Rivista di Diritto SocietarioISSN 1972-9243 / EISSN 2421-7166
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Sulla legittimità del recesso ad nutum ex art. 2473, 2° comma, c.c. in caso di società con durata superiore alla normale vita umana (nota a Trib. Bologna, 14 novembre 2013) (di Mirta Morgese)


TRIBUNALE DI BOLOGNA, Sez. specializzata per l’impresa, 14 novembre 2013, Liccardo Presidente – Sbariscia Relatore– P.G. c. B.L., B.D., B.E.

Società – Società a responsabilità limitata – Recesso esercitato dagli eredi del socio – Clausola di mero gradimento – Legittimità del recesso

(Art. 2469, 2° comma, c.c.)

È legittimo il recesso esercitato dagli eredi del socio deceduto, ex art. 2469, 2° comma, c.c., per la presenza di una clausola statutaria di mero gradimento che, nel caso concreto, impedisce il trasferimento a causa di morte della quota sociale. (1)

Società – Società a responsabilità limitata – Recesso esercitato dagli eredi del socio – Durata della società superiore alla normale vita umana – Recesso “ad nutum” – Ammissibilità

(Art. 2473, 2° comma, c.c.)

È legittimo il recesso esercitato ex art. 2473, 2° comma, c.c., per la presenza nello statuto della società di una clausola che, fissando il termine della durata della società (costituita nell’anno 2001) nell’anno 2100, equipara in sostanza la fattispecie a quella della società contratta a tempo indeterminato. (2)

Società – Società a responsabilità limitata – Effetti del recesso – diritto alla liquidazione della quota

(Art. 2473, 4° comma, c.c.)

Agli eredi spetta la liquidazione della quota sociale, la liquidazione della quota non costituisce condizione di efficacia del recesso, il recesso è una dichiarazione unilaterale recettizia, che si perfeziona al momento del ricevimento della comunicazione da parte degli altri soci. (3)

Visto il ricorso proposto da G. P., in qualità di presidente del CdA della società P. I. s.r.l., volto ad ottenere ai sensi dell’art. 2485 ult. comma c.c. l’accertamento della intervenuta causa di scioglimento della società e la nomina di un liquidatore;

Considerato che il ricorrente, socio per la quota del 50%, ha allegato l’impossibilità di funzionamento dell’assemblea, conseguente alla mancata partecipazione alla vita sociale di L. B., D. B. ed E. B., eredi M. B. (già titolare della restante quota del 50% del capitale sociale e deceduto in data 1.8.2012) e dunque aventi diritto di partecipazione; assume più specificamente il ricorrente che gli eredi B., dopo avere in un primo tempo espresso la volontà di accettare l’eredità con beneficio d’inventario, avevano comunicato il recesso dalla società invocando la presenza nello Statuto di una clausola di gradimento avente i caratteri previsti nell’art. 2469 comma 2 c.c. e, comunque, la presenza di altra clausola che fissa il termine di durata della società al 31.12.2100, sostanzialmente equiparabile ad una clausola che ponga una durata a tempo indeterminato della società, dunque fondante il diritto di recesso dei soci ai sensi dell’art. 2473 comma 2 c.c.;

Considerato che nel procedimento si sono costituiti i convenuti, eccependo preliminarmente il loro difetto di legittimazione passiva per essere receduti dal rapporto sociale, nel merito, hanno rilevato l’insussistenza della causa di scioglimento prospettata dal ricorrente, in primo luogo in quanto egli sarebbe divenuto socio unico a seguito del recesso degli eredi dell’altro socio, e dunque in grado di operare da solo; in secondo luogo in quanto egli, come unico amministratore, avrebbe dovuto, prima di adire il tribunale, accertare l’avvenuta causa di scioglimento ai sensi dell’art. 2485 c.c. e, conseguentemente, procedere agli adempimenti di cui all’art. 2484 terzo comma c.c., iscrivendo nel Registro delle imprese la relativa dichiarazione di accertamento della causa di scioglimento e provvedendo alla convocazione dell’assemblea per la delibera da parte di quest’ultima della nomina dei liquidatori;

Ritenuto che:

– Il ricorso non può essere accolto potendosi pervenire, pur nella sommarietà dell’accer­ta­mento, ad una positiva valutazione in ordine alla legittimità del recesso operato dagli eredi B.;

– Invero, gli odierni resistenti, eredi del defunto M. B., già titolare della quota del 50% della società P. I. s.r.l., hanno legittimamente (con comunicazione in data 10.12.2012 inviata all’in­dirizzo del socio e della società) esercitato il diritto di recesso dal rapporto sociale: invero, risulta che gli eredi B. hanno accettato in un primo tempo l’eredità con beneficio d’in­ven­tario; al momento dell’iscrizione nel registro delle imprese, verificata l’impossibilità di subentro nella titolarità della quota in conseguenza del mancato gradimento manifestato dall’altro socio (così come previsto dalla clausola statutaria), nonché l’impossibilità operativa della clausola stessa, lad­dove condiziona il subingresso degli eredi al gradimento del 51% della compagine sociale (mentre l’unico socio rimasto in vita della P. I. s.r.l. possiede allo stato il 50% del capitale sociale), hanno ritenuto di esercitare il recesso ai sensi dell’art. 2469 comma 2 c.c.; in via subordinata, hanno comunicato, in pari data l’intenzione di recedere ai sensi dell’art. 2473 c.c. valutando la previsione di durata della società fino al 31.12.2100 di clausola con la quale si stabilisce una durata a tempo indeterminato;

– Ricorrono, dunque, nel caso di specie, i presupposti per l’esercizio del recesso con riferimento ad entrambe le ipotesi: in particolare l’art. 2473 c.c. consente in ogni momento ai soci il diritto di recesso nel caso di società contratta a tempo indeterminato; nella fattispecie, il notevole arco temporale stabilito dallo Statuto per la vita della società (dal 12.4.2001 fino al 31.12.2100 pari a circa cento anni (arco di tempo che supera la vita umana dei soci), è sicuramente equiparabile ad una durata a tempo indeterminato, conformemente del resto all’indirizzo seguito dalla giurisprudenza di legittimità più recente, pure invocato dai resistenti (cfr. Cass. 22 aprile 2013 n.9662) e che in questa sede si ritiene di condividere;

– Dunque, a seguito del legittimo esercizio del recesso ex lege ai sensi dell’art. 2473 comma 2 c.c. può legittimamente ritenersi cessato il rapporto sociale, alle condizioni previste dalla legge, con diritto dei soci receduti alla liquidazione della quota sociale già appartenuta al de cuius, e responsabilità in capo a questi ultimi dei soli debiti sociali già sorti al momento del (decesso [n.d.r.]); né per altro verso, può condividersi la prospettazione del ricorrente, pure sostenuta da autorevole dottrina, secondo cui l’efficacia del recesso è condizionata al compimento della liquidazione (da effettuarsi entro 180 giorni dalla comunicazione del recesso), giacché il recesso ha natura di dichiarazione unilaterale recettizia, che si perfeziona al momento del ricevimento della comunicazione da parte degli altri soci, sicché ragionevolmente da tale momento il socio non può più essere considerato far parte della compagine sociale, potendo pretendere solamente la liquidazione della propria partecipazione;

– Ritenuto che, la peculiarità della fattispecie sotto il profilo interpretativo della normativa di riferimento giustifica la compensazione integrale delle spese di lite.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso;

Compensa integralmente le spese.

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SOMMARIO:

1. Il caso - 2. La normativa di riferimento - 3. I precedenti giurisprudenziali - 4. La dottrina - 5. Il commento - NOTE


1. Il caso

Il caso in esame attiene ad una s.r.l. costituita da due soci, il decesso di uno dei quali determina il sorgere di alcuni problemi di circolazione mortis causa della relativa quo­ta. In particolare, il socio superstite, in qualità di presidente del Cda, adisce i giudici bolognesi per ottenere l’accertamento dell’avvenuta causa di scioglimento della società e la nomina dei liquidatori, ai sensi degli artt. 2485 e 2487, 2° comma, c.c. A sostegno della richiesta di scioglimento viene indicata la continua inattività dell’or­gano assembleare (art. 2484, 1° comma, n. 3, c.c.), per via della mancata partecipazione alla vita sociale degli eredi dell’altro socio, presupponendo, dunque, il loro ingresso in società. Al contrario i successori del socio defunto, una volta costituitisi in giudizio, eccepiscono il proprio difetto di legittimazione passiva, affermando di non avere acquistato la qualità di socio a causa di una clausola statutaria di mero gradimento; con conseguente esercizio del recesso ai sensi del­l’art. 2469, 2° comma, c.c. [1]; e, in via subordinata, dell’art. 2473, 2° comma, c.c., adducendo la durata estremamente elevata della società. Gli stessi eredi affermano, poi, l’insus­sistenza della causa di scioglimento prospettata: non essendo mai divenuti soci, invero, l’assemblea avrebbe potuto perfettamente funzionare con il solo intervento del socio superstite. Questione dirimente per l’accoglimento del ricorso diviene, allora, la legittimità del recesso operato dai successori del socio defunto, risolta in senso positivo, per entrambe le ipotesi, dall’autorità giudiziaria che, pertanto, perviene al rigetto della domanda proposta. Segnatamente, i giudici rilevano come la presenza della suddetta clausola statutaria di mero gradimento, imponendo il placet del 51% del capitale sociale per il trasferimento mortis causa delle quote, ove il socio superstite ne deteneva solamente il 50%, abbia creato una condizione che, in concreto, ha impedito agli eredi di subentrare nella compagine sociale, obbligandoli all’eser­cizio del diritto di recesso, ai sensi dell’art. 2469, 2° comma, c.c. I giudici di merito si soffermano, successivamente, sul secondo motivo di exit: la durata della società fissata all’anno 2100, tale da rendere la stessa assimilabile ad una società [continua ..]


2. La normativa di riferimento

Il principale riferimento normativo per inquadrare la problematica in esame va ricercato nell’art. 2473 c.c., norma dedicata al recesso del socio, integralmente modificata dalla riforma del diritto delle società [3], in linea con il più ampio spazio concesso ai rapporti contrattuali tra i soci nella nuova disciplina della s.r.l. [4]. In particolare, il legislatore delegato, dopo aver contemplato le cause legali di recesso, stabilisce che, nel caso di società contratta a tempo indeterminato, tale diritto compete al socio in ogni momento e può essere esercitato con un preavviso di almeno centottanta giorni; l’at­to costitutivo può imporre un periodo di preavviso di durata maggiore, purché non superiore ad un anno (art. 2473, 2° comma, c.c.). Questa fattispecie exit, prevista anche per le s.p.a. chiuse (art. 2437, 3° comma, c.c.), costituisce una novità introdotta dal d.lgs. n. 6/2003 per due ordini di ragioni. In primis, la possibilità di costituire società di capitali a tempo indeterminato non era contemplata dal legislatore del 1942 e, dunque, siffatta causa di recesso non aveva ragion d’es­se­re [5]; in secondo luogo, ante riforma, il recesso poteva aversi solo a fronte di una deliberazione assembleare cui il socio recedente non aveva prestato voto favorevole, eventualità assente in tale ipotesi, là dove il diritto di recedere spetta a ciascun socio in conseguenza di un determinato assetto statutario [6].


3. I precedenti giurisprudenziali

Il problema relativo all’ambito di applicazione dell’art. 2473, 2° comma, c.c. e, nello specifico, all’equiparazione delle società con un termine di durata estremamente lungo a quelle contratte a tempo indeterminato, ai fini del recesso ad nutum, è stato risolto in modo differente dalla giurisprudenza di merito. Il maggior numero di pronunce giurisprudenziali che, dopo la riforma, si è occupato della questione, ha optato per un’interpre­tazione restrittiva del dato normativo, riconoscendo il diritto di recedere ad nutum esclusivamente nei casi in cui l’atto costitutivo non preveda alcuna durata, negando il recesso allorquando lo statuto sociale contenga l’indicazione di un termine, anche se riferito ad un momento lontano nel tempo. Tale orientamento fa proprie le argomentazioni dottrinali contrarie ad una lettura e­stensiva della fattispecie legittimante, basate su esigenze di salvaguardia del patrimonio sociale, rifiutando di applicare analogicamente l’art. 2285 c.c. alle s.r.l. Viene sottolineato come il dettato della norma da ultimo citata trovi giustificazione nella struttura e nella disciplina delle società di persone, in cui è preponderante l’interesse personale dei soci alla partecipazione alla società, senza poter essere trapiantata nelle società di capitali dove, invece, predominano le ragioni patrimoniali connesse all’in­ve­stimento [7]. A sostegno di tali conclusioni, la giurisprudenza adduce pure il diverso regime legale di trasferibilità delle partecipazioni sociali: libero nelle s.p.a e nelle s.r.l., in virtù degli artt. 2355 e 2469 c.c.; condizionato al consenso di tutti i soci, previsto dall’art. 2252 c.c. per le cessioni di quota inter vivos e dall’art. 2284 c.c. per l’eventuale subingresso degli eredi nella partecipazione del socio defunto. Queste ragioni avrebbero indotto, dunque, il legislatore a stabilire il recesso ad nutum nelle società di capitali solo in caso di vincolo sociale perpetuo [8]. Di diverso avviso si è manifestata altra parte della giurisprudenza, la quale ha ritenuto che, allorquando il termine della società sia stabilito in modo da superare la normale durata della vita umana, la società debba considerarsi contratta a tempo indeterminato, con conseguente facoltà per i soci di recedere ad nutum [9]. Tali pronunce [continua ..]


