Rivista di Diritto SocietarioISSN 1972-9243 / EISSN 2421-7166
G. Giappichelli Editore

indietro

stampa articolo leggi articolo leggi fascicolo


Il Decreto Legislativo n. 108/2008 sulle fusioni transfrontaliere (alla luce dello Schema di legge di recepimento della X Direttiva elaborato per conto del Consiglio Nazionale del Notariato e delle massime del Consiglio notarile di Milano) (di Massimo V. Benedettelli – Giuseppe A. Rescio  )


  
SOMMARIO:

1. - 2. - 3. - 4. - 5. - 6. - 7. - 8. - 9. - 10. - 11. - 12. - 13. - NOTE


1.

L’emanazione del Decreto Legislativo 30 maggio 2008, n. 108 (il Decreto), con cui l’Ita­lia ha dato attuazione alla Direttiva 2005/56/CE sulle fusioni transfrontaliere delle società di capitali (la Direttiva), è stata rispettivamente preceduta e seguita dalla elaborazione di due documenti, pubblicati qui di seguito, che appaiono utili ai fini sia della interpretazione del Decreto, sia della individuazione e soluzione di alcuni problemi che potranno sorgere all’atto della sua applicazione. Il 2 febbraio 2007 la Commissione Affari Europei ed Internazionali del Consiglio Nazionale del Notariato [[1]], preso atto che il legislatore non aveva ancora provveduto al recepimento della Direttiva nonostante l’approssimarsi del termine del 15 dicembre 2007, decideva di affidare ad un gruppo di lavoro [[2]] l’elaborazione di un articolato di norme di recepimento (lo Schema [[3]]) da proporre ai competenti organi governativi. Il gruppo, dopo aver discusso alcune questioni di impostazione generale, delegava agli autori di questa nota la redazione di una bozza del documento [[4]], che, con relativa relazione accompagnatoria [[5]], veniva quindi presentato alla Commissione Affari Europei ed Internazionali del Consiglio Nazionale del Notariato e da questa approvato il 4 dicembre 2007. Lo Schema veniva quindi inoltrato all’Ufficio Legislativo del Ministero del­l’Eco­nomia e delle Finanze, che, presone atto, faceva quindi pervenire alla Commissione Affari Europei ed Internazionali del Consiglio Nazionale del Notariato una prima bozza del Decreto datata 29 gennaio 2008. La bozza governativa veniva poi commentata dagli autori di queste note, che suggerivano agli uffici ministeriali varie modifiche ed integrazioni (solo in parte recepite, ed in un caso, come si dirà, con un difetto di coordinamento): ciò dava origine ad una seconda bozza ministeriale del 12 febbraio 2008, cui seguivano ulteriori suggerimenti da parte dei sottoscritti. Per quanto lo Schema non faccia parte dei lavori preparatori del Decreto in senso stretto, esso ne ha comunque ispirato in buona misura i contenuti [[6]]. Crediamo possa quindi essere interessante per l’operatore giuridico conoscere la ratio di certe scelte che all’atto della sua redazione si è ritenuto di dover fare, sfruttando gli ampi spazi di discrezionalità che la Direttiva lasciava agli Stati membri, [continua ..]


2.

