Rivista di Diritto SocietarioISSN 1972-9243 / EISSN 2421-7166
G. Giappichelli Editore

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L'abuso di dipendenza economica nei rapporti infragruppo (di Pietro Paolo Ferraro)


SOMMARIO:

1. Il problema. - 2. Il principio di correttezza nei rapporti fra imprese. - 3. Il divieto di abuso di dipendenza economica di cui all’art. 9 della legge n. 192/1998. - 4. La responsabilità da direzione e coordinamento di società ex art. 2497 c.c. - 5. La rilevanza sistematica delle due disposizioni normative. - 6. Sull’applicabilità dell’art. 9 ai gruppi d’imprese. - 7. Controllo esterno e dipendenza economica. - 8. Il gruppo contrattuale gerarchico. - 9. La condotta abusiva nei gruppi verticali su base contrattuale. - 10. L’eventuale sovrapposizione dei due regimi normativi. - NOTE


1. Il problema.

La tematica che intendo esaminare è quella relativa all’abuso del potere economico nei rapporti tra imprese, che assume particolare rilevanza nelle ipotesi in cui le imprese, anche se strutturate in forma societaria, sono legate fra loro da vincoli di natura contrattuale (piuttosto che da partecipazioni sociali), come tipicamente avviene nell’ambito dei fenomeni di integrazione verticale tra imprese in funzione produttiva o distributiva (si pensi, ad esempio, alla subfornitura industriale ed al franchising) [1]. A tal proposito, fra i molteplici aspetti problematici che presentano i diversi sistemi integrati di organizzazione dell’attività d’impresa, una questione che non sembra sia stata adeguatamente approfondita sul piano dogmatico e nei suoi risvolti pratici è quella che riguarda la possibilità di applicare, qualora sia configurabile un gruppo imprenditoriale, la disciplina protettiva dei contratti tra imprese, caratterizzati da asimmetria di potere negoziale, riconducibili nell’area (dai contenuti non ancora ben definiti) del c.d. “terzo contratto” [2]. Limitando il discorso ai riflessi privatistici della condotta abusiva in questione (e quindi non considerando le relative implicazioni macroeconomiche inerenti il corretto funzionamento del mercato), vengono in rilevo, da un lato, l’art. 9 della legge 18 giugno 1998, n. 192, che sancisce il divieto di «abuso di dipendenza economica», e, dall’altro, l’art. 2497 c.c. (introdotto dalla riforma del diritto societario realizzata con il d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6), che, con riguardo ai gruppi d’imprese, vieta l’abuso di «direzione e coordinamento di società». Come si avrà modo di evidenziare diffusamente in prosieguo, le due disposizioni normative – pur avendo una matrice comune, in quanto entrambe possono considerarsi espressione del principio di correttezza nei rapporti imprenditoriali – appaiono ispirate a logiche differenti, se non addirittura antitetiche, e contemplano diversi sistemi rimediali, che non sono fra loro agevolmente conciliabili. Pertanto, allorché dovessimo ritenere che le due norme siano applicabili ad una medesima fattispecie, si porrebbe, per l’interprete, l’esigenza di verificare la loro compatibilità e di assicurarne il coordinamento secondo un coerente quadro sistematico. Il problema si [continua ..]


