Il contributo esamina la pronuncia della Sezione Prima della Corte di cassazione civile, in tema di corretta qualificazione delle somme a vario titolo erogate dai soci alla società, propendendo a favore della soluzione adottata dalla Suprema Corte, la quale risolve il problema attribuendo centralità all’esame della volontà delle parti, più che al dato formale dell’iscrizione in bilancio degli apporti.
The paper examines a ruling of the First Section of the Italian Civil Court of Cassation, on the correct qualification of the sums for various reasons paid by the shareholders to their own company, leaning in favor of the solution adopted by the Supreme Court, which solves the problem by attributing importance to the examination of the will of the parties, rather than the formal evidence resulting from the balance sheet.
Keywords: companies – shareholders’ various forms of financial contribution – capital contribution – payments non charged to capital – loans – criteria for qualification – equitable subordination.
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1. Il caso - 2. Alcune questioni preliminari in tema di apporti dei soci - 3. I criteri di qualificazione proposti dal ricorrente. Critica - 4. I criteri di qualificazione adottati dalla Suprema Corte - 5. (Segue) Cenni alla qualificazione degli apporti ai fini dell’applicazione dell’art. 2467 c.c. - NOTE
La sentenza in commento interviene all’esito di cinque pronunce rese da tre giudici diversi, la prima delle quali un decreto ingiuntivo richiesto e ottenuto dal socio accomandante di un’accomandita semplice, per la restituzione di un finanziamento erogato in favore della s.a.s. Instaurato il giudizio di opposizione, il socio accomandatario chiedeva al Tribunale di Firenze di accertare che l’apporto del socio accomandante fosse riconducibile non già allo schema negoziale del mutuo, bensì a quello del conferimento atipico in conto capitale, come tale non rimborsabile se non all’esito della liquidazione della società. A valle del rigetto della domanda in primo grado, il socio accomandatario interponeva appello che si concludeva con la pronuncia della nullità della sentenza resa dal giudice di prime cure, per omessa sottoscrizione della stessa da parte del presidente del collegio, e così con la rimessione della causa nuovamente dinanzi al tribunale. Il giudice fiorentino rendeva un giudizio conforme al precedente, rigettando l’opposizione al decreto ingiuntivo. Il socio accomandatario appellava la sentenza di primo grado e la Corte d’appello di Firenze ne accoglieva le doglianze, riformando la sentenza e revocando il decreto ingiuntivo opposto, sulla scorta delle seguenti argomentazioni: (i) il capitale sociale della società era del tutto incongruo allo scopo per il quale la s.a.s. era stata costituita, cioè l’acquisto della proprietà dell’immobile scelto dai due soci, coniugi, per l’ampliamento dello studio professionale del socio accomandante, sicché nessun terzo finanziatore avrebbe mai provvisto la società di ulteriore dotazione finanziaria, in assenza di adeguate controgaranzie; (ii) una volta conseguita la proprietà dell’immobile, la s.a.s. avrebbe potuto restituire il prestito unicamente mediante la rivendita di detto cespite, ciò che avrebbe contraddetto il suo unico scopo; (iii) il socio accomandante, effettuando i versamenti in rapida successione e subito dopo la costituzione della s.a.s., era ben conscio di imprimere a tali fondi una destinazione irreversibile; (iv) una ricostruzione siffatta non è sconfessata neppure dalla divergente registrazione contabile delle rimesse, posto che le medesime non hanno valore confessorio né sono idonee a colmare la divaricazione tra la risultanza [continua ..]
La pronuncia in commento solleva importanti questioni sulla corretta qualificazione degli apporti dei soci, specialmente di quelli effettuati in assenza di adeguata dotazione finanziaria della società. Il tema non è nuovo, anzi si può dire che la letteratura [[1]] e la giurisprudenza [[2]] in materia di qualificazione degli apporti dei soci siano amplissime. Per maggiore chiarezza espositiva, sia consentita una breve introduzione sulle diverse tipologie di contribuzione dei soci. Per ragioni anzitutto normative, il primo apporto effettuato dal socio, in sede di costituzione o di aumento di capitale della società, è il conferimento. Un’autorevole opinione, condivisibilmente, intravede nel conferimento il corrispettivo per l’acquisto – o il rafforzamento – della qualità di socio [[3]]. Trattasi, peraltro, della forma di apporto che imprime ai fondi il vincolo, più intenso, dell’irreversibilità, da intendersi nel senso che gli stessi possono essere restituiti ai soci soltanto nei modi e nelle forme previsti dalla legge o dallo statuto (scioglimento e liquidazione della società, riduzione del capitale, acquisto di azioni proprie, recesso, riscatto). Vi è poi un’ulteriore categoria di apporti, che si distingue dal conferimento propriamente inteso e che sta poco prima del finanziamento concesso secondo lo schema del mutuo, da lungo tempo affermatasi nella prassi per la sua attitudine a soddisfare particolari esigenze sia fiscali sia finanziarie del socio: i c.d. versamenti in conto capitale, per usare un’espressione volutamente generica che comprende una pluralità di apporti spontanei dei soci. Non è questa la sede per compiere un adeguato approfondimento delle modalità con le quali i soci possono effettuare degli apporti in regime di quasi-capitale sociale. Qui basti evidenziare che anche la qualificazione di tali versamenti richiede sovente una laboriosa operazione di ricostruzione della effettiva volontà negoziale delle parti; posto che – come pure è stato rilevato – “l’uso di espressioni atecniche al momento del versamento rivela tutta la sua ambiguità, che non tanto e non solo è insita nelle formule polivalenti con cui sono effettuati (spesso deliberati) e poi appostati in bilancio, ma spesso è volutamente ‘giocata’ dai soci [continua ..]
