Rivista di Diritto SocietarioISSN 1972-9243 / EISSN 2421-7166
G. Giappichelli Editore

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Sull'abuso della maggioranza che vota contro la distribuzione del dividendo (di Diego del Corral)


Il contributo esamina la pronuncia della Sezione Quindicesima specializzata in materia di impresa “B” del Tribunale di Milano che ha statuito l’annul­lamento della deliberazione con la quale l’assemblea di una società per azioni ha stabilito di non distribuire utili, pur versando la società in una situazione di floridità patrimoniale e finanziaria, anche tenuto conto che l’assemblea aveva deliberato, nei cinque esercizi precedenti, di non pagare i dividendi.

 

On the abuse of a majority that votes against the dividend payment

The paper examines the ruling of Fifteenth Section “B” of the Court of Milan, which stated that a resolution by which the annual shareholders’ meeting of a joint-stock company decided not to distribute dividends, despite the fact that the company was in a healthy financial situation, was voidable, even considering the fact that the annual shareholders’ meeting had resolved not to pay dividends in the previous five years.

Keywords: Companies – Dividend – Annual general meeting resolution refusing to pay the dividend – Misuse of the power of a majority – Oppressive resolution – Invalidity.

MASSIMA: È annullabile la deliberazione dell’assemblea ordinaria che nega la distribuzione dei dividendi, quando si dimostri – anche per presunzioni – che essa è viziata da un abuso della regola di maggioranza. L’abuso sussiste se la decisione: a non trova alcuna giustificazione nell’interesse della società; b è il risultato di una intenzionale attività dei soci di maggioranza diretta a provocare la lesione dei diritti di partecipazione e degli altri diritti patrimoniali spettanti ai soci di minoranza uti singuli. massima non ufficiale.  PROVVEDIMENTO: RAGIONI IN FATTO E IN DIRITTO DELLA DECISIONE Con atto di citazione notificato in data 23 luglio 2018, l’attore omissis di seguito: D.L., in qualità di socio al 9,5% del capitale sociale, ha convenuto in giudizio omissis s.p.a. di seguito: Soc.Fid. per dichiarare, accertata l’illegittimità della deliberazione sulla destinazione degli utili portati a nuovo e non distribuiti per il quinto anno consecutivo e la violazione delle norme di legge previste in ordine alla redazione del bilancio, l’invalidità della delibera di approvazione del bilancio di esercizio 2017 assunta dall’assemblea dei soci di Soc.Fid. in data 24 aprile 2018. In particolare in citazione l’attore ha dedotto: a. l’invalidità della delibera 24 aprile 2018 giacché viziata da eccesso di potere nella parte in cui non motiva la decisione di non distribuire gli utili considerando che si tratta di utili conseguiti per il quinto anno consecutivo, dal 2013 non più distribuiti in una situazione economico – patrimoniale di assoluta floridità della società; b. l’invalidità della delibera 24 aprile 2018 di approvazione del bilancio 2017 perché predisposto in dispregio dei principi di verità, chiarezza e precisione come prescritto dall’art. 2423 c.c. quanto: 1. nella nota integrativa all’omesso dettaglio analitico dei costi per servizi diversi da quelli sostenuti per compensi degli organi sociali, appostati per € 756.725 totale della voce costo per servizi del conto economico di € 1.491.472; 2. alla non congruità dei compensi riconosciuti in misura eccessiva agli amministratori nell’anno 2017; 3 nella nota integrativa alla violazione dell’art. 2427, n. 22-bis, c.c. per la mancata indicazione delle operazioni con parti correlate, operazioni sicuramente concluse dalla Società e rilevate anche dal Collegio sindacale nella sua relazione sul bilancio. La società convenuta si è costituita in giudizio tempestivamente in data 21 dicembre 2018 per la prima udienza del 15 gennaio 2019, ha contestato in fatto e in diritto le avversarie deduzioni e concluso per il rigetto delle domande rilevando: – la pretestuosità dell’azione dell’attore che si inserisce nel [continua..]
SOMMARIO:

