Rivista di Diritto SocietarioISSN 1972-9243 / EISSN 2421-7166
G. Giappichelli Editore

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Il consenso 'determinante' della minoranza nelle società di capitali tra clausole di salvaguardia e abuso di potere (di Mercedes Guarini)


The present essay examines safeguard clauses in companies. In particular, the strict tendency excluding the use of unanimous clauses in companies limited by shares is challenged. The substantial innovations introduced in the discipline of companies limited by shares has resulted in the reduction of the majority principle. This has been stretched to the point that clauses giving a power of veto to some shareholders also on single resolutions of the extraordinary general meeting are considered admissible, through the increasing of quorum. Thus, the unanimous rule becomes compatible with the “closed” companies limited by shares. The validity of the before mentioned clauses leads to wonder about the procedures for obtaining unanimous consensus, and to consider the minority abuse as the remedy for possible paralysis of the company induced from safeguard clauses.

SOMMARIO:

1. La funzione delle clausole di salvaguardia: la tesi contraria alla loro ammissibilità - 2. L’orientamento favorevole all’ammissibilità delle clausole nelle società a responsabilità limitata - 3. Una recente “apertura” per le s.p.a. “chiuse”: ruolo del principio maggioritario - 3.1. (segue) autonomia statutarie e derogabilità dei quorum - 4. La debolezza dell’argomento fondato sul presunto interesse della società alla propria “conservazione” - 5. La neutralità delle ipotesi di unanimità legali ai fini della presente indagine - 6. Configurazione statutaria delle clausole di salvaguardia e modalità di assunzione del “consenso” unanime - 7. La fattispecie dell’“ostruzionismo” abusivo quale rimedio alla “paralisi” societaria - 7.1. (segue) e il dibattito su ipotesi di reazione con strumenti di tutela “reale”: cenni - NOTE


1. La funzione delle clausole di salvaguardia: la tesi contraria alla loro ammissibilità

Le clausole di salvaguardia introducono, a tutela del socio di minoranza, quorum deliberativi così elevati da essere in grado di paralizzare, in assenza del consenso di tale socio, la decisione su questioni di particolare rilevanza per la vita della società, che però non sempre sono di per sé tali da determinare lo scioglimento della stessa. Le finalità sottese alla previsione di quorum particolarmente elevati o alla regola unanime (tutela dei diritti delle minoranze) [[1]]potrebbero perseguirsi anche attraverso una maggiorazione dei quorum costitutivi [[2]]. Solitamente tali maggioranze rafforzate vengono inserite, soprattutto nelle società “chiuse”, proprio al fine di attribuire un potere di veto ad alcuni o a tutti i soci di minoranza in relazione a decisioni particolarmente rilevanti per la struttura finanziaria o organizzativa ed inerenti materie che investono scelte gestionali di particolare importanza, o comunque effetti estintivi della stessa società o modificativi della struttura azionaria. Si pensi ad esempio alle delibere concernenti: il cambiamento dell’oggetto sociale; lo scioglimento anticipato; il trasferimento della sede sociale; la proroga del termine di durata (c.d. delibere “superstraordinarie”) per le quali, in aggiunta ad altre ipotesi, l’art. 2369, 5° comma, richiede (anche per la seconda convocazione) quale quorum minimo, il voto favorevole di più di un terzo del capitale sociale ovvero alla variazione del capitale. Talora, il “rafforzamento” dei quorum potrebbe anche determinare l’ostruzio­nismo di una minoranza di blocco in caso di decisioni essenziali per la sopravvivenza della società: esempio paradigmatico è la ricapitalizzazione della società in seguito alla riduzione del capitale al disotto del minimo legale. Tali clausole sono state oggetto di vivo interesse da parte della dottrina e giurisprudenza, essendone in particolare contestata la loro legittimità in quanto tendenzialmente derogatorie del principio di maggioranza. L’orientamento prevalente ha ritenuto che le deroghe statutarie al quorum deliberativo dovessero comunque rispettare il principio maggioritario, non essendo consentite clausole che richiedessero l’unanimità dei consensi o che rendessero praticamente [continua ..]


