Rivista di Diritto SocietarioISSN 1972-9243 / EISSN 2421-7166
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Business judgment rule e assetti organizzativi: incontri (e scontri) in una terra di confine (di Roberto Formisani)


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SOMMARIO:

1. Introduzione. - 2. La rilevanza dell’adeguatezza degli assetti post-riforma del 2003 - 2.1. Richiami comparatistici. - 2.2. Contenuto del dovere. - 2.3. Natura strumentale, aperta e relativa del dovere. - 3. Le molteplici evoluzioni della Business judgment rule nell’ordinamento italiano - 3.1. Premessa - 3.2. L’esperienza del Delaware. - 3.3. La BJR nella giurisprudenzia italiana. - 4. L’articolazione degli assetti organizzativi e dei controlli interni come decisione imprenditoriale. Conseguente tutelabilità ai sensi della BJR. - NOTE


1. Introduzione.

A partire dal financial turmoil del 2008, con intensità via via crescente per via della crisi dei debiti sovrani dell’Eurozona, il legislatore italiano ha intrapreso varie riforme nel tentativo di recuperare (almeno parzialmente) la competitività perduta da parte del sistema produttivo nazionale. Rimanendo su un piano generico, il dato che colpisce maggiormente l’osservatore è che la risposta a una crisi di tale portata sia consistita – nel campo del diritto dell’economia – in modifiche legislative particolarmente incisive, spesso espressioni di un vero e proprio mutamento del paradigma culturale sottostante alla disciplina giuridica [1]. In altri termini, a una crisi epocale si sta cercando di rispondere – sul piano normativo – con riforme epocali sul piano della policy. Un’analisi globale dei mutamenti occorsi sarebbe però sostanzialmente monca se ci limitasse a osservare soltanto il c.d. formante legislativo, senza tenere conto delle evoluzioni degli altri formanti del diritto [2], e in particolare di quello giudiziale. Si tratta di un’indagine che – anche se meramente a livello aneddotico, in assenza di specifiche indagini statistiche in tema – può essere di particolare utilità ove non limitata solo ai decisum degli organi giurisdizionali, ma anche al comportamento dei vari attori a vario titolo coinvolti nell’attuazione della giurisdizione. Per quanto riguarda in particolare il diritto societario, la crisi pare avere stimolato una maggiore conflittualità, specie per quanto attiene alle azioni risarcitorie in danno agli organi sociali. Fin qui, si sarebbe tentati di dire, nihil sub sole novum: tale forma di litigation rimane, per quanto attinente comunque a una fase “patologica” della vita sociale, un elemento costante della vita delle società di capitali, a prescindere dall’andamento del ciclo economico. Il mutamento in essere, semmai, sembra essere più di tipo qualitativo che quantitativo e sembra attenere a un sostanziale cambiamento nell’esercizio delle azioni di responsabilità; non più solamente in fasi di crisi aziendale (se non, nel corso delle procedure concorsuali) ma anche quando la società è in bonis, contestando la perdita di occasioni di affari o il compimento di operazioni in conflitto [continua ..]


2. La rilevanza dell’adeguatezza degli assetti post-riforma del 2003

2.1. Richiami comparatistici.

Prendendo a riferimento in primo luogo l’e­spe­rienza di alcune tra le principali giurisdizioni straniere in relazione al tema che ci occupa, occorre operare una premessa di carattere generale: conformemente alle diverse tradizioni giuridiche dei vari ordinamenti (e, in particolare, la distinzione tra le famiglie di common e civil law), la normazione dei doveri degli amministratori avviene con modalità sensibilmente diverse. A tal riguardo, è opportuno sottolineare come quest’ultimo dato non costituisce l’unico elemento d’influenza sulla tecnica regolamentare impiegata dal legislatore: a tal riguardo, possono infatti assumere rilievo anche fattori prettamente interni al singolo sistema giuridico nazionale, come ad es. le evoluzioni del formante giurisprudenziale [7] ovvero il rapporto con il diritto civile “generale”. Le ultime indagini comparatistiche condotte sulla questione hanno rilevato non solo come praticamente tutti i Paesi dell’UE hanno codificato specificamente a livello legislativo tali doveri, senza quindi che il tema fosse lasciato integralmente all’interpretazione giudiziale dei principi generali del diritto dei contratti o (nel caso dei paesi di Common Law) della law of agency e che, in subordine, si possano enucleare due filoni principali: da un lato, abbiamo infatti le giurisdizioni che – specie per influsso della ricostruzione in chiave "fiduciaria" di tali doveri – tendono a disciplinare tali situazioni giuridiche per principi e in via sintetica; dall’altro gli ordinamenti che, al contrario, tendono a specificarli in via analitica, spesso per mezzo di vere e proprie elencazioni [8]. A tal proposito, si potrebbe ulteriormente constatare come, in moltissimi ordinamenti, le due tecniche legislative finiscano per sovrapporsi: anche ove si proceda a una definizione analitica dei comportamenti che gli amministratori sono tenuti a osservare, in genere non mancano doveri di condotta formulati in forma di standard [9]. Tale tendenza dipende, con tutta probabilità, dalla necessità di assicurare allo stesso tempo sia una guida chiara e predeterminata per i gestori dell’impresa sociale, sia il sufficiente grado di flessibilità per reprimere ex-post proprio quelle condotte (l’adempimento negligente o infedele dell’incarico di amministratore) [continua ..]


2.2. Contenuto del dovere.

Pare oramai di dubbia utilità, a distanza di oltre dieci anni dall’entrata in vigore della riforma societaria, chiedersi se la previsione sull’adeguatezza degli assetti costituisca una “vera” novità ovvero l’emersione di un principio che – al netto delle discipline settoriali – si poteva già ricavare dal sistema previgente. Pare semmai certo, invece, che il principio in parola costituisca uno dei numerosi casi di “trapianto” nella legislazione generale di soluzioni sperimentate nelle discipline speciali [22]; elemento questo che finisce per avvicinare l’esperienza giuscommercialistica italiana a quella degli altri ordinamenti occidentali, e in particolare all’esperienza pretoria statunitense. Sul tema, la dottrina ha giustamente rimarcato, infatti, come tale dovere sia sorto nella legislazione bancaria e finanziaria: ciò trae origine, innanzitutto, dalle peculiarità delle stesse attività finanziarie, che – basandosi in larga parte proprio sulla gestione di una vasta e complessa serie di rischi, che peraltro possono provocare rilevanti effetti sistemici – richiedono ben più di altri settori economici che l’or­ganizzazione aziendale (specie sotto il profilo del sistema dei controlli interni) sia adeguata [23]. Sul punto, basterebbe citare l’ancora oggi vigente art. 149 t.u.f., in forza del quale il collegio sindacale delle società quotate è tenuto, inter alia, a vigilare «sull’adeguatezza della struttura organizzativa della società per gli aspetti di competenza, del sistema di controllo interno e del sistema amministrativo-contabile (…)» (lett. c), disp. cit.); norma di particolare importanza in quanto per la prima volta la prescrizione sull’adeguatezza organizzativa veniva imposta direttamente dal legislatore alle imprese in forma societaria, a differenza ad es., del legislatore del t.u.b. che richiama a tutt’ora tale aspetto in una logica di “delega normativa” a favore dell’Autorità di Vigilanza [24]. Parimenti, non può essere sottaciuto il ruolo svolto dalla normativa sulla responsabilità amministrativa da reato di cui al d.lgs. n. 231/2001, non solo per la declinazione particolarmente specifica delle norme sull’adeguatezza [continua ..]


2.3. Natura strumentale, aperta e relativa del dovere.

Venendo più segnatamente ai diversi aspetti del dovere in questione, nella letteratura giuridica si afferma sovente come esso debba essere inteso come strumentale rispetto all’adem­pimento non solo dell’obbligo di amministrazione corretta – quale sintesi dei doveri generici degli amministratori – ma anche dei doveri specifici [37]; ma anche quale avente natura continuativa, dal momento che il sistema di internal governance dell’impresa sociale deve essere monitorato ed eventualmente aggiornato alla luce dell’andamento della stessa [38]. Proprio quest’ultimo aspetto si ricollega a un elemento particolarmente rilevante del dovere in parola, e cioè della sua natura essenzialmente aperta e relativa. Quanto a quest’ultima caratteristica, viene in rilievo l’ovvia considerazione che l’articolazione delle strutture, dei processi e delle procedure aziendali deve necessariamente dipendere dal grado di complessità del plesso aziendale, sia con riguardo alla sua ampiezza che alle attività esercitate: correttamente, difatti, si è affermato in dottrina che la norma codicistica, secondo la quale gli assetti organizzativi devono essere «adeguati alla natura e alle dimensioni dell’impresa» (art. 2381, 5° comma), sarebbe comunque ricavabile in via interpretativa [39]. Con riguardo, invece, alla natura “aperta” della disposizione, si intende fare riferimento (come, del resto, nel caso dell’obbligo di “amministrazione corretta”) al fatto che la norma fissa un obiettivo in capo gli amministratori; lasciando questi ultimi liberi di determinare le modalità che ritengono più opportune per conseguire tale risultato – tenendo conto in particolare delle acquisizioni della scienza aziendalistica e, nel caso in cui l’impresa operi in settori regolamentati, delle eventuali prescrizioni specifiche dettate dalle Autorità di settore –. Difatti, il dovere in parola ha indubbiamente una natura trasversale, in quanto involge l’impresa-società nella sua totalità a prescindere dalle singole decisioni di natura più spiccatamente imprenditoriali [40]. Sul tema occorre inoltre aggiungere, quale possibile sviluppo futuro dei rapporti tra obbligo in parola e finalità perseguite mediante il suo [continua ..]


3. Le molteplici evoluzioni della Business judgment rule nell’ordinamento italiano

3.1. Premessa

Il contenuto della BJR è per certi aspetti particolarmente semplice da descrivere in astratto, quanto molto difficile da applicare in concreto. Come noto, difatti, essa costituisce una regola (di origine giurisprudenziale) in forza della quale, alla luce della libertà di gestire la società come ritenuto più opportuno, è precluso da parte degli organi giudiziari qualunque sindacato su tale attività, nella misura in cui esso si basi solo sul risultato economico della stessa. La norma, sorta nell’ordinamento statunitense, è oggi patrimonio comune delle normative societarie dei Paesi occidentali, sebbene essa sia stata codificata a livello legislativo soltanto in pochissimi casi e abbia, pertanto, largamente mantenuto la sua natura giurisprudenziale [54]. A fondamento della regola in parola sono state individuate almeno due ratio, oramai divenute tralatizie nella letteratura giuridica: da un lato, si sostiene che per tale via si intende evitare che gli amministratori assumano un risk appetite eccessivamente conservativo, facendo perdere opportunità all’impresa e disincentivando – portandoci su di un piano più generale – l’in­novazione dell’apparato economico e produttivo [55]; dall’altro si sostiene che la BJR intende precludere al giudice di sostituirsi al ruolo del manager non solo ledendo la sua posizione di terzietà, ma costringendolo (in un certo qual modo) a giudicare non secondo norme, ma in base a criteri economico-aziendalistici (con tutte le conseguenze del caso, ove si consideri il nostro ordinamento, in termini di lesione sia della tutela della libertà d’impresa ex art. 41 Cost., che del principio della soggezione «soltanto alla legge» degli organi giudiziari a mente dell’art. 101, 2° comma,Cost.) [56]. A queste due ragioni è forse possibile aggiungere una terza ipotesi di spiegazione della BJR: la norma, a ben vedere, funge anche da disincentivo nei confronti di eventuali azioni giudiziarie intentate nei confronti degli amministratori di società che si basino esclusivamente sul risultato economico della gestione (sebbene in modo “nascosto”, cioè con motivazioni pretestuose), che pertanto sarebbero già in partenza infondate – in quanto volte a cercare una surrettizia [continua ..]


3.2. L’esperienza del Delaware.

Sul piano della comparazione tra le diverse declinazioni della rule tra diversi ordinamenti giuridici, il termine di paragone “d’obbligo” è ovviamente il diritto statunitense – e in particolare l’espe­rienza dello Stato del Delaware –, non fosse altro perché è in tale giurisdizione che la BJR è sia sorta che sviluppatasi. A tal proposito, l’analisi delle decisioni pretorie pare evidenziare come in tale ordinamento, anche a fronte di una definizione generale della BJR condivisa in modo sostanzialmente pacifico dalla comunità dei giuristi non manchino significative incertezze specie in relazione al perimetro applicativo della medesima. Ciò si spiega con tutta probabilità alla luce delle difficoltà, specie a fronte delle peculiarità dei singoli casi oggetto di scrutinio giudiziale, di bilanciare authority e accountability del board. Più in dettaglio, la formulazione oramai tralatizia della BJR (come codificata, in particolare nei Principles of Corporate Governanceemanati dall’American Law Institute [59]) implica che tale protezione si applichi agli amministratori che, in buona fede, abbiano adottato una decisione di business [60] dopo essersi debitamente informati sulla materia da discutere, e che pertanto abbiano ritenuto quella decisione come nel miglior interesse della società amministrata [61]. Per quanto riguarda il case law del Delaware, il contenuto sostanziale della previsione non muta, sebbene è da segnalare la peculiarità della formalizzazione in senso presuntivo dell’istituto. In altri termini, il diritto del Delaware presume che gli amministratori abbiano agito in modo informato e ritenendo in buona fede che la decisione assunta fosse nel miglior interesse per la società, con la conseguenza quindi che spetterà all’attore allegare fatti e circostanze che consentano di superare tale presunzione. Solo ove tale presunzione sia vinta, la Corte adita sarà chiamata a valutare la sussistenza di un possibile abuse of discretion [62], permettendo quindi ai giudici aditi di scrutinare le operazioni contestate con il metro (ben più penetrante) dell’entire fairness – criterio di regola azionato nel caso in cui si ipotizzi una violazione del duty of [continua ..]