1. Dal diritto al dividendo deliberato… - 2. …al diritto alla deliberazione del dividendo - 3. L’annullamento della deliberazione che nega la distribuzione del dividendo - 3.2. Il sindacato giudiziale sul comportamento abusivo della maggioranza. Sullo sfondo, un tentativo di sintesi degli interessi coinvolti - 3.3. L’insoddisfazione verso un rimedio meramente demolitorio - 4. Nuovi spunti per un tema antico? - NOTE


1. Dal diritto al dividendo deliberato…

Prioritariamente all’esame della sentenza in commento, si deve chiarire di quale situazione giuridica sia titolare il socio con riguardo al dividendo. È oggi pacifico che non possano essere accettate le prospettazioni, ormai risalenti, di chi intravide negli artt. 2247, 2350 e 2433 c.c. la fonte dell’obbligazione della società alla corresponsione annuale del dividendo al socio e teorizzò in modo compiuto l’esistenza di una “regola del riparto periodico” nel vigore dell’attuale codice civile [[1]]. Al contrario, è ormai pienamente condivisa la diversa tesi del diritto del socio al dividendo deliberato, cioè quella per cui il credito del socio di regola pecuniario sorge solo per effetto di una valida e regolarmente formata deliberazione dell’orga­no competente (assemblea, nel caso dell’art. 2433 c.c., e organo amministrativo, in quello degli acconti sui dividendi, a norma dell’art. 2433-bis c.c.). Si tratta di una conclusione incontestabile, che poggia sulla duplice considerazione che: in primo luogo, quello al dividendo non è un diritto soggettivo perfetto, perché scaturente soltanto dalla conclusione positiva del processo di formazione del bilancio e di approvazione della deliberazione di destinazione del risultato dell’esercizio, e non già da un riconoscimento legale [[2]], così che, pretendendo di dedurre dagli artt. 2247 e 2350 c.c. l’esistenza di un diritto soggettivo dell’azionista alla distribuzione annuale degli utili sotto forma di dividendi, inevitabilmente si compirebbe un salto logico contrario al dato testuale dell’art. 2433, 1° comma, c.c., disposizione dalla quale si desume che il socio non vanta alcun diritto, neppure condizionato [[3]], a ricevere il dividendo, prima che la deliberazione assembleare di approvazione del bilancio ne decida la distribuzione; in secondo luogo, a conclusioni diverse non si potrebbe pervenire, neppure argomentando ex art. 2350, 1° comma, c.c., poiché codesta disposizione “riconosce al socio una parte proporzionale degli utili della società, non anche il diritto di percepire periodicamente questi utili sotto forma di dividendi di fine esercizio, essendo questa eventualità subordinata dall’art. 2433 c.c. alla delibera dell’assemblea che approva il bilancio di esercizio” [[4]]. In altri termini, [continua ..]


2. …al diritto alla deliberazione del dividendo

Come si è fin qui spiegato, affinché la mera aspettativa del socio si tramuti in un diritto soggettivo che questi possa pienamente e legittimamente esercitare nei confronti della società, è necessario il fatto costitutivo della deliberazione assembleare ai sensi dell’art. 2433, 1° comma, c.c.; tuttavia, riconoscere al socio il diritto al dividendo deliberato non può significare riconoscergli anche il diritto alla deliberazione del dividendo. Rimane da appurare se il socio (di minoranza) abbia il potere di sottoporre alla revisione giudiziale, per ottenerne l’annullamento, la deliberazione di riporto degli utili a nuovo, che ritenga (e provi) essere stata assunta per effetto di un comportamento emulativo, secondo i principi generali. Fermo quanto si dirà sui profili dinamici dell’annullamento di deliberazione negativa della specie di quella impugnata dinanzi al Tribunale di Milano (infra, par. 3.2.), non sembra si possa seriamente confutare che il socio, in quanto titolare della mera aspettativa di (ottenere una deliberazione che lo autorizzi a) percepire il dividendo, disponga soltanto del proprio voto per “convincere” l’assemblea che è opportuno pagare il dividendo alla chiusura dell’esercizio, e non abbia altro mezzo che questo per ottenere che l’assemblea condivida alla sua proposta di distribuzione e l’approvi: ne discende che, se assunte nel rispetto della regola di maggioranza e al di fuori dell’ipotesi di esercizio abusivo del voto, le scelte assembleari di politica dei dividendi non possono essere censurate.


