Rivista di Diritto SocietarioISSN 1972-9243 / EISSN 2421-7166
G. Giappichelli Editore

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Osservazioni in tema di fusione tra associazioni non riconosciute (nota a Cass., 23 gennaio 2007, n. 1476) (di Luigi Ottieri  )


CORTE DI CASSAZIONE, 23 gennaio 2007, n. 1476 – Losavio Presidente – Rordorf Estensore – Cafiero P.M. – B.M. c. La associazione professionale Vita Samory Fabbrini e associati

Professionisti in genere – Associazione tra professionisti – Socio fondatore deceduto – Uso del nome – Legittimità – Limiti – Fattispecie

(L. 23 novembre 1939, n. 1815)

Ammessa la possibilità di estendere la denominazione di un’associazione a professionisti, già fondatori dello studio e non più associati, perché deceduti, non può in ogni caso ricomprendersi il nome di chi non sia mai stato fondatore o partecipe di quello studio e solo in via indiretta, all’esito di molteplici passaggi e con rilevanti mutamenti soggettivi, può storicamente collegarsi all’asso­ciazione professionale (Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione di merito che aveva negato la possibilità di utilizzare il nome di un famoso giurista, il cui uso era stato consentito da uno degli eredi ad una associazione di avvocati di cui anch’egli era parte, la quale aveva a sua volta autorizzato l’uso del nome a due ulteriori associazioni professionali che da essa si erano distaccate). (Rigetta, App. Milano, 30 Maggio 2003) (1).

Impugnazioni civili – Cassazione (ricorso per) – Motivi del ricorso – in genere – codice deontologico – Norme di diritto ai fini dell’art. 360 cod. proc. civ. – Esclusione – Limiti

(Art. 360 c.p.c.)

Le norme del codice deontologico di un ordine professionale, al di fuori dell’ambito disciplinare, non sono assimilabili a norme di diritto operanti nell’ordinamento generale, né possono essere considerate tali nell’accezione e ai fini di cui all’art. 360 n. 3 c.p.c.. (Rigetta, App. Milano, 30 maggio 2003) (2).

Impugnazioni civili – Appello – Poteri del collegio – Rimessione della causa al giudice di primo grado – Cassazione (ricorso per) – Motivi del ricorso – In genere – Tribunale – Erronea composizione collegiale o monocratica – Rimessione al primo giudice – Esclusione – Appello – Mancato annullamento sentenza di primo grado – Ricorso per Cassazione – Ammissibilità – Condizioni – Fattispecie

(Artt. 353 e 354 c.p.c.)

L’eventuale errore in ordine alla composizione collegiale o monocratica del tribunale non dà luogo a rimessione della causa al primo giudice; pertanto, il fatto che la corte d’appello abbia giudicato sul presupposto della validità della precedente pronuncia ovvero in sostituzione del tribunale, dopo averne annullato la sentenza, può integrare un motivo di ricorso per cassazione solo qualora risulti, e sia stato dedotto dal ricorrente, che l’applicazione delle regole processuali del giudizio di secondo grado, in luogo di quelle di primo grado cui si sarebbe dovuto far riferimento, ha influito sulla decisione. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto inammissibile il ricorso con cui si censurava la decisione d’appello, che, in luogo di annullare la sentenza del tribunale resa in composizione collegiale sul presupposto che la causa vertesse in materia di società, aveva qualificato il rapporto come associazione in partecipazione di competenza del collegio). (Rigetta, App. Milano, 30 maggio 2003) (3).

Associazioni e fondazioni – Norme sulle società – Applicazione analogica – Ammissibilità – Unificazione di associazioni non riconosciute – Norme sulla fusione – Applicabilità – Effetti – Ricorso per Cassazione proposto una delle associazioni unificate – Ammissibilità – Fondamento

(Artt. 14, 2501, 2504-bis c.c., Artt. 110, 299, 300 c.p.c.)

L’associazione non riconosciuta, ancorché sfornita di personalità giuridica, è considerata dal­l’ordinamento come centro di imputazione di situazioni giuridiche distinto dagli associati, cui sono analogicamente applicabili, in mancanza di diversa previsione di legge o degli accordi associativi, le norme stabilite in materia di associazioni riconosciute o di società. Pertanto, in caso di unificazione di due associazioni non riconosciute può farsi riferimento alle norme sulla fusione, con la conseguenza che la sopravvenuta unificazione non incide sull’ammissibilità del ricorso per cassazione proposto a nome di una delle associazioni unificate in quanto parte del giudizio di merito; infatti, a seguito della nuova formulazione dell’art. 2504 – bis cod. civ., in base al cui primo comma la società che risulta dalla fusione o quella incorporante assumono i diritti e gli obblighi delle società partecipanti alla fusione, proseguendo in tutti i loro rapporti, anche processuali, anteriori alla fusione, la fusione configura una vicenda meramente evolutivo-modificativa del medesimo soggetto giuridico, senza la produzione di alcun effetto successorio ed estintivo. (Rigetta, App. Milano, 30 Maggio 2003) (4).

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Gli avvocati M. e B.N., A.L., A. ed Ri.Vo.An., componenti dell’associazione professionale “M. Bastianini e Associati”, con atto notificato nel luglio del 1998 citarono in giudizio dinanzi al Tribunale di Milano l’associazione professionale “Bastianini, Vita Samory, Rittatore, Fabbrini e Associati” e l’associazione professionale “Vita Samory, Fabbrini e Associati”, nonché personalmente gli avvocati V.S.L., F.B. L., C.L., G.F., T.G., G. A., T.F., C.G., F. R. e P.C.