2. L’orientamento favorevole all’ammissibilità delle clausole nelle società a responsabilità limitata

Il percorso teso a dimostrare la validità delle clausole di salvaguardia nelle s.p.a. chiuse deve muovere dalla disamina del problema nelle società a responsabilità limitata. Ed invero, l’iniziale posizione di chiusura della giurisprudenza sull’inam­missibilità delle clausole unanimi nelle s.r.l. già prima della riforma era stata superata dalla dottrina prevalente sulla base di un’argomentazione fondata essenzialmente sulla “diversità” tipologica di tale società rispetto alla s.p.a. Impostazione, questa, che tornerà utile per avvalorare la legittimità delle clausole unanimi nelle s.p.a. chiuse. Ancora una volta, pur partendo dal dato letterale dell’art. 2486 c.c. (nella sua precedente formulazione) che – nel far salva la diversa disposizione dell’atto costitutivo senza alcun riferimento alla “maggioranza” – veniva individuato quale sicuro indice dal quale ricavare la derogabilità del principio maggioritario, l’am­mis­sibilità di clausole unanimi o l’unanimità di fatto trovava sostanzialmente il suo fondamento sulla valorizzazione del profilo “personalistico” della s.r.l. [[24]]. La profonda “diversità” della società a responsabilità limitata rispetto alla s. p. a. giustificava, secondo tale dottrina (in assenza di un espresso richiamo alla disciplina della s.p.a.), l’applicabilità della disciplina delle società di persone, e dunque, l’applicabilità della regola unanime [[25]]. L’apertura verso l’ammissibilità della regola dell’unanimità per le s.r.l. – già manifestata prima della riforma, sull’assunto che il ricorso all’unanimità dei consensi non fosse incompatibile con il tipo sociale, in considerazione del fatto che, in tali società, la persona dei soci e la loro volontà assumeva una rilevanza maggiore rispetto alle s.p.a. – ha trovato ancor più consensi dopo le modifiche apportate alla disciplina della società a responsabilità limitata. Ed invero, dalla rinnovata “centralità” del socio – posta in rilievo dalla stessa Relazione al d.lgs. n. 6/2003 [[26]], secondo cui la nuova s.r.l. viene definita come: «uno strumento caratterizzato da una [continua ..]


3. Una recente “apertura” per le s.p.a. “chiuse”: ruolo del principio maggioritario

L’impostazione che ricava l’ammissibilità delle clausole di salvaguardia per le s.r.l. su argomentazioni fondate essenzialmente sulla “diversità” tipologica della s.r.l. rispetto alla s.p.a. rappresenta, allora, dopo la riforma, una linea interpretativa utilizzabile per addivenire alla soluzione positiva anche per le società per azioni “chiuse” [[32]]. Ed invero, a seguito delle novità introdotte dalla riforma quegli elementi di “differenziazione” tra s.p.a. “chiusa” e s.r.l. sono stati in alcuni casi eliminati ed in altri “sfumati”, “affievolendo” le rispettive peculiarità tipologiche [[33]]. Del resto, l’affinità “tipologica” tra s.p.a. “chiuse” ed s.r.l. ha rappresentato la linea argomentativa per estendere alla prima alcune delle discipline pensate dal legislatore per le sole s.r.l. Basti pensare a titolo di esempio: alla responsabilità per “eterogestione” dell’azionista [[34]] ed alla disciplina dei finanziamenti dei soci. È pur vero che, almeno, per la postergazione dei finanziamenti l’applicabilità della relativa disciplina alle s.p.a. è stata supportata anche dalla specifica previsione in materia di gruppi di cui all’art. 2497 quinquies; non si può trascurare, però, che la dottrina è stata pressoché concorde nel limitare l’applicazione analogica delle suddette norme alle sole s.p.a. a ristretta basa azionaria proprio sull’assunto che in tali società l’“assetto” del rapporto tra i soci sarebbe simile a quello che si rinviene nelle s.r.l. [[35]]. Il problema della analogia od integrazione per estensione va allora risolto non tanto con riguardo ad astratti “modelli” di società, bensì sulla base di una valutazione che tenga conto di una concreta valutazione della conformazione di ciascuna compagine sociale [[36]]. Il passaggio da un “tipo” di s.p.a. ai diversi “modelli” che i soci possono articolare in relazione alle loro diverse esigenze rappresenta un’ulteriore argomentazione a favore della tesi che esclude un interesse della società alla propria sopravvivenza, soprattutto in quelle società a ristretta base azionaria dove quell’interesse [continua ..]


