Rivista di Diritto SocietarioISSN 1972-9243 / EISSN 2421-7166
G. Giappichelli Editore

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Le società tra professionisti dopo il d.l. n. 223/2006 convertito con modificazioni nella legge n. 248/2006 (di Federico Tassinari)


SOMMARIO:

1. - 2. - 3. - 4. - 5. - 6. - 7. - 8. - 9. - 10. - 11. - 12. - NOTE


1.

La previsione normativa dell’art. 2, 1° comma, lett. c), d.l. n. 223/2006, come integralmente sostituita dalla legge di conversione 248/2006, si inserisce in maniera dirompente – laddove legittima, seppure con alcune limitazioni, le c.d. società professionali interdisciplinari – in un contesto giuridico – concernente le società tra professionisti in generale – estremamente complesso ed incerto. Già più di trenta anni fa si era rilevato in dottrina [1] che «quantunque si parli tanto della società tra professionisti, le idee – almeno quelle giuridiche – in tema sembrano tutt’altro che chiare». Negli ultimi trenta anni, per la verità, la situazione non ha fatto altro che ulteriormente complicarsi, per almeno tre ragioni: la legislazione speciale è intervenuta in più occasioni sempre spinta dall’esigenza di legittimare, o disciplinare, ipotesi specifiche, introducendo norme nell’ordinamento senza preoccupazione di un coordinamento né con i principi che regolano l’attività del professionista intellettuale, né con la normativa codicistica, né con quella contenuta nelle precedenti leggi speciali in tema; nel 1997, con l’art. 24 della legge n. 266 (c.d. legge Bersani), si è abrogato l’art. 2, legge n. 1815/1939, che storicamente costituiva la norma fondante il generale divieto di costituire società tra professionisti c.d. protetti (ovvero iscritti in apposti albi od elenchiexart. 2229 c.c., previo accertamento dei requisiti per l’iscrizione medesima), senza mai addivenire, tuttavia, all’emanazione del regolamento interministeriale, previsto dal 2° comma dello stesso art. 24, che, una volta rimosso il divieto legislativo, avrebbe dovuto disciplinare in positivo i requisiti per la valida costituzione di tali società, con ciò determinando una lacuna nell’ordinamento di difficile inquadramento e soluzione; la dottrina, prima ma anche dopo la riforma del 1997, sembra avere affrontato il tema prevalentemente sul piano teorico ed astratto, costruendo ragionamenti su un tessuto normativo incompiuto e stratificato, senza avere preliminarmente risolto la questione fondamentale concernente le modalità con le quali può avvenire la traslazione in capo ad un ente di requisiti e vincoli storicamente dettatidalla legge [continua ..]


2.

Compito dell’interprete è, tenendo conto delle opinioni finora espresse in dottrina e più in generale dell’intero dibattito sulle società tra professionisti, stimolato dai frammenti di disciplina introdotti ex novo dal legislatore nel citato art. 2, lett. c), ed alla luce di una riflessione più ampia che coinvolga gli interessi in gioco, trovare, nei limiti del possibile, un criterio interpretativo sufficientemente solido che permetta di risolvere alcune questioni di portata generale concernenti l’esercizio in comune delle attività professionali, nella convinzione che, in mancanza, ben difficilmente un sistema che fa scarso ricorso alle società tra professionisti c.d. monodisciplinari percorrerà con convinzione la soluzione delle società tra professionisti c.d. interdisciplinari. A tale fine, l’interprete stesso non deve perdere di vista il rilievo secondo cui il tema delle società tra professionisti non è soltanto un problema «di impresa», e cioè di idoneità della struttura societaria a permettere l’esercizio in comune dell’attività professionale, ma anche, e prima di tutto, un problema «di contratto», con particolare riguardo all’individuazione delle modalità attraverso le quali una prestazione professionale può essere svolta da un soggetto diverso dalla persona fisica [6]. Riprendendo tale insegnamento, e calibrando il ragionamento sugli interessi concreti in gioco, si cercherà, più precisamente, di privilegiare l’interpretazione più idonea a garantire il massimo ricorso all’istituto societario, sia per le società interdisciplinari sia per quelle c.d. monodisciplinari, ed a porre nel contempo l’esercizio della professione al riparo dai pericoli, almeno nella sensibilità finora dimostrata dai professionisti stessi e da parte della giurisprudenza e della dottrina, che si profilano allorché si perde di vista il tradizionale riferimento alla persona fisica che esercita la professione individualmente. Si procederà così individuando, dapprima, i vantaggi che un generalizzato ricorso alle società tra professionisti potrebbe garantire alla clientela, poi, di seguito, i pericoli che l’esercizio in comune delle attività professionali può comportare per la tutela di quegli [continua ..]


3.

Per quanto la maggioranza dei professionisti italiani, più ancora di quanto accade nell’espe­rienza degli altri principali ordinamenti europei, operi ancora in forma individuale, e sia tuttora caratterizzata da un approccio al proprio lavoro di tipo fortemente individualistico [8], sembra essersi innescata anche in Italia, per il mutato contesto economico nello svolgimento dell’attività ed il diverso e sempre più esigente approccio dei clienti verso il professionista, una tendenza ad approfondire e a prendere in considerazione le varie ragioni che inducono a scegliere una modalità di esercizio in comune. La scelta dell’esercizio in comune in luogo dell’esercizio individuale significa, innanzitutto, sul fronte interno, favorire una migliore organizzazione dell’attività, dal momento che un’unica organizzazione di mezzi e di persone al servizio di più professionisti, secondo modalità operative prefissate, agevola, all’interno dell’organizzazione stessa, le specializzazioni e la crescita, creando economie di scala e riducendo il costo pro capite dell’investimento [9]. L’attuale contesto degli studi giuridici in tema di professioni intellettuali ha finalmente messo da parte le antiche concezioni dottrinali, elaborate per cercare di dare una giustificazione razionale al­l’esclusione del professionista – chiaramente argomentabile a contrario dal disposto dell’art. 2238 c.c. – dall’applicazione dello statuto dell’imprenditore, secondo cui l’attività professionale doveva essere caratterizzata dall’assenza dell’organizzazione o, al massimo, da un’organizzazione ancillare, ovvero secondaria, rispetto all’attività intellettuale svolta personalmente dal professionista [10]. Oggi, per l’evoluzione tecnologica che ha richiesto sempre più importanti investimenti di mezzi, per la crescente complessità del lavoro che ha richiesto l’impiego di collaboratori sempre più qualificati, per la difficoltà di discernere, nella complessità della prestazione richiesta al professionista, la mera opera intellettuale dal complessivo servizio, e, seppure in maniera ancora episodica e circoscritta a singoli aspetti delle varie professioni, per la necessità di competere con realtà straniere di tipo [continua ..]


4.

Pure di fronte ai numerosi vantaggi che una maggiore apertura all’autonomia privata in materia di società tra professionisti in genere ed in materia di società interdisciplinari in specie può comportare per i professionisti italiani, si deve constatare che, al pari delle altre norme contenute nel provvedimento al vaglio, anche la norma in oggetto ha attirato da parte del mondo professionale, e cioè da parte di coloro che dovrebbero beneficiare – in proprio ed a favore dei propri clienti – dei vantaggi, più critiche che consensi. Alcune di tali critiche paiono senz’altro dotate di buon fondamento. L’intervento, innanzitutto, come si è già accennato e come si vedrà meglio nel prosieguo, merita senz’altro di essere valutato criticamente dal punto di vista tecnico e sistematico. Non può invero tacersi come esista nel ceto professionale il timore che lo strumento societario, ove sia reso praticabile con una generica apertura all’autonomia privata – in assenza di prescrizioni adeguatamente meditate ed analitiche che consentano di creare una cerniera tra la norme dettate da una parte per l’esercizio della professione intellettuale (in generale e per l’esercizio di ciascuna professione specifica in particolare) dall’altra in tema di diritto societario – possa comportare, soprattutto laddove si prendano in considerazione le società c.d. interdisciplinari, il concreto rischio di mettere a repentaglio l’indipendenza del singolo professionista. Non è un caso, infatti, che il tema delle società interdisciplinari sia valutato con grande cautela, e, soprattutto nel settore economico-legale, sia circondato da numerose e pregnanti limitazioni per l’autonomia privata, anche in quegli ordinamenti, come gli ordinamenti nordamericani [15] ed inglese [16], che normalmente appaiono propensi ad aprirsi all’autonomia privata. Non è un caso, parimenti, che il tema delle società interdisciplinari sia, più ancora del tema della società tra professionisti nel suo complesso, del tutto estraneo, per il momento, al vigente diritto comunitario [17], con ciò potendosi dubitare dell’effettiva rispondenza della riforma testé introdotta a quei principi comunitari di libera concorrenza e di libera circolazione delle persone e dei servizi che sono [continua ..]


5.

Si è detto all’inizio che il dibattito dottrinale riguardante le società professionali è stato finora caratterizzato, con qualche pregevole eccezione [19], da una certa astrattezza, essendosi per lo più limitato a discutere di classificazioni dogmatiche, come quella concernente la compatibilità in astratto tra società ed attività che non costituisce impresa [20], oppure dell’interpretazione di norme, quale l’art. 1, legge n. 1815/1939, la cui genericità ed ambiguità difficilmente consentono, senza modificare il piano dell’indagine, di fondare soluzioni percorribili con sufficiente certezza. L’emanazione del d.l. n. 223/2006 ha modificato in maniera significativa il quadro di riferimento. Infatti, a seguito dell’introduzione di tale normativa, risulta ormai impossibile, limitatamente alle società interdisciplinari, argomentare dall’art. 1, legge n. 1815/1939 l’illegittimità delle società tra professionisti, dal momento che l’art. 2, d.l. n. 223/2006, convertito nella legge n. 248/2006, sancisce espressamente, nel 1° comma, che «sono abrogate le disposizioni legislative e regolamentari che prevedono con riferimento alle attività professionali e intellettuali … il divieto di fornire all’utenza servizi professionali di tipo interdisciplinare da parte di società di persone o associazioni tra professionisti», ferme comunque le limitazioni poste nel prosieguo della norma, e, nel 3° comma, che «le disposizioni deontologiche e pattizie e i codici di autodisciplina che contengono le prescrizioni di cui al comma 1 sono adeguate, anche con l’adozione di misure a garanzia della qualità della prestazione professionale, entro il 1° gennaio 2007. In caso di mancato adeguamento, a decorrere dalla medesima data le norme in contrasto con quanto previsto dal comma 1 sono in ogni caso nulle». Ne consegue, pertanto, che: – laddove la possibilità di costituire società interdisciplinari trovasse ostacolo in norme di legge, per il loro tenore letterale o per il modo in cui sono interpretate, come per esempio nell’art. 1, legge n. 1815/1939, l’efficacia della norma impeditiva viene meno, per abrogazione tacita, già con l’entrata in vigore del d.l. n. 223, ovvero a partire del 4 luglio [continua ..]


6.

L’emanazione del d.l. n. 223/2006 ha modificato in maniera significativa il quadro di riferimento anche perché consente di superare finalmente la preesistente situazione di incertezza per quanto riguarda le società tra professionisti c.d. monodisciplinari. E ciò per almeno due motivi: – in primo luogo, in quanto ammettere la legittimità delle società tra professionisti interdisciplinari senza ammettere anche quella delle società tra professionisti appartenenti alla medesima categoria sarebbe privo di ogni ragione giustificativa, soprattutto se si considera che tutti gli argomenti tradizionalmente addotti contro la legittimità di queste ultime investono la società tra professionisti come tale, a prescindere dal suo eventuale carattere mono o interdisciplinare; – in secondo luogo, in quanto anche le tre citate condizioni poste dall’art. 2, 1° comma, lett. c), d.l. n. 223/2006 convertito in legge n. 248/2006 rappresentano esigenze che appaiono caratterizzare non soltanto la società tra professionisti di tipo interdisciplinare, bensì, più in generale, qualsiasi società tra professionisti, così come, almeno a prima impressione, qualsiasi associazione tra professionisti diversa dalla società. Le tre condizioni, in altre parole, affrontano, e risolvono in senso rigoroso, tre problemi che non presentano alcuna specificità con riguardo al tema dell’interdisciplinarietà, ma che appaiono piuttosto come aspetti problematici di ogni esercizio in comune dell’attività professionale, anche laddove i professionisti siano iscritti al medesimo elenco o albo: né l’esclusività dell’oggetto sociale (che, per le società interdisciplinari è comunque, per definizione, esclusività di più oggetti sociali), né il divieto di partecipare a più società professionali (la cui deroga avrebbe una più plausibile giustificazione, ragionando in astratto, proprio per le società interdisciplinari, assecondando l’interesse ad associarsi con più professionisti appartenenti a distinte categorie secondo organismi autonomi tra loro), né l’obbligo di eseguire personalmente da parte del professionista socio la prestazione professionale sotto la propria responsabilità (che, come meglio si vedrà, [continua ..]


7.

Quest’ultima condizione, che recepisce alcune posizioni fortemente auspicate da parte della dottrina [22], e talora ipotizzate come applicabili pure nel silenzio della legge a livello interpretativo [23], appare di fondamentale importanza. Essa, infatti, offre il destro all’interprete al fine di individuare altresì le specifiche modalità operative delle società tra professionisti (ancora una volta, mono o interdisciplinari), così portando le riflessioni finora svolte dalla dottrina su un terreno più concreto. Sempre cercando di mantenere il discorso su un piano generale, idoneo cioè ad abbracciare, in linea di principio, tutte le professioni intellettuali, pure nella consapevolezza delle specificità, talora assai significative, che possono riguardare alcune singole professioni, sembra possibile ipotizzare, contrariamente all’opinione finora dominante in dottrina [24], che, a seguito della costituzione di una società tra professionisti, la veste di professionista non venga acquisita dalla società, ma resti, inderogabilmente ed esclusivamente, in capo al singolo professionista persona fisica. Attribuire la veste di professionista direttamente in capo alla società significherebbe, invero, avallare un pericoloso processo di ipostatizzazione. Si tratterebbe, prima di tutto, di un processo che trascura la tradizione secolare delle professioni intellettuali, saldamente ancorata alla singola persona fisica, che, come richiesto dalla legge e dalla stessa Costituzione nell’art. 33, 5° comma, acquisisce come tale il titolo di studio, la specifica preparazione culturale con il relativo necessario e continuo aggiornamento e l’idoneità attraverso l’esame o il concorso di Stato, e, sempre come tale, si assoggetta al potere deontologico e disciplinare del proprio ordine di appartenenza. Ma si tratterebbe, soprattutto, di un processo che, riferendo la qualifica ad un ente astratto, comporterebbe il rischio di annacquare, proprio per la difficoltà di valutare se il professionista ha dato un’adeguata esecuzione in prima persona alla prestazione, quel carattere personale della prestazione da parte della persona fisica abilitata per legge che costituisce il cardine dello statuto giuridico e della stessa attività del professionista intellettuale (c.d. principio di personalità della prestazione), il fondamento [continua ..]


8.

Occorre ora soffermarsi sulla scelta del d.l. n. 223/2006, convertito nella legge n. 248/2006, di limitare alle sole società di persone la possibilità di costituire società tra professionisti di tipo interdisciplinare. Se si accetta la conclusione che la società tra professionisti non è a sua volta professionista, restando la relativa veste unicamente in capo alle persone fisiche, sembra doversi conseguentemente ammettere che, in linea di principio, qualsiasi tipo di società di cui agli artt. 2249 ss. c.c., ivi inclusa la stessa società cooperativa, può essere utilizzato a tale fine, ferma restando la facoltà del legislatore, per propria scelta discrezionale, di limitare tale facoltà ad alcuni di tali tipi soltanto o, addirittura, come si ritiene che sia accaduto con l’emanazione del d.lgs. n. 96/2001 per le società tra avvocati, di imporre l’impiego di un tipo sui generis, appositamente messo a disposizione e regolato nei suoi tratti distintivi. La formulazione dell’art. 2, 1° comma, lett. c) del provvedimento legislativo in commento consente infatti di ritenere che, mentre le tre condizioni poste dall’inciso finale della norma appaiono applicabili a qualsiasi società tra professionisti, anche se monodisciplinare, come emerge dall’inciso «fermo restando» che introduce le condizioni stesse, e che evoca una disciplina preesistente l’in­ter­vento legislativo in questione, la scelta di limitare l’autonomia privata alle società di persone, oltre che alle associazioni, appare una prescrizione dettata appositamente per le società tra professionisti di tipo interdisciplinare, non trovando applicazione per le società che, in quanto monodisciplinari, si pongono al di fuori della lettera del precetto. Perché, così stando le cose, il legislatore ha limitato la possibilità di costituire società tra professionisti di tipo interdisciplinare alle sole società di persone? Sul piano storico, è realistico ipotizzare che il legislatore, memore del dibattito del 1998 e delle posizioni restrittive accolte dal Consiglio di Stato, non abbia voluto fare il passo troppo lungo, limitandosi a conquistare una prima, seppure ancora limitata, legittimazione di tali società. Senonché il legislatore del 2006 non si è spinto, come aveva [continua ..]


9.

In definitiva, l’attuale assetto normativo consente di ritenere che: – il legislatore del 2006 ha escluso, a differenza della scelta compiuta nel 2001 dal legislatore che ha introdotto la società tra avvocati, che le società tra professionisti di tipo interdisciplinare debbano essere ricondotte ad un tipo sui generis appositamente istituito; – seppure si tratti di conclusione di tipo meramente induttivo, la stessa conclusione testé raggiunta non può non valere, più in generale, salve sempre diverse scelte della legislazione speciale concernente singole realtà professionali (es. società tra avvocati), anche per le società tra professionisti di tipo monodisciplinare; – l’esclusione della possibilità di costituire società tra professionisti secondo i tipi delle società di capitali e cooperativa vale esclusivamente per le società c.d. interdisciplinari, e non trova invece applicazione per quanto riguarda le società monodisciplinari, dove l’assenza di ragioni specifiche di salvaguardia della singola categoria professionale inducono ad escludere, nel silenzio della legge, limitazioni dell’autonomia privata fondate sulla discriminazione tra i diversi tipi sociali; – la limitazione dell’autonomia privata per quanto riguarda le società interdisciplinari risponde ad esigenze di opportunità volte a valorizzare, anche qui in deroga ai principi generali, l’intuitus personae, e, con esso, il ruolo attivo di ciascun singolo socio; – nelle società tra professionisti (mono e interdisciplinari), al di là delle eventuali regole cogenti proprie del tipo sociale prescelto, non vi è una riserva dell’amministrazione e della rappresentanza a favore di soci professionisti.


10.

 Le conclusioni così raggiunte consentono ora di riprendere il tema lasciato interrotto, per trarre dalla conclusione prospettata, secondo cui nelle società tra professionisti di ogni tipo la società non acquista mai come tale la veste di professionista, tutte le dovute conseguenze sul piano operativo. A tale fine può risultare utile allargare il ragionamento agli studi associati, come disciplinati in termini generali dall’art. 1, legge n. 1815/1939, e la cui perdurante ammissibilità risulta confermata anche dalla scelta del legislatore del 2006 di consentire alle organizzazioni che forniscono servizi professionali di tipo interdisciplinare il ricorso, oltre che alle società di persone, anche alle associazioni, soprattutto al fine di mettere tra loro a confronto le modalità operative applicabili in caso sia di società sia, appunto, di associazione. Nella logica del legislatore del 1939, operante, come è ovvio, in un ben diverso contesto economico e sociale, la necessità che l’esercizio in comune di attività professionali avvenisse necessariamente, stante il divieto posto dall’art. 2, legge n. 1815/1939, secondo lo schema associativo disciplinato dal­l’art. 1 della stessa legge, e nel rispetto delle modalità quivi indicate, rispondeva all’esigenza di evitare non solo che colui che eseguiva la prestazione professionale non fosse un professionista abilitato ed assoggettato a tutti i controlli di legge, ma anche che tale non fosse colui che assumeva formalmente l’incarico. Assunzione dell’incarico e sua esecuzione, in tale ottica, rappresentavano un unicum inscindibile. Muovendo da tali premesse, lo studio associato, costituito esclusivamente tra persone munite dei necessari titoli di abilitazione e portante denominazione idonea ad indicare il tipo di professione di cui si trattava, rappresentava, nella ricostruzione dei commentatori nel primo periodo di entrata in vigore della normativa del 1939 e nella posizione di parte della giurisprudenza anche recente [31], un istituto di carattere interno, idoneo ad assicurare una forma di esercizio in comune che non si estendeva mai all’attività professionale in senso proprio, intesa come assunzione ed esecuzione dei relativi incarichi. Non sembra tuttavia corretto, in presenza di un legislatore che si preoccupa di disciplinare il nome [continua ..]


11.