Gli attori riferirono che dopo la morte del prof. C. F., avvenuta nel 1965, l’attività professionale a lui facente capo era stata proseguita dai figli, unitamente all’avv. B.M., il quale già in precedenza collaborava con il defunto. Tra detti avvocati era stata in seguito costituita, nell’anno 1974, una vera e propria associazione professionale, che aveva adottato il nome di “Studio Camelutti”, alla quale avevano aderito anche altri professionisti, tra cui l’avv. V.S. L. Nel 1977 era stato stipulato un nuovo atto di associazione professionale; ma da questa, il 10 febbraio 1978, l’avv. C. T., ormai unico figlio supersite del defunto fondatore dello studio, era receduto concedendo peraltro il suo consenso a che l’associazione continuasse ad utilizzare il nome “C.”, senza limitazione alcuna. Negli anni compresi tra il 1985 ed il 1995 l’associazione, cui frattanto si erano aggiunti ancora ulteriori professionisti, aveva pertanto operato con la denominazione “Studio legale fondato da C.F.”; e poi, a partire dal 1995, con quella di “Associazione professionale Bastianini, Vita Samory, Rittatore, Fabbrini e Associati – Studio legale fondato da C.F.”. Il 25 novembre 1997 da tale associazione avevano preso vita due ulteriori associazioni, indipendenti e distinte, l’una costituita dagli attori e l’altra dai convenuti, con l’intesa che entrambe avrebbero potuto adoperare denominazioni e marchi riferiti al fondatore dello studio, C.F.

Ciò premesso, gli attori chiesero al Tribunale di dichiarare nulla quest’ultima convenzione e di inibire ai convenuti l’uso del nome del prof. C., attesa l’indisponibilità del relativo diritto, di cui comunque non avrebbe potuto disporre la preesistente associazione.

Analoghe domande furono poste a base di un’altra citazione, proposta quasi contemporaneamente dai sigg. M., G., Gl. e C.A. e B.N., tutti discendenti a vario titolo del prof. C.F., nei confronti delle associazioni professionali “Bastianini, Vita Samory, Rittatore, Fabbrini e Associati” e “Vita Samory, Fabbrini e Associati”, della società semplice “Studio legale fondato da C.F.”, con sede in (OMISSIS), della “Partenership Carnelutti”, con sede in (OMISSIS), e personalmente di tutti gli avvocati già convenuti nella prima causa, oltre che dell’avv. Francesco Seassaro.

I giudizi furono riuniti e la convenuta associazione “Vita Samory, Fabbrini e Associati” propose domanda riconvenzionale per fare inibire alla associazione “Bastianini, Rittatore, Carnelutti, Arnaboldi e Associati” (già “M. Bastianini e Associati”) l’uso della denominazione riferibile al defunto prof. C.

Con sentenza depositata il 17 maggio 2001 il Tribunale, in composizione collegiale, dichiarò nullo l’atto con cui, in data 25 novembre 1997, era stato conferito alle due contrapposte associazioni professionali il diritto di adoperare la denominazione “Studio legale fondato da C.F.” ed inibì alle altre anzidette organizzazioni collettive di accreditarsi presso il pubblico adoperando il nome C.

La Corte d’Appello di Milano, chiamata a pronunciarsi sui contrapposti gravami delle parti, con sentenza emessa il 30 maggio 2003: a) dichiarò nulla l’autorizzazione con cui l’avv. C. T. aveva consentito ad altri la prosecuzione del­l’uso del nome C.; b) dichiarò nullo l’atto con cui l’asso­ciazione professionale costituita nel 1977 aveva trasferito il diritto all’uso del nome di C.F. alle due associazioni professionali da essa in seguito derivate; c) inibì la prosecuzione in qualsiasi forma dell’uso del nome C. all’associazione professionale “Vita Samory, Fabbrini e Associati” ed agli avvocati in essa operanti; d) rigettò la domanda volta a far accertare che l’associazione “Bastianini, Rittatore, Carnelutti, Amaboldi e Associati” e l’avv. C.A. hanno il diritto di adoperare il nome C. “nel modo più ampio e senza alcuna limitazione”, incidentalmente accertando il loro diritto ad utilizzare quel nome solo entro i limiti segnati dalla L. n. 1815 del 1939, art. 1, e cioè facendo seguire alla dizione “studio legale” i nomi, cognomi e titoli professionali dei singoli associati; e) dichiarò inammissibile la domanda volta a far inibire al predetto avv. C.A., nell’ambito dell’asso­ciazione professionale da ultimo richiamata, l’uso del cognome C. se non accompagnato dal proprio nome di battesimo con pari evidenza grafica; f) rigettò la domanda generica di risarcimento dei danni proposta dall’associazione professionale “Vita Samory, Fabbrini e Associati” e personalmente dagli avvocati in essa operanti; g) confermò per il resto la sentenza di primo grado.

Avverso tale pronuncia hanno proposto ricorso per Cassazione, affidato a sei motivi, l’associazione “Bastianini, Arnaboldi, Carnelutti, Rittatore e Partners”, nonché personalmente gli avvocati M. e B.N., A. ed R.V. A. e A.L.

Hanno resistito con controricorso, formulando a propria volta un motivo di ricorso incidentale, l’associazione professionale “Vita Samory, Fabbrini e Associati”, nonché personalmente gli avvocati V.S.L., F.B.L., C.L., G.F., T.G., G.A., T. F., C.G., F.R. e C. P.

Entrambe le parti hanno depositato memorie.

Con ordinanza pronunciata in udienza i ricorsi proposti avverso la medesima sentenza sono stati riuniti, a norma dell’art. 335 c.p.c.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. I controricorrenti hanno preliminarmente eccepito l’inammissibilità del ricorso proposto dalla associazione “Bastianini, Arnaboldi, Carnelutti, Rittatore e Partners” (nuova denominazione della “Bastianini, Rittatore, Carnelutti, Arnaboldi e Associati” nei cui confronti è stata pronunciata l’im­pugnata sentenza). E ciò sotto due distinti profili.

1.1. In primo luogo si è osservato che la procura per il ricorso in cassazione è stata rilasciata, a nome dell’asso­ciazione ricorrente, dal “suo legale rappresentante, avv. B.M., in forza di Delib. 3 giugno 1999”; ma tale ultima delibera – si è obiettato – non fa affatto menzione del potere di proporre ricorso per Cassazione. L’impugnazione sarebbe stata quindi proposta da chi non ne aveva il potere.