3.1. (segue) autonomia statutarie e derogabilità dei quorum

Occorre a questo punto anche ripercorrere le novità introdotte avuto riguardo al sistema dei quorum per verificare gli spazi dell’autonomia statutaria ed individuarne i limiti [[43]]. Quanto all’assemblea ordinaria di prima convocazione delle società “chiuse”, il legislatore della riforma ha riprodotto il contenuto della normativa precedente: derogabilità del quorum deliberativo, e possibilità statutaria di prevedere regole particolari per la nomina delle cariche sociali; quanto all’assemblea straordinaria si è prevista la derogabilità del quorum deliberativo. Restano pertanto ferme tutte le perplessità già sollevate in relazione al contenuto della norma, circa la possibile derogabilità del quorum costitutivo; nonché le conclusioni raggiunte dalla dottrina in tema di cariche sociali. In relazione al primo profilo, dalla letterale formulazione della disposizione, in passato, si è ricavato un implicito divieto di deroga sia nel senso dell’impossibilità di aumentare il quorum costitutivo sia nel senso di ridurre quello deliberativo [[44]]. In senso opposto si è sottolineato, che, quanto meno, dovesse ritenersi consentita la possibilità di aumentare il quorum costitutivo, dal momento che, in prima convocazione, non vi sarebbero esigenze di funzionalità e di efficienza da salvaguardare, trovando le stesse piena tutela nella disciplina dell’assemblea di seconda convocazione [[45]]. Nell’immutata formulazione della norma, anche dopo la riforma, le opposte soluzioni sono state nuovamente prospettate. La soluzione positiva viene essenzialmente desunta dall’analisi del generale quadro normativo, in materie di deroghe ai quorum assembleari, così come delineato soprattutto dall’art. 2369 c.c. Sulla premessa che il legislatore abbia voluto introdurre una generalizzata derogabilità dei quorum, sia costitutivi che deliberativi, pur nel temperamento di alcuni limiti posti a tutela delle minoranze (non elevabilità del quorum deliberativo per le specifiche delibere indicate, e generale non riducibilità dei quorum strutturali e funzionali di tutte le assemblee) si ricaverebbe il principio secondo cui l’autonomia statutaria avrebbe, nel rispetto dei suddetti [continua ..]


4. La debolezza dell’argomento fondato sul presunto interesse della società alla propria “conservazione”

L’ammissibilità delle clausole unanimi, una volta accettata la linea interpretativa di un’ampia derogabilità dei quorum, deve essere vagliata anche analizzando l’altro profilo costantemente utilizzato, dalla dottrina e giurisprudenza, come fondamento della tesi negativa ovvero come limite alla stessa autonomia statutaria. Il riferimento è al ruolo che post riforma deve assegnarsi al principio della c.d. “facilità deliberativa” o, detto in altri termini, se sia ancora prospettabile un’ar­gomentazione che sostanzialmente fondi l’inammissibilità delle clausole unanimi prospettando un’inderogabilità del principio maggioritario in quanto unico in grado di garantire la “sopravvivenza” della società. Occorre cioè chiedersi, ancora una volta, se la “continuazione” della società possa essere configurata quale interesse sociale, ovvero quale interesse della maggioranza da proteggere come interesse sociale; ovvero visto dall’angolo della visuale dei rapporti tra soci, quale interesse della sola maggioranza e come tale sottratto alla disponibilità della minoranza. Non è questa la sede per ripercorrere le singole tappe dell’evoluzione del più generale dibattito tra una concezione “istituzionale” ed una concezione “contrattuale” della società che tanto ha impegnato la nostra dottrina [[56]] e che, anche dopo la riforma, è stato nuovamente alimentato [[57]]. Dibattito che, come noto, in via di estrema sintesi, ricercava una nozione del­l’“interesse sociale” per la soluzione dei vari “conflitti” nonché per la ricostruzione dei rapporti tra i soci e la società e non da ultimo per individuare una eventuale “finalità” dell’esercizio del diritto di voto; e che ha visto contrapposte la tesi di quanti individuavano come interesse sociale l’interesse della società alla conservazione dell’“efficienza” dell’impresa e dell’integrità del patrimonio sociale (interesse unitario da rilevare sia per i soci che per gli amministratori e da intendersi come interesse “diverso” rispetto a quello dei soci stessi); e la tesi di coloro che viceversa identificavano lo stesso come interesse “collettivo [continua ..]


5. La neutralità delle ipotesi di unanimità legali ai fini della presente indagine

Avuto riguardo alle ipotesi prospettate come ipotesi di unanimità “legali” il riferimento è al consenso di tutti i soci richiesto: per apportare modifiche agli obblighi oggetto delle prestazioni accessorie (art. 2345 c.c.); per le eventuali deroghe da apportare alla disciplina della scissione e fusione (art. 2506 ter, 4º comma e art. 2501 septies); quale presupposto della “scissione asimmetrica” (art. 2506, 2º comma, secondo periodo) [[66]]. Altre ipotesi di unanimità non espressamente previste, ma “consentite” dal legislatore potrebbero rinvenirsi dalle disposizioni in tema di trasformazione regressiva. Nello specifico, il riferimento è alla trasformazione di società di capitali in s.n.c. nonché, per assonanza con quest’ultima fattispecie, alla trasformazione eterogenea di società di capitali in comunione di azienda ovvero di società di capitali in società consortile in nome collettivo. Si sottolinea, infatti, come in tali casi la maggioranza dei due terzi non sarebbe sufficiente (traducendosi quindi in una “sostanziale” unanimità) allorquando la assunzione di una responsabilità illimitata (per la quale a norma degli artt. 2500 sexies e 2500 septies, 3° comma, occorre il consenso dei soci che andranno ad assumere tale responsabilità) riguardi la totalità degli azionisti o quotisti, in quanto i soci che andranno ad assumere la responsabilità illimitata “esaurirebbero il novero degli aventi diritto al voto” [[67]]. Occorre però dar atto che le suddette ipotesi poco supporto apporterebbero alla tesi che qui si vuole condividere della legittimità di clausole unanimi (anche per le modifiche dello statuto). Ed invero: alcune di esse attengono a diritti dei soci (art. 2345 c.c.) o ad aspetti procedimentali (art. 2506 ter, 4° comma e art. 2501 septies); delle altre si è dubitata la loro stessa configurazione quali ipotesi di unanimità legali. Ed invero, per la trasformazione regressiva si è fornita una ricostruzione volta a differenziare il “voto favorevole” alla delibera rispetto al “consenso” ad assumere la responsabilità illimitata attribuendo agli stessi un ruolo diverso: il primo opererebbe ai fini della validità della delibera, il secondo affinché [continua ..]


6. Configurazione statutaria delle clausole di salvaguardia e modalità di assunzione del “consenso” unanime

Il richiamo alle controverse ipotesi di unanimità legali appare altresì utile anche al fine di interrogarsi circa le modalità di assunzione del consenso nelle ipotesi di clausole unanimi. Le citate ipotesi di unanimità legali e “consentite” nulla dicono circa le modalità con cui lo stesso debba essere assunto. Il dibattito (che non si intende ripercorrere in questa sede) ha riguardato la necessità o meno di rispettare il metodo collegiale per tutte le ipotesi di unanimità legali. Al riguardo, quanto all’unanimità di cui all’art. 2345 c.c. la dottrina sembra orientata nel senso che occorra rispettare la collegialità [[72]]. Diversamente orientata sembrerebbe, invece, avuto riguardo all’unanimità richiesta nelle deliberazioni di fusione e scissione per derogare alcune prescrizioni del procedimento. In tali casi, si ritiene che il consenso individuale altro non sia che una rinuncia al diritto ad ottenere dagli amministratori la situazione patrimoniale e la relazione illustrativa della scissione (art. 2506 ter, 4° comma) ovvero una rinuncia all’inter­vallo temporale per esaminare i documenti relativi alle operazioni di fusione e scissione (art. 2501 septies) per cui, ferma restando la validità della delibera assunta a maggioranza, se ne deduce che lo stesso possa essere prestato oltre che in adunanza anche in via preventiva o successiva. La linea argomentativa di differenziare il “voto” alla delibera dal “consenso” individuale che, come si accennava, viene riproposta anche per la trasformazione regressiva (configurandosi come rinuncia a mantenere la responsabilità limitata) e per la scissione asimmetrica [[73]], impone di interrogarsi circa la necessità, nel caso di clausole unanimi, di rispettare il principio di collegialità ovvero sulla legittimità di una previsione statutaria che preveda modalità di assunzione del consenso in via extra assembleare. Preliminarmente, quale osservazione di carattere generale, può sicuramente affermarsi che l’eventuale “diffusione” statutaria dell’unanimità nessuna incidenza avrebbe sul rispetto del metodo collegiale (ove si aderisse alla tesi di una sua “doverosità” nel caso di delibere unanimi) essendo ormai pacifico che l’unanimità [continua ..]


