Rivista di Diritto SocietarioISSN 1972-9243 / EISSN 2421-7166
G. Giappichelli Editore

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Gli obblighi dell'intermediario finanziario nella prestazione dei servizi di investimento dagli orientamenti della giurisprudenza di merito alle Sezioni Unite (di Davide Cesiano)


  
SOMMARIO:

1. Il diffuso contenzioso fra banche e clienti in materia di servizi di investimento - 2. Il requisito della forma scritta nella stipula dei contratti di investimento. Distinzione tra contratto c.d. quadro e singolo ordine di acquisto - 3. Le conseguenze della violazione degli obblighi informativi: nullità o risoluzione del contratto di investimento? - 4. Le Sezioni Unite della Cassazione risolvono il contrasto interpretativo - 5. La tutela del risparmiatore dopo l'attuazione della Direttiva MiFID - NOTE


1. Il diffuso contenzioso fra banche e clienti in materia di servizi di investimento

Benché le turbolenze dei mercati finanziari internazionali degli ultimi anni, dettate soprattutto dalla bolla speculativa della new economy, e i grandi scandali finanziari [1] siano vicende che hanno coinvolto milioni di risparmiatori in molte economie avanzate, è soprattutto in Italia che il degrado del rapporto di fiducia tra intermediarie clienti ha toccato un livello particolarmente elevato di litigiosità per il numero delle azioni giudiziali promosse e per il loro valore [2]. Tuttavia, in altri ordinamenti la risposta del legislatore ai gravi illeciti che hanno avuto pesanti riflessi sulla borsa in termini di distruzione di ricchezza, è stata tempestiva ed efficace. Non altrettanto è avvenuto nel nostro ordinamento, dove, all’indomani del crollo di alcuni grandi gruppi industriali (Cirio, Parmalat), l’attenzione del legislatore si è in prevalenza concentrata sui futuri assetti delle Autorità di vigilanza (in particolare sul possibile ridimensionamento delle funzioni della Banca d’Italia). Solo nel 2005 ha visto la luce, con la legge n. 262 «per la tutela del risparmio e la disciplina dei mercati finanziari», un profondo riassetto del t.u.f., seguito da ulteriori ritocchi del d.lgs. 28 marzo 2007, n. 51. Nel frattempo, i risparmiatori danneggiati hanno agito in giudizio contro gli intermediari abilitati dai quali avevano acquistato strumenti finanziari andati in default. Ciò ha determinato il proliferare di interventi giurisprudenziali spesso in contrasto tra loro. Le pagine che seguono si propongono una breve ricostruzione dei principali orientamenti giurisprudenziali in materia, attraverso i quali possono individuarsi i diversi rimedi applicabili in caso di violazione delle regole di condotta da parte dell’intermediario. Le prime pronunce hanno sottoposto ad un maturo e completo vaglio il rapporto tra intermediario finanziario e cliente. In particolare, si è elaborata una vera e propria catalogazione delle contestazioni mosse dal risparmiatore alla condotta dell’intermediario in materia di servizi di investimento [3]. Dall’esame della giurisprudenza emerge, anzitutto, la proposizione, da parte dell’inve­sti­tore, di un cumulo di domande molte delle quali formulate in via solo subordinata. Il risparmiatore ha spesso eccepito la nullità dei contratti di acquisto per mancanza della forma scritta, ai [continua ..]


2. Il requisito della forma scritta nella stipula dei contratti di investimento. Distinzione tra contratto c.d. quadro e singolo ordine di acquisto