4. La dottrina

L’introduzione del recesso ad nutum in caso di società contratta a tempo indeterminato è stata diversamente accolta dalla dottrina che, per una parte, ha messo in luce l’estraneità alle logiche delle società di capitali di questo istituto, per sua natura più vicino alle dinamiche dei contratti sinallagmatici [15], per altro verso, si è dimostrata meno critica nei confronti di siffatta previsione normativa, in particolar modo per le s.r.l., dove, a causa della mancanza di un mercato delle partecipazioni, è più sentita l’esigenza di disinvestire ove la società sia contratta a tempo indeterminato [16]. Questo differente approccio ha contribuito a dividere la dottrina sull’ambito di applicazione di tale ipotesi di recesso e sulla definizione di società “contratta a tempo indeterminato” rilevante a tal fine. In particolare, è stato evidenziato da alcuni come il recesso ad nutum sia espressione del principio di inammissibilità dei vincoli perpetui, appositamente richiamato dalla Relazione illustrativa allo schema del d.lgs. n. 6/2003 (con riferimento all’analoga causa di recesso prevista in sede di s.p.a.), il quale avrebbe ragion d’essere, con i dovuti temperamenti, anche in ambito societario [17]. Sicché le istanze di tutela del socio, poste a fondamento di tale causa di exit, portano a riconoscere il diritto in questione anche in società, formalmente contratte a tempo determinato, il cui termine di durata le renda sostanzialmente a tempo indefinito [18]. Il problema diviene, allora, stabilire quando questo accada e, dunque, quali siano i presupposti affinché il recesso ad nutum possa essere esercitato anche in società stipulata a tempo determinato [19]. Il criterio più accreditato è quello che fa leva sulla durata media della vita umana, ammettendo il recesso in favore di tutti i soci, nel caso in cui la società sia contratta per tutta la loro vita o per un tempo eccedente la presumibile durata della stessa; ovvero ancora, secondo alcuni, in favore del singolo socio, nel caso in cui il termine sia estremamente lungo se parametrato alle sue personali aspettative di vita [20]. A tale esito si giunge, per lo più, rifacendosi all’art. 2285 c.c., che prevede il recesso in caso di società di persone contratta a tempo indeterminato e [continua ..]


5. Il commento

Nel caso de quo, a sostegno del riconoscimento del diritto di recesso ad nutum in favore dei soci di una s.r.l. (il cui termine di durata, lo si ricorda, era fissato all’anno 2100), il tribunale di Bologna, nell’esten­dere la portata dell’art. 2473, 2° comma, c.c., non fa altro che seguire quanto detto sul punto dalla Corte di Cassazione, in una decisione di poco precedente a quella del decreto in commento [32]. Su tale pronuncia vanno fatte alcune brevissime annotazioni: il Supremo Collegio, nell’ammettere il recesso ad nutum allorquando la società presenti un termine di durata abnorme, si richiama, in maniera laconica, all’art. 2285 c.c., per poi soffermarsi sulla funzione che il termine di durata svolge nel diritto societario; infine, si fa riferimento al ruolo svolto dal recesso, come potenziato dalla riforma del 2003, a tutela dei soci di minoranza, ai quali viene concesso di fuoriuscire dalla società qualora le decisioni della maggioranza o le scelte gestionali abbiano modificato i “connotati essenziali dell’impresa selezionata dall’investi­tore”. Tale contesto di maggiore favor verso il recesso spinge la Corte ad affermare la possibilità di avvalersi dello stesso tutte le volte in cui l’atto costitutivo non indichi un termine razionalmente collegato al progetto imprenditoriale che ne costituisce l’og­get­to [33]. Anzitutto, è bene dire che il riferimento al maggior rilievo riconosciuto al recesso dalla riforma del 2003 ed alla sua funzione di tutela delle minoranze è inconferente rispetto a questa ipotesi di exit, non essendoci alcuna connessione con le dinamiche endosocietarie per le quali il legislatore ha previsto ed ampliato il presente istituto. Bisogna, infatti, ribadire come l’art. 2473, 2° comma, c.c. attribuisce il recesso in favore di tutti i soci, per il solo fatto che la società è contratta a tempo indeterminato, indipendentemente da una decisione sociale o da un’o­perazione gestionale. Manca, pertanto, una qualsiasi modifica delle condizioni dell’in­ve­stimento. È opportuno, allora, individuare la ratio sottesa all’introduzione di tale ipotesi di recesso, per esaminare, alla luce di questa, quanto possa giustificarsi la lettura estensiva del dato normativo, compiuta nella decisione giudiziale in commento. In proposito, la Relazione al d.lgs. [continua ..]


NOTE