CASSAZIONE CIVILE, Sezioni Unite, 12 marzo 2013, n. 6070 – Preden Presidente – Rordorf Relatore – Comune di Avellino (Avv. Preziosi) contro Compagnia Generali Servizi e Finanza S.p.A. (nella qualità di successore nel diritto controverso della S.a.s. Rainone Costruzioni di Vinko Mladen & C.) (Avv. Castaldi) – Avv. R.G. (difeso da sé medesimo)
Società in accomandita semplice – Ricorso per cassazione contro una società in accomandita semplice cancellata dal Registro delle Imprese dopo la pronuncia della sentenza del Giudice di secondo grado e durante la pendenza del termine per la proposizione del ricorso per cassazione – Inammissibilità
(Artt. 2191, 2312, 2324, 2495 c.c.)
Se all’estinzione della società, conseguente alla sua cancellazione dal registro delle imprese, non corrisponde il venir meno di ogni rapporto giuridico facente capo alla società estinta, si determina un fenomeno di tipo successorio “sui generis”, in virtù del quale: a) le obbligazioni si trasferiscono ai soci, i quali ne rispondono, nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione o illimitatamente, a seconda che, pendente societate, essi fossero o meno illimitatamente responsabili per i debiti sociali; b) si trasferiscono del pari si soci, in regime di contitolarità o di comunione indivisa, i diritti ed i beni non compresi nel bilancio di liquidazione della società estinta, ma non anche le mere pretese, ancorché azionate o azionabili in giudizio, né i diritti di credito ancora incerti o illiquidi, la cui inclusione in detto bilancio avrebbe richiesto un’attività ulteriore (giudiziale o extragiudiziale), il cui mancato espletamento da parte del liquidatore consente di ritenere che la società vi abbia rinunciato. (1)
La cancellazione volontaria dal Registro delle Imprese di una società, a partire dal momento in cui si verifica l’estinzione della società medesima, impedisce che essa possa ammissibilmente agire o essere convenuta in giudizio. Se l’estinzione della società cancellata dal registro intervenga in pendenza di un giudizio del quale la società è parte, si determina un evento interruttivo del processo, disciplinato dagli artt. 299 e segg. c.p.c., con possibile successiva eventuale prosecuzione o riassunzione del medesimo giudizio da parte o nei confronti dei soci. Ove invece l’evento estintivo non sia stato fatto constare nei modi previsti dagli articoli appena citati o si sia verificato quando il farlo constare in quei modi non sarebbe più stato possibile l’impugnazione della sentenza pronunciata nei riguardi della società deve provenire o essere indirizzata, a pena d’inammissibilità, dai soci o nei confronti dei soci succeduti alla società estinta. (2)
(Massime non ufficiali).
Fatto
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
La Corte d’Appello di Napoli, con sentenza depositata in Cancelleria il 23 dicembre 2008, in parziale riforma di una precedente pronuncia del Tribunale di Avellino, condannò il Comune di Avellino a pagare alla s.a.s. Rainone Costruzioni di Vinko Mladen & C. in liquidazione (d’ora innanzi indicata come Rainone) la somma di euro 402.649,22, oltre ad interessi, a titolo di corrispettivo per l’esecuzione di lavori pubblici eseguiti da detta società su incarico dell’ente locale.
La sentenza è stata impugnata dal comune di Avellino con ricorso per cassazione notificato ai procuratori domiciliatari della Rainone nel Giudizio d’appello.
L’ammissibilità del ricorso è stata però contestata dalla Compagnia Generali Servizi e Finanza s.p.a. (in prosieguo indicata come compagnia Generali), che ha depositato un controricorso nel quale, premesso che il 15 giugno 2005 il credito dedotto in lite le era stato ceduto dalla Rainone, ha fatto presente che quest’ultima società è da considerare estinta sin dal 25 maggio 2007, data in cui è stata cancellata dal Registro delle Imprese, onde l’impugnazione non avrebbe potuto essere ad essa indirizzata.
Altro ricorso avverso la medesima sentenza della Corte d’Appello di Napoli, notificato al comune di Avellino ed alla società Rainone, è stato proposto dall’avv. R.G., difensore dell’anzidetta società nel giudizio di merito, il quale si è lamentato della mancata distrazione delle spese processuali in suo favore.
Riuniti i due ricorsi, la prima sezione di questa corte, con ordinanza n. 9943 del 2012, ne ha sollecitato la rimessione alle sezioni unite affinché sia decisa la questione di massima di particolare importanza consistente nell’individuare la sorte dei rapporti processuali pendenti nel momento in cui una società (nella specie una società di persone) venga cancellata dal Registro delle Imprese.
I ricorsi riuniti sono stati perciò discussi all’odierna udienza dinanzi alle sezioni unite.
Diritto
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con le sentenze nn. 4060, 4061 e 4062 del 2010 le sezioni unite di questa corte hanno ravvisato nelle modifiche apportate dal legislatore al testo dell’art. 2495 c.c. (rispetto alla formulazione del precedente art. 2456, che disciplinava la medesima materia) una valenza innovativa. Pertanto, la cancellazione di una società di capitali dal Registro delle Imprese, che nel precedente regime normativo si riteneva non valesse a provocare l’estinzione dell’ente, qualora non tutti i rapporti giuridici ad esso facenti capi fossero stati definiti, è ora invece da considerarsi senz’altro produttiva di quell’effetto estintivo: effetto destinato ad operare in coincidenza con la cancellazione, se questa abbia avuto luogo in epoca successiva al 1° gennaio 2004, data di entrata in vigore della citata riforma, o a partire da quella data se si tratti di cancellazione intervenuta in un momento precedente. Per ragioni di ordine sistematico, desunte anche dal disposto del novellato art. 10 della legge fallimentare, la stessa regola è apparsa applicabile anche alla cancellazione volontaria delle società di persone dal registro, quantunque tali società non siano direttamente interessate dalla nuova disposizione del menzionato art. 2495 e sia rimasto per loro in vigore l’invariato disposto dell’art. 2312 (integrato, per le società in accomandita semplice, dal successivo art. 2324). La situazione delle società di persone si differenzia da quella delle società di capitali, a tal riguardo, solo in quanto l’iscrizione nel Registro delle Imprese dell’atto che le cancella ha valore di pubblicità meramente dichiarativa, superabile con prova contraria. Ma è bene precisare che tale prova contraria non potrebbe vertere sul solo dato statico della pendenza di rapporti non ancora definiti facenti capo alla società, perché ciò condurrebbe in sostanza ad un risultato corrispondente alla situazione preesistente alla riforma societaria. Per superare la presunzione di estinzione occorre, invece, la prova di un fatto dinamico: cioè che la società abbia continuato in realtà ad operare – e dunque ad esistere – pur dopo l’avvenuta cancellazione dal registro. Ed è questa soltanto la situazione alla quale la successiva sentenza n. 4826 del 2010 ha poi ricollegato anche la possibilità che, tanto per le società di persone quanto per le società di capitali, si addivenga anche d’ufficio alla “cancellazione della pregressa cancellazione” (cioè alla rimozione della cancellazione dal registro in precedenza intervenuta), in forza del disposto dell’art. 2191 c.c., con la conseguente presunzione che la società non abbia mai cessato medio tempore di operare e di esistere.
Converrà farlo tenendo separati, per maggiore chiarezza espositiva, i rapporti passivi, cioè quelli implicanti l’esistenza di obbligazioni gravanti sulla società, dai rapporti attivi, in forza dei quali prima della cancellazione la società poteva vantare diritti; e converrà esaminare anzitutto i profili di diritto sostanziale e poi le conseguenze che se ne debbano trarre sul piano processuale.