7. La fattispecie dell’“ostruzionismo” abusivo quale rimedio alla “paralisi” societaria

La validità di clausole che dispongano l’unanimità porta a ritenere che il rimedio contro possibili ed eventuali illegittime “paralisi” dell’agire sociale, propiziate da clausole di salvaguardia, deve rinvenirsi nell’abuso della minoranza [[78]]. In tale prospettiva, in alcune decisioni – con ciò forse tradendo la debolezza del proprio convincimento (circa l’equivalenza tra quelle clausole che prescrivono maggioranze “elevatissime” e l’unanimità) – si ricorre all’abuso del diritto della minoranza per supportare, anche per altra via, l’illegittimità della clausola statutaria [[79]]. Se, si accetta la premessa che l’“abuso” presupponga la “validità” del diritto, così come attribuito dalla legge o dalla autonomia statutaria, concretandosi invero l’illegittimità nell’“esercizio” dello stesso e non nel suo “contenuto” – una volta ritenuta l’illegittimità di quel diritto (di voto) in quanto “equivalente” all’unanimità e, pertanto, contrario alla regola maggioritaria – risulta alquanto fuorviante motivare quella illegittimità ricorrendo anche alla c.d. minoranza di blocco. Ciò che si vuol rimarcare è l’assenza, nella maggior parte delle decisioni che si sono occupate del tema, di una concreta verifica circa l’illegittimità del comportamento tenuto dall’“asserita” minoranza. La giurisprudenza infatti sembra operare un’aprioristica equivalenza tra l’“essenzialità” della delibera (il più delle volte di aumento di capitale) per evitare lo scioglimento e l’“abusività” dell’esercizio del diritto di voto [[80]]. Secondo parte della giurisprudenza, tutte le volte in cui la delibera debba considerarsi “essenziale” il socio di minoranza non potrebbe opporsi alla stessa, se non in presenza di un “giustificato motivo” od “interesse meritevole di tutela”, realizzandosi altrimenti la figura dell’abuso di potere. E però, non vi è alcuna traccia, nelle motivazioni, dell’iter seguito dai giudici per addivenire al convincimento che il comportamento tenuto dalla minoranza fosse stato effettivamente contrario ai [continua ..]


7.1. (segue) e il dibattito su ipotesi di reazione con strumenti di tutela “reale”: cenni

La questione non pacifica è quella dei rimedi esperibili una volta che si prenda atto dell’esistenza di una minoranza di blocco abusiva, e la cui soluzione, come è noto, è influenzata, da un lato, dalla possibilità di rinvenire o meno una deliberazione da impugnare, anche nel caso di “delibera negativa” [[88]]; dall’altro, ancor più in generale dalla tematica del conflitto d’interessi e dell’invalidità per vizi del volere di voti negativi [[89]]. L’importanza di individuare opportuni rimedi all’abuso della minoranza “ostativa” si giustifica per le diverse conseguenze allo stesso ricollegabili, rispetto a quelle che invece derivano dall’abuso della maggioranza. In tale ultimo caso, infatti, l’interesse dei soci di minoranza è di ottenere una pronuncia che elimini la “delibera positiva”; viceversa, l’abuso di potere della minoranza “ostativa” potrà impedire l’approvazione della proposta, ma non sarà certo in grado di addivenire ad una diversa deliberazione “positiva” non gradita dalla maggioranza. Di qui, il problema di identificare possibili rimedi “reali” avverso l’abuso della minoranza: ciò in quanto, ove anche fosse possibile impugnare la delibera “negativa,” dalla sua “eliminazione” non deriverebbe il soddisfacimento degli altri soci, interessati ad ottenere altra delibera avente contenuto opposto a quella respinta; ed ancora l’idea che quei rimedi andrebbero relegati solo sul piano risarcitorio piuttosto che su quello reale, escludendosi che il giudice possa, eliminati i voti invalidi, “tramutare con effetti costitutivi la delibera da “negativa” in “positiva” e ciò a prescindere se sia o meno possibile, nel caso di mancato raggiungimento del quorum prescritto, configurare una deliberazione da impugnare [[90]]. In questa sede, si intende, pertanto, solo condividere l’assunto che, de iure condito, l’unica tutela sicuramente prospettabile per l’abuso di voto delle minoranze, sia una tutela risarcitoria (esperibile con azione diretta dagli altri soci) certamente non adeguata alla rilevanza e alla dimensione dei rischi da contrastare e peraltro da attivare con la rassegnazione dell’assenza di alternative, fintanto che il [continua ..]


NOTE