Se la conformità delle procedure societarie di assunzione ed esecuzione dell’incarico al principio di personalità della prestazione professionale appare garantita a prescindere da uno specifico intervento legislativo, una volta ricondotto nel proprio corretto ambito il principio stesso, ed una volta riconosciuto che solo la persona fisica, in quanto professionista, è abilitata ad eseguire l’incarico assunto dalla società, la stessa cosa non potrebbe affermarsi con eguale sicurezza per quanto attiene al profilo, che completa la specificità dell’attività professionale, della piena responsabilità del professionista. Il rispetto di quest’ultimo principio richiede che, a tutela, anche in questo caso, degli interessi del cliente, vi sia una piena responsabilità, nei limiti sanciti dall’art. 2236 c.c. per il contratto di opera professionale [36], non soltanto della società con il proprio patrimonio e, eventualmente, di tutti i soci illimitatamente responsabili di quest’ultima, ma anche del professionista o dei professionisti che hanno agito per eseguire la prestazione, e ciò a prescindere dal fatto, a tale fine irrilevante, che gli stessi siano anche soci illimitatamente responsabili della società. Il tenore letterale dell’art. 2236 c.c. non consente, di per sé, di fondare la responsabilità del professionista persona fisica sulla base dell’indicazione come responsabile del «prestatore d’opera», essendo evidente che tale espressione coincide, nel caso contemplato dall’art. 2236 c.c. e nella prospettiva di esercizio individuale della professione in cui si muove la noma, non solo con colui che ha ese­guito, ma anche con colui che ha assunto l’incarico. Una parte della dottrina [37], per la verità, già prima dell’approvazione del d.l. n. 223/2006, ha cercato, in base ai principi generali che regolano l’assunzione della corrispondente obbligazione da parte del socio a favore della società, a titolo di conferimento o ad altro titolo (lavoro subordinato, appalto di servizi, ecc.), di giustificare la posizione creditoria non solo in capo alla società nei cui confronti l’obbligo è stato assunto, ma anche direttamente in capo al cliente terzo. Ciò, più precisamente, sulla base del rilievo secondo cui i singoli ordinamenti [continua ..]


12.

La conclusione dell’intero percorso argomentativo svolto induce dunque a ritenere, ferma la possibilità che, per singole professioni, debbano accogliersi conclusioni diverse, sulla base dell’or­di­na­mento di settore e degli interessi pubblici o privati in gioco, che l’adozione dello strumento societario per l’esercizio delle attività professionali, ove si ricostruisca correttamente il rapporto tra disciplina societaria e normativa in tema di esecuzione dell’incarico da parte del professionista intellettuale, può contribuire a realizzare quegli interessi che hanno indotto il legislatore a «forzare la mano» con l’intervento del 2006, così come sommariamente descritti all’inizio del presente scritto, senza pregiudicare l’indipendenza del professionista e la tutela degli interessi del cliente, che risulterebbe anzi accresciuta. La legislazione ad oggi in vigore, se adeguatamente ricostruita a livello interpretativo, a prescindere dalle persistenti ulteriori gravi omissioni [38], può comunque costituire, in termini generali, una normativa efficiente, idonea a coniugare l’interesse dei professionisti a disporre di uno strumento ulteriore ed idoneo a raggiungere i vantaggi competitivi accennati, con l’interesse dei clienti a confidare sull’operato di professionisti (persone fisiche) più organizzati, ma sempre indipendenti, impegnati e responsabili in prima persona. Tuttavia, il metodo utilizzato dal legislatore, e, in particolare, la rinuncia ad avallare con norme espresse le conclusioni sopra raggiunte, con il conseguente perdurare dell’incertezza, almeno fino la momento in cui non interverranno univoche pronunce della giurisprudenza anche di legittimità, unitamente all’assoluto silenzio in merito all’ammissibilità (allo stato attuale – anche in considerazione della legislazione speciale vigente – probabilmente da negare) di soci di capitale, unitamente, ancora, alla mancanza di qualsiasi norma che orienti l’autonomia privata nell’elaborazione del regolamento negoziale delle società in questione, riducendone i non irrilevanti, allo stato attuale, prevedibili costi transattivi, costituiscono tuttavia elementi che, complessivamente considerati, consentono di ipotizzare che anche la nuova apertura legislativa troverà, ancora una volta, scarso seguito a [continua ..]


NOTE
Fascicolo 2 - 2007