Il secondo comma del citato art. 2495 (riprendendo, peraltro, quanto già stabiliva in proposito il secondo comma del previdente art. 2456) stabilisce, a tal riguardo, che i creditori possono agire nei confronti dei soci della dissolta società di capitali sino alla concorrenza di quanto questi ultimi abbiano riscosso in base al bilancio finale di liquidazione. È prevista, inoltre, anche la possibilità di agire (deve intendersi, però, per risarcimento dei danni) nei confronti del liquidatore, se il mancato pagamento del debito sociale è dipeso da colpa di costui; ma di tale ulteriore previsione non occorre qui occuparsi, non essendo stata esercitata azione alcuna contro il liquidatore nella vertenza in esame.
Un’analoga disposizione è dettata, per le società in nome collettivo, dal secondo comma del pure già citato art. 2312, salvo che, in tal caso, pur dopo la dissoluzione dell’ente ma coerentemente con le caratteristiche del diverso tipo societario, non opera la limitazione di responsabilità di cui godono i soci di società di capitali. La stessa regola si ripropone per la società in accomandita semplice, ma l’ultrattività dei principi vigenti in pendenza di società fa si che, anche dopo la cancellazione, l’accomandante risponda solo entro i limiti della sua quota di liquidazione (art. 2324).
Lo scarno tessuto normativo cui s’è fatto cenno non sembra autorizzare la conclusione che, con l’estinzione della società derivante dalla sua volontaria cancellazione dal registro delle imprese, si estinguano anche i debiti ancora insoddisfatti che ad essa facevano capo. Se così fosse, si finirebbe col consentire al debitore di disporre unilateralmente del diritto altrui (magari facendo venir meno, di conseguenza, le garanzie, prestate da terzi, che a quei debiti eventualmente accedano), e ciò pare tanto più inammissibile in un contesto normativo nel quale l’art. 2492 c.c. neppure accorda al creditore la legittimazione a proporre reclamo contro il bilancio finale di liquidazione della società debitrice, il cui deposito prelude alla cancellazione. Ipotizzare – come pure si è fatto da taluni – che la volontaria estinzione dell’ente collettivo comporti, perciò, la cessazione della materia del contendere nei giudizi contro di esso pendenti per l’accertamento di debiti sociali tuttora insoddisfatti significherebbe imporre un ingiustificato sacrificio del diritto dei creditori; sacrificio che non verrebbe sanato dalla possibilità di agire nei confronti dei soci, alle condizioni indicate dalla citata disposizione dell’art. 2495, se quest’azione fosse concepita come diversa ed autonoma rispetto a quella già intrapresa verso la società, non foss’altro che per la necessità di dover riprendere il giudizio da capo con maggiori oneri e col rischio di non riuscire a reiterare le prove già espletate.
Ma se allora, anche per non vulnerare il diritto di difesa tutelato dall’art. 24 della Costituzione, deve escludersi che la cancellazione dal registro, pur provocando l’estinzione dell’ente debitore, determini al tempo stesso la sparizione dei debiti insoddisfatti che la società aveva nei riguardi dei terzi, è del tutto naturale immaginare che questi debiti si trasferiscano in capo a dei successori e che, pertanto, la previsione di chiamata in responsabilità dei soci operata dal citato art. 2495 implichi, per l’appunto, un meccanismo di tipo successorio, che tale è anche se si vogliano rifiutare improprie suggestioni antropomorfiche derivanti dal possibile accostamento tra l’estinzione della società e la morte di una persona fisica.
La ratio della norma dianzi citata, d’altronde, palesemente risiede proprio in questo: nell’intento d’impedire che la società debitrice possa, con un proprio comportamento unilaterale, che sfugge al controllo del creditore, espropriare quest’ultimo del suo diritto. Ma questo risultato si realizza appieno solo se si riconosce che i debiti non liquidati della società estinta si trasferiscono in capo ai soci, salvo i limiti di responsabilità nella medesima norma indicati. Il dissolversi della struttura organizzativa su cui riposa la soggettività giuridica dell’ente collettivo fa naturalmente emergere il sostrato personale che, in qualche misura, ne è comunque alla base e rende perciò del tutto plausibile la ricostruzione del fenomeno in termini successori (sembra dubitarne Cass. 13 luglio 2012, n. 11968, ma in base ad una motivazione in buona parte imperniata sulla disposizione dell’art. 36, terzo comma, del d.p.r. 29 settembre 1973, n. 602, operante solo nello specifico settore del diritto tributario). Puntualmente autorevole dottrina ha affermato che la responsabilità dei soci trova giustificazione nel “carattere strumentale del soggetto società: venuto meno questo, i soci sono gli effettivi titolari dei debiti sociali nei limiti della responsabilità che essi avevano secondo il tipo di rapporto sociale prescelto”.
Persuade di ciò anche il fatto che il debito del quale, in situazioni di tal genere, possono essere chiamati a rispondere i soci della società cancellata dal registro non si configura come un debito nuovo, quasi traesse la propria origine dalla liquidazione sociale, ma s’identifica col medesimo debito che faceva capo alla società, conservando intatta la propria causa e la propria originaria natura giuridica (si veda, in argomento, Cass. 3 aprile 2003, n. 5113). Come, nel caso della persona fisica, la scomparsa del debitore non estingue il debito, ma innesca un meccanismo successorio nell’ambito del quale le ragioni del creditore sono destinate ad essere variamente contemperate con quelle degli eredi, così, quando il debitore è un ente collettivo, non v’è ragione per ritenere che la sua estinzione (alla quale, a differenza della morte della persona fisica, concorre di regola la sua stessa volontà) non dia ugualmente luogo ad un fenomeno di tipo successorio, sia pure sui generis, che coinvolge i soci ed è variamente disciplinato dalla legge a seconda del diverso regime di responsabilità da cui, pendente societate, erano caratterizzati i pregressi rapporti sociali.
Nessun ingiustificato pregiudizio viene arrecato alle ragioni dei creditori, del resto, per il fatto che i soci di società di capitali rispondono solo nei limiti dell’attivo loro distribuito all’esito della liquidazione. Infatti, se la società è stata cancellata senza attribuzione di attivo, ciò evidentemente vuol dire che vi sarebbe stata comunque in capienza del patrimonio sociale rispetto ai crediti da soddisfare. D’altro canti, alla tesi – pure in sé certamente plausibile – che limita il descritto meccanismo successorio all’ipotesi in cui i soci di società di capitali (o il socio accomandante della società in accomandita semplice) abbiano goduto di un qualche riparto in base al bilancio finale di liquidazione, ravvisandovi una condizione da cui dipenderebbe la possibilità di proseguire nei confronti di detti soci l’azione originariamente intrapresa dal creditore sociale verso la società (tesi propugnata da Cass. 16 maggio 2012, nn. 7676 e 7679, nonché da Cass. 9 novembre 2012, n. 19453), sembra da preferire quella che individua invece sempre nei soci coloro che son destinati a succedere nei rapporti debitori già facenti capo alla società cancellata ma non definiti all’esito della liquidazione (anche, come si dirà, ai fini processuali), fermo però restando il oro diritto di opporre al creditore agente il limite di responsabilità cui s’è fatto cenno. Il successore che risponde solo intra vires dei debiti trasmessigli non cessa, per questo, di essere un successore; e se il suaccennato limite di responsabilità dovesse rendere evidente l’inutilità per il creditore di far valere le proprie ragioni nei confronti del socio, ciò si rifletterebbe sul requisito dell’interesse ad agire (ma si tenga presente che il creditore potrebbe avere comunque interesse all’accertamento del proprio diritto, ad esempio in funzione dell’escussione di garanzie) ma non sulla legittimazione passiva del socio medesimo.
Della correttezza della ricostruzione sistematica dell’istituto in termini (almeno lato sensu) successori è d’altronde lo stesso legislatore a fornire un indizio assai significativo, disponendo che la domanda proposta dai creditori insoddisfatti ei confronti dei soci possa essere notificata, entro un anno dalla cancellazione della società dal registro, presso l’ultima sede della medesima società (art. 2495 cit., secondo comma, ultima parte). Non interessa qui soffermarsi sulle perplessità che talune parti sono state sollevate quanto all’idoneità di tale disposizione ad assicurare adeguatamente il diritto di difesa dei soci nei cui confronti la domanda sia proposta. Importa notare come il legislatore, inserendo siffatta previsione processuale nel corpo di un articolo del codice civile, si sia palesemente ispirato al secondo comma dell’art. 303 c.p.c., che consente, entro l’anno dalla morte della parte, di notificare l’atto di riassunzione agli eredi nell’ultimo domicilio del defunto: testimonianza evidente di una visione in chiave successoria del meccanismo in forza del quale i soci possono esser chiamati a rispondere dei debiti insoddisfatti della società estinta. Ed è appena il caso di aggiungere che, per ovvie ragioni di coerenza dell’ordinamento, la medesima conseguenza sistematica non potrebbe non esser tratta anche per quel che concerne gli effetti successori della cancellazione dal registro di una società di persone che non abbia liquidato interamente i rapporti pendenti, quantunque a questo tipo di società non si applichi la speciale disposizione del citato secondo comma dell’art. 2495.
4.1. È ben possibile che la stessa scelta della società di cancellarsi dal registro senza tener conto di una pendenza non ancora definita, ma della quale il liquidatore aveva (o si può ragionevolmente presumere che avesse) contezza sia da intendere come una tacita manifestazione di volontà di rinunciare alla relativa pretesa (si veda, ad esempio, la fattispecie esaminata da Cass. 16 luglio 2010, n. 16758); ma ciò può postularsi agevolmente quando si tratti, appunto, si mere pretese, ancorché azionate o azionabili in giudizio, cui ancora non corrisponda la possibilità d’individuare con sicurezza nel patrimonio sociale un diritto o un bene definito, onde un tal diritto o un tal bene non avrebbero neppure perciò potuto ragionevolmente essere iscritti nell’attivo bilancio finale di liquidazione. Ad analoghe conclusioni può logicamente pervenirsi nel caso in cui un diritto di credito, oltre che magari controverso, non sia neppur liquido: di modo che solo un’attività ulteriore da parte del liquidatore – per lo più consistente nell’esercizio o nella coltivazione di un’apposita azione giudiziaria – avrebbe potuto condurre a renderlo liquido, in vista del riparto tra i soci dopo il soddisfacimento dei debiti sociali. In una simile situazione la scelta del liquidatore di procedere senz’altro alla cancellazione della società dal registro, senza prima svolgere alcuna attività volta a far accertare il credito o farlo liquidare, può ragionevolmente essere interpretata come un’univoca manifestazione di volontà di rinunciare a quel credito (incerto o comunque illiquido) privilegiando una più rapida conclusione del procedimento estintivo. Ma quando, invece, si tratta di un bene o di un diritto che, se fossero stati conosciuti o comunque non trascurati al tempo della liquidazione, in quel bilancio avrebbero dovuto senz’altro figurare, e che sarebbero perciò stati suscettibili di ripartizione tra i soci (al netto dei debiti), un’interpretazione abdicativa della cancellazione appare meno giustificata, e dunque non ci si può esimere dall’interrogarsi sul regime di quei residui o di quelle sopravvenienze attive.
4.2. Escluso, per le ragioni già da principio accennate, che l’esistenza di tali residui o sopravveniente sia da sola sufficiente a giustificare la revoca della cancellazione della società dal registro, o che valga altrimenti ad impedire l’estinzione dell’ente collettivo, sono state prospettate tanto l’ipotesi di una successione dei soci, per certi versi analoga a quella che si è visto operare per i residui e le sopravvenienze passive, quanto l’ipotesi che i beni ed i diritti non liquidati vengono a costituire un patrimonio adespota, assimilabile alla figura dell’eredità giacente, per la gestione e la rappresentanza del quale qualunque interessato potrebbe chiedere al giudice la nomina di un curatore speciale in applicazione analogica degli artt. 528 e segg. c.c.
Quest’ultima soluzione non è però persuasiva. Troppo dissimili appaiono, infatti, i presupposti sui quali riposa l’istituto dell’eredità giacente, e non vi sono ragioni che impongano di ricorrere ad esso in presenza di altre più plausibili ipotesi ricostruttive.
Il subingresso dei soci nei debiti sociali, sia pure entro i limiti e con le modalità di cui sopra s’è fatto cesso, suggerisce immediatamente che anche nei rapporti attivi non definiti in sede di liquidazione del patrimonio sociale venga a determinarsi un analogo meccanismo successorio. Se l’esistenza dell’ente collettivo e l’autonomia patrimoniale che lo contraddistingue impediscono, pendente societate, di riferire ai soci la titolarità dei beni e dei diritti unificati dalla destinazione impressa loro dal vincolo societario, è ragionevole ipotizzare che, venuto meno tale vincolo, la titolarità dei beni e dei diritti residui o sopravvenuti torni ad essere direttamente imputabile a coloro che della società costituivano il sostrato personale. Il fatto che sia mancata la liquidazione di quei beni o di quei diritti, il cui valore economico sarebbe stato altrimenti ripartito tra i soci, comporta soltanto che, sparita la società, s’instauri tra i soci medesimi, ai quali quei diritti o quei beni appartengono, un regime di con titolarità o di comunione indivisa, onde anche la relativa gestione seguirà il regime proprio della con titolarità o della comunione.
È del tutto ovvio che una società non più esistente, perché cancellata dal Registro delle Imprese, non possa validamente intraprendere una causa, né esservi convenuta (salvo quanto si dirà a proposito del fallimento).
Problemi più complicati si pongono però qualora la cancellazione intervenga a causa già iniziata.
In situazioni di tal fatta questa corte ha già in più occasioni avuto modo di affermare l’inammissibilità dell’impugnazione proposta dalla società estinta (si vedano Cass. 15 aprile 2010, n. 9032; e Cass. 8 ottobre 2010, n. 20878), così come di quella proposta nei suoi confronti (Cass. 10 novembre 2010, n. 22830); e si è ritenuto che, nei processi in corso, anche se non siano stati interrotti per mancata dichiarazione dell’evento interruttivo da parte del difensore, la legittimazione sostanziale e processuale, attiva e passiva, si trasferisce automaticamente, ex art. 110 c.p.c., ai soci, che, per effetto della vicenda estintiva, divengono partecipi della comunione in ordine ai beni residuati dalla liquidazione o sopravvenuti alla cancellazione, e, se ritualmente evocati in giudizio, parti di questo, pur se estranei ai precedenti gradi del processo (Cass. 6 giugno 2012, n. 9110; e Cass. 30 luglio 2012, n.12796; si veda anche, per un’applicazione di tali principi mediata dalla peculiarità della normativa tributaria, Cass. 5 dicembre 2012, n. 21773).