1 controricorrenti hanno poi fatto presente, in secondo luogo, che sin dal 1 settembre 2003, cioè da data precedente a quella della proposizione del ricorso, l’associa­zione ricorrente si è fusa in una diversa associazione, denominata Me Dermott, Will & Emery, la quale ha assunto la denominazione di Me Dermott, Will & Emery, C.. Essa, quindi, avrebbe cessato di esistere: donde l’inammissibilità del ricorso proposto a suo nome.

1.2. L’eccezione d’inammissibilità non appare dotata di fondamento sotto nessuno dei due indicati profili.

1.2.1. Quanto al primo profilo, è sufficiente osservare come non sia neppure contestato che l’avv. B.M., firmatario della procura speciale rilasciata al difensore per proporre il ricorso per cassazione, rivesta la qualifica di legale rappresentante dell’associazione ricorrente. Tale qualifica, infatti, risulta essergli stata attribuita in modo espresso proprio con la Delib. associativa 3 giugno 1999, di cui si è sopra fatta menzione, nella quale si precisa anche che al legale rappresentante ivi designato sono conferiti i poteri di rappresentanza dell’ente davanti all’autorità giudiziaria “in qualunque sede e grado di giurisdizione”. La circostanza che, in una successiva parentesi, vengano poi elencate (ma a scopo palesemente solo esemplificativo) alcuni organi giurisdizionali dinanzi ai quali il predetto legale rappresentante è abilitato ad agire in nome dell’associazione, senza far cenno anche alla Corte di Cassazione, non consente certo di escludere che il conferito potere rappresentativo abbracci anche l’ipotesi del ricorso per Cassazione.

1.2.2. Venendo al secondo profilo, giova premettere che, dalla documentazione ritualmente in questa sede prodotta da parte controricorrente, effettivamente si ricava esservi stata, nell’imminenza della proposizione del ricorso, una fusione tra l’associazione professionale facente capo all’avv. B. ed un’altra associazione professionale denominata Me Dermott, Will & Emery. Che tali associazioni si siano poi in seguito nuovamente separate – come replica la difesa dei ricorrenti – non rileva ai fini che qui interessano, poiché quel che importa stabilire è se l’associazione in nome della quale il ricorso per Cassazione è stato proposto fosse o meno giuridicamente esistente al tempo della proposizione del ricorso medesimo.

Ciò chiarito, è opportuno altresì premettere che, come già in epoca non recente questa Corte ha avuto modo di precisare (cfr., Cass. 14/03/1967, n. 583), nelle associazioni non riconosciute, in mancanza di norme più dettagliate o di una diversa volontà espressa dagli associati, è possibile fare ricorso, in via analogica, alle disposizioni che regolano casi simili in materia di associazioni riconosciute o di società, compatibilmente con la struttura di ogni singolo rapporto; ed è perciò possibile far riferimento alle disposizioni dettate dal codice in tema di fusione di società, in quanto applicabili, qualora sia accertato che due associazioni non riconosciute si sono unificate. Principio, questo, che sembra coerente anche con le più recenti linee di tendenza dell’ordinamento in materia di enti collettivi, certamente più favorevoli ad una maggiore interscambiabilità dei ruoli, pur tra enti tipologicamente diversi, come eloquentemente dimostra l’introduzione di nuove figure di trasformazione eterogenea nell’art. 2500 octies c.c.

Così stando le cose, si deve concludere che gli effetti della sopravvenuta fusione delle due menzionate associazioni professionali non incidono sull’ammissibilità del ricorso per cassazione proposto a nome di una di esse, in quanto parte del precedente giudizio di merito, alla luce di quel che dispone il nuovo testo dell’art. 2504 bis c.c., comma 1.

Come recentemente puntualizzato da questa Corte, infatti, da detta norma si ricava che la fusione non è più configurabile come un evento da cui consegua l’estinzione della società incorporata, derivandone invece l’integra­zio­ne reciproca degli enti partecipanti all’operazione, nell’am­bito di una vicenda meramente evolutiva del medesimo soggetto, il quale quindi conserva la propria identità pur in un nuovo assetto organizzativo (Sez. un. 8/02/2006, n. 2637 e Cass. 23/06/2006, n. 14526). Il che, anzitutto, rende qui irrilevante ogni discussione sul c.d. principio di ultrattività del mandato e sui limiti che esso incontra nel passaggio da un grado di giudizio all’altro: infatti, ove non si dia un evento interruttivo, assimilabile alla morte della parte, neppure vi è materia per ipotizzare l’estinzione del mandato rilasciato dalla parte stessa al proprio procuratore e difensore in giudizio. Resta invece confermata, in via di principio, la riferibilità dell’attività processuale svolta in nome della società (o associazione) incorporata all’incor­po­rante o a quella che risulti dalla fusione; né si può porre un problema di potere rappresentativo della persona fisica che ha agito in nome dell’ente, per l’ipotesi in cui il legale rappresentante dell’associazione incorporante (o risultante dalla fusione) non coincida con quello dell’incorporata che ha proposto il ricorso, giacché una tale ipotesi non è stata nel caso in esame neppur dedotta. Ci si potrebbe, semmai, interrogare sull’identificazione del soggetto collettivo di cui si tratta, ove per effetto dell’avvenuta fusione esso ormai non sia più designabile con la denominazione in precedenza utilizzata dall’associazione incorporata. Ma sarebbe questione da risolvere su altra base, ossia stabilendo se l’ine­satta denominazione in concreto adoperata (quella del­l’incorporata, in luogo dell’incorporante) sia in concreto tale da rendere incerta l’identità dell’ente: il che, nella specie, è sicuramente da escludere.

2. Si può dunque senz’alto passare all’esame dei motivi di ricorso, cominciando dal ricorso principale.

2.1. Il primi due motivi investono il tema della validità della sentenza di primo grado, siccome pronunciata dal Tribunale in composizione collegiale in una materia che, a parere di parte ricorrente, avrebbe invece implicato una pronuncia in composizione monocratica.