Tornando alla sentenza in commento, nel giudizio si assiste alla contrapposizione dei due argomenti classici in materia di qualificazione degli apporti dei soci: il primo, sostenuto dal ricorrente, si basa sul dato formale dell’apposizione a bilancio; il secondo, fatto proprio dalla Cassazione, valorizza la volontà negoziale delle parti. Il primo argomento, che si anticipa non essere condivisibile, è sostenuto da una corrente minoritaria della dottrina, nonché, anche di recente, da alcune pronunce di legittimità. In letteratura, si segnala in particolare l’approccio marcatamente formalista seguito da un Autore, per il quale l’indagine sulla natura dell’apporto non può non passare dalla “verifica della modalità con la quale la somma è stata apposta in bilancio: se l’importo è iscritto sotto una voce che può comportare tecnicamente una possibile restituzione (ad esempio quella relativa ai debiti), allora la disciplina di riferimento è quella della postergazione legale, in presenza dei presupposti richiesti dall’art. 2467 c.c. Qualora invece la voce di bilancio precluda tecnicamente la possibilità di restituire la somma esborsata dal socio (come nel caso delle riserve che sono distribuibili solo a certe condizioni), la disciplina di riferimento sarà necessariamente quella riferibile all’integrità ed alla adeguatezza del capitale sociale, circostanza che comporta la più severa conseguenza di indisponibilità delle somme versate, in mancanza dei presupposti per procedere alla distribuzione” [[27]]. In giurisprudenza, da ultimo, si è posto in contrasto con l’orientamento dominante il precedente di Cass., Sez. V, ord. 1° marzo 2019, n. 6104, che ha così deciso: “(…) in tema di valutazione della qualificazione della natura di una erogazione di denaro dal socio alla società, occorre applicare i criteri generali valevoli per il diritto societario. E quindi è necessario considerare che il criterio principale di qualificazione di una destinazione da parte della società di una somma di denaro, comunque ricevuta nel corso dell’esercizio, è data dall’esame delle risultanze del relativo bilancio. Invero il bilancio di esercizio è proprio il documento contabile fondamentale che la società è obbligata a redigere [continua ..]
Il secondo argomento, accolto dal giudice di legittimità, intravede nel movente che ha spinto l’accomandante ad effettuare gli apporti, nonché nella situazione di fatto in cui versava la società al momento della sua costituzione, sufficienti elementi per superare il dato formale dell’iscrizione a bilancio – invero, elemento affatto tralasciato ai fini della decisione – e per affermare la natura di conferimento dei versamenti compiuti dal ricorrente. La sentenza pone in rilievo alcuni indici che consentono al giudice di qualificare un versamento come conferimento o finanziamento. Si tratta di elementi già considerati sintomatici dalla dottrina specialistica: (i) lo stato di sottocapitalizzazione della società; (ii) l’impossibilità di ottenere finanziamenti da terzi senza il previo rilascio di idonee garanzie; (iii) la rapida successione nel tempo dei versamenti; (iv) la strumentalità di tali versamenti rispetto alla realizzazione dell’oggetto sociale; (v) il diretto coinvolgimento dell’altro socio nell’operazione in cui si compendiava l’oggetto sociale. Benché la sentenza non ne faccia menzione, si deve ritenere rilevante ai fini della qualificazione come conferimento anche la mancata previsione di un termine per la restituzione e del saggio di interessi. L’impostazione in esame riscuote il favore della dottrina prevalente, anche di quella che si occupa, segnatamente, di porre un confine fra le categorