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Doveri fiduciari degli amministratori designati dai fondi attivisti e conflitto di interessi: alcune considerazioni in una prospettiva transatlantica
Pietro Fazzini
L’amministratore designato da un fondo attivista, che occulti o fornisca in maniera incompleta informazioni rilevanti per la valutazione di un’operazione di acquisizione da parte del board e degli azionisti, viola il duty of disclosure e, più in generale, i doveri fiduciari cui è tenuto ai sensi della legge del Delaware. Tale condotta è soggetta allo standard di scrutinio rafforzato (c.d. enhanced scrutiny), anche nell’ipotesi in cui l’operazione sia stata approvata dagli azionisti. Il fatto che l’amministratore in questione sia tenuto aliunde a un dovere fiduciario anche nei confronti del fondo (c.d. dual fiduciary) non comporta alcuna attenuazione dei doveri verso l’emittente.
Qualora l’azione dell’amministratore designato sia volta a realizzare l’interesse (all’immediata vendita della società) del fondo attivista che lo ha nominato, a scapito di quello degli altri azionisti (alla migliore valorizzazione della partecipazione), deve ritenersi viziata da conflitto di interessi. In quest’ipotesi, la responsabilità del danno arrecato può essere imputata anche al fondo, secondo la teoria del c.d. aiding and abetting, al ricorrere di alcune condizioni, in particolare della consapevole partecipazione alla violazione dei suddetti doveri. A quest’ultimo proposito, l’esistenza di un rapporto fiduciario tra amministratore e fondo non è di per sé conclusiva. Ciò che risulta determinante è il fatto che egli sia stato in grado, in concreto, di controllare le operazioni del board, anche per effetto della mancata condivisione di informazioni decisive [massima a cura dell’autore].
An activist-appointed director of a corporation who conceals or disclose incomplete information to the board and to the shareholders in connection with the approval of a merger transaction violates his duty of disclosure and therefore his fiduciary duties pursuant to Delaware Law. Moreover, because of the violation of the duty of disclosure such conduct is overall subject to enhanced scrutiny, regardless that the transaction is approved by the majority of shareholders. The fact that an activist director is subject to a dual fiduciary duty (towards the corporation and the fund) does not entail any dilution of the duty of loyalty the former owes to the corporation.
When a director of the corporation pursues the interest of the fund which appointed him (e.g. a quick sale of the target) against the maximization of the shareholder value, then a conflict of interest arises. In such case, the fund itself can also be found liable of the director’s conduct pursuant to the theory of aiding and abetting, under certain conditions and insofar its knowing participation is proved. To this end, the mere existence of a fiduciary duty between the activist director and the fund is not conclusive per se. Rather, the above requisite is proved among others when the former has been able to direct the board’s decisional process, also by concealing material information and thus creating an “informational vacuum” [headnotes by the author].
Keywords: Public corporations – Activist director – Business judgement rule vs. enhanced scrutiny – Information sharing and selective disclosure – Aiding and abetting liability.
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Sommario:
1. I principali fatti della controversia - 2. La decisione e le argomentazioni della Corte - 3. La rilevanza della decisione alla luce delle strategie dei fondi attivisti. Un confronto con alcuni precedenti giurisprudenziali - 4. Il ruolo dell’amministratore designato nell’ordinamento italiano: questioni di diritto societario - 4.1. I principi di esclusività e collegialità della gestione - 4.2. Amministratori indipendenti: requisiti formali e sostanziali - 4.3. Conflitto di interessi, doveri fiduciari e parità di trattamento - 5. Considerazioni conclusive - NOTE
1. I principali fatti della controversia
Nel gennaio 2013, il fondo hedge Potomac Capital Partners II, L.P. (“Potomac”) intraprende una campagna attivista nei confronti della società PLX Technology, Inc., quotata sul NASDAQ di New York (“PLX”), al fine di forzarne la vendita [4] sul mercato. Tale iniziativa segue di poche settimane l’annuncio, nel dicembre 2012, del fallimento della trattativa di vendita di PLX alla Integrated Device Technology, Inc. (“IDT”), che aveva comportato un temporaneo ma significativo ribasso del titolo PLX. Proprio in tale fase di contingente ribasso, Potomac acquista una partecipazione rilevante in PLX, con una precisa strategia di investimento: procurare la vendita in tempi molto rapidi della società all’unico altro offerente che aveva manifestato interesse durante la trattativa fallita con IDT [5], cioè Avago Technology Wireless (U.S.A.) Manufacturing, Inc. (“Avago”) [6]. Infatti, nel febbraio 2013 Avago aveva formulato un’offerta di $6.00 per azione, che era stata rifiutata da PLX in quanto ritenuta incongrua per difetto (per una differenza di almeno un dollaro per azione), ciò implicando che già a quel tempo la valutazione di PLX fosse risalita al di sopra dei valori di mercato correnti durante il periodo di trattativa con IDT (e anche dell’acquisto della partecipazione da parte di Potomac). Tra marzo e dicembre 2013 Potomac riesce a ottenere, all’esito di [continua ..]