La Corte Territoriale ha rigettato l’eccezione di nullità sollevata a tal proposito nell’atto d’appello. Dopo aver premesso che la questione prospettata non avrebbe comunque potuto comportare la rimessione della causa al primo Giudice, né quindi precluderne l’esame nel merito ad opera dello stesso giudice del gravame, la Corte milanese ha ritenuto che gli studi legali associati introno ai quali verte la lite, pur non essendo configurabili come delle società, siano frutto di contratti associativi innominati i cui caratteri preminenti consentirebbero di assimilarli ad associazioni in partecipazione. Ha quindi osservato che l’ecce­zione di nullità della sentenza di primo grado non era stata proposta, come avrebbe dovuto, anche sotto questo ulteriore profilo; ed ha comunque dedotto da quanto sopra l’applicabilità al caso di specie del disposto dell’art. 48, comma 2, n. 7, dell’ordinamento giudiziario, che rimette al Tribunale in composizione collegiale anche le controversie in materia di associazione in partecipazione.

2.1.1. Col primo motivo d’impugnazione, denunciando la violazione degli artt. 99, 112, 158, 161 c.p.c., comma 1, e art. 342 c.p.c., parte ricorrente ricorda come l’assunto secondo cui il Tribunale doveva giudicare in composizione collegiale fosse state argomentata dal primo Giudice sul presupposto che la controversia avesse ad oggetto rapporti nascenti da contratti di società (in specie, società semplice) e come proprio su questa qualificazione si fossero appuntate le censure degli appellanti, i quali avevano eccepito la nullità della sentenza di primo grado. La Corte d’Appello, che pure quelle censure ha condiviso ritenendo anch’essa non potersi nella specie parlare di contratti di società, avrebbe dovuto accogliere il gravame e non, invece, procedere d’ufficio ad una diversa configurazione dei rapporti per cui è causa, così incorrendo in un vizio di extrapetizione. Del tutto infondata sarebbe poi l’affermazione secondo cui, nell’eccepire la nullità della sentenza di primo grado per difettosa composizione del Giudice, l’appellante avrebbe dovuto contestare specificamente la sussistenza di tutti i possibili criteri cui la legge ricollega la necessità che il tribunale decida in composizione collegiale.

Il secondo motivo di ricorso, con cui si lamenta la violazione degli artt. 2549 c.c. e segg., e del già citato art. 48 dell’ordinamento giudiziario, è volto invece a contestare la riconducibilità dei contratti in discorso alla figura dell’asso­ciazione in partecipazione.

2.1.2. Entrambi tali doglianze, che possono essere esaminate congiuntamente, appaiono inammissibili per difetto di decisività.

Come già la Corte d’Appello non aveva mancato di osservare, infatti, l’eventuale difetto di composizione del Tribunale – giudicante in composizione collegiale anziché monocratica – non sarebbe stato comunque tale da implicare la necessità di rimettere la causa in primo grado, non ricorrendo alcuna delle ipotesi a tal riguardo tassativamente enunciate dagli artt. 353 e 354 c.p.c. Che sussistesse o meno la denunciata nullità, pertanto, la Corte milanese non avrebbe potuto esimersi dal giudicare nel merito, come in realtà ha fatto. Discutere, allora, se la qui impugnata sentenza avrebbe dovuto essere emessa dalla Corte d’Ap­pello in veste di Giudice di secondo grado, sul presupposto della validità della precedente pronuncia del Tribunale, o viceversa quale Giudice di prime cure (in realtà unico Giudice di merito), in sostituzione del Tribunale e dopo averne annullato la precedente sentenza, potrebbe conservare rilievo solo qualora la parte ricorrente avesse dedotto l’esistenza in concreto di un qualche pregiudizio per lei derivato da tale deviazione processuale. Anche la violazione delle norme processuali può infatti esser prospettata in cassazione solo quale vizio della decisione, sia pur conseguente alla nullità di un atto del procedimento.

In altri termini, l’eventuale errore consistente nell’avere la Corte d’Appello emesso la sua pronuncia senza preventivamente annullare la sentenza del Tribunale in difettosa composizione potrebbe assumere rilievo, in questa sede, soltanto nel caso risultasse – e fosse stato dedotto dalla parte ricorrente – che l’applicazione delle regole processuali del giudizio di secondo grado, in luogo di quelle di primo grado cui si sarebbe dovuto invece far riferimento, ha influito sulla decisione (ad esempio perché, facendosi applicazione delle disposizioni dettate dall’art. 345 c.p.c., non si è dato ingresso ad una nuova eccezione o ad una nuova prova); ma ove una simile situazione non ricorra, o comunque non sia stata prospettata dalla parte interessata, quell’errore – ove pure esistente – non può dirsi abbia influito sulla decisione. Esso, dunque, non può formare oggetto di ricorso per Cassazione.

2.2. Il terzo, il quarto ed il quinto motivo del ricorso, con cui si denunciano violazioni di legge e vizi di motivazione dell’impugnata sentenza, concernono il merito della vertenza e sono tutti, in vario modo, finalizzati ad affermare la legittimità dell’uso del nome C., senza limitazioni di sorta, ad opera dell’associazione professionale raccolta intorno all’avv. B.

La Corte d’Appello ha negato la fondatezza di siffatta pretesa essenzialmente perché, avendo ricondotto l’asso­ciazione professionale in questione alla previsione della L. n. 1815 del 1939, art. 1, ne ha dedotto che detta disposizione osta all’uso da parte di un’associazione professionale di nomi di avvocati defunti, perciò non più partecipi al­l’associazione medesima (ancorché si tratti del fondatore dello studio); e ne dedotto altresì che la partecipazione dell’avv. C.A. consente di inserire il cognome di costui nella denominazione solo se accompagnato dall’indicazione del prenome.