3. L’annullamento della deliberazione che nega la distribuzione del dividendo

3.1. Il caso Con la sentenza in commento, il Tribunale di Milano ha annullato la deliberazione assembleare della società convenuta – si trattava di una società fiduciaria iscritta nell’elenco istituito ai sensi dell’art. 106 TUB – per non avere essa stabilito la distribuzione degli utili dell’esercizio 2017 per Euro 81.232,00, in ragione della “scelta di prudente politica societaria volta a garantirle la disponibilità liquida per far fronte alla sua ordinaria attività sociale di finanziaria esercente attività fiduciaria iscritta all’albo ex art. 106 TUB e per poter anticipare ogni anno gli acconti fiscali dovuti dai clienti in relazione ai redditi di natura finanziaria provenienti dal risparmio amministrato”. Il giudice milanese ha reputato abusiva la deliberazione in esame, perché: (i) “la società aveva una disponibilità liquida di € 5.123.038,00 a fine esercizio 2017 con un incremento di circa un milione dall’esercizio precedente” e quindi era “ben patrimonializzata”, sicché “il modesto incremento di € 81.000,00 non modifica nella sostanza”, rinforzandolo, il patrimonio netto della società, da ciò traendo il Tribunale che la deliberazione “risulta priva di una giustificazione causale nell’ottica del perseguimento degli interessi sociali”; e (ii) l’assunzione della deliberazione, in sé priva di senso per i motivi sub (i), non si spiega se non “per fini extrasociali e vessatori” perseguiti dalla maggioranza a danno dell’attore, essendo venuto meno il legame affettivo di quest’ultimo con la ex moglie, socia di maggioranza e amministratrice della società convenuta.


3.2. Il sindacato giudiziale sul comportamento abusivo della maggioranza. Sullo sfondo, un tentativo di sintesi degli interessi coinvolti

È ormai pacifico che il socio di minoranza possa impugnare la deliberazione assembleare di negazione del dividendo che sia viziata per “abuso della maggioranza” [[6]]. L’abuso della regola di maggioranza e la sua repressione trovano fondamento, secondo l’interpretazione preferibile, non tanto nella regola dell’art. 2373 c.c. (impugnabilità della deliberazione assunta con il voto determinante di colui che abbia un interesse in conflitto con quello della società), posto che i comportamenti abusivi del socio di maggioranza a danno di quello di minoranza non sempre si risolvono anche nella lesione dell’interesse della società [[7]]; quanto piuttosto nell’appli­cazione ragionevole ai rapporti endosocietari della regola di esecuzione del contratto secondo buona fede oggettiva e correttezza ex art. 1375 c.c. [[8]]. Da tale angolo visuale, il principio di correttezza endosocietaria governa il conflitto tra due interessi individuali (ma pur sempre riferibili al contratto sociale) [[9]] e si configura come “limite immanente all’esercizio del voto, preordinato ad arginare i rischi di utilizzo abusivo del potere corporativo della maggioranza in danno della società o delle minoranze azionarie” [[10]]. Aderendo alla ricostruzione dell’istituto operata dalla dottrina prevalente, una nota sentenza della Suprema Corte ha chiarito che, affinché si possa denunciare un abuso della regola di maggioranza, è però necessario “che il potere di voto determinante del socio di maggioranza sia stato esercitato fraudolentemente allo scopo di ledere interessi degli altri soci, ovvero risulti in concreto preordinato ad avvantaggiare ingiustificatamente i soci di maggioranza in danno di quelli di minoranza, in violazione del canone generale di buona fede nell’esecuzione del contratto”; cionondimeno, “è comunque necessaria la dimostrazione di un esercizio “fraudolento” ovvero “ingiustificato” del potere di voto, l’abuso non potendo consistere nella mera valutazione discrezionale del socio dei propri interessi, ma dovendo concretarsi nella intenzionalità specificatamente dannosa del voto, ovvero nella compressione degli altrui diritti in assenza di apprezzabile interesse del votante”. In sintesi, “l’abuso di potere è causa di annullamento delle [continua ..]