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2. La decisione e le argomentazioni della Corte
La decisione della Court of Chancery, poi integralmente confermata dalla Supreme Court, si conclude con la mancata condanna del convenuto Potomac. Decisiva a tal fine è la mancata prova del danno subito da PLX: secondo la Corte, infatti, gli argomenti addotti dall’attore non sono sufficienti a dimostrare che il prezzo delle azioni di PLX pagato da Avago fosse in concreto ragionevolmente inferiore al fair value [12]. Ciò nonostante, vista in una prospettiva più ampia, la sentenza costituisce un precedente rilevante e complessivamente sfavorevole per i fondi attivisti, in quanto riconosce la violazione dei doveri fiduciari da parte di Singer e dell’intero board di PLX e, soprattutto, l’estensione di responsabilità nei confronti del fondo Potomac per c.d. aiding and abetting. Nella giurisprudenza americana la teoria dell’aiding and abetting è applicabile, in linea di principio, ad ogni ipotesi di responsabilità extracontrattuale. Con specifico riferimento alle ipotesi di violazione dei doveri fiduciari da parte degli amministratori, si ritiene necessaria la ricorrenza di quattro elementi: (a) l’esistenza di un rapporto fiduciario (in capo al primary wrongdoer); (b) l’effettiva violazione di tale rapporto fiduciario; (c) la consapevole partecipazione nella violazione da parte di un soggetto non vincolato da doveri fiduciari (secondary wrongdoer); e (d) un danno correlato causalmente alla suddetta [continua ..]
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3. La rilevanza della decisione alla luce delle strategie dei fondi attivisti. Un confronto con alcuni precedenti giurisprudenziali
La pronuncia in esame presenta alcune interessanti implicazioni in relazione al fenomeno dell’attivismo di stampo “imprenditoriale” (entrepreneurial activism), del quale gli hedge fund sono uno dei principali protagonisti [29]. In primo luogo, i fatti della controversia fanno luce su alcune strategie con le quali i fondi attivisti possono riuscire ad ottenere l’adozione delle proprie proposte, pur rimanendo in minoranza sia nell’azionariato sia nel consiglio. In secondo luogo, la Corte affronta il complesso tema del disallineamento tra gli interessi di diversi azionisti, quale conseguenza del diverso orizzonte temporale che può caratterizzare l’investimento degli hedge fund, in particolare con riferimento all’ipotesi di vendita della società. Infine, nonostante l’esito favorevole per il fondo Potomac, la sentenza pone di fatto alcuni importanti limiti alle strategie operative tipicamente utilizzate dagli hedge fund. In questo senso, la decisione in commento si discosta, almeno in parte, da alcune precedenti sentenze della stessa Court of Chancery del Delaware e sembra imporre maggiore cautela d’ora in avanti sia ai fondi attivisti sia agli amministratori, affiliati e non, delle società quotate. Tipicamente, l’attivismo degli hedge fund si contraddistingue da altre forme di shareholder activism [30] sotto il profilo della strategia di investimento: essa consiste nell’individuare [continua ..]
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4. Il ruolo dell’amministratore designato nell’ordinamento italiano: questioni di diritto societario
La decisione in commento solleva problematiche che in parte travalicano l’ordinamento americano, data la dimensione ormai globale del fenomeno dell’attivismo. Sebbene il contesto giuridico e normativo sia sostanzialmente differente, l’essenza dei problemi affrontati mantiene rilievo anche nel nostro ordinamento, dove l’attivismo degli hedge fund ha assunto notevole importanza negli ultimi anni [66]. È vero che la diversa struttura proprietaria degli emittenti italiani comporta che il fenomeno in questione si manifesti con modalità anche significativamente diverse [67]. Nondimeno, la board strategy rimane il canale più frequente (per altro in maniera forse anche maggiore che nei sistemi a proprietà diffusa [68]), con un ricorso prevalente alla designazione di soggetti esterni [69]. Inoltre, poiché la maggior parte degli hedge fund attivi in Italia operano su scala globale [70], è ragionevole ritenere che gli accordi di golden leash siano strutturati in maniera coerente all’interno di ciascuna firm e siano dunque tendenzialmente omogenei tra le diverse giurisdizioni in cui opera. Nella restante parte di questo commento si cercherà di illustrare brevemente i principali profili problematici legati alla figura degli amministratori designati, nella prospettiva del nostro diritto societario. Il tema è di assoluta novità e al momento non constano opinioni dottrinali [continua ..]
