed companies – protection of minority shareholders – list voting – minority director.

SOMMARIO:

1. Introduzione - 2. La tutela della minoranza: “controllo-verifica” e “controllo-potere” - 3. Il voto di lista - 4. L’amministratore di minoranza. Breve inquadramento - 5. L’esperienza straniera - 5.1. Il Regno Unito - 5.2. Gli Stati Uniti d’America - 5.3. La Francia - 5.4. La Germania - 6. Conclusioni - NOTE


1. Introduzione

La tutela delle minoranze azionarie è un tema assai rilevate, per non dire fondamentale, che ha attirato l’attenzione di numerosi studiosi. Innanzitutto, occorre premettere che non esiste una definizione univoca di minoranza, nemmeno a livello normativo. Infatti, né il Codice civile, né il d.lgs. n. 58/1998 (da ora anche il “Testo Unico della Finanza” o “t.u.f.”) definiscono tale concetto; in particolare, il t.u.f. si limita “ad indicare di volta in volta a chi, o meglio a quale percentuale di capitale sociale, riconoscere l’esercizio di alcuni diritti tradizionalmente qualificati di tutela delle minoranze” [[1]]. La tutela delle minoranze ha ispirato tanto il t.u.f. quanto la legge n. 262/2005 (c.d. legge sul risparmio) che, tra le altre cose, ha introdotto il voto di lista all’art. 147-ter t.u.f., poi modificato dal d.lgs. n. 303/2006, tramite cui si elegge l’ammi­nistratore di minoranza [[2]]. Diciamo subito che, come rilevato dalla dottrina, da un lato, la protezione delle minoranze azionarie è necessaria (e utile) perché “nelle società quotate, è tutelare il mercato” [[3]]. Essa, insomma, presenta indubbi vantaggi. Tuttavia, vi sono anche degli svantaggi. Così, la protezione degli azionisti di minoranza è stata più volte accusata [[4]] di disincentivare la raccolta di capitale e la crescita delle società italiane ostacolandone la quotazione in borsa. Dall’altro, gli strumenti messi a disposizione dal Legislatore, ossia l’amministratore di minoranza, possono poco o nulla di fronte a un “disegno criminale architettato con premeditazione” [[5]] ai danni della minoranza. Ebbene, nel presente commento si rifletterà criticamente sulla tutela della minoranza azionaria negli emittenti concentrandosi, in particolare, sull’amministratore di minoranza. Nel fare ciò si tenterà un inquadramento dell’istituto partendo dalla sua elezione, ossia dal voto di lista. Tale riflessione, inoltre, fornirà l’occasione per un’analisi comparatistica al fine di valutare come gli ordinamenti inglese, statunitense, francese e tedesco abbiano inteso tutelare le minoranze azionarie.


2. La tutela della minoranza: “controllo-verifica” e “controllo-potere”

La tutela della minoranza azionaria presuppone l’attribuzione a quest’ultima di un “controllo” sulla gestione della società. Come rilevato dalla dottrina, tale controllo si articola in: i) verifica del rispetto da parte della società (rectius, del gruppo di comando) della legge, dello statuto e, dunque, della corretta gestione imprenditoriale e societaria (c.d. controllo-verifica); ii) “esercizio mediato del potere d’impre­sa attraverso il voto” (c.d. controllo-potere) [[6]]. Quest’ultima fattispecie di controllo è scarsamente rilevante ai fini della presente analisi e sarà sufficiente ricordare che il socio minoritario esprimendo il proprio voto ben può contribuire ad indirizzare la gestione della società. In quanto socio, anche al fine di esprimere consapevolmente il proprio voto, egli ha altresì diritto ad essere informato sull’andamento della società e, quindi, può vigilare sulla medesima [[7]]. Più interessante, invece, si presenta il controllo-verifica che non deve limitarsi ad un mero giudizio ex post sull’operato del management, ma sostanziarsi in un dialogo (costruttivo) ex ante tra controllore e controllato. Tale verifica rappresenta una “funzione” [[8]] della minoranza e si estrinseca tanto in una supervisione generale sul management quanto in una verifica dettagliata sugli assetti organizzativi e amministrativo-gestionali. Tale forma di controllo si basa su informazioni ricevute dalla società e, nel caso di loro lacunosità, può articolarsi in un vero e proprio potere ispettivo [[9]]. Ebbene, l’amministratore di minoranza è uno strumento diretto di controllo-verifica giacché, come meglio si dirà in seguito, esso vigila sull’operato del management e concorre al perseguimento dell’interesse sociale rappresentando altresì le istanze della minoranza. Ciò detto, occorre analizzare la figura dell’amministratore di minoranza partendo dalla sua elezione.