Una questione del tutto preliminare che si è posta all’atto della redazione dello Schema è stata quella di definire l’ambito di applicazione ratione subiecti della normativa di recepimento. Le indicazioni della Direttiva erano sul punto alquanto chiare, venendo in rilievo, ai sensi dell’art. 1, le sole operazioni tra società di capitali (a) che siano riconducibili ai tipi elencati all’art. 1 della Direttiva 68/151/CE (ovvero a tipi ad essi equivalenti sotto alcuni profili caratterizzanti: dotazione di capitale sociale, personalità giuridica, patrimonio distinto che risponde da solo dei debiti della società, assoggettamento alle condizioni di garanzia previste dalla Direttiva 68/151/CE a favore dei soci e dei terzi) e (b) che beneficino della libertà di stabilimento di cui all’art. 43 del Trattato CE. Nel determinare l’emprise della disciplina, si è nondimeno ritenuto di non poter prescindere dal considerare anche due altri dati normativi: da un lato, l’art. 48 del Trattato CE che, come noto, riconosce la libertà di stabilimento a qualunque “società di diritto civile o di diritto commerciale” (quindi anche alle società di persone) a condizione che questa si prefigga uno scopo di lucro, che sia costituita ai sensi della legge di uno Stato membro e che abbia un rattachment reale alla Comunità per avere localizzato al suo interno «la sede sociale, l’amministrazione centrale o il centro di attività principale»; dall’altro, l’art. 25 della l. 31 maggio 1995, n. 218 di riforma del diritto internazionale privato che, in combinato con la disciplina materiale di cui all’art. 2501 e ss. c.c., ha formalmente sancito, in linea di principio, la validità di fusioni transfrontaliere coinvolgenti società di diritto italiano (e la riconoscibilità nell’ordinamento italiano di fusioni transfrontaliere coinvolgenti solo società di diritto straniero). Per effetto di tali disposizioni, limitare l’applicazione della normativa di recepimento alle sole società espressamente considerate dalla Direttiva avrebbe infatti comportato la creazione di due regimi differenziati, quello risultante dalla armonizzazione comunitaria (obbiettivamente “agevolato” ed ispirato da un favor per l’operazione) e quello di diritto comune (più complesso, [continua ..]


3.

Sempre in relazione all’ambito di applicazione, il Decreto (art. 1, c. 1, lett. a, n. 1, e art. 4, c. 6) ha seguito l’indicazione dello Schema (art. 1, c. 1, lett. c e d, e artt. 2.2. e 2.3) quanto alla opportunità di chiarire, nonostante il silenzio della Direttiva sul punto, che la disciplina di armonizzazione vale ovviamente anche per le Società Europee e le Società Cooperative Europee: una volta costituite (eventualmente per fusione tra società esistenti, nel qual caso andrà dato rilievo a titolo di lex specialis a quanto previsto a tale proposito rispettivamente dal Reg. CE n. 2157/2001 e dal Reg. CE n. 1435/2003) tali società sono infatti a tutti gli effetti società di capitali di uno Stato membro (sia pure organizzate secondo un tipo di origine comunitaria), beneficiarie del diritto di stabilimento e possibili parti di operazioni di fusione. Il Decreto non ha invece fatto proprio il suggerimento di considerare come fusioni transfrontaliere anche fusioni in senso stretto che intervengano tra due o più società di diritto italiano quando la risultante sia una società di diritto straniero, ovvero tra due o più società di diritto straniero (di uno stesso Stato) quando la risultante sia una società di diritto italiano: operazioni, queste, che presentano anch’esse elementi di estraneità rispetto all’ordinamento del foro, che pongono problemi di coordinamento col diritto straniero simili (se non identici) rispetto a quelli che risultano dalle altre fattispecie di fusione transfrontaliera già considerate, e rispetto alle quali la disciplina del Decreto potrà comunque applicarsi per analogia. Incidentalmente va poi notato che né lo Schema né il Decreto si occupano del fenomeno della scissione internazionale (in quanto, così facendo, si sarebbe incorsi in un eccesso di delega rispetto alla legge comunitaria 2007/13), e che nondimeno non vi sono ragioni per cui, mutatis mutandis e per quanto possibile vista la non esatta specularità dei due istituti, non si possa applicare, di nuovo in via di analogia, la disciplina di armonizzazione anche a tale istituto.


4.