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4.1. I principi di esclusività e collegialità della gestione
L’esistenza di un canale preferenziale tra l’amministratore designato e il proprio sponsor, nonché di incentivi che spingano il primo a farsi portatore e attuatore dei desiderata del secondo nel contesto della governance dell’emittente, può – per ora in via di ipotesi – recare con sé il rischio che la volontà dell’amministratore si formi di fatto al di fuori della fisiologica sede consiliare. Ne potrebbe conseguire, a determinate condizioni, una sorta di esternalizzazione delle competenze decisorie del consiglio in capo a un soggetto estraneo all’organo competente. Tale effetto riguarderebbe, direttamente, la porzione di voti che gli amministratori dei fondi possono esprimere in consiglio, ma, stante la capacità persuasiva che questi possono esercitare in consiglio, come testimoniato anche dai fatti del caso in commento, potrebbe avere in concreto una portata più ampia. In proposito, la legge prevede la competenza esclusiva del consiglio di amministrazione in materia gestoria (art. 2380-bis, comma 1, c.c.) e la collegialità delle decisioni dello stesso (comma 3). Secondo la posizione dottrinale più rigorosa, tali norme dovrebbero essere interpretate rigidamente, quale espressione di un principio che vieta lo spostamento delle potestà decisionali integranti il concetto di gestione dell’impresa sia all’interno dell’organizzazione societaria (i.e. ad altri [continua ..]
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4.2. Amministratori indipendenti: requisiti formali e sostanziali
Un secondo ordine di questioni discende dal fatto che gli amministratori designati dai fondi, nella misura in cui intrattengono relazioni preferenziali con il proprio sponsor, si trovano in una posizione particolarmente delicata, e cioè potenzialmente quella del “servitore di due padroni”. Non necessariamente ciò comporta di per sé un problema. Tuttavia, complicazioni possono sorgere in ragione del fatto che, sebbene il concetto di amministratore di minoranza e di amministratore indipendente debbano essere tenuti distinti [82], nella prassi gli amministratori indipendenti sono spesso nominati (almeno in parte) dalla minoranza [83]. Tale circostanza solleva alcuni interrogativi. In primo luogo, occorre chiedersi se gli amministratori di minoranza debbano necessariamente rappresentare gli interessi di tutte le minoranze (rectius, di tutte le tipologie di azionisti di minoranza) o possano farsi portavoce soltanto di alcuni, in particolare di quelli facenti capo a coloro che ne hanno determinato in concreto la nomina. Su questo specifico punto mi sembra che la posizione dottrinale prevalente sia ora orientata nel senso più liberale: la nozione di amministratore di minoranza, proprio in quanto distinta da quella di indipendente, non incorporerebbe in sé alcun dovere di rappresentare gli interessi particolaristici dell’intera minoranza [84]. In secondo luogo, può il fatto stesso di intrattenere un legame [continua ..]
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4.3. Conflitto di interessi, doveri fiduciari e parità di trattamento
Un terzo ordine di questioni discende dal fatto che l’amministratore designato può venire a trovarsi, in ragione della sua posizione “duale”, in una situazione di conflitto di interessi ed eventualmente di violazione dei propri doveri. Tale profilo assume un ruolo assolutamente centrale nel diritto statunitense [102], ma non è di minore importanza nel nostro ordinamento, sebbene quest’ultimo non riconosca in maniera formalizzata l’istituto del dual fiduciary duty [103]. In particolare, vengono in rilievo sia la disciplina specificamente dedicata al conflitto di interessi sia, più in generale, le norme in tema di condotta degli amministratori (ed, eventualmente, in circostanze specifiche, quelle in materia di operazioni con parti correlate [104]). Con riferimento al primo aspetto (conflitto di interessi), è opportuno notare, anzitutto, che il nostro diritto societario impone agli amministratori – anche dopo la riforma, sebbene in modo più attenuato – il compito di auto-valutare la sussistenza di situazioni di conflitto, rispetto a specifiche iniziative di propria competenza, al fine di adempiere a quanto richiesto dall’art. 2391, comma 1, c.c. [105]. Diversamente da quanto accade in sede giudiziale, tale valutazione ha natura preventiva. La circostanza solleva particolari criticità con riferimento alla situazione dell’amministratore designato dai fondi [continua ..]
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5. Considerazioni conclusive
Il recente sviluppo dell’attivismo nel nostro Paese vede come principali protagonisti i fondi stranieri, soprattutto statunitensi, e conseguentemente reca con sé nuovi strumenti e strategie da oltre oceano, i quali impattano sulla disciplina della corporate governance degli emittenti quotati. Uno degli aspetti senz’altro rilevanti riguarda il ruolo degli amministratori designati da tali fondi: pur trattandosi formalmente di amministratori in quota di minoranza, essi tendono ad assumere un ruolo attivo nelle dinamiche del consiglio, fino ad arrivare a condizionarne le decisioni, sollevando problematiche peculiari. In particolare, le questioni principali riguardano il rapporto privilegiato che tali amministratori tendono a intrattenere con i propri sponsor, sotto il duplice profilo dello scambio di informazioni e della rappresentanza di interessi. Il che può comportare criticità rispetto ai generali doveri degli amministratori di perseguire l’interesse sociale a beneficio di tutti gli azionisti indistintamente. Dall’analisi condotta emerge una significativa diversità tra le soluzioni adottate nel diritto societario italiano e in quello del Delaware, almeno sotto il profilo squisitamente di disciplina. A ben vedere, tuttavia, a dispetto di tali diversità, i due ordinamenti pervengono a soluzioni sostanzialmente convergenti sotto molti aspetti. In ultima istanza, l’attività di monitoraggio svolta dai fondi [continua ..]
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NOTE