3. Il voto di lista

L’Italia è sostanzialmente l’unico paese sviluppato in cui sia stato riservato ex lege alla minoranza l’elezione di almeno un componente del Consiglio di Amministrazione (da ora anche il “CdA”). L’art. 147-ter t.u.f. si limita a disciplinare alcuni aspetti fondamentali del voto di lista lasciando spazio (forse troppo esiguo) all’autonomia statutaria [[10]]. Ai sensi dell’art. 147-ter, 3° comma, t.u.f. “salvo quanto previsto dall’articolo 2409– septiesdecies del codice civile, almeno uno dei componenti del consiglio di amministrazione è espresso dalla lista di minoranza che abbia ottenuto il maggior numero di voti e non sia collegata in alcun modo, neppure indirettamente, con i soci che hanno presentato o votato la lista risultata prima per numero di voti”. Non è questa la sede per un’analisi dettagliata sul voto di lista, su cui peraltro si è già pronunciata la dottrina, ma appare utile svolgere alcune riflessioni funzionali all’oggetto del presente studio [[11]]. Innanzitutto, va premesso che la norma è inapplicabile alle società adottanti il sistema di amministrazione e controllo dualistico come si desume dall’inciso in apertura dell’art. 147-ter t.u.f. Per tali società, infatti, la rappresentanza delle minoranze è limitata al consiglio di sorveglianza, di cui la minoranza ha diritto di eleggere almeno un membro. Come rilevato dalla dottrina [[12]], si tratta di una “scelta che appare quanto meno discutibile” poiché non impone un amministratore espressione della minoranza in seno al consiglio di gestione così introducendo una differenziazione tra gli emittenti in base al sistema di amministrazione adottato. La peculiarità della disciplina appare evidente dalla lettura dell’art. 147 quater, 1° comma t.u.f. il quale prevede che laddove il consiglio di gestione sia composto da più di quattro membri, almeno uno di essi debba avere i requisiti di indipendenza stabiliti per i sindaci dall’articolo 148, 3° comma t.u.f. “nonché, se lo statuto lo prevede, gli ulteriori requisiti previsti da codici di comportamento redatti da società di gestione di mercati regolamentati o da associazioni di categoria”. Sembrerebbe, insomma, che il Legislatore, avvedutosi della “disparità” di [continua ..]


4. L’amministratore di minoranza. Breve inquadramento

Preliminarmente, va detto che l’amministratore di minoranza è un consigliere (non esecutivo) soggetto alla disciplina prevista per tutti gli altri amministratori che, al più, può qualificarsi indipendente [[15]]. Salve le prerogative spettanti a tale ultima categoria di amministratori o derivanti dalla partecipazione a comitati endoconsiliari, il Legislatore non ha inteso dotare l’amministratore di minoranza di poteri e doveri diversi (e più penetranti) rispetto agli altri membri del CdA. L’art. 2381, comma 6 c.c. stabilisce che tutti i consiglieri, inclusi quelli di minoranza, sono obbligati ad “agire in modo informato”. A tale dovere corrisponde un potere di ciascun amministratore di “chiedere agli organi delegati che in consiglio siano fornite informazioni relative alla gestione della società” [[16]]. Insomma, i consiglieri di minoranza hanno solo un potere/dovere di agire informati [[17]]. L’autonomia statutaria, tuttavia, può riservare agli amministratori, anche di minoranza, il (penetrante) potere di interrogare il personale aziendale e ispezionare i documenti sociali, che non rappresentano un intralcio all’azione amministrativa purché condotti nel rispetto dei canoni di buona fede e correttezza. Nondimeno, ai consiglieri può essere riservato il potere di chiedere, autonomamente o al presidente del CdA che dovrà decidere sulla loro proposta, la convocazione o il rinvio del­l’adunanza del CdA oppure l’integrazione dell’ordine del giorno [[18]]. Ad ogni modo, salvo che l’autonomia statutaria stabilisca diversamente, i consiglieri di minoranza non hanno particolari poteri di controllo; né possono incidere sulle decisioni del board, se non con il proprio voto. Ciò detto, al fine di meglio chiarire i contorni dell’istituto dell’amministratore di minoranza, occorre interrogarsi se tale figura sia invero sovrapponibile a quella degli indipendenti configurando un’inutile duplicazione  [[19]]. Una serie di elementi induce a concludere in senso negativo. In primo luogo, vi è un argomento letterale poiché l’art. 147-ter, 4° comma, t.u.f. nel prevedere che alcuni componenti del CdA abbiano i requisiti d’indipen­denza recita “in aggiunta a quanto disposto dal 3° comma”, che invece regola il voto di lista [continua ..]


5. L’esperienza straniera

Per un’analisi esaustiva del tema che ci occupa, è opportuno studiare le soluzioni adottate dagli ordinamenti stranieri sia di common law (Gran Bretagna e Stati Uniti d’America), sia di civil law (Francia e Germania) [[27]].


5.1. Il Regno Unito

Nessuna norma del Companies Act inglese del 2006, da allora più volte modificato, destina un numero minimo di amministratori alla minoranza. A dire il vero, le disposizioni sulla nomina dei membri del board sono abbastanza scarne sostanzialmente limitandosi a stabilire i requisiti di età dei consiglieri e a richiedere un voto individuale su ogni candidato (Part 10, Chapter 1). Il codice di autodisciplina delle società quotate (UK Corporate governance Code) pubblicato nel 2018, invece, detta alcune norme interessanti. Innanzitutto, si stabilisce che il board debba includere “un’appropriata” compresenza di amministratori esecutivi e non-esecutivi, o meglio indipendenti, per tentare di evitare che un individuo o gruppo di individui possa condizionare il board (Principle G) [[28]]. Il suddetto principio è rafforzato dalla previsione per cui almeno la metà del board, escluso il presidente, deve essere composto da consiglieri non esecutivi e in­dipendenti (Provision 11) [[29]]. Parimenti, il Codice di autodisciplina inglese stabilisce che la nomina dei consiglieri debba avvenire secondo una procedura formale, rigorosa e trasparente basata sul merito e su criteri oggettivi che promuova la diversità di genere, sociale ed etnica nonché le caratteristiche personali e le conoscenze (Principle J) [[30]]. La Provision 17 precisa che la maggioranza dei membri del comitato nomine chiamato ad esprimersi sulla designazione dei candidati alla carica di membro del board sia composta da amministratori non esecutivi e indipendenti. [[31]] Similmente, per quanto rileva ai nostri fini, il comitato audit (Provision 24) e quello remunerazioni (Provision 32) devono essere composti esclusivamente da amministratori indipendenti non esecutivi [[32]]. A proposito di tutela della minoranza, infine, nel 2014 la Financial Conduct Authority inglese ha emanato delle “final rules” in cui si prevede un diritto di voto addizionale alle minoranze azionarie delle società quotate nell’elezione degli amministratori indipendenti in cui sia presente un gruppo di comando. In particolare, si prevede che la nomina degli indipendenti debba essere approvata sia dagli altri indipendenti già facenti parte del board, sia dagli azionisti. La minoranza, tuttavia, dovrà approvare la nomina di un consigliere come indipendente solo per la “prima” nomina [continua ..]


5.2. Gli Stati Uniti d’America

Negli Stati Uniti la rappresentanza delle minoranze è rimessa a diversi istituti. La legislazione di diversi stati americani ammette, e in alcuni casi impone, che gli statuti societari prevedano il c.d. cumulative voting per l’elezione dei membri del board [[34]]. Tale sistema elettorale consente agli azionisti di esprimere in assemblea un numero di voti pari alle azioni da loro detenute moltiplicato per il numero di amministratori da eleggere. Esso, quindi, permette una maggiore rappresentanza delle minoranze, poiché incrementa materialmente il numero dei loro voti che possono essere indirizzati su uno o più candidati così aiutandole ad eleggere almeno un amministratore, che sarebbe altrimenti impossibile con un sistema elettorale classico, come il c.d. plurality voting. In tale ultimo sistema elettorale il voto dei soci non è ponderato per il numero di amministratori da eleggere, ma è proporzionale unicamente al numero di azioni possedute. I voti, inoltre, devono essere ripartiti tra tutti gli amministratori da eleggere così diluendo il voto della minoranza. Il socio di maggioranza, dunque, ha un numero di voti sufficienti a eleggere tutti i membri del board. Il cumulative voting, tuttavia, è poco diffuso tra le public companies quotate che non gradiscono ingerenze nel processo di nomina del board [[35]]. Esso, inoltre, è scarsamente efficace laddove si debba eleggere un solo amministratore poiché i voti della minoranza, ma anche della maggioranza, sono tutti indirizzati su un unico candidato così riducendo l’effetto moltiplicativo del cumulative voting. Per di più, la prassi ha dimostrato che laddove l’azionista di comando ripartisca erroneamente i voti a sua disposizione tra i vari candidati alla carica di amministratore, il cumulative voting può addirittura consentire alla minoranza di ottenere il controllo del board [[36]]. Anche nelle società dove fosse adottato tale sistema elettorale, inoltre, le minoranze, qualora rappresentate da investitori istituzionali, hanno inciso poco sull’elezione del management a causa della polverizzazione dell’azionariato e del loro scarso attivismo. Tale meccanismo elettorale si è rivelato scarsamente efficace pure in virtù della NYSE Rule 452 che, in assenza d’indicazioni degli azionisti, consentiva agli intermediari finanziari delegati al voto di [continua ..]


5.3. La Francia

Il diritto positivo francese non conosce il voto di lista, né riserva in alcun modo alla minoranza, o ad altri gruppi d’interesse, l’elezione di alcuni componenti del board [[41]]. Analogamente, il Codice di corporate governance del 2020 non detta norme a tutela della minoranza, e di altri gruppi d’interesse, in tema di elezione degli amministratori, neppure indipendenti. Solo l’art. 2.3 del suddetto Codice contiene una timida eccezione. Esso stabilisce che siccome il board agisce nell’(unitario) interesse della società, dovrebbe essere evitata la rappresentanza di molteplici istanze, tra cui pare logico includere quelle della minoranza, al suo interno “salvo che nei casi previsti dallo statuto” [[42]]. Insomma, l’ordinamento francese lascia ampio spazio all’autonomia statutaria che ben potrebbe tutelare la minoranza. Per completezza, va precisato che laddove la società adottasse il modello di amministrazione e controllo tedesco, ciò significherebbe riconoscere ai lavoratori la nomina di alcuni consiglieri di sorveglianza [[43]]. L’autonomia statutaria, tuttavia, non necessariamente garantisce (rectius, impone) il coinvolgimento della minoranza nella nomina degli amministratori che potrebbero essere espressione solo del gruppo di comando. Si noti, inoltre, che l’art. 2.4 del Codice di corporate governance francese del 2020 prevede una “specifica” responsabilità diretta del socio di maggioranza, distinta e ulteriore rispetto a quella del Board, verso il socio di minoranza. Il gruppo di comando deve adottare particolare cautela “per tenere conto di tutti gli interessi” [[44]] in gioco, compresi quelli della minoranza. Ebbene, sembrerebbe che l’impostazione del Codice sia piuttosto quella di responsabilizzare la maggioranza, a prescindere che lo statuto riservi alla minoranza la nomina di alcuni consiglieri. Ciò, tuttavia, non assicura alcuna tutela alla minoranza giacché, come ha dimostrato la prassi in materia di azioni di responsabilità, la minaccia risarcitoria può rivelarsi scarsamente efficace verso soggetti dotati di adeguate risorse finanziarie. La necessità di intentare un’azione giudiziaria, sopportandone almeno inizialmente i costi, inoltre, può costituire un ulteriore ostacolo (se non un deterrente) alla tutela degli interessi della minoranza.


