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1. Fattispecie e quesiti - 2. L'invalidità delle clausole contenenti la disciplina del recesso e della liquidazione della quota - 3. Il recesso nell'ottica delle clausole del nuovo statuto - NOTE
1.1. La fattispecie. – Gli aspetti di base che, sul piano fattuale, costituiscono il background del presente parere possono essere riassunti nei termini qui di seguito riportati. In data 21 novembre 1980, l’assemblea dei soci della X S.p.A. (d’ora in poi la «società») delibera la trasformazione in società a responsabilità limitata e procede, pertanto, a variare lo statuto. In base alle modifiche apportate allo stesso (che, anche dopo la trasformazione, è rimasto atto separato rispetto all’atto costitutivo, conservando la denominazione di statuto), la società – avente per oggetto il commercio, in e senza esclusiva, l’esercizio di agenzia, di rappresentanza, di commissione e concessione di motoveicoli e autoveicoli in genere, macchine da lavoro, motori marini ed imbarcazioni, anche con acquisto ed iscrizione dei medesimi a nome della società nei pubblici registri; l’esercizio di officina meccanica e di riparazione, di carrozzeria e di autorimessa ed il commercio di pezzi di ricambio, accessori ed articoli tecnici in genere – ha durata fino al 30 giugno 2050. Nello statuto viene, inoltre, previsto che: «la cessione delle quote sociali in tutto o in parte per atto tra vivi è consentita soltanto fra i soci a mezzo di offerta in opzione, in proporzione alle quote da ciascun altro socio possedute ed al prezzo determinato in carenza di accordo fra le parti, da un Collegio Arbitrale di tre membri […]. Solo con la preventiva autorizzazione della maggioranza assoluta dell’assemblea della società le quote non optate possono essere vendute a qualsiasi prezzo anche ai non soci, trascorsi sei mesi dalla notifica dell’offerta di opzione e con l’indicazione del prezzo come innanzi stabilito dal Collegio Arbitrale» (art. 6). Il socio, Y, titolare di una quota pari al 29% del capitale sociale, ed esercitante, in proprio, da diversi anni una attività commerciale e immobiliare non concorrente rispetto all’attività propria della società, decide, ad un certo momento, di cedere la propria partecipazione e avvisa gli altri due soci (Z1 e, la moglie di questo, Z2). Sono, pertanto, avviate delle trattative: trattative che, pur essendo pervenute ad uno stato avanzato, vengono del tutto inaspettatamente e alquanto singolarmente interrotte in data 6 maggio 2008 da parte di Z1 e Z2. In [continua ..]
2.1. L’art. 13 dello statuto e il diritto di recesso. – Il primo quesito induce, anzitutto, a rilevare che, in base all’art. 13 dello statuto, il rimborso del valore della partecipazione, in caso di recesso, viene determinato nel rispetto dei criteri di cui all’art. 2473 c.c., nonché di quelli fissati dallo statuto in relazione alla c.d. prelazione impropria. In tal modo, il patto sociale introduce un obbligo per l’organo deputato a valutare il valore della partecipazione – organo che, secondo la prevalente dottrina, è quello amministrativo [[6]] – di considerare e applicare non solo i criteri (legali) di cui all’art. 2473 c.c., ma anche quelli espressamente previsti in statuto per la c.d. prelazione impropria. L’art. 13, inoltre, stabilisce che, in caso di mancato collocamento della partecipazione presso gli altri soci e di utilizzo delle riserve disponibili, la partecipazione stessa verrà rimborsata con le modalità fissate per la c.d. prelazione impropria e, cioè, con la possibilità, ivi prevista, di utilizzare un programma di rateizzazione certamente penalizzante per il socio recedente. 2.2. L’art. 2473 c.c.: la posizione della dottrina e della giurisprudenza. – Prima di valutare, nel concreto, la legittimità o meno dell’art. 13 dello statuto, occorre soffermarsi sul dato normativo – e, cioè, sull’art. 2473 c.c. – e sulla posizione della dottrina e della giurisprudenza che si sono espresse sul punto. A questo proposito, si deve, in primo luogo, ricordare che l’art. 2473 c.c., pur lasciando ampi spazi all’autonomia statutaria nell’individuare casi di recesso diversi da quelli legali, non prevede la possibilità (invece sancita in relazione alle s.p.a. dall’art. 2437-ter c.c.) di derogare al criterio di valutazione ivi stabilito. Criterio che, come è noto, è volto ad individuare un corretto ed equo prezzo della partecipazione, mediante il rinvio al (valore del) patrimonio sociale. La norma richiamata prevede che: «i soci che recedono dalla società hanno diritto di ottenere il rimborso della propria partecipazione in proporzione del patrimonio sociale. Esso a tal fine è determinato tenendo conto del suo valore di mercato al momento della dichiarazione di recesso». La disposizione fa, dunque, [continua ..]
3.1. Premessa. – Come precedentemente esposto (dietro, n. 1.1), il socio Y, a seguito dell’approvazione del nuovo statuto, ha comunicato la propria volontà di recedere dalla società con lettera raccomandata, inviata il 9 giugno 2008. In essa, il socio recedente ha esplicitamente dichiarato che il recesso era esercitato «a fronte della delibera assembleare assunta in data 21 maggio 2008, con la quale è stato modificato lo statuto della suddetta società, e, in particolare, con riferimento al tenore dei nuovi artt. 10 (rectius, 10.10) e 13 (rectius, 13.08)». Per valutare la legittimità di questo recesso, occorre svolgere alcune considerazioni di carattere generale in ordine a detta delibera: più precisamente, con riguardo al nuovo statuto con essa approvato e alle cause di recesso nel medesimo previste e regolate. 3.2. La causa di recesso ex (nuova) clausola sulla trasferibilità della partecipazione. – Nella lettera citata, il recedente scrive che il recesso è stato esercitato in ragione, tra l’altro, del contenuto dell’art. 10.10. La disposizione – nel fissare condizioni e limiti che devono essere rispettati nel caso in cui l’assemblea dei soci sia chiamata ad esprimere il placet al trasferimento della partecipazione a terzi –, da un lato, modifica radicalmente il precedente art. 6 dello statuto del 1980, che – come sopra si è anticipato (dietro, n. 1.1) – enunciava una clausola di mero gradimento; dall’altro, determina il venir meno della causa di recesso di cui all’art. 2469, 2° comma, c.c. Questa circostanza, secondo una certa dottrina, potrebbe già legittimare il recesso esercitato dal socio. L’art. 2473, 1° comma, c.c., infatti, collega – come è risaputo – il diritto di recesso al fatto che siano eliminate una o più cause di recesso «previste dall’atto costituivo». La norma è stata interpretata estensivamente fino a ricomprendere, come motivo di recesso, anche l’eliminazione di cause (legali) di recesso: quale quella connessa alla previsione di una clausola di mero gradimento o quella riconducibile alla durata indeterminata della società. In proposito, è stato rilevato che la circostanza «che la situazione legittimante il recesso sia [continua ..]