I ricorrenti assumono (nel terzo motivo) che quest’ultima affermazione sarebbe affetta da insanabili contraddizioni nella motivazione, nonché tra la motivazione stessa ed il dispositivo;

sostengono (ancora nel terzo motivo) che la citata L. n. 1815 del 1939, art. 1, da leggersi anche alla luce della legislazione posteriore e di quella comunitaria, non vieterebbe affatto di inserire nella denominazione di un’associazione professionale anche il nome del fondatore defunto; lamentano (nel quarto motivo) che erroneamente la Corte Territoriale abbia negato rilevanza alla previsione dell’art. 17, comma terzo, del codice deontologico forense (a tenore della quale “è consentita l’indicazione del nome di un avvocato defunto, che abbia fatto parte dello studio, purché il professionista lo abbia espressamente previsto o abbia disposto per testamento in tal senso o vi sia il consenso unanime dei suoi eredi”); si dolgono, infine (nel quinto motivo) che la medesima Corte territoriale non abbia preso in esame ulteriori titoli in base ai quali era stato invocato il diritto all’uso del nome C., titoli consistenti nel consenso in proposito espresso dai congiunti del defunto fondatore dello studio e negli elementi di continuità familiare e professionale tra detto studio e l’associazione ora impersonata dagli stessi ricorrenti.

Nessuna di tali doglianze coglie però nel segno, essendo esse in taluni casi inammissibili ed in altri infondate.

2.2.1. Val la pena di osservare subito che nessuna contraddizione sussiste nell’avere la Corte d’Appello, da un lato, affermato la legittimità dell’uso del cognome C. ad opera di un’associazione cui partecipava un discendente del celebre giurista, il quale tuttora porta quel cognome (l’avv. C.l.), e d’altro lato sostenuto che l’uso di quel medesimo cognome non avrebbe potuto dirsi legittimo se non accompagnato anche dal prenome del professionista vivente, in quanto tuttora associato.

È sufficiente leggere la motivazione dell’impugnata sentenza (ed il dispositivo che con essa è coerente) per rendersi conto che l’argomentazione della Corte d’Appello, muovendo dalla premessa dell’applicabilità nella specie del disposto della L. n. 1815 del 1939, art. 1, è fondata sul rilievo per cui tale norma impone alle associazioni di professionisti che ricadono nel suo ambito di adottare una denominazione da cui emerga, senza ambiguità e senza aggiunte potenzialmente fuorvianti per i terzi, l’identità dei soli professionisti associati che operano in associazione. Ma l’uso del mero cognome C., nella valutazione espressamente datane dalla Corte milanese, non risponde a tali requisiti, giacché evoca nei terzi la figura del noto giurista ormai defunto, piuttosto che quella del suo discendente: donde la conclusione, perfettamente coerente con la logica dell’intero ragionamento, secondo cui un’associazione professionale di cui sia partecipe l’avv. C.A. può indiscutibilmente riportare nella sua denominazione anche il cognome di quest’ultimo, ma con l’aggiunta del prenome in guisa tale da evitare il rischio che i terzi incorrano nel­l’equivoco sopra ipotizzato.

2.2.2. Sgomberato il campo dalla particolare posizione dell’avv. C.A. e dai riflessi che la sua personale partecipazione può avere sulla denominazione di uno studio professionale associato, conviene tornare al tema di fondo della controversia: se quello studio possa o meno utilizzare una denominazione che evochi la persona del defunto C.F.

Va a tal proposito premesso che la possibilità di far discendere la legittimità dell’uso di una tale denominazione dal consenso al riguardo prestato dall’avv. C.T. (figlio di F.) all’atto del suo recesso da una prima e più risalente associazione professionale che aveva operato sotto il nome di “Studio Camelutti”, e poi dalla deliberazione con la quale l’associazione che ne era derivata aveva autorizzato l’uso di quella medesima denominazione da parte di due ulteriori associazioni professionali che da essa si erano distaccate (quelle che si contrappongono nella presente causa), è stata esclusa dalla Corte d’Appello, la quale ha dichiarato nulli tanto il suindicato consenso dell’avv. C.T. quanto la deliberazione della menzionata associazione professionale. Siffatta pronuncia – è bene sottolinearlo – è stata assunta in accoglimento di domande nel medesimo senso proposte proprio dagli odierni ricorrenti (unitamente agli eredi di C.F., che avevano intrapreso un’altra causa poi riunita), al fine di negare la legittimità dell’uso di analoga denominazione da parte dell’altra associazione professionale, facente capo all’avv. V.S. È dunque evidente che, in difetto d’im­pu­gnazione proveniente da quest’ultima associazione (o dai singoli legali suoi litisconsorti), la declaratoria di nullità dei suddetti atti negoziali non può più esser messa in discussione e che, di riflesso, nessuna pretesa giuridica potrebbero su di esse fondare neppure gli odierni ricorrenti.

2.2.3. Chiarito, dunque, che le doglianze formulate nel ricorso possono esser prese in esame solo nella misura in cui risultano finalizzate ad evidenziare titoli di legittimazione all’uso della contestata denominazione diversi da quelli negoziali cui sopra s’è fatto cenno, conviene soffermarsi subito sulla censura avente ad oggetto la pretesa violazione dell’art. 17, comma 3, del codice deontologico forense (nella versione approvata il 7 aprile 1997), dal quale l’asso­ciazione facente capo all’avv. B. aveva inteso trarre argomento in proprio favore e che, viceversa, la Corte d’Appel­lo ha ritenuto da disapplicare, in quanto espressione di un autonomo potere regolamentare del Consiglio dell’ordine forense che non può prevalere su atti di normazione primaria aventi forza di legge.

Tale censura è inammissibile.

Se è vero che le norme del codice deontologico dell’or­dine professionale hanno valenza obbligatoria per gli iscritti all’albo degli avvocati, in quanto integrano il diritto oggettivo ai fini della configurazione dell’illeciti disciplinari (cfr. Sez. un., 23-3-2004, n. 5776; Sez. un., 6-6-2002, n. 8225, ed altre conformi), resta che tale valenza è appunto limitata al profilo disciplinare, proprio in relazione al quale il codice deontologico risulta infatti concepito. Quanto in esso si vieta o si consente, in altri termini, rileva ai fini della configurazione o meno del­l’illecito disciplinare, operandosi in tal modo, attraverso fonti di livello infralegislativo, una tipizzazione di comportamenti considerati riprovevoli o accettabili dalla coscienza collettiva. Ma, al di fuori di quest’am­bito, i codici di comportamento non sono assimilabili a fonti di diritto operanti nell’ordi­na­men­to generale, né quindi possono esser considerate “nor­me di diritto” nell’accezione dell’art. 360 c.p.c., n. 3.

Non solo, dunque, a tali codici non potrebbe essere riconosciuta, in ambito generale, una valenza giuridica tale da derogare, o anche solo idoneamente integrare, disposizioni di legge aventi carattere primario, ma neppure la loro eventuale violazione (al di fuori – ripetesi – dell’ambito dei procedimenti disciplinari cui sopra s’è fatto cenno) è deducibile con ricorso per Cassazione.

2.2.4. Le ulteriori doglianze prospettate dai ricorrenti, come s’è già accennato, hanno in comune il presupposto secondo cui, contrariamente a quanto affermato dalla Corte d’Appello, la L. n. 1815 del 1939, art. 1 (rimasto in vigore pur dopo l’emanazione della L. n. 266 del 1997 e del D.Lgs. n. 96 del 2001) non osterebbe affatto a che il nome di un ex socio o del socio fondatore possa essere inserito nella denominazione di un’associazione professionale costituita a norma di detta legge. Né la Corte d’Appello avrebbe tenuto conto del consenso degli eredi e degli elementi di continuità personale che, nel caso in esame, legittimerebbero l’associa­zione ricorrente a fregiarsi del nome di C.F.

Sennonché occorre osservare – ed è questione invero dirimente – che sono proprio gli elementi di continuità da ultimo richiamati a fare difetto nella vicenda in esame, come indiscutibilmente si ricava tanto dalla pacifica ricostruzione, in punto di fatto, del succedersi delle diverse associazioni professionali che variamente nel tempo hanno preteso di utilizzare il nome di C.F., quanto dalle considerazioni che l’impugnata sentenza, proprio rifacendosi a quella ricostruzione, ha svolto per dimostrare come il consenso prestato da uno degli eredi (l’avv. C.T.) non potesse neppure astrattamente riferirsi all’uso del suddetto nome da parte di associazioni ancora inesistenti quando esso fu prestato.

Anche se allora, discostandosi da quanto in passato è stato invece ripetutamente affermato da questa Corte (Sez. un. 5-11-1993, n. 10942; e Sez. un., 3-3-1994, n. 2077), si volesse in astratto convenire con i ricorrenti circa la possibilità di estendere la denominazione di un’associazione a professionisti i quali, per essere deceduti, non possono più considerarsi associati, quantunque siano stati in vita fondatori dello studio suddetto, certamente non si potrebbe spingere una siffatta possibilità sino a ricomprendervi il nome di chi non è mai stato invece fondatore (o comunque partecipe) dello studio associato di cui si discute, bensì di un diverso ed assai precedente studio, che nessuno assume esser stato da lui condotto in forma associata con altri professionisti (l’avv. B.M., che in quello studio già prestava la propria opera, non lo qualifica come “studio associato”) e che solo in via indiretta, all’esito di molteplici passaggi e con rilevanti mutamenti soggettivi, può storicamente collegarsi all’associazione professionale ora esistente.

Né a diversa conclusione conducono le previsioni dettate in tema di denominazione delle società tra professionisti dal D.Lgs. n. 96 del 2001 (in attuazione della direttiva comunitaria sul libero esercizio della professione di avvocato nei paesi membri dell’Unione europea), peraltro non direttamente applicabili alla differente fattispecie delle associazioni professionali contemplate dalla L. n. 1815 del 1939, citato art. 1.

Anzi, l’art. 18, comma 2, del menzionato D.Lgs. n. 96 del 2001, nello stabilire che non è consentita l’indicazione del nome di un socio avvocato dopo la cessazione della sua appartenenza alla società, salvo diverso accordo tra la società e il socio cessato o i suoi eredi, ma pur sempre a condizione che il nome sia accompagnato dalla precisazione che si tratta di un “ex socio” o di un “socio fondatore” e purché non sia mutata l’intera compagine dei soci professionisti presenti al momento della cessazione della qualità di socio, conferma il principio di verità del nome immanente all’intera normativa sulla denominazione delle organizzazioni professionali collettive. Principio destinato, com’è ovvio, a garantire la tutela dei terzi clienti (pur “senza pregiudicare il valore di quegli elementi organizzativi e di professionalità apportati dall’ex socio e di cui la società continua ad avvalersi”, come indicato nella relazione accompagnatoria del citato decreto), in forza del quale neppure l’eventuale consenso degli eredi potrebbe bastare a legittimare l’uso del nome di un professionista che nessun rapporto diretto abbia mai avuto con la società o con l’associazione della cui denominazione si discute.

2.3. Inammissibile è anche l’ultimo motivo del ricorso principale, con cui si contesta la sufficienza della motivazione in base alla quale la Corte d’Appello ha disposto la compensazione delle spese processuali.

Volta che, come gli stessi ricorrenti non possono non riconoscere, il giudizio di merito si è concluso con una reciproca soccombenza, la scelta di compensare (in tutto o in parte) dette spese si sottrae al vaglio di legittimità, non potendosi in questa sede sindacare – contrariamente a quello che parte ricorrente vorrebbe – il giudizio di bilanciamento ponderale a tal fine compiuto dal Giudice di merito.

3. Il ricorso incidentale richiama l’attenzione sulla domanda di condanna generica al risarcimento dei danni, a suo tempo avanzata dalla convenuta associazione Vita Samory, Fabbrini e Associati nei confronti degli attori.

Tale domanda, rigettata in primo grado, era stata riproposta in secondo grado, sotto forma di appello incidentale, ma la Corte territoriale la ha ugualmente rigettata, sotto il profilo della dedotta responsabilità contrattuale, e l’ha dichiarata inammissibile per novità della causa petendi quanto ai profili di responsabilità extracontrattuale che non risultavano già prospettati in prime cure.

Ora i ricorrenti incidentali, sostenendo che il danno deriva dalla “rottura della simmetria” tra le due contrapposte associazioni professionali di cui s’è detto, affermano invece che la formulazione di quella domanda era sin da principio tale da comprendere entrambi i profili di possibile responsabilità della controparte, essendo stato richiamato anche il disposto degli artt. 2043 e 2598 c.c.