5.1. Le indicazioni giurisprudenziali cui da ultimo s’è fatto cenno appaiono meritevoli di essere avallate.
L’aver ricondotto la fattispecie ad un fenomeno successorio – sia pure connotato da caratteristiche sui generis, connesse al regime di responsabilità dei soci per i debiti sociali nelle differenti tipologie di società – consente abbastanza agevolmente di ritenere applicabile, quando la cancellazione e la conseguente estinzione della società abbiano avuto luogo in pendenza di una causa di cui la società stessa era parte, la disposizione dell’art. 110 c.p.c. (come già affermato anche da Cass. 6 giugno 2012, n. 9110). Tale disposizione contempla, infatti, non solo la “morte” (come tale riferibile unicamente alle persone fisiche), ma altresì qualsiasi “natura” per la quale la parte venga meno, e dunque risulta idonea a ricomprendere anche l’ipotesi dell’estinzione dell’ente collettivo.
Non parrebbe invece altrettanto plausibile, in simile circostanza, invocare il disposto del successivo art. 111: per la decisiva ragione che il fenomeno successorio di cui si sta parlando non è in alcun modo riconducibile ad un trasferimento tra vivi, o ad un trasferimento mortis causa a titolo particolare che postuli al tempo stesso l’esistenza di un diverso successore universale. Non v’è alcun soggetto diverso dal successore (cioè dai soci) nei cui confronti possa proseguire il processo di cui era parte la società frattanto cancellata dal registro.
Stando così le cose, non v’è motivo per non ritenere applicabili a tale fattispecie le disposizioni dettate dagli artt. 299 e segg. c.p.c. in tema di interruzione e di eventuale prosecuzione o riassunzione della causa (così anche Cass. 16 maggio 2012, n. 7676). La “perdita della capacità di stare in giudizio”, cui dette norme alludono, è infatti inevitabile conseguenza della sopravvenuta estinzione dell’ente collettivo che sia parte in causa; e ricorrono qui tutte le ragioni per le quali il legislatore ha dettato la suaccennata disciplina dell’interruzione e dell’eventuale prosecuzione o riassunzione del giudizio, così da contemperare i diritti processuali del successore della parte venuta meno e quelli della controparte.
Una sola eccezione va segnalata – ma si tratta, appunto, di un’eccezione, come tale destinata ad operare solo nello stretto ambito in cui il legislatore la ha prevista – con riguardo alla disciplina del fallimento. La possibilità, espressamente contemplata dall’art.10 l. fall., che una società sia dichiarata fallita entro l’anno dalla sua cancellazione dal registro comporta, necessariamente, che tanto il procedimento per dichiarazione di fallimento quanto le eventuali successive fasi impugnatorie continuino a svolgersi nei confronti della società (e per essa del suo legale rappresentante), ad onta della sua cancellazione dal registro; ed è giocoforza ritenere che anche nel corso della conseguente procedura concorsuale la posizione processuale del fallito sia sempre impersonata dalla società e da chi legalmente la rappresentava (si veda, in argomento, Cass. 5 novembre 2010, n. 22547). È una fictio iuris, che postula come esistente ai soli fini del procedimento concorsuale un soggetto ormai estinto (come del resto accade anche per l’imprenditore persona fisica che venga dichiarato fallito entro l’anno dalla morte) e dalla quale non si saprebbero trarre argomenti sistematici da utilizzare in ambiti processuali diversi.
5.2. Ulteriori interrogativi sorgono quando, essendosi il giudizio svolto senza interruzione, la necessità di confrontarsi con la sopravvenuta cancellazione della società dal Registro delle Imprese si ponga nel passaggio al grado successivo. Il che può accadere o perché in precedenza siano mancate la dichiarazione dell’evento estintivo (o il suo accertamento in una delle altre forme prescritte dai citati artt. 299 e segg.), oppure perché quell’evento si è verificato quando ormai, nel grado precedente, non sarebbe più stato possibile farlo constare, ovvero ancora perché l’estinzione è sopravvenuta dopo la pronuncia della sentenza che ha concluso il grado precedente di giudizio e durante la pendenza del termine d’impugnazione.
Pur nella consapevolezza di indicazioni giurisprudenziali non sempre univoche sul punto, le sezioni unite ritengono che l’esigenza di stabilità del processo, che eccezionalmente ne consente la prosecuzione pur quando sia venuta meno la parte, se l’evento interruttivo non sia stato fatto constare nei modi di legge, debba considerarsi limitata al grado di giudizio in cui quell’evento è occorso, in difetto di indicazioni normative univoche che ne consentano una più ampia esplicazione. Viceversa, è principio generale, condiviso dalla giurisprudenza di gran lunga maggioritaria, quello per cui il giudizio d’impugnazione deve sempre esser promosso da e contro i soggetti effettivamente legittimati, ovvero, come anche si usa dire, della “giusta parte” (si vedano, tra le altre, Cass. 3 agosto 2012, n. 14106; Cass. 8 febbraio 2012, n. 1760; Cass. 13 maggio 2011, n. 10649; Cass. 7 gennaio 2011, n. 259; Sez. un. 18 giugno 2010, n. 14699; Cass. 8 giugno 2007, n. 13395; Sez. un. 28 luglio 2005, n. 15783).
Non appare davvero un onere troppo gravoso – né tanto meno un’ingiustificata limitazione del diritto d’azione, a fronte dell’esigenza di tutelare anche i successori della controparte, che potrebbero essere ignari della pendenza giudiziaria – quello di svolgere, per chi intenda dare inizio ad un nuovo grado di giudizio, i medesimi accertamenti circa la condizione soggettiva della controparte che sono normalmente richiesti al momento introduttivo della lite. Né giova qui soffermarsi a discutere del se ed in quale eventuale misura tale regola sia suscettibile di attenuazione o di correttivi quando la parte impugnante non sia in condizione, neppure adoperando l’ordinaria diligenza, di conoscere l’evento estintivo che ha interessato la controparte, né quindi d’individuare i successori nei cui confronti indirizzare correttamente l’atto di impugnazione. L’evento estintivo del quale qui si sta parlando, ossia la cancellazione della società dal Registro delle Imprese, è oggetto di pubblicità legale. Salvo impedimenti particolari (sempre in teoria possibili, ma da dimostrare di volta in volta ai fini di un’eventuale rimessione in termini), non appare quindi ammissibile che l’impugnazione provenga dalla – o sia indirizzata alla – società cancellata, e perciò non più esistente, giacché la pubblicità legale cui l’evento estintivo è soggetto impone di ritenere che i terzi, e quindi anche le controparti processuali, ne siano a conoscenza; e la necessaria visione dell’ordinamento non consente di limitare al solo campo del diritto sostanziale la portata delle suaccennate regole inerenti al regime di pubblicità, escludendone l’applicazione in ambito processuale, salvo che vi siano diverse e più specifiche disposizioni processuali di segno contrario (come accade per il verificarsi dell’evento interruttivo nell’ambito del singolo grado di giudizio).
Non ci si nasconde che ad una logica parzialmente difforme sembra rispondere il principio affermato da queste sezioni unite nel caso d’impugnazione proposta nei confronti di società incorporata a seguito di fusione, nel regime anteriore alla riforma societaria del 2003. La sentenza 14 settembre 2010, n. 19509, ha infatti ammesso che, in quel caso, l’impugnazione possa essere validamente notificata al procuratore costituito di una società che nel precedente grado, successivamente alla chiusura della discussione (o alla scadenza del termine di deposito delle memorie di replica), si era estinta per incorporazione, qualora l’impugnante non abbia avuto notizia dell’evento modificatore della capacità giuridica della società mediante la notificazione di esso. Senonché tale affermazione appare condizionata, in quel caso, dal preliminare diniego dell’effetto processuale interruttivo della fusione e dalla considerazione che, nell’incorporazione per fusione, la società incorporante, già prima della citata novella del 2003, partecipando essa stessa alla fusione, non è mai totalmente distinta dalla parte già costituita, onde quel tipo di operazione dipende interamente dalla volontà degli stessi organi delle due società che ne sono protagoniste, ivi compresa l’incorporante che è destinata a subentrare nella posizione processuale dell’incorporata (nello stesso senso si veda anche la quasi coeva Sez. un. 19 settembre 2010, n. 19698). Ben diverso è il caso dell’estinzione conseguente a cancellazione della società dal Registro delle Imprese, che certamente può anch’essa dipendere da un atto volontario della parte, ma alla quale non può dirsi partecipe il soggetto (il socio) destinato a succederle nel processo, al quale può essere sì talvolta imputato di aver concorso con la sua volontà a porre la società in liquidazione, ma di regola non certo di averne determinato l’estinzione, a seguito di cancellazione dal registro, nonostante la pendenza di rapporti non ancora definiti. Sicché riemergono appieno, in questo caso, le già accennate esigenze di tutela del successore che sono a base tanto dell’istituto dell’interruzione quanto del principio per cui il giudizio d’impugnazione deve esser sempre instaurato nei confronti della “giusta parte”, cui soltanto ormai fa capo il rapporto litigioso.
5.3. In caso di violazione del principio appena ricordato, quando cioè l’impugnazione non sia diretta nei confronti della “giusta parte”, o non provenga da essa, l’impugnazione medesima dev’essere dichiarata inammissibile.
È vero che la giurisprudenza di questa corte è apparsa talora incline a ritenere nullo, per errore sull’identità del soggetto (anziché inammissibile), l’atto di impugnazione rivolto ad una parte ormai estinta anziché ai successori (si vedano, ad esempio, Cass. 30 marzo 2007, n. 7981, e Cass. 8 giugno 2007, n. 13395). Ma tale indicazione appare condivisibile, ove si rifletta sul fatto che la nullità, in coerenza con la funzione anche informativa dell’atto introduttivo del giudizio, è contemplata dagli artt. 163, comma 3°, n.2, e 164, comma 1°, c.p.c. nel caso in cui la lettura di quell’atto evidenzi l’omissione o l’assoluta incertezza degli elementi che occorrono per la corretta identificazione delle parti. Non di questo si tratta nella situazione di cui si sta qui discutendo: perché, lungi dall’esservi incertezza sull’identità della parte, questa è ben chiara, ma accade che il giudizio sia stato promosso, oppure che in esso sia stata evocata, una parte (la società estinta) diversa da quella (i relativi soci) che quel giudizio avrebbero potuto promuovere, o che avrebbero dovuto esservi evocati. Non è, insomma, l’identificazione della parte del processo ad essere in gioco, bensì la stessa possibilità di assumere la veste di parte per l’autore o per il destinatario della chiamata in giudizio. Ed allora, ove tale possibilità di assumere la veste di parte faccia difetto, si è in presenza di un giudizio (o grado di giudizio) che, per l’inesistenza di uno dei soggetti del rapporto processuale che si vorrebbe instaurare, si rivela strutturalmente inidoneo a realizzare il proprio scopo: donde l’inammissibilità dell’atto che lo promuove.
“Qualora all’estinzione della società, conseguente alla sua cancellazione dal Registro delle Imprese, non corrisponda il venir meno di ogni rapporto giuridico facente capo alla società estinta, si determina un fenomeno di tipo successorio, in virtù del quale: a) le obbligazioni si trasferiscono ai soci, i quali ne rispondono, nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione o illimitatamente, a seconda che, pendente societate, essi fossero o meno illimitatamente responsabili per i debiti sociali; b) si trasferiscono del pari ai soci, in regime di con titolarità o di comunione indivisa, i diritti ed i beni non compresi nel bilancio di liquidazione della società estinta, ma non anche le mere pretese, ancorché azionate o azionabili in giudizio, né i diritti di credito ancora incerti o il liquidi azionate o azionabili in giudizio, né i diritti di credito ancora incerti o il liquidi la cui inclusione in detto bilancio avrebbe richiesto un’attività ulteriore (giudiziale o extragiudiziale) il cui mancato espletamento da parte del liquidatore consente di ritenere che la società vi abbia rinunciato”.
“La cancellazione volontaria dal Registro delle Imprese di una società, a partire dal momento in cui si verifica l’estinzione della società medesima, impedisce che essa possa ammissibilmente agire o essere convenuta in giudizio. Se l’estinzione della società cancellata dal registro intervenga in pendenza di un giudizio del quale la società è parte, si determina un evento interruttivo del processo, disciplinato dagli artt. 299 e segg. c.p.c., con possibile successiva eventuale prosecuzione o riassunzione del medesimo giudizio da parte o nei confronti dei soci. Ove invece l’evento estintivo non sia stato fatto constare nei modi previsti dagli articoli appena citati o si sia verificato quando il farlo constare in quei modi non sarebbe più stato possibile l’impugnazione della sentenza pronunciata nei riguardi della società deve provenire o essere indirizzata, a pena d’inammissibilità, dai soci o nei confronti dei soci succeduti alla società estinta.”
A diversa conseguenza non può condurre la circostanza che la cessionaria del credito a suo tempo azionato da detta società sia intervenuta nel giudizio di cassazione depositando un controricorso, non essendo tale intervento idoneo a sanare l’originaria inammissibilità del ricorso proposto contro un soggetto non più esistente.
P.Q.M.
La corte dichiara inammissibili entrambi i ricorsi e compensa integralmente tra le parti le spese di giudizio di legittimità.
Così deciso, in Roma, il 12 febbraio 2013
Depositato in Cancelleria il 12 marzo 2013
TRIBUNALE CIVILE E PENALE DI CUNEO, Ufficio del Giudice del Registro delle Imprese, 16 luglio 2012, n. 399/12 R.G. – Giudice Dott. Gian Paolo MACAGNO – Beltranome Raffaella (Avv.ti Santimaria e Scaglione) – “PIGNA S.a.s. di Giorgio Bersaglia & C.” in liquidazione (Avv. Preve)
Società in accomandita semplice – Cancellazione dal registro delle imprese – Permanenza di cespiti immobiliari non liquidati e ancora iscritti in capo alla società pur dopo la cancellazione – Cancellazione dell’iscrizione della cancellazione – Ammissibilità
(Artt. 2191, 2312, 2324, 2495 c.c.)