Un secondo ordine di problemi che si è ritenuto di dover preliminarmente affrontare nella elaborazione dello Schema deriva dalla particolare tecnica di “armonizzazione minima” cui ha fatto ricorso il legislatore comunitario in questa materia: la Direttiva si è limitata infatti a porre un corpo di norme materiali uniformi che non esaurisce affatto la disciplina della fusione transfrontaliera, ad operare per la parte residua un ampio rinvio al diritto comune degli Stati membri, e a realizzare poi il necessario coordinamento tra gli ordinamenti in concorso attraverso la previsione di criteri uniformi di giurisdizione e di conflitto. In particolare, la Direttiva ha stabilito che ciascuno Stato membro ha competenza esclusiva a regolare, in applicazione della lex fori, le (sole) società costituite ai sensi della propria lex societatis (i) per quanto concerne “le disposizioni e le formalità” cui esse sono soggette nella fase preliminare del procedimento (processo decisionale; protezione dei creditori, dei possessori di titoli o quote, degli obbligazionisti, dei lavoratori ed eventualmente dei soci di minoranza che si sono opposti; opposizione da parte delle autorità nazionali per motivi di interesse pubblico; modalità di pubblicità; controllo sul regolare adempimento di atti e formalità preliminari: cfr. il considerando n. 7 e gli artt. 4, par.1, lett. b, 4, par. 2, 10, 13), nonché (ii) quando la risultante dalla fusione sia una società di diritto interno, per quanto concerne alcuni aspetti relativi alla “parte della procedura relativa alla realizzazione” della fusione (data di efficacia della fusione; modalità di “partecipazione dei lavoratori”; controllo sulla legittimità della fusione: cfr. il considerando n. 7 e gli artt. 11, 12, 16) . È indubbio che in tal modo la Direttiva semplifica senz’altro i problemi internazionalprivatistici cui dà classicamente origine la fusione internazionale – problemi riconducibili alle quattro distinte questioni (i) se la lex societatis di tutte le società partecipanti conosca l’istituto, (ii) se ai sensi di tale legge l’istituto sia utilizzabile anche nei rapporti con società di diritto straniero, (iii) quale sia la disciplina materiale applicabile, in particolare quando non sussista una disciplina ad hoc per le fusioni transfrontaliere e si [continua ..]


5.

In coerenza con l’art. 4.1, lett. a, della Direttiva, l’art. 3, 1° comma, del Decreto dispone che la fusione transfrontaliera è consentita “solo tra tipi di società alle quali la legge applicabile permette di fondersi”. La formula proposta nello Schema (art. 3.1) era leggermente diversa, ponendosi come condizione che al tipo di società partecipante non fosse preclusa la fusione interna, ed era probabilmente preferibile, giacché chiariva, in coerenza con la già citata sentenza SEVIC della Corte di giustizia, che uno Stato membro, se può certo prevedere modelli di organizzazione societaria per i quali sia tout court negata la possibilità di partecipare ad operazioni di fusione, non può invece discriminare sulla base della “nazionalità” degli enti partecipanti, ammettendo sul piano interno ciò che vieta sul piano internazionale.  


6.

Schema e Decreto divergono a proposito della pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale delle informazioni sulla fusione indicate nell’art. 6.2 della Direttiva. Lo Schema (art. 11, c. 2) si accontentava di una pubblicazione anteriore alla delibera di approvazione del progetto in considerazione dell’assenza di indicazioni nella Direttiva circa il momento in cui l’informazione debba essere assicurata, della ratio della norma e dell’avvertita esigenza di non ritardare senza motivo lo svolgersi del procedimento: scopo della disposizione comunitaria è infatti quello di permettere ai creditori e ai soci di minoranza di assumere dati utili in vista della migliore tutela dei propri interessi attraverso l’uso di poteri (opposizione, recesso) non esercitabili prima della iscrizione della delibera nel registro delle imprese. Il Decreto ha invece ritenuto di prescrivere un termine non breve (almeno trenta giorni prima dell’assemblea: v. art. 7) per la pubblicazione, così intralciando le fusioni connotate da esigenze di celerità e ponendo il duplice problema della rinunziabilità al termine e della successione cronologica tra iscrizione del progetto e pubblicità delle informazioni sulla G.U. A tali quesiti ha dato soddisfacente risposta la massima n. 106 del Consiglio Notarile di Milano. Il termine non è derogabile senza il consenso di tutti i portatori degli interessi protetti nella lettera c dell’art. 7 del Decreto (e dell’art. 6.2 della Direttiva), vale a dire creditori titolari del diritto di opposizione e soci; e la pubblicazione sulla G.U. può precedere non solo l’iscrizione, ma la stessa redazione di un completo progetto comune, perché i dati da rendere noti non ne presuppongono la definizione di tutti gli elementi essenziali. Va da sé che un cambiamento (sostituzione, aggiunta o riduzione) delle società partecipanti alla fusione costringerebbe a rettificare l’informazione da dare e in ipotesi già data ai sensi della lett. a dell’art. 7 del Decreto.  