3.3. L’insoddisfazione verso un rimedio meramente demolitorio

Nel caso di specie, il Tribunale ha ritenuto che ricorresse un abuso: e ha annullato la deliberazione di mandare a nuovo un utile di poche migliaia di Euro. Annullata la deliberazione ritenuta assunta per effetto del comportamento abusivo della maggioranza, rimane insoluto il problema dell’individuazione dello strumento a mezzo del quale il socio vittorioso può ottenere una deliberazione assembleare conforme a sentenza. Il tema non è di poco momento, perché l’assemblea rimane sovrana, a mente dell’art. 2433 c.c., di deliberare la distribuzione o il riporto a nuovo degli utili (supra, par. 2). Perciò, il socio che ha ottenuto l’annullamento della deliberazione “abusiva” si ritrova esattamente nella posizione nella quale si trovava prima che detta deliberazione fosse assunta: deve, cioè, procurarsi una nuova deliberazione, questa volta positiva, per ottenere un titolo. Il problema può dirsi comune a tutti i casi di annullamento di deliberazioni aventi contenuto negativo, posto che la sentenza costitutiva di annullamento ne elimina gli effetti, ma non si sostituisce, surrogandola, all’espressione della volontà assembleare [[23]]. A tale conclusione si perviene agevolmente, ragionando sulla natura della deliberazione negativa che, benché impedisca la formazione del titolo, costituisce pur sempre un’esteriorizzazione di un procedimento decisionale che si conclude con una regolare manifestazione della volontà assembleare [[24]]. Da tale angolo visuale, certamente può sussistere, ai sensi dell’art. 100 c.p.c., l’interesse all’impu­gnazione di colui che agisce in giudizio, allorquando l’annullamento permetta la rimozione degli effetti lesivi della deliberazione illegittimamente assunta [[25]]. Tuttavia, il risultato sperato dall’attore si esaurisce in tale rimozione [[26]], non essendo normativamente sostenibile l’eventualità che il giudice pronunci direttamente: (i) l’accerta­mento del diritto al dividendo del socio, che ne è sfornito per le ragioni a suo tempo esaminate; o (ii) la condanna della società al pagamento del dividendo, posto che il ruolo del giudice non è quello di sostituirsi all’assemblea nella formazione del titolo costitutivo. La natura costitutivo-demolitoria della sentenza di annullamento parrebbe altresì [continua ..]


4. Nuovi spunti per un tema antico?

Sulla posizione degli amministratori rispetto alle scelte di dividend policy, sarà consentita una postilla. Chi presidia l’interesse sociale (se non all’autofinanziamento, quantomeno) a proteggersi dall’insolvenza? Dalla lettura coordinata degli artt. 2086, 2° comma, 2380-bis, 1° comma, e 2392 c.c., la risposta sembra essere che senz’altro la materia sia di competenza degli amministratori. Come dimostrato in dottrina, alle regole sulle distribuzioni – il cui rispetto è condizione di validità delle correlative deliberazioni assembleari – si affiancano – queste sì costituendo perimetro dell’agere licere degli amministratori – le regole fondate sui ratios patrimoniali e sul solvency test [[30]]. Dalla convivenza di queste due regole, da questo “doppio vaglio” al quale sottoporre le scelte dei soci in ordine alle distribuzioni, discende pianamente che gli amministratori devono rifiutarsi di eseguire quelle deliberazioni assembleari che, pur formalmente legittime, in quanto rispettose del vincolo capitalistico-patrimoniale, se attuate possono mettere a repentaglio l’equilibrio finanziario della società [[31]]. Ciò premesso, è quasi banale affermare che non vale il contrario: giammai gli amministratori sono tenuti a non eseguire una deliberazione assembleare di riporto degli utili a nuovo. Peraltro, varrebbe la pena interrogarsi anche sugli eventuali profili di responsabilità a carico degli amministratori, ai quali è demandata la formulazione, nella nota integrativa, della proposta di destinazione degli utili o di copertura delle perdite (art. 2427, 1° comma, n. 22-septies, c.c.). Questo è un tema inesplorato: quid se l’assem­blea si discosta – in tutto, rigettandola, o in parte, emendandola – da tale indicazione, ovvero se gli amministratori la omettono, ovvero ancora se la strutturano in guisa da suggerire una distribuzione incompatibile con la situazione finanziaria della società? L’ampiezza del tema suggerisce di trattarlo in altra e più appropriata sede.


NOTE