3.3. La BJR nella giurisprudenzia italiana.

Anche nel nostro Paese la BJR – come visto sopra – non è sancita dal diritto scritto, ma è un principio giurisprudenziale, la sua concreta operatività è profondamente rimessa all’interpretazione delle Corti [77]. Quest’ultima circostanza ha per certi aspetti amplificato le difficoltà operative connesse – come già visto sopra – con la necessità di trovare un corretto bilanciamento tra le opposte esigenze di rispetto dell’autonomia imprenditoriale e di salvaguardia dei presidi di responsabilizzazione dei gestori di patrimoni altrui. Nello specifico contesto del nostro ordinamento, tale problematica si sovrappone a quella del coordinamento della rule con la previsione espressa di standard legali di valutazione dell’operato degli amministratori, poiché è sulla scorta del coordinamento tra queste ultime norme e la BJR che si individua quando la gestione negativa sul piano economico assume rilievo giuridico obbligando al risarcimento del danno. Senza pretesa di esaustività, ci si limita a segnalare che la riforma del 2003 ha notevolmente modificato l’art. 2392, 1° comma, che, come noto, fissa il parametro di diligenza degli amministratori. Se infatti la versione storica della norma rinviava, ai fini del giudizio de quo, al criterio della diligenza del mandatario, ora la norma in commento dispone che l’incarico debba essere espletato «con la diligenza richiesta dalla natura dell’incarico e dalle loro specifiche competenze». Rispetto, quindi, a un criterio ritenuto eccessivamente astratto e soprattutto incapace di tenere conto del contesto socioeconomico (quello della grande impresa, per l’appunto) in cui la disposizione era chiamata a operare [78], la novella ha inteso introdurre criteri di giudizio più specifici rispetto al passato, e che soprattutto fossero congrui con la (sopra menzionata) volontà di innalzare il livello di professionalità degli amministratori di s.p.a. Da un lato, infatti, il richiamo alla “natura dell’incarico” consente al giudicante di tenere maggiormente conto delle specificità dei singoli casi, specie in relazione ai tipi di imprese che vengono amministrate nonché dei diversi ruoli che possono essere svolti dai singoli componenti del board [79]; [continua ..]


4. L’articolazione degli assetti organizzativi e dei controlli interni come decisione imprenditoriale. Conseguente tutelabilità ai sensi della BJR.

Le eventuali interrelazioni tra BJR e adeguatezza degli assetti sono state poco affrontate dalla dottrina italiana, sebbene pare che l’interesse degli Autori – anche alla luce delle notevoli ricadute pratiche del tema – stia crescendo. In particolare, l’orientamento negativo – cioè, che esclude le scelte organizzative dal perimetro di protezione posto dalla BJR – si fonda sul ritenere che in relazione a queste ultime si possa riscontrare un criterio di giudizio (in particolare, la scienza aziendalistica) in forza del quale si possa discriminare tra scelte corrette e non corrette, fondando quindi un giudizio di responsabilità [96]. In altri termini, questa teoria distingue nettamente tra le scelte imprenditoriali – rispetto alle quali non solo manca un criterio giuridico di valutazione delle stesse, ma risultano anche protette nella loro insindacabilità dal principio dell’autonomia privata e della tutela dell’iniziativa economica ex art. 41 Cost. – e quelle organizzative, che costituiscono un dovere specifico, il cui adempimento può essere accertato alla luce delle scelte organizzative percorribili (quali ricavabili dalla scienza dell’organizzazione aziendale e dalle migliori pratiche di mercato) [97]. Quest’impostazione non convince per alcune ragioni. Più in generale, sebbene sia ovviamente condivisibile la qualificazione del dovere in parola quale specifico, sembra che si corra il rischio di obliterare la natura essenzialmente aperta di tale situazione soggettiva: abbiamo già ricordato sopra, infatti, che la legge fissa un obiettivo lasciando agli amministratori un sufficiente margine di discrezionalità “tecnica” per poterlo conseguire, rendendo quindi ben difficile immaginare, quanto alla norma di cui si discorre, quel giudizio di stretta rispondenza tra fattispecie astratta e concreta tipico di gran parte dei doveri specifici degli amministratori (ad es., gli obblighi di convocazione, deposito di atti, ecc.). Ad adiuvandum, si deve tenere conto anche del carattere relativo (rispetto a natura e dimensioni dell’im­pre­sa) anch’esso discusso in precedenza. Ma v’è di più. Lo stesso parametro di giudizio individuato dai sostenitori della tesi negativa non appare essere così “rigido” quale potrebbe [continua ..]


NOTE