2. Il principio di correttezza nei rapporti fra imprese.

Per un’adeguata considerazione delle questioni che verranno analizzate in questa sede, occorre innanzi tutto tenere presente che nell’ordinamento italiano è andato progressivamente emergendo un principio generale di correttezza nei rapporti imprenditoriali, il quale consente di sanzionare le più gravi forme di prevaricazione nei confronti dei soggetti più deboli. A differenza, però, di quanto avvenuto nell’ambito della disciplina civilistica di diritto comune, nella quale il dovere di correttezza, intesa come buona fede oggettiva, è espressamente previsto dalla legge con disposizioni che hanno un largo spettro operativo (cfr. artt. 1175 e 1375 c.c.) [3], nei rapporti fra imprese, invece, tale regola comportamentale ha avuto maggiore difficoltà ad essere accolta, probabilmente anche per il timore diffuso di aprire il controllo di legalità del giudice ad un sindacato nel merito dell’“agire imprenditoriale”. Tuttavia, è un dato acquisito che il principio di correttezza, che la Relazione al codice civile del 1942, nella parte relativa al Libro delle obbligazioni, descrive come «dovere di comportarsi in modo da non ledere l’interesse altrui fuori dai limiti della legittima tutela dell’interesse proprio», con l’avvento della Carta Costituzionale, ha finito per assumere una più ampia portata precettiva, quale espressione del fondamentale dovere di solidarietà sancito dall’art. 2 della Costituzione, che riguarda tutti i rapporti obbligatori e contrattuali, ed è suscettibile di trovare applicazione in ogni tipo di relazione sociale ed economica [4]. Pertanto, pur in mancanza di una tipizzazione legale, in termini generali, di un principio di correttezza nei rapporti tra operatori economici, si può fondatamente ritenere che tale principio sia comunque desumibile dal sistema del diritto delle imprese, tant’è che col tempo si è andato affermando sia sul piano normativo, costituendo l’antefatto esplicito o implicito di diverse disposizioni in materia di impresa e di società [5], sia nelle più recenti elaborazioni giurisprudenziali [6]. In questa prospettiva devono essere esaminati l’art. 9 della legge n. 192/1998 e l’art. 2497 c.c.: ed infatti non vi è dubbio che il dovere di comportarsi secondo buona fede è alla base del [continua ..]


3. Il divieto di abuso di dipendenza economica di cui all’art. 9 della legge n. 192/1998.

Com’è noto, il divieto di abuso di dipendenza economica è stato normativizzato nell’or­dina­mento italiano dall’art. 9 della legge n. 192/1998 relativa alla «Disciplina della subfornitura nelle attività produttiva» [10]. In particolare, la norma sancisce, al 1° comma, che «è vietato l’abuso da parte di una o più imprese dello stato di dipendenza economica nel quale si trova, nei suoi o nei loro riguardi, una impresa cliente o fornitrice» [11]. Il 1° comma prosegue, da un lato, stabilendo che «si considera dipendenza economica la situazione in cui un’impresa sia in grado di determinare, nei rapporti commerciali con un’altra impresa, un eccessivo squilibrio di diritti e di obblighi», dall’altro, puntualizzando che «la dipendenza economica è valutata tenendo conto anche della reale possibilità per la parte che abbia subito l’abuso di reperire sul mercato alternative soddisfacenti». Il riferimento al mercato acquista importanza centrale nella costruzione della fattispecie normativa, mettendo in rilevo lo stretto legame intercorrente tra la disciplina dei contratti d’impresa ed il diritto della concorrenza [12]. Ciò emerge chiaramente anche dal 2° comma dell’art. 9, che, con riguardo ai comportamenti abusivi, riprende le ipotesi più significative di “abuso di posizione dominante” previste della disciplina antitrust. Ed infatti, il 2° comma dell’art. 9 precisa, in via esemplificativa, che «l’abuso può anche consistere nel rifiuto di vendere o nel rifiuto di comprare, nell’imposizione di condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose o discriminatorie, nella interruzione arbitraria delle relazioni commerciali in atto». La restante parte della norma – come modificata dalla legge 5 marzo 2001, n. 57 – riguarda il regime sanzionatorio. A tal proposito, il 3° comma dispone che «il patto attraverso il quale si realizzi l’abuso di dipendenza economica è nullo. Il giudice ordinario competente conosce delle azioni in materia di abuso di dipendenza economica, comprese quelle inibitorie e per il risarcimento dei danni». La condotta abusiva innanzi illustrata può anche avere una incidenza sul corretto funzionamento del mercato, pregiudicando la libertà di [continua ..]


4. La responsabilità da direzione e coordinamento di società ex art. 2497 c.c.

Per quanto riguarda la condotta abusiva nell’ambito dei gruppi imprenditoriali, è appena il caso di ricordare che la riforma del diritto delle società realizzata con il d.lgs. n. 6/2003 (come successivamente integrato e modificato), piuttosto che definire il fenomeno del gruppo di imprese e dettare una disciplina generale dello stesso, ha perseguito l’obiettivo meno ambizioso di affrontarne taluni aspetti problematici, prendendo come punto di riferimento il dato fattuale dell’attività di direzione e coordinamento [21]. In questa prospettiva, l’art. 2497 c.c. si occupa (di alcuni) dei profili di responsabilità, stabilendo che «le società o gli enti che, esercitando attività di direzione e coordinamento di società, agiscono nell’interesse imprenditoriale proprio o altrui in violazione dei principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale delle società medesime, sono direttamente responsabili nei confronti dei soci di queste per il pregiudizio arrecato alla redditività ed al valore della partecipazione sociale, nonché nei confronti dei creditori sociali per la lesione cagionata all’integrità del patrimonio della società». La seconda parte del 1° comma dell’art. 2497 c.c., nel recepire la nota “teoria dei vantaggi compensativi” [22], chiarisce che «non vi è responsabilità quando il danno risulta mancante alla luce del risultato complessivo dell’attività di direzione e di coordinamento, ovvero integralmente eliminato anche a seguito di operazioni a ciò dirette». In sostanza, con l’art. 2497 c.c., il legislatore ha sancito il divieto di abuso dell’attività di direzione e coordinamento di società [23] e, postulando la legittimità dell’operato della capogruppo nel perseguimento dell’interesse di gruppo, si è limitato a prevedere, in caso di contrasto con l’interesse della singola società, una specifica responsabilità per mala gestio, con l’obbligo di risarcire i soggetti estranei al gruppo di comando, come i soci di minoranza e i creditori della società eterodiretta, peraltro tenuto conto dei benefici compensativi concretamente derivanti dall’appartenenza al gruppo [24]. Per delimitare l’ambito di applicazione di tale disciplina, che si [continua ..]


5. La rilevanza sistematica delle due disposizioni normative.

Entrambe le disposizioni precedentemente richiamate evocano senz’altro il concetto di clausola generale [27], qui accolto nella sua duplice accezione, ossia 1) come norma dotata di un elevato livello di astrattezza, per intenderci, secondo una tecnica legislativa opposta a quella volta a considerare fattispecie a contenuto predeterminato, e 2) come norma, per così dire, “aperta”, che introduce nel mondo del diritto criteri di valutazione reperibili altrove, in altri settori e sul piano extranormativo, che consentano cioè di ricomprendere tutti i vari comportamenti che possano emergere nella realtà fenomenica e che, proprio per la continua evoluzione di questa, non possono essere oggetto di previsioni normative specifiche, cosicché assume importanza centrale il ruolo del giudice, al quale è rimesso il compito di elaborare di volta in volta, secondo il suo apprezzamento, la regola del caso concreto [28]. Chiarito, tuttavia, che tanto l’art. 9 della legge n. 192/1998 quanto l’art. 2497 c.c. contemplano delle clausole generali che vietano comportamenti abusivi nell’ambito delle vicende relazionali di tipo gerarchico tra imprese, si deve constatare che le due norme in questione, per quanto possano essere considerate entrambe espressione del medesimo principio di correttezza nei rapporti fra imprese, si differenziano sensibilmente fra loro non solo sul piano operativo, riguardando l’una i rapporti economici e commerciali tra imprese, l’altra il governo del­l’“impresa di gruppo”, ma anche per quanto concerne l’impostazione di fondo, le finalità e gli strumenti di tutela offerti. Mentre, infatti, l’art. 9, in una logica protezionistica (a cui non è estranea la funzione di salvaguardare l’assetto concorrenziale del mercato), prevede la sanzione della nullità del regolamento contrattuale attraverso cui si realizza l’abuso, oltre a riconoscere una tutela inibitoria e risarcitoria all’impresa dipendente, l’art. 2497 c.c., invece, privilegiando una prospettiva più liberale, all’insegna di un favor per l’organizzazione di gruppo, si limita a prevedere, qualora l’operato non corretto della capogruppo arrechi danno alle società controllate, l’obbligo di risarcire i soggetti estranei all’interesse di gruppo, come i soci esterni e i creditori delle [continua ..]