La permanenza di cespiti immobiliari non liquidati e ancora iscritti in capo alla società pur dopo la cancellazione dal Registro Imprese, in difetto di una espressa previsione normativa circa la sorte dei cespiti attivi – contrariamente alla ipotesi normativamente disciplinata della sopravvivenza di rapporti pendenti o in corso di accertamento giudiziale al momento della cancellazione – comporta la cancellazione dell’iscrizione di cancellazione ai sensi dell’art. 2191 c.c. (3)
Il Giudice Dott. Gian Paolo MACAGNO,
visto il ricorso depositato in data 4.4.2012 da Beltramone Raffaella, rappresentata e difesa dagli avv.ti Antonella Santimaria e Monica Scaglione, presso quest’ultima domiciliata in Moncalieri, via Alfieri 31,
ricorso da considerarsi quale segnalazione finalizzata all’instaurazione del procedimento di cancellazione d’ufficio ai sensi dell’art. 2191 c.c. della cancellazione dell’impresa PIGNA S.a.S. di Giorgio Bertaglia & C. in liquidazione, già con sede in Saluzzo (CN), Via Martiri Liberazione 5;
dato atto che si è costituito l’ex liquidatore della PIGNA s.r.l., Bertaglia Manlio, con il patrocinio dell’avv. Guglielmo Preve del Foro di Torino e con domicilio eletto in Cuneo, Via Se. Toselli 1, presso l’avv. Ernesto Algranati, opponendosi alla richiesta di cancellazione;
all’esito dell’udienza del 15.5.2012, per il quale il Conservatore ha fatto pervenire memoria scritta, nella quale ha comunicato le risultanze degli atti del RR.II. in relazione alla impresa de quo, senza prendere posizione in merito alla richiesta del ricorrente;
OSSERVA
La ricorrente ha allegato di aver agito per l’accertamento dell’usucapione, in proprio favore, della porzione immobiliare facente parte di uno stabile sito in Bagnolo Piemonte (CN), Regione Montoso, tuttora intestata alla società PIGNA s.a.s. di Giorgio Bertaglia & C., cancellata dal Registro delle Imprese in data 18.12.2008 per “chiusura della liquidazione”.
Come documentato, le azioni proposte al fine dell’accertamento dell’usucapione tanto nei confronti della società cancellata, quanto nei confronti degli ex soci (allegandosi a quest’ultimo riguardo il fenomeno successorio in favore della comunione formatasi tra gli stessi) sono state dichiarate inammissibili, la prima perché proposta nei confronti di soggetto giuridico estinto, la seconda escludendosi il fenomeno successorio lumeggiato.
Per quanto possa rilevare in questa sede, entrambe le decisioni appaiono condivisibili sotto il profilo giuridico-formale, purtuttavia avendo la loro combinazione determinato una sorta di impasse diabolico, in relazione alle facoltà (non) concesse alla ricorrente di far valere il proprio buon diritto.
Peraltro, la questione può e deve essere risolta sotto il differente profilo, correttamente allegato in questa sede, della validità dell’iscrizione della cancellazione della società.
In consonanza con la più attenta giurisprudenza di merito, deve ritenersi ammissibile l’adozione di provvedimenti di cancellazione dell’iscrizione di cancellazione di società dal Registro Imprese laddove l’iscrizione risulti eseguita in difetto dei presupposti di legge della cancellazione medesima (così Giudice Registro Imprese Milano, 21.11.2011; Giudice Registro Imprese Genova, 5.7.2012; Trib. Udine in sede di reclamo, 15.9.2005).
Tale orientamento è sicuramente applicabile alla fattispecie in esame, di permanenza di cespiti immobiliari non liquidati e ancora iscritti in capo alla società pur dopo la cancellazione dal Registro Imprese. Tale condizione non consente infatti di ritenere compiuta la liquidazione dell’ente, in difetto di una espressa previsione normativa circa la sorte dei cespiti attivi (cfr. Giudice Registro Imprese Milano, cit.; Trib. Udine, cit.).
Al contrario, in relazione alla – normativamente disciplinata – ipotesi di sopravvivenza dei rapporti pendenti o in corso di accertamento giudiziale al momento della cancellazione, non può ritenersi applicabile il rimedio di cui all’art. 2191 c.c. (così Giudice Registro Imprese Milano, cit.; per la tesi ammissiva è invece Giudice Registro Imprese Genova, cit.; è peraltro attesa, in tema di conseguenze della cancellazione della società costituita in giudizio e nel corso dello stesso, la pronuncia delle Sezione Unite della Cassazione, a seguito di rimessione degli atti al Primo Presidente con ordinanza della I Sezione in data 18 giugno 2012).
Per quanto esposto,
visti gli artt. 2191 c.c. e 17 DPR 581/95
ordina
la cancellazione dell’iscrizione nel Registro delle Imprese di Cuneo della cancellazione della società PIGNA S.a.s. di Giorgio Bertaglia & C. in liquidazione, già con sede in Saluzzo (CN), Via Martiri Liberazione 5.
Si comunichi al Conservatore ed alle parti.
Cuneo, lì 16 luglio 2012
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1. I casi - 2. La normativa di riferimento - 3. I precedenti giurisprudenziali - 4. La dottrina - 5. Il commento. Rapporti tra natura dell’adempimento pubblicitario ed effetti della cancellazione. Critica - 6. (Segue). Appartenenza delle sopravvivenze e/o sopravvenienze attive all’area della patologia legittimante l’intervento del Giudice del Registro di cui all’art. 2191 c.c. Critica - 7. (Segue). Adesione alla tesi successoria. Precisazioni - 8. (Segue). Riflessi operativi - NOTE
La Corte d’appello di Napoli, in parziale riforma della precedente pronuncia del Tribunale di Avellino, condanna il Comune irpino al pagamento di una somma di danaro, oltre interessi, a titolo di corrispettivo per l’esecuzione di lavori pubblici, in favore di una società in accomandita semplice. Dopo la pronuncia della sentenza del Giudice di secondo grado e durante la pendenza del termine per la proposizione del ricorso per cassazione, la società in accomandita semplice, ceduto a terzi il credito riconosciuto in sede giurisdizionale, richiede e ottiene la propria cancellazione dal competente Registro delle Imprese. Avverso la sentenza della Corte di Appello di Napoli, il Comune, soccombente nel merito, propone ricorso per cassazione, al quale si aggiunge il ricorso dell’Avvocato difensore della società cessionaria del credito, lamentando la mancata distrazione delle spese processuali a suo favore. Riuniti i due ricorsi, si rimette la decisione alla sezioni unite affinché «sia decisa la questione di particolare importanza consistente nell’individuare la sorte dei rapporti processuali pendenti nel momento in cui una società (nella specie di persone) venga cancellata dal registro delle imprese». Le Sezioni Unite della Cassazione enunciano i seguenti principi: conformemente a quanto già affermato dalla stessa Corte di Cassazione a Sezioni Unite, nelle tre sentenze del 22 febbraio 2012, nn. 4060, 4061 e 4062, nonché nella sentenza n. 8426 del 9 aprile 2010, la cancellazione di una società di persone dal registro delle imprese, a differenza della cancellazione di una società di capitali, ha valore di pubblicità dichiarativa, superabile attraverso la prova del “fatto dinamico” (e non già di quello “statico” della pendenza di rapporti non ancora definiti facenti capo alla società) della continua operatività da parte della società nonostante l’avvenuta cancellazione; situazione, questa, che legittimerebbe, tanto per le società di persone quanto per le società di capitali, il ricorso alla cancellazione d’ufficio della pregressa cancellazione (cioè alla rimozione della cancellazione dal registro in precedenza intervenuta), in forza del disposto dell’art. 2191 c.c., con la conseguente presunzione che la società non abbia mai cessato medio tempore di [continua ..]
Le fattispecie che si annotano attraversano, sul piano normativo, le seguenti disposizioni del codice civile: – l’art. 2191 c.c., in forza del quale «Se un’iscrizione è avvenuta senza che esistano le condizioni richieste dalla legge, il giudice del registro, sentito l’interessato, ne ordina con decreto la cancellazione»; – l’art. 2312, 2° comma, c.c., in tema di società in nome collettivo, in forza del quale «Dalla cancellazione della società i creditori sociali che non sono stati soddisfatti possono far valere i loro crediti nei confronti dei soci» (illimitatamente, coerentemente al regime della responsabilità del tipo sociale ante-cancellazione) «e, se il mancato pagamento è dipeso da colpa dei liquidatori, anche nei confronti di questi»; – l’art. 2324 c.c., in tema di società in accomandita semplice, il quale, dopo aver richiamato il disposto dell’art. 2312, 2° comma, c.c., precisa che «i creditori sociali che non sono stati soddisfatti nella liquidazione della società possono far valere i loro crediti anche nei confronti degli accomandanti, limitatamente alla quota di liquidazione» (in ossequio alla tipologica limitazione di responsabilità del socio accomandante della s.a.s. ante-cancellazione); – l’art. 2495, 2° comma, c.c., che, nel disciplinare gli effetti della cancellazione della società di capitali, riproduce sostanzialmente quanto previsto dall’art. 2324 c.c., con due importanti integrazioni precettive: la resistenza dell’effetto estintivo della cancellazione al sopraggiungere di passività sociali, espressa dall’inciso «Ferma restando l’estinzione della società» (2° comma, alinea 1); la possibilità di notificare l’azione contro i soci e il liquidatore (almeno) in colpa, se promossa entro un anno dalla cancellazione, presso l’ultima sede della società (2° comma, alinea 9, 10, 11 e 12), riproducendo, così, la medesima agevolazione processualistica prevista in caso di morte della persona fisica (art. 303 c.p.c.) [2].
L’esatta individuazione degli effetti della cancellazione dal registro delle imprese nella fattispecie estintiva di una società, di capitali e di persone, impegna la giurisprudenza, di legittimità e di merito, da più di mezzo secolo. Partendo dagli anni ’60, è possibile suddividere la storiografia giurisprudenziale sul punto in due momenti temporali circoscritti, nei rispettivi termini finale e iniziale, dalla data di entrata in vigore della riforma organica delle società di capitali e delle società cooperative introdotta con il d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 5 e successive modifiche e integrazioni. Prima dell’intervento riformatore, la giurisprudenza ancorava l’estinzione delle società, a prescindere dal tipo di appartenenza, al definitivo esaurimento di ogni rapporto giuridico, sostanziale o processuale, attivo o passivo, imputabile all’ente [3]. Di qui la valorizzazione sistematica, nell’ambito della fattispecie estintiva delle società, della c.d. “liquidazione sostanziale” contrapposta alla c.d. “liquidazione formale”, con conseguente involuzione della cancellazione al ruolo di condizione necessaria ma non sufficiente per l’estinzione della società, connessa al dato sostanziale dell’effettiva definizione di ogni rapporto facente capo all’ente e non già al mero dato formale offerto dall’adempimento pubblicitario. La declinazione operativa più oltranzista di tale impostazione giurisprudenziale si concretizzava nella “sopravvivenza” o “persistenza in vita” della società, con conseguente mortificazione effettuale della cancellazione come fatto giuridico oggetto di pubblicità legale, prima ancora che come possibile fonte dell’effetto estintivo dell’ente [4]: se la liquidazione, intesa come attività funzionalmente preordinata dalla legge alla definizione di tutti i rapporti passivi imputabili alla società e alla ripartizione dell’eventuale residuo attivo tra i soci, costituisce il presupposto logico-giuridico della richiesta di cancellazione (cfr. artt. 2312, 1° comma, c.c., 2495, 1° comma, c.c.), è evidente che eventuali patologie di quella attività, ravvisabili nel sopraggiunto accertamento di rapporti non liquidati, assegnati e/o definiti, inficiano in radice l’intervenuta [continua ..]
Prima della riforma del 2003, la posizione della dottrina, salvo alcune isolate, ancorché autorevoli voci adesive [25], era fortemente critica rispetto ai risultati operativi ed ai presupposti argomentativi del pensiero giurisprudenziale. L’esigenza di reagire alla posizione dei giudici nasceva dalla consapevolezza della sua passiva auto-alimentazione, nel senso che, dopo una prima fase di attiva elaborazione ermeneutica, la maggior parte delle sentenze si limitava a richiamare l’orientamento consolidato, senza fornire specifiche argomentazioni sul punto [26], contribuendo, così, inconsapevolmente, a creare quello che la Corte costituzionale non aveva esitato a catalogare come vero e proprio “diritto vivente” [27]. La necessità di porre un argine alle conseguenze dello ius receptum di matrice giurisprudenziale emerse, ben presto, in campo fallimentare: se la società, nonostante la cancellazione, persiste o ritorna in vita fino a quando non siano stati definiti tutti i rapporti ad essa imputabili, la stessa risulterebbe sempre assoggettabile al fallimento, con una disciplina palesemente e irragionevolmente diversa da quella dell’imprenditore individuale, la cui fallibilità è positivamente limitata all’arco temporale di un anno dalla cessazione dell’esercizio dell’impresa. Sul punto interveniva, com’è noto, la Corte costituzionale [28] che, con orientamento recepito anche dalla Cassazione [29], sanciva l’illegittimità costituzionale dell’art. 10 della legge fallimentare per disparità di trattamento tra imprenditore individuale e collettivo, ove non interpretato nel senso di fissare nella data di cancellazione delle società commerciali, con o senza personalità giuridica, il dies a quo di decorrenza del termine annuale entro cui dichiararne il fallimento. Si escludeva dunque, almeno ai fini fallimentari, ogni rilevanza alle sopravvivenze e/o sopravvenienze attive e passive, sostanziali o processuali, nella definizione del momento estintivo dell’ente, irreversibilmente individuato, dal Giudice delle leggi, nell’adempimento pubblicitario dell’iscrizione della cancellazione. L’intervento della Consulta si innestava in un più ampio convincimento dottrinale relativo alla efficacia irretrattabilmente estintiva della cancellazione [continua ..]
Lo studio dottrinale e giurisprudenziale sul ruolo della cancellazione nella fattispecie estintiva delle società appare affetto da un comune vizio metodologico. Il riferimento è al rapporto di derivazione concettuale tra: natura costitutiva della cancellazione e riconoscimento dell’effetto estintivo, da un lato; natura dichiarativa e negazione dell’effetto dissolutivo (o affermazione presuntiva del suo dispiegarsi), dall’altro. Così, la sopravvivenza della società, fino alla definizione di ogni rapporto ad essa facente capo, è riassunta e al contempo giustificata invocando la natura meramente “dichiarativa” dell’iscrizione della cancellazione, desunta, a sua volta, dalla portata generale e residuale dell’art. 2193, 3° comma, c.c. In seguito all’introduzione dell’incipit “Ferma restando l’estinzione della società” del secondo comma dell’art. 2495 c.c., interpretato come riconoscimento dell’effetto estintivo della cancellazione, si è affermato che l’adempimento pubblicitario in parola avrebbe efficacia “costitutiva”, con la precisazione che ciò varrebbe solo per le società di capitali, essendo la funzione costitutiva della pubblicità legale del tutto estranea alla fenomenologia dell’iniziativa societaria a base personalistica [47]; affermazione, quest’ultima, successivamente smentita dalle note sentenze della Cassazione del 2010 [48], che hanno esteso il riconoscimento dell’effetto estintivo della cancellazione anche alle società di persone, sia pur con efficacia meramente dichiarativa della cessazione dell’attività sociale. La sensazione è che, da tempo ormai, si ricostruisce l’identità funzionale dell’iscrizione della cancellazione ignorando i principi generali che governano, nel nostro sistema, la pubblicità legale. Sono noti i predicati funzionali delle iscrizioni camerali: la c.d. “pubblicità-notizia”, quale strumento di mera conoscibilità del fatto o atto iscritto, del tutto disancorato dalla relativa opponibilità; la “pubblicità costitutiva”, elevata a co-elemento essenziale di efficacia della fattispecie iscritta; la c.d. “pubblicità normativa”, costituente il presupposto essenziale per la piena [continua ..]