7.

Quanto alla relazione dell’organo amministrativo illustrativa del progetto comune, il Decreto omette, nell’art. 8, di prendere posizione sulla rinunziabilità al termine di trenta giorni dall’as­sem­blea nell’osservanza del quale la relazione va messa a disposizione dei soci e dei lavoratori (v. art. 7, 2° comma, della Direttiva); lo Schema (art. 9, 2° comma) aveva invece tentato di chiarire che quel termine non è derogabile senza il consenso oltre che di tutti i soci, anche dei lavoratori (della società italiana) o dei loro rappresentanti. Peraltro a tale conclusione si può agevolmente giungere sul piano interpretativo, ragionando ancora una volta sugli interessi protetti dalla norma comunitaria e dalla norma interna che la attua (v. la massima n. 110 del Consiglio Notarile di Milano). Più pericolosa è la salvezza dell’art. 2505, 1° comma, c.c. ad opera dell’art. 18, 1° comma, del Decreto in ipotesi di fusione semplificata, in luogo della esplicita menzione delle disposizioni non applicabili elencate nell’art. 21 dello Schema: il richiamare integralmente l’art. 2505, 1° comma, c.c. in sede di fusione transfrontaliera potrebbe portare a ritenere non dovuta, come nelle fusioni interne, la relazione dell’organo amministrativo (ivi dichiarandosi non applicabile l’art. 2501-quinquies c.c. che a quella relazione è dedicato), documento la cui confezione l’art. 21 dello Schema si guarda bene dal dispensare. Una simile esenzione, infatti, non sarebbe conforme alla Direttiva, la quale intenzionalmente non la prevede perché alla relazione degli amministratori attribuisce una importante funzione informativa su aspetti diversi da quelli inerenti al rapporto di cambio (in ipotesi mancante o non necessitante di controllo), e cioè gli aspetti concernenti le conseguenze della fusione per i lavoratori, ai quali si dà la possibilità di redigere e far allegare alla relazione un proprio parere. Il potenziale (in caso di interpretazione letterale) conflitto con la Direttiva impone, dunque, una riduzione teleologica della norma di richiamo, da limitarsi all’esenzione dalle indicazioni nel progetto relative al rapporto di cambio e dalla relazione degli esperti: viceversa l’art. 8 del Decreto trova integrale applicazione alla fusione semplificata, come conferma la citata massima milanese n. [continua ..]


8.

La Direttiva non contiene alcuna disposizione sull’atto di fusione. Ciò perché, come si desume dalla Terza Direttiva n. 78/855 del 9 ottobre 1978 sulle fusioni interne, l’atto di fusione è un elemento del procedimento ritenuto fondamentale per la realizzazione della fusione da alcuni ordinamenti (es. Italia, Spagna, Paesi Bassi), ma non da altri per i quali o è del tutto sconosciuto e irrilevante (es. Gran Bretagna) o rappresenta un segmento di una sequenza procedimentale alternativa (es. Germania, ove la sequenza progetto/delibera di approvazione/atto di fusione è surrogabile dalla sequenza contratto di fusione/delibera di approvazione). Non pare dubbio che gli ordinamenti che ne richiedono l’imprescindibile presenza nella fusione interna possano (e, in un certo senso, debbano, almeno per evitare discriminazioni “a rovescio”) pretenderla nella fusione transfrontaliera anche quando partecipi all’operazione una società soggetta ad una legge che non esige l’atto di fusione (es. fusione tra una società italiana ed una inglese), e ciò indipendentemente da quale sia la legge della risultante. È questa una conseguenza, da un lato, del citato principio di parificazione della fusione transfrontaliera alla fusione interna (Direttiva, considerando n. 3 e art. 4.1, lett. b) e, dall’altro, dell’inesistenza di un vero conflitto tra ordinamenti (da risolversi con il principio della prevalenza della legge della risultante o con quello dell’ordinamento più liberale): la parificazione implica l’osservanza anche di quegli aspetti del procedimento che richiedono la collaborazione delle altre società partecipanti, salvo quando la legge a loro applicabile vi si opponga, creando le condizioni per un conflitto; poiché nessun ordinamento vieta l’atto di fusione, neppure quelli che non lo esigono, il pretenderlo nel rispetto del principio di parificazione non determina alcun conflitto e non viola (anzi, rispetta) la Direttiva. Quanto precede giustifica l’art. 14 dello Schema, recepito dall’art. 12 del Decreto, ove si esige comunque, anche quando la risultante sia straniera, l’atto pubblico di fusione e si indica la soluzione dell’atto notarile italiano quando in base alla legge della risultante straniera non sia possibile individuare l’autorità ivi competente per perfezionare [continua ..]


9.

Nel progettare lo Schema si è partiti dalla consapevolezza che l’atto di fusione si situa certo nel momento conclusivo del procedimento di fusione, in attuazione delle decisioni adottate dalle società nell’inesistenza o nel superamento degli ostacoli provenienti da terzi (opposizione dei creditori o di pubbliche autorità), ma costituisce pur sempre un elemento del procedimento di fusione richiesto dal nostro sistema e non da altri. Per tale ragione si è proposto di situare l’atto di fusione a monte del rilascio del certificato preliminare, come una delle condizioni che l’autorità competente – identificata nel notaio in virtù del ruolo di controllore della legittimità del procedimento, già riconosciutogli nella fusione interna – deve verificare prima di dare il “segnale di via libera” alla realizzazione della fusione. Ciò perché dagli artt. 10 e 11 della Direttiva si ricava che, una volta rilasciato il certificato preliminare per una data società partecipante, nessuna ulteriore condizione può frapporre la sua legge all’attuazione della fusione in conformità alla legge della risultante: per l’art. 11 il controllo finale da parte dell’autorità individuata dalla legge della risultante (v. il settimo considerando) può infatti esaurirsi nel mero controllo della ricorrenza dei certificati preliminari relativi alle varie società coinvolte, della coincidenza del progetto da ciascuna approvato e, se del caso, del rispetto delle norme sulla partecipazione dei lavoratori. Il che, in definitiva, significa che in ipotesi di rilascio dei certificati preliminari prima dell’atto di fusione, se per la legge della risultante tale atto non è richiesto, con ogni probabilità la fusione verrà perfezionata ed assumerà efficacia in assenza del medesimo (in conformità a quanto dispone la legge della risultante: art. 12 della Direttiva), rimanendo lettera morta il precetto incorporato nell’art. 12, 3° comma, del Decreto. Di ciò sembra non essersi avveduto il nostro legislatore che, dopo aver evidenziato la (tendenziale) contemporaneità tra controllo finale di legittimità e redazione dell’atto pubblico di fusione nell’ipotesi in cui la risultante sia italiana (art. 12, 2° comma, del Decreto), si è limitato a [continua ..]


10.

Piena corrispondenza vi è tra lo Schema e il Decreto circa il trattamento della fusione transfrontaliera con indebitamento. Al riguardo l’art. 5 dello Schema manifesta la convinzione che l’art. 2501-bis c.c., pur ponendo obblighi di comportamento in capo agli amministratori e ai controllori sia della società target (il cui controllo viene acquisito con l’uso della leva finanziaria) sia della società bidder (che si indebita per acquisire quel controllo), mira a proteggere la società target e gli interessi alla stessa correlati di cui sono principali portatori i relativi soci di minoranza e creditori. Come tale, la disposizione pretende di applicarsi quando la target sia italiana, dovendo invece essere rimessa alla legge applicabile alla target straniera la disciplina che ne tuteli, eventualmente, i corrispondenti interessi. L’art. 4, 3° comma, del Decreto condivide questa impostazione, ancorché preferendo esprimersi, in via negativa, per l’inapplicabilità dell’art. 2501-bis alla target straniera anziché, in via positiva, per l’applicabilità di quella disposizione alla target italiana: la più corretta opzione espressiva adoperata dallo Schema dipende dalla consapevolezza che sul piano teorico non si può escludere che la legge applicabile alla target straniera possa rinviare alla norma italiana, per questa via tornando allora in gioco l’art. 2501-bis. L’impostazione seguita implica l’integrale applicazione o non applicazione dell’art. 2501-bis, a seconda che la target sia o non sia italiana, nel primo caso dovendosene riscontrare il rispetto anche da parte dell’acquirente straniera (v. la massima n. 108 del Consiglio Notarile di Milano): ciò – si intende – non già per giudicare della validità della relativa delibera di approvazione del progetto comune, bensì ai soli fini dell’espletamento del controllo preordinato al rilascio del certificato preliminare per la società italiana. Non hanno ragion d’essere le perplessità sul punto manifestate da chi è favorevole ad un’applicazione selettiva dell’art. 2501-bis alla sola target italiana (l’acquirente straniera non sarebbe perciò soggetta agli obblighi informativi ivi previsti), sul presupposto che una simile pretesa da parte della nostra legge nei confronti di [continua ..]


11.

Non ha alcuna corrispondenza nello Schema l’art. 18, 2° comma, del Decreto in tema di fusione semplificata, per il quale «non è richiesta l’approvazione del progetto di fusione da parte dell’assemblea della società italiana incorporata» dalla società straniera che la possieda interamente. Il silenzio al riguardo nell’art. 21 dello Schema intendeva favorire l’applicazione del principio di parificazione alla fusione interna, con la conseguenza che anche nella fusione transfrontaliera l’approvazione assembleare del progetto avrebbe potuto essere sostituita dall’ap­pro­vazione dell’organo amministrativo, con delibera verbalizzata da notaio e da questi iscritta nel registro delle imprese, sulla base di apposita previsione statutaria, come stabilisce l’art. 2505, 2° comma, c.c. Questa scelta sarebbe stata conforme alla Direttiva, la quale nell’art. 15, 1° comma, dichiara non applicabile nella fattispecie alla società incorporata l’art. 9, norma che richiede l’approvazione del progetto da parte dell’assemblea generale della società: ciò significa che la legge nazionale non è in tal caso tenuta a disporre l’approvazione assembleare; non significa invece che essa è tenuta a non esigere quell’approvazione. Il nostro legislatore ha probabilmente travisato l’intento agevolativo della norma comunitaria, ritenendo di essere obbligato ad eliminare l’approvazione assembleare: sta di fatto che si è così introdotto un trattamento ingiustificatamente diverso tra fusione interna e fusione transfrontaliera quando una società italiana venga incorporata da una società straniera che ne sia l’unico socio. Al di là della scarsa coerenza con il sistema, va soprattutto rimarcato che la sintetica disposizione dell’art. 18, 2° comma, del Decreto pone in apparenza il problema se una qualche approvazione del progetto comune sia comunque richiesta ovvero se sia sufficiente la redazione/iscri­zione del progetto da parte dell’organo amministrativo e la non opposizione dei creditori dell’in­corporata italiana per potersi procedere direttamente all’atto di fusione sulla sola base dell’appro­vazione del progetto da parte dei soci dell’incorporante straniera. La risposta nel primo senso deriva dal più volte [continua ..]


12.

Si ritorna alla piena consonanza tra Schema e Decreto in punto di tutela del socio non consenziente alla fusione. L’art. 5 del Decreto conferma la scelta effettuata dall’art. 6 dello Schema di attribuire il diritto di recesso al socio della società italiana non consenziente (contrario, assente, astenuto, privo del diritto di voto) in sede di approvazione della delibera di fusione tutte le volte che, per effetto della stessa, egli si ritrovi ad essere socio di una società soggetta ad una legge diversa da quella italiana. La norma sfrutta la possibilità accordata dall’art. 4, 2° comma, ult. periodo, della Direttiva, di «adottare disposizioni volte ad assicurare una protezione adeguata dei soci di minoranza che si sono opposti alla fusione». Il diritto di recesso, che per ragioni di coerenza sistematica andava esteso a tutti i soci non consenzienti, è del resto già uno strumento di tutela sempre invocabile dal socio di s.r.l. e di società di persone (artt. 2473 e 2503 ter, 1° comma, c.c.) nonché fruibile dal socio di s.p.a. che per effetto della fusione transfrontaliera si trovi ad essere socio di una società con sede all’estero o appartenente ad altro tipo sociale (art. 2437, 1° comma, lett. b e c, c.c.). In sostanza, la nuova disposizione mira ad assicurare il diritto di exit al socio di s.p.a. che, pur rimanendo in una società azionaria caratterizzata dagli stessi elementi tipologici (sì da non potersi parlare appropriatamente di trasformazione del tipo sociale) e con sede in Italia (in quanto la nuova lex societatis consenta la permanenza in Italia della sede) o avente già la sede all’estero (posto che la legge italiana non esclude che una società ad essa soggetta possa aver trasferito la sede all’estero senza cessare di essere retta dalla legge italiana), a causa della fusione transfrontaliera subisca una modifica della fonte regolatrice del rapporto sociale: il cambio della legge applicabile è dunque, di per sé, giusta causa di recesso. Peraltro, proprio perché qualsiasi azionista, anche quello titolare di azioni di speciali categorie, ove non consenziente, può in tal caso recedere, non v’è ragione per ritenere che il semplice cambio di legge applicabile possa di per sé integrare quel pregiudizio la cui ricorrenza richiede l’approvazione da parte [continua ..]


13.

Quanto alla disciplina sulla c.d. “partecipazione dei lavoratori”, nel progettare lo Schema si era ritenuto opportuno ribadire la norma di conflitto di leggi uniforme posta dall’art. 16, par. 1, della Direttiva per la quale in linea di principio, e salvo le deroghe di cui ai successivi parr. 2 e 3, tale materia va regolata in base alle disposizioni, ove esistenti, della legge della società risultante dalla fusione transfrontaliera, e si era chiarito che il criterio di collegamento della sede sociale utilizzato dal legislatore comunitario andava in realtà inteso come riferimento alla legge dello Stato di incorporazione dell’ente: v. Schema, art. 22, 1° comma e 2° comma. Il Decreto non solo omette tale indicazione, ma all’art. 19, 1° comma, limita espressamente l’ambito di applicazione della propria disciplina in punto al solo caso in cui risultante dalla fusione transfrontaliera sia una società italiana, non considerando le ipotesi disciplinate alle lett. a e b dell’art. 16, par. 2, della Direttiva. Questa scelta non pare corretta, in quanto nel sistema contemplato dal legislatore comunitario le procedure di negoziazione possono riguardare anche società partecipanti alla fusione la cui lex societatis non contempli la Mitbestimmung o altre forme di partecipazione dei lavoratori, e potrebbe dare origine a dubbi quanto al riparto di competenze tra diritto interno e diritto straniero ove la risultante fosse invece una società straniera e nell’operazione risultassero coinvolte società di diritto italiano: ciò vale, in particolare, con riferimento alla determinazione dei criteri di elezione/designazione dei membri della delegazione speciale di negoziazione che, per quanto riguarda le società italiane, andranno ovviamente desunti dal diritto interno e non dal diritto applicabile alla risultante straniera, che potrebbe p.e. prevedere un sistema di relazioni industriali diverso da quello italiano e la presenza di forme di rappresentanza sindacale a noi sconosciute. Schema e Decreto divergono poi in relazione alla facoltà, riconosciuta alla delegazione speciale di negoziazione dallo Schema (art. 22, 5° comma) ma non dal Decreto, di decidere, sussistendo determinati quorum, di non avviare negoziati o di porre termine ai negoziati già avviati e di attenersi alle disposizioni in materia di partecipazione vigenti in Italia. La scelta [continua ..]


NOTE
Fascicolo 4 - 2009