6. Sull’applicabilità dell’art. 9 ai gruppi d’imprese.

A quanto pare, fra gli studiosi si sta diffondendo la convinzione che la disciplina protettiva di cui all’art. 9 della legge n. 192/1998 non possa trovare applicazione quando le imprese appartengano ad un gruppo, in quanto le stesse non sono indipendenti (essendo prive di autonomia decisionale ed organizzativa) e, quindi, non sono in grado di operare liberamente sul mercato [29]. Tale orientamento, che presuppone una certa assimilazione dell’art. 9 alla disciplina antitrust, tende evidentemente ad individuare nel mercato il bene protetto con il divieto di abuso di dipendenza economica [30]. In questa prospettiva, la tutela dell’impresa eterodiretta non sarebbe affidata alle norme che implicano una invalidità ed un potere correttivo del giudice rispetto al singolo contratto, ma dovrebbe operare esclusivamente la disciplina dei gruppi relativa alla violazione dei principi di corretta gestione societaria ed imprenditoriale [31]. Secondo tale impostazione, quindi, nell’ambito dei gruppi di imprese – tanto se costruiti attraverso partecipazioni sociali, quanto se basati su vincoli di natura contrattuale – non può trovare applicazione la norma sull’abuso di dipendenza economica, pur essendo il contratto infragruppo concluso fra due imprenditori, tra i quali ricorrono squilibrio economico e disparità di forza contrattuale. Ne consegue che la società capogruppo può legittimamente dirigere e coordinare le società controllate, anche determinando uno squilibrio di diritti e di obblighi nei contratti conclusi con tali società; in questo caso, si ritiene che siano fruibili esclusivamente gli strumenti di tutela offerti dalla norma che disciplina l’illecito da direzione e coordinamento (art. 2497 c.c.) [32]. La tutela, dunque, non è rivolta ai contraenti, né si basa su tecniche invalidatorie del vincolo negoziale, quanto piuttosto viene attuata attraverso azioni risarcitorie riconosciute ai soggetti che si ritiene siano gli unici a poter essere effettivamente pregiudicati dal perseguimento dell’interesse di gruppo: ossia i creditori sociali ed i soci di minoranza della società eterodiretta [33]. Questa ricostruzione lascia perplessi [34], perché, da un lato, non sembra cogliere in pieno la reale portata del divieto di abuso di dipendenza economica e, dall’altro, non tiene adeguatamente in [continua ..]


7. Controllo esterno e dipendenza economica.

Aprendo la strada a soluzioni più possibiliste in merito all’operatività del divieto di abuso di dipendenza economica rispetto ai rapporti infragruppo, occorre individuare quali siano le tipologie di gruppo per le quali si prospetti l’applicabilità della disciplina protettiva in questione, che presuppone innanzi tutto la sussistenza di una condizione di dipendenza economica di un’impresa rispetto ad un’altra (nei termini in cui è delineata dall’art. 9 della legge n. 192/1998). Si pone, pertanto, l’esigenza di approfondire il rapporto tra il fenomeno del gruppo imprenditoriale e la situazione di dipendenza economica tra le imprese, distinguendo a seconda se alla base del gruppo vi sia la fattispecie del controllo, la quale – ai sensi dell’art. 2497-sexies c.c. – fa presumere, con presunzione relativa, l’esistenza di un’attività di direzione e coordinamento [40], oppure vi siano un contratto o una clausola statutaria che abbiano ad oggetto l’attività di direzione e coordinamento, secondo quanto previsto dall’art. 2497-septies c.c. [41]. A tal proposito, è opinione diffusa che la dipendenza economica, la quale può senz’altro ricorrere in ogni tipo di rapporto di controllo e di gruppo (gerarchico) [42], è sempre presente in caso di controllo contrattuale ex art. 2359, 1° comma, n. 3, c.c. [43], anche se per integrare que­st’ul­tima fattispecie non è sufficiente la mera dipendenza economica [44]. Ed infatti, il controllo esterno sussiste in presenza di un vincolo di natura contrattuale fra le imprese ed allorché il contratto abbia un contenuto tale da attribuire all’una il potere di influenzare in maniera significativa le scelte gestionali e l’attività imprenditoriale dell’altra. Per quanto il controllo contrattuale tenda a configurarsi in presenza di particolari contratti, quali il franchising, la subfornitura industriale, le licenze di marchi, di brevetti o di know-how, così come in contratti di agenzia, somministrazione e concessione di vendita nei quali siano presenti determinate clausole, come quella di esclusiva, a tale elencazione non può che attribuirsi valore meramente esemplificativo, poiché ciò che conta non è tanto il tipo contrattuale, quanto piuttosto l’idoneità in [continua ..]


8. Il gruppo contrattuale gerarchico.

Da quanto esposto nei paragrafi precedenti, emerge con una certa evidenza che, nell’ambito della variegata fenomenologia dei gruppi imprenditoriali, il campo naturale di potenziale applicazione dell’art. 9 della legge n. 192/1998 è quello del gruppo contrattuale gerarchico [49], nel quale le imprese sono legate fra loro, piuttosto che da partecipazioni sociali, da vincoli di natura contrattuale che integrano la fattispecie del controllo esterno di cui all’art. 2359, 1° comma, n. 3, c.c. [50]. In questi casi, oltre a ricorrere una situazione di dipendenza economica fra le imprese, sussiste anche un’attività di direzione e coordinamento nell’ambito del gruppo esercitata per il tramite del contratto (come avviene, ad esempio, quando una parte abbia ex contractu il potere di imporre alla controparte una determinata struttura finanziaria, le strategie di mercato, la politica dei prezzi), per cui un’eventuale condotta abusiva perpetrata in forza del regolamento contrattuale può rilevare non solo rispetto all’art. 9 della legge n. 192/1998, ma anche con riguardo all’art. 2497 c.c. [51]. A tal proposito, occorre evidenziare che, nonostante i primi commentatori della riforma societaria si siano espressi in termini critici o comunque dubitativi in ordine all’operatività della disciplina codicistica relativa all’attività di direzione e coordinamento alle ipotesi in cui il rapporto di subordinazione fra le imprese del gruppo trovi fondamento in un contratto (forse anche per una certa diffidenza verso il contratto di dominazione, che continua a presentare taluni profili di incompatibilità con i principi del nostro ordinamento [52]), una diversa sensibilità comincia ad emergere nella giurisprudenza di merito, che ha prospettato di recente l’applicabilità del­l’art. 2497 c.c. all’abuso di direzione e coordinamento contrattuale. Ci si riferisce, in particolare, a due sentenze in tema di franchising [53], le quali, però, hanno preso in considerazione soltanto la fattispecie del contratto di direzione e coordinamento di cui all’art. 2497-septies c.c. [54], per escluderne la ricorrenza nel caso esaminato, senza invece valutare anche l’eventuale rilevanza del regolamento contrattuale sotto il profilo dell’art. 2497-sexies c.c., che contempla una presunzione relativa di [continua ..]


9. La condotta abusiva nei gruppi verticali su base contrattuale.

Concentrando, a questo punto, l’attenzione sul gruppo verticale su base contrattuale, risulta in modo evidente che la disposizione normativa contenuta nell’art. 2497 c.c., che prevede rimedi specifici volti a tutelare soci e creditori della singola società assoggettata a direzione e coordinamento, non è in grado di per sé di offrire tutela diretta alla stessa società eterodiretta. A tal proposito, però, la conclusione raggiunta, secondo cui ogni situazione di influenza dominante realizzata attraverso il contratto, se incide in maniera significativa sull’attività economica dell’impresa controllata, determina una situazione di dipendenza economica nei confronti dell’impresa controllante, consente di applicare alla fattispecie del controllo contrattuale l’art. 9 della legge n. 192/1998. La norma, vietando l’abuso di dipendenza economica da parte di un’impresa ai danni di altra impresa, pone un limite inderogabile al controllo contrattuale, che trova applicazione a prescindere dalla sussistenza o meno di un gruppo. Quando, pertanto, oltre all’integrazione di più imprese attraverso il contratto, si realizzi anche la direzione unitaria di una di esse nei confronti delle altre, così da configurare un gruppo contrattuale gerarchico, può venire in considerazione la responsabilità verso l’impresa subordinata per il danno alla stessa arrecato in conseguenza dell’abuso da parte della capogruppo nell’esercizio dell’attività di direzione e coordinamento. Ed infatti, per quanto sia piuttosto controversa, alla luce del diritto positivo vigente, l’ammissibilità di un’azione risarcitoria del­l’impresa eterodiretta nei confronti della capogruppo [62], la responsabilità in questione – secondo l’orientamento dottrinale da me condiviso – può considerarsi implicita nel sistema, rilevando in ogni ipotesi di violazione del principio generale di corretta gestione imprenditoriale e societaria delle imprese del gruppo, tenuto conto dell’autonoma soggettività giuridica di ciascuna di queste. Peraltro, con riguardo al gruppo contrattuale basato sul controllo esterno, si deve ritenere che la responsabilità della holding nei confronti delle imprese controllate trovi un preciso fondamento normativo proprio nell’art. 9 della legge n. 192/1998, [continua ..]


10. L’eventuale sovrapposizione dei due regimi normativi.

Qualora la condotta abusiva della capogruppo nei confronti di un’altra impresa del gruppo rilevi, al tempo stesso, sia rispetto all’art. 9 della legge n. 192/1998, sia rispetto all’art. 2497 c.c., si prospetta un concorso reale tra le due discipline, che pone un delicato problema di coordinamento normativo [67]. Ciò acquista particolare rilievo con riguardo alle ipotesi in cui l’impresa subordinata sia una società: difatti, mentre l’art. 9 prevede la sanzione della nullità ed il risarcimento del danno cagionato all’impresa, l’art. 2497 c.c. prescinde da ogni intervento sulla fonte del rapporto che lega le imprese di gruppo, muovendosi anzi nel senso di mantenerlo comunque in piedi nei suoi termini originari, ancorché squilibrato, e si limita soltanto a riconoscere il risarcimento del­l’eventuale pregiudizio dei soci e dei creditori sociali. Ci si domanda, pertanto, in che termini sia possibile conciliare la disciplina codicistica dei gruppi, che, all’insegna di una impostazione spiccatamente efficientistica, si limita a prevedere forme attenuate di tutela obbligatoria, con la più rigorosa norma che vieta l’abuso di dipendenza economica, la quale invece contempla innanzi tutto rimedi di natura reale. A ben vedere, le distanze fra i due regimi si riducono sensibilmente se si ritiene – in linea con la dottrina civilistica più recente [68] – che la normativa di tutela di cui all’art. 9 contempla una nullità speciale di protezione [69], che, pertanto, va intesa come nullità relativa, nel senso che la legittimazione ad agire è riconosciuta soltanto all’impresa vittima dell’abuso, ed altresì come nullità parziale, cui si accompagna un intervento correttivo/integrativo ad opera del giudice [70]. In tal senso, può ritenersi che anche l’art. 9 tende alla conservazione del rapporto fra le imprese, sia pur adeguatamente riequilibrato [71].   Ad ogni modo, in caso di sovrapposizione dell’area di incidenza dei diversi regimi giuridici considerati, si può arrivare ad escludere contraddizioni accordando la precedenza ad uno degli stessi o, meglio ancora, stabilendo una sorta di graduazione nella loro operatività [72]. Da un punto di vista concettuale, in prima battuta, viene in considerazione la tutela dell’im­presa ai [continua ..]


NOTE
Fascicolo 3 - 2012