5.4. La Germania

L’esperienza tedesca è peculiare poiché si caratterizza per il sistema della cogestione che vede il coinvolgimento dei lavoratori nella gestione della società [[45]]. Il par. 101 (1) Aktiengesetz (AktG), la legge tedesca sulle società per azioni, stabilisce che i membri del consiglio di sorveglianza sono eletti dall’assemblea societaria salvo che non siano direttamente nominati componenti del suddetto consiglio, come si dirà in seguito, o eletti quali rappresentati dei lavoratori ai sensi della legge sulla partecipazione di quest’ultimi del 4 maggio 1976, c.d. Mitbestimmung (MitbestiG) [[46]]. Il par. 101 (2) AktG precisa che solo lo statuto può prevedere il diritto per alcuni azionisti (senza ulteriormente specificare e, dunque, anche la minoranza), di nominare membri del consiglio di sorveglianza. I soci possono procedere alla nomina solo se le azioni sono nominative e un eventuale loro trasferimento deve essere approvato dalla società. I diritti di nomina spettano, complessivamente, per massimo un terzo dei membri dell’organo di sorveglianza [[47]]. Ai sensi del combinato disposto dei par. 126 (1) e 127 (1) AktG gli azionisti non devono specificare le ragioni della nomina dei membri del consiglio che, tuttavia, deve essere resa nota almeno 14 giorni prima dell’assemblea per l’elezione dell’organo di sorveglianza nelle forme e nei modi di cui al par. 126 (1) AktG [[48]]. Il par 127 (1) AktG, inoltre, prevede che ogni azionista abbia il diritto di proporre candidati per il consiglio di sorveglianza [[49]]. Per completezza, è appena il caso di rilevare che il par. 7 (1) MitbestiG riserva ai lavoratori della società l’elezione di alcuni membri del consiglio di sorveglianza. La norma stabilisce il numero di componenti del consiglio che spettano ai lavoratori, distinguendo ulteriormente tra soggetti che devono essere nominati da quest’ul­timi e dai sindacati, in funzione del numero di occupati. In ogni caso, i lavoratori non possono designare più della metà dei componenti del consiglio di sorveglianza. Riguardo ai membri del consiglio di gestione, il vero board della società, invece, il par. 84 AktG non riserva alla minoranza azionaria alcun diritto di eleggere propri rappresentanti. Il Codice di corporate governance tedesco del 2019, in fase di revisione al momento in cui si scrive, [continua ..]


6. Conclusioni

Da diversi anni il Legislatore italiano ha indirizzato i propri sforzi verso la tutela delle minoranze azionarie rafforzandone i diritti di voice [[50]]. Ciò è evidente nel t.u.f., dove si coglie il passaggio da una tutela rimessa alla normativa primaria a un sistema di garanzie regolato dalla normativa secondaria della Consob e dall’autonomia statutaria, similmente a quanto accade in altri ordinamenti. L’unica eccezione a tale transizione è il voto di lista che è sostanzialmente regolato dall’art. 147-ter t.u.f. e rappresenta la sintesi di due esigenze. Da un lato, una tutela troppo lieve delle minoranze avrebbe potuto scoraggiare l’afflusso di capitali verso gli emittenti da parte degli investitori preoccupati dalla “perdurante inaffidabilità della nostra disciplina giuridica” [[51]]. Dall’altro, un’energica tutela avrebbe incentivato l’avvicendamento dei managers e, di conseguenza, l’instabilità della società, il contenzioso e possibili abusi di minoranza. Il voto di lista, almeno nella configurazione datagli dal Legislatore italiano, rappresenta un’eccezione a livello mondiale [[52]]. Nessun altro ordinamento impone normativamente un amministratore di minoranza nel board degli emittenti. Beninteso, la tutela delle minoranze è fondamentale e l’istituto in commento ha sicuramente dimostrato di avere dei pregi. L’esperienza, anche recente, tuttavia, ne ha messo in luce pure alcune criticità. Nulla vieta, infatti, che l’amministratore di minoranza si schieri eccessivamente a tutela degli interessi del gruppo di azionisti che lo ha eletto così perdendo di vista l’interesse sociale e sconfinando nell’abuso della minoranza prevaricatrice, laddove il suo voto possa essere determinante  [[53]]. Similmente, non si può escludere che il gruppo di comando stringa dei legami con l’amministratore di minoranza che perderebbe ogni funzione di tutela [[54]]. S’impone, quindi, un’approfondita riflessione che parta dalla ratio del voto di lista e dell’amministratore di minoranza. Bisognerebbe chiedersi, ad esempio, se il voto di lista, che abbiamo visto può addirittura consegnare la maggioranza del board alla minoranza, non rischi di disincentivare l’impegno del gruppo di comando. E, ancora, perché l’amministratore di [continua ..]


NOTE