Come è ben noto, l’art. 6, lett. c), legge 2 gennaio 1991, n. 1 introduceva l’obbligo della forma scritta [5] soltanto per i “contratti-quadro” o “normativi”, che disciplinano i servizi di investimento, stabilendo anche il contenuto minimo degli stessi. Tuttavia, la predetta norma non prevedeva affatto le conseguenze che sarebbero derivate dal mancato rispetto di tale forma. La dottrina e la giurisprudenza prevalente dell’epoca erano dell’opinione che la sanzione da ricollegare all’inosservanza della forma scritta, non poteva che essere la nullità assoluta del contratto, dal momento che la previsione della forma avrebbe dovuto tutelare un interesse generale alla trasparenza delle negoziazioni [6]. Successivamente, con l’entrata in vigore del d.lgs. 25 luglio 1996, n. 415, la forma scritta entrava a far parte dei requisiti di validità del contratto, alla cui inosservanza è stata espressamente collegata la sanzione della nullità [7]. Il sistema delineato dalle leggi n. 1/1991 e n. 415/1996 instaurava un nuovo formalismo negoziale, con l’obiettivo di assicurare la tutela del singolo investitore, considerato controparte contrattuale debole. Si evidenziava che il requisito formale non andava considerato come un ostacolo alla celerità dei traffici, ma, al contrario, come un irrinunciabile presidio di protezione del contraente debole, idoneo a porre quest’ultimo nella condizione di poter prendere conoscenza delle condizioni contrattuali e, quindi, di potere prestare un consenso effettivamente consapevole ed informato [8]. Nella prassi accade che il testo contrattuale è predisposto dall’intermediario, mentre l’inve­stitore si limita a sottoscriverlo senza averne preso reale conoscenza. In quest’ultimo caso, il requisito della forma scritta gioca un ruolo rilevante nella fase successiva, allorché sorgono contestazioni fra le parti. Ciò permette all’investitore di potere contestare, per esempio, il rispetto e la validità di certe clausole inserite nel testo contrattuale. A seguito di una lunga ed articolata vicenda normativa, l’art. 23, d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 (t.u.f.) ha definitivamente chiarito la portata dell’onere della forma scritta, confermando l’intuizione della giurisprudenza che aveva collegato alla inosservanza della predetta forma, una [continua ..]


3. Le conseguenze della violazione degli obblighi informativi: nullità o risoluzione del contratto di investimento?

Il t.u.f., nel dettare (artt. 21-25) le regole alle quali le imprese di investimento e le banche debbono attenersi nello svolgimento della propria attività, ne fissa alcune che trovano applicazione per tutti i servizi ed altre che valgono soltanto per la prestazione di alcuni. In particolare, occorre fare riferimento all’art. 21, 1° comma, che individua “i criteri generali” di comportamento, in base al quale i soggetti abilitati devono comportarsi con diligenza, correttezza e trasparenza, nell’interesse dei clienti e per l’integrità dei mercati, con una evidente commistione tra ”profilo privatistico“ e ”profilo pubblicistico” [19]. L’art. 21, 1° comma, t.u.f., individua, altresì, gli obblighi informativi in capo all’interme­diario, prevedendo due momenti concorrenti e funzionalmente collegati: un primo, per così dire, preliminare, “passivo”, di ascolto del cliente, finalizzato alla raccolta delle informazioni “necessarie”; un secondo “attivo” di “adeguata” illustrazione della natura del servizio e dei rischi ad esso connessi [20]. Tali obblighi di informazione non sono una mera applicazione dei principi generali di correttezza e buona fede, ma si sostanziano in obblighi di interpretazione della volontà dell’inve­stitore la cui osservanza è fondamentale per la valida formazione del consenso [21]. Gli investitori che hanno contestato all’intermediario la violazione delle regole di condotta, in particolare delle norme in tema di obblighi informativi e di adeguatezza dell’operazione, hanno invocato la nullità dei contratti di negoziazione, sostenendo il carattere imperativo della disciplina [22]. Ci si è innanzitutto chiesti se la normativa in tema di intermediazione finanziaria, legislativa e regolamentare, sia posta a tutela dell’ordine pubblico economico e, dunque, si sostanzi in norme imperative [23]. In secondo luogo, quali sarebbero le conseguenze della violazione di tale normativa e quale la tipologia dei rimedi offerti dal nostro ordinamento: la nullità del contratto, ai sensi dell’art. 1418, 1° comma, c.c., anche a prescindere da un’espressa previsione in tal senso da parte del legislatore, ovvero la semplice risoluzione del contratto, ex art. 1453 c.c. per inadempimento [continua ..]


4. Le Sezioni Unite della Cassazione risolvono il contrasto interpretativo

La questione di diritto per la cui risoluzione si è imposto l’intervento delle Sezioni Unite attiene all’individuazione dei rimedi esperibili da un investitore in ipotesi di comportamenti degli intermediari finanziari difformi rispetto alle prescrizioni legislative di cui all’art. 6, legge 2 gennaio 1991, n. 1 (successivamente sostituito dall’art. 21 t.u.f.). In particolare se l’inosservanza degli obblighi di condotta possa comportare, ai sensi dell’art. 1418, 1° comma, c.c., la nullità dei contratti per contrarietà a precetti di carattere imperativo. Le Sezioni Unite, nel riaffermare il carattere imperativo delle regole di comportamento in materia di servizi di investimento – nel senso che esse sono dettate non solo nell’interesse del singolo contraente di volta in volta implicato ma anche nell’interesse generale all’integrità dei mercati finanziari – osservano che tale rilievo, tuttavia, non è da solo sufficiente a dimostrare che la loro violazione comporti la nullità dei contratti stipulati dall’intermediario col cliente. È ovvio che la loro violazione non può essere, sul piano giuridico, priva di conseguenze ma non è detto che la conseguenza sia necessariamente la nullità del contratto. Innanzitutto, è evidente che il legislatore – il quale certo avrebbe potuto farlo e che, nella medesima legge, non ha esitato ad altro proposito a farlo – non ha espressamente stabilito che il mancato rispetto delle citate disposizioni interferisce con la fase genetica del contratto producendo l’effetto radicale della nullità invocata dai ricorrenti. Non si tratta quindi certamente di uno di quei casi di nullità stabiliti dalla legge ai quali allude il terzo comma dell’art. 1418 c.c. La Corte di Cassazione esclude, altresì, che l’inosservanza delle regole di comportamento degli intermediari finanziari possa determinare la nullità ai sensi dell’art. 1418, 2° comma, c.c., sotto il profilo della mancanza di uno dei requisiti dell’art. 1325 c.c. («l’accordo delle parti») osservando che, ove pure si voglia ammettere che nella fase prenegoziale la violazione dei doveri di comportamento dell’intermediario sopra ricordati sia idonea ad influire sul consenso della controparte contrattuale, “inquinandolo”, appare arduo [continua ..]


5. La tutela del risparmiatore dopo l'attuazione della Direttiva MiFID

Un’ultima riflessione si impone. Che cosa sarebbe successo se i casi sinora sottoposti al vaglio giurisprudenziale fossero stati decisi sotto il regime della nuova legge sul risparmio (n. 262/2005). Giova sottolineare che la riforma del risparmio ha sollevato svariati problemi interpretativi, provocando un ampio dibattito. Prescindendo da quest’ultimo, non può negarsi la rilevante portata innovativa dell’art. 100-bis t.u.f. rubricato “circolazione di prodotti finanziari” volto a disciplinare in modo più rigido, la vendita a dettaglio degli strumenti finanziari emessi senza prospetto, in quanto, originariamente rivolti ad investitori istituzionali. Si noti che il t.u.f., nell’originaria formulazione, non indicava in che cosa consistesse una offerta pubblica, né dettava criteri alla stregua dei quali giudicare se una sollecitazione all’in­vestimento fosse rivolta o meno al pubblico, né forniva indicazioni circa il momento in cui un’offerta era da considerarsi “rivolta al pubblico”. La legge non poneva distinzioni in base al numero di sollecitazioni, all’ammontare offerto o al tipo di investimento sollecitato, né in base alle modalità della sollecitazione stessa. La normativa si limitava ad esentare le sollecitazioni con determinate caratteristiche dall’osservanza delle Regole d’Offerta Pubblica. In assenza di precise indicazioni legislative su cosa costituisse una sollecitazione all’inve­stimento “rivolta al pubblico”, nel mercato italiano si è diffusa una pratica discutibile che si può definire “offerta pubblica indiretta”. In pratica, vi è una prima fase [46] in cui un soggetto italiano o estero (che può essere una Banca, l’Emittente o la controllante dell’Emittente) colloca privatamente in Italia o all’estero presso investitori professionali strumenti finanziari avvalendosi dell’esenzione di cui all’art. 100, 1° comma, lett. a), t.u.f. senza redazione e pubblicazione del prospetto informativo (art. 97 t.u.f.), seguita da una seconda fase in cui l’intermediario acquirente ri-offre (e ri-vende) tali strumenti finanziari a investitori non professionali, spesso entro termini brevissimi dal termine del collocamento privato o, addirittura, prima della effettiva emissione dei titoli (cioè nella cd. fase del grey [continua ..]


NOTE
Fascicolo 3 - 2008