3.1. Neppure questa doglianza è fondata.

Non è in discussione il principio per cui l’eventuale introduzione di profili di responsabilità extracontrattuale, in una domanda originariamente formulata in termini di responsabilità solo contrattuale, comporti una mutatio libelli non ammissibile in secondo grado.

Inammissibile, però, una simile modificazione additiva della domanda è anche in primo grado, se fatta oltre i termini processuali a tal fine consentiti. E sono gli stessi ricorrenti incidentali, nel presente caso, ad indicare che l’invo­cato riferimento agli artt. 2043 e 2598 c.c., era contenuto nelle comparse conclusionali depositate nel giudizio svoltosi dinanzi al Tribunale (si veda il controricorso, pag. 24): il che ha reso tardiva ed inammissibile la domanda di risarcimento del danno extracontrattuale sin dal primo grado, ed ancor più in appello.

4. Tanto il ricorso principale quanto quello incidentale debbono, dunque, essere rigettati.

La reciproca soccombenza induce a compensare le spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte rigetta sia il ricorso principale sia quello incidentale e compensa tra le parti le spese del giudizio di legittimità.

 

(1-2-3-4) Osservazioni in tema di fusione tra associazioni non riconosciute

  
SOMMARIO:

1. Il caso. La normativa di riferimento - 2. I precedenti giurisprudenziali. La dottrina. Il dibattito sulla fusione tra associazioni anteriore alla riforma del 2003 - 3. Lo stato della questione dopo la riforma - 4. Spunti derivanti dalla nuova disciplina dell'impresa sociale - 5. Commento - NOTE


1. Il caso. La normativa di riferimento

Nella sentenza che si annota la Suprema Corte afferma con chiarezza il principio dell’applicabilità analogica, in caso di unificazione di due associazioni non riconosciute, ed in mancanza di diversa previsione di legge o degli accordi associativi, delle norme dettate in tema di associazioni riconosciute e di società. Detta pronuncia giurisprudenziale offre l’occa­sione per ritornare su una delle questioni interpretative più significative che interessano gli enti non lucrativi regolati dal primo libro del codice civile, ovvero quella riguardante la disciplina applicabile a tali soggetti collettivi in considerazione delle norme che troppo spesso si rilevano scarne ed incomplete. Tale circostanza ha comportato il nascere di elaborazioni giurisprudenziali e dottrinarie dirette a colmare le lacune evidenziate, tenuto conto del profondo mutamento di prospettiva che oggi si impone nella soluzione ai problemi pressoché sconosciuti al legislatore del codice civile del 1942 [1]. Una prima questione concerne in effetti l’applica­zione delle norme dettate per le associazioni riconosciute alle associazioni non riconosciute. In merito, è doveroso segnalare l’orientamento [2] in base al quale sarebbe possibile l’applicazione diretta in considerazione dell’identità del tipo disciplinato dal nostro codice civile: impostazione questa che, seppur autorevolmente sostenuta, non ha però avuto molto seguito nella dottrina più moderna che, invece, predilige l’applicazione analogica [3].


2. I precedenti giurisprudenziali. La dottrina. Il dibattito sulla fusione tra associazioni anteriore alla riforma del 2003

Com’è noto, le norme del libro primo del codice civile non disciplinano l’operazione di fusione o, più in generale, l’operazione con cui due associazioni non riconosciute tendono all’unificazione soggettiva. La fusione è istituto tipicamente societario, anche se il silenzio del legislatore in ordine all’ammis­si­bi­lità di tale operazione fra enti non societari non è di per sé sufficiente a suffragare la tesi che la relativa disciplina abbia carattere di specialità: nel senso di riservare alle sole società la possibilità di realizzare operazioni di riorganizzazione che incidono sulle caratteristiche del contratto sociale [4]. Nello scenario anteriore alla riforma del diritto societario, la dottrina si mostrava nettamente favorevole ad operazioni di fusione omogenee che interessassero associazioni: si riteneva, infatti, che le deliberazioni di fusione degli enti coinvolti dovessero trattarsi non già alla stregua di deliberazioni di scioglimento – e, quindi, come tali soggette alle rispettive autorizzazioni governative – bensì alla stregua di comuni deliberazioni modificative dei rispettivi statuti e, pertanto, sottoposte alla disciplina comune in punto di maggioranze e di autorizzazioni alle modifiche statutarie [5]. Si riteneva, dunque, che la fusione comportasse l’estinzione dell’associazione precedente e la costituzione di un nuovo ente che subentrava nella universalità dei rapporti attivi e passivi degli enti originari. Non mancava, poi, chi [6] dubitava che potesse rivelarsi utile l’estensione analogica della disciplina prevista negli artt. 2501 ss. c.c. in tema di società, argomentando dalla diversità dei controlli previsti per i due tipi di enti [7]. La possibilità di applicazione analogica delle norme societarie era ritenuta sostenibile e praticabile solo quando si trattava di figure associative per le quali era prevista l’iscrizione nel registro delle imprese, dato che questa forma di pubblicità era richiesta per le varie fasi che inderogabilmente scandivano il procedimento delineato negli artt. 2501 ss. c.c.; pertanto, già ante riforma, l’applicazione analogica era stimata possibile solo per i consorzi ma non anche per le associazioni [8]. Con particolare riguardo alle fusioni tra associazioni, tale [continua ..]


3. Lo stato della questione dopo la riforma

La riforma del diritto societario del 2003 non è priva di riflessi sugli enti del libro primo del codice civile. Significativa, per quanto qui interessa, è, in specie, la disciplina delle trasformazioni eterogenee; non è, invece, espressamente prevista la fusione tra società ed enti del primo libro del codice civile e tale silenzio ha indotto taluno [10] a dubitare circa la sua astratta configurabilità. Dette perplessità non risultano però fondate in quanto, in base alle nuove regole introdotte dal legislatore della riforma, sembra che l’omogeneità causale non costituisce più una condizione essenziale per la realizzazione dell’operazione in termini meramente modificativi e, pertanto, nel segno di una totale continuità dei rapporti giuridici [11]. Inoltre e soprattutto, in favore dell’accoglimento della tesi più liberale [12] milita la considerazione che, anche prima della riforma, si ritenevano applicabili alla fusione i princìpi fondamentali della trasformazione ogni qualvolta la fusione stessa determini anche, per taluno degli enti partecipanti all’operazione, una modificazione del tipo sociale [13]. Ciò consente di inferire che sia oggi possibile trasformare una associazione in una società per poi fondere quest’ultima in società; altrettanto possibile è che l’ente risultante a seguito della procedura sia di tipo non societario, laddove si trasformi un’asso­ciazione in una società che venga incorporata in un’altra società e questa si trasformi a sua volta in associazione. È, infine, possibile che due associazioni prima si trasformino in società, poi si fondano e quindi si trasformino in associazione [14]. In tutte le fattispecie testé individuate si deve ritenere che un risultato analogo possa raggiungersi anche mediante una fusione diretta tra associazioni non riconosciute e, quindi, tramite procedimenti meramente modificativi delle strutture organizzative coinvolte e nel pieno rispetto dei rapporti giuridici facenti capo alle stesse [15]. Più esattamente, a sostegno della tesi dell’am­missibilità della fusione fra enti non societari, è stato osservato [16] come l’ordinamento ammetta, implicitamente, operazioni analoghe alle fusioni dal momento che l’art. 4 [continua ..]


4. Spunti derivanti dalla nuova disciplina dell'impresa sociale

Tale impostazione permissiva appare oggi avvalorata dal riferimento alle fusioni tra imprese sociali nell’art. 13 del d.lgs. 24 marzo 2006, n. 155. Passando brevemente ad illustrare la fattispecie, si può notare come, tra i compiti che il legislatore [19] demandava all’attuazione della delega sull’impresa sociale, vi era la previsione di una disciplina di alcune operazioni straordinarie, segnatamente della trasformazione, della fusione e della cessazione d’azien­da, in modo da assecondare l’esigenza della specifica ristrutturazione organizzativa senza distogliere il patrimonio dalle finalità di interesse generale. Il legislatore delegato ha provveduto ad attuare il predetto precetto non già disponendo di una disciplina ad hoc delle singole operazioni richiamate, bensì rinviando alla disciplina già esistente, nei casi in cui ritenga escluso il pericolo di distrazione del patrimonio dalle aree di attività a rilevanza sociale, cioè quando una di queste operazioni abbia come «beneficiario... un’altra organizzazione che esercita un’im­presa sociale (art. 13 comma 6)»; tale disciplina è poi arricchita da regole finalizzate ad assicurare il mantenimento del patrimonio agli impieghi divisati, nei casi in cui sussiste l’anzidetto pericolo, ossia allorché una di queste operazioni abbia un beneficiario diverso da una organizzazione che esercita un’im­presa sociale. In ordine alla fusione che interessa organizzazioni che esercitano un’impresa sociale, qualche primo commentatore [20] si è prontamente interrogato circa l’individuazione delle ipotesi in cui la disciplina già esistente relativa ad ogni singola operazione in esame possa essere applicata senza bisogno di integrazione alcuna nei contesti riguardati, cioè quando possa dirsi che una di queste operazioni abbia come «beneficiario ... un’altra organizzazione che esercita un’impresa sociale». Analizzando la questione sembra potersi desumere che si sottenda a tutte le operazioni menzionate dal predetto art. 13 e non solo a quelle che comportino un trasferimento patrimoniale; di conseguenza, essa deve essere esplicitata nel contesto di ogni singola operazione. È allora ragionevole ritenere che tale espressione, allorché riferita tra l’altro alla fusione, alluda alla [continua ..]


5. Commento

La sentenza in commento, se tenta di colmare il vuoto normativo innanzi citato, non soccorre però nella individuazione dei limiti di compatibilità delle norme dettate per le società. Infatti, la pronuncia della Suprema Corte tralascia la questione e non tenta di risolvere il problema della tutela degli interessi del ceto creditorio in mancanza di un idoneo sistema pubblicitario dal quale attingere informazioni sulle modificazioni statutarie che interessano gli enti in parola. Le problematiche legate alla mancanza di un sistema di pubblicità sono state, prima della riforma del 2003, affrontate con riguardo a fusioni coinvolgenti società irregolari; ed al riguardo si distingueva tra operazioni di fusione coinvolgenti solo società non iscritte dal caso in cui invece ne avessero preso parte società sia regolari che irregolari. Nella prima ipotesi, secondo l’orientamento prevalente, l’opera­zione sarebbe stata ammissibile e la relativa decisione svincolata dall’obbligo di iscrizione [24]; nella seconda, invece, la giurisprudenza ed altra parte della dottrina erano orientate in senso negativo [25]. Più in generale, pertanto, occorre individuare il procedimento consono al contesto che ci interessa, che si concili cioè con le regole proprie degli enti non lucrativi e riproduca le simmetrie di tutele previste dal codice in tema di operazioni straordinarie [26]. In merito, per un verso si è ritenuto che, anche se il progetto di fusione di un’associazione corrisponda dal punto di vista contenutistico alle norme sulla fusione societaria, ciò non comporta che l’associazione sia soggetta anche agli ulteriori obblighi previsti dalle norme medesime, specie per quanto riguarda il deposito presso il registro delle imprese del progetto di fusione [27]. Per altro versante si è giunti persino a negare la possibilità di procedere ad una operazione di fusione tra gli enti in parola nonché la sussistenza del­l’ob­bligo di deposito, sulla premessa che i creditori del­l’as­so­ciazione non possano avvalersi della tutela del diritto di opposizione sancito dall’art. 2503 c.c., mancando uno dei presupposti per l’oppo­sizio­ne, ossia la pubblicità della programmata modifica statutaria [28]. Ad avviso di chi scrive, invece, la mancanza di un sistema di pubblicità [continua ..]


NOTE
Fascicolo 1 - 2009