Lo studio delle fattispecie patologiche in materia si fonda su una netta distinzione tra provvedimento di iscrizione “non conforme alla legge” e “invalidità” dell’atto oggetto di iscrizione, precisando che solo il primo appartiene al giudice del registro ai sensi dell’art. 2191 c.c. [60]. La tesi della “risurrezione interessata”, seguita dalla prevalente giurisprudenza degli ultimi anni [61], limita, come si è visto, l’irreversibilità dell’effetto estintivo al solo caso di sopravvenienze e/o sopravvivenze passive, imponendo, per quelle attive, la reiscrizione della società attraverso lo strumento tecnico della c.d. “cancellazione della cancellazione”, di cui all’art. 2191 c.c. Le sopravvivenze e/o sopravvenienze attive integrerebbero dunque una patologia del provvedimento di iscrizione, in quanto avvenuto “in mancanza delle condizioni di legge”. Viceversa, la tesi “successoria”, e in ciò si lascia cogliere il suo vero pregio interpretativo, colloca le sopravvivenze e/o sopravvenienze, anche quelle attive, al di fuori dell’area patologica, sia del provvedimento pubblicitario (iscrizione della cancellazione) che dell’atto oggetto di pubblicità (la cancellazione quale atto formale conclusivo del procedimento liquidatorio). In effetti, la tesi della reiscrizione tramite l’intervento d’ufficio del giudice del registro di cui all’art. 2191 c.c., pone non pochi dubbi interpretativi. Il procedimento contemplato dall’art. 2191 c.c. rientra, com’è noto, nell’area della volontaria giurisdizione, priva delle garanzie del contradditorio proprie della giurisdizione contenziosa, che la possibile contestazione di una sopravvivenza e/o sopravvenienza attiva ben può esigere [62]. La cognizione sommaria del procedimento eminentemente amministrativo di cui all’art. 2191 c.c., riassumibile nel mero dovere del Giudice del registro di “sentire” l’interessato, apre la strada ad una serie potenzialmente continua di cancellazioni di cancellazioni di avvenute cancellazioni, con effetti deprecabili in termini di certezza delle situazioni giuridiche [63]. La stessa sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite del 9 aprile 2010, n. 8426 [64], prevede che «il provvedimento del Giudice del Registro non ha [continua ..]
Alla luce delle esposte considerazioni, la problematica delle sopravvenienze e/o sopravvivenze attive deve trovare una naturale sistemazione nell’ambito della teoria “successoria”, sia pure con alcune precisazioni [81]. Sicuramente, con l’approvazione del bilancio finale di liquidazione, si registra un depotenziamento dell’entificazione societaria, con riemersione dell’individualistico consensualismo governante la nascita del fenomeno societario fino all’iscrizione dell’atto costitutivo nel registro delle imprese. Numerose norme depongono nel senso di qualificare il riparto delle residue attività come vicenda propria dei soci [82], alla quale il liquidatore, quale organo esponenziale della società, resta sostanzialmente estraneo [83]. Le stesse assegnazioni in sede liquidatoria hanno lo scopo di prevenire una comunione che si instaurerebbe tra i soci per effetto dell’approvazione (espressa, presunta, tacita o giudiziale) del bilancio finale di liquidazione [84]. Assolutamente condivisibile, altresì, è la configurazione della quota di liquidazione quale quota astratta nella quale il socio è chiamato a succedere, secondo lo schema della successione universale, propiziato anche dal positivo parallelismo processualistico tra la morte della persona fisica e l’estinzione, di cui al nuovo art. 2495, 2° comma, c.c. (alinea 9, 10, 11 e 12). Ciò che non convince della tesi in esame, invece, è la ritenuta idoneità funzionale del piano di riparto a conformare la quota di liquidazione, quale quota “successoria”, in base alla porzione di attività assegnate ai soci, secondo il meccanismo dell’”institutio ex certis rebus” di cui all’art. 588, 2° comma, c.c. Il diritto di ricevere la quota del patrimonio sociale, che residua una volta soddisfatti i creditori sociali, si fonda sulla titolarità della partecipazione sociale (quale risultante dal libro soci o dal registro delle imprese) ed è quantitativamente determinato dalla percentuale di capitale espressa da quella partecipazione o dalla eventuale titolarità di azioni di categoria o diritti particolari (art. 2468, 3° comma, c.c.) [85]. Sotto questo profilo, il piano di riparto assolve ad una funzione meramente ricognitiva del profilo soggettivo ed oggettivo [continua ..]
Una prima, concreta problematica riguarda la regolamentazione degli effetti della successione degli ex soci nei crediti e debiti della società cancellata, ignorati in sede di liquidazione. Mentre per i diritti reali si determina una situazione giuridica di comunione, per i diritti relativi ci si chiede se debba trovare applicazione il principio, tipicamente successorio, per cui “nomina et debita hereditaria ipso iure dividuntur”, di cui all’art. 754, 1° comma, c.c., postulante l’automatica divisione dei diritti di credito o debito, sempre in proporzione alle rispettive quote di liquidazione. Con esplicito riferimento alle sopraggiunte passività sociali, parte della dottrina [91] ritiene che la responsabilità dei soci a titolo universale sia compatibile con la solidarietà dell’obbligazione dei soci nei limiti della somma da ciascuno riscossa. Tale soluzione, si afferma, oltre a rendere più agevole l’azione dei creditori (ex) sociali, discenderebbe dalla natura eccezionale e, in quanto tale, non suscettibile di applicazione analogica, dell’art. 754, 1° comma, c.c., rispetto alla regola generale della solidarietà passiva di cui all’art. 1294 c.c. La soluzione appare invero più articolata. L’art. 754, 1° comma, c.c., è sicuramente norma eccezionale rispetto alla regola della solidarietà passiva (art. 1294 c.c.). L’eccezione sarebbe giustificata dalla considerazione che, se è giusto che il coerede risponda eventualmente anche ultra vires dei debiti del de cuius, sarebbe eccessivamente gravoso per lui rispondere, in solido, dell’intero debito [92]. Correlativamente, il sacrifico dell’interesse creditorio sarebbe giustificato dalla gravosità ed involontarietà della morte del debitore-persona fisica. Se questa è la ratio dell’art. 754, 1° comma, c.c., tenuto conto della tendenziale volontarietà dell’effetto estintivo di un ente, l’applicazione analogica alla successione degli ex soci nelle posizioni debitorie e creditorie va opportunamente modulata: nei casi di responsabilità limitata al riscosso (ex socio di società di capitali e socio accomandante di s.a.s.) non sussistono valide ragioni giustificative per escludere l’applicazione, in via di interpretazione estensiva (senza scomodare l’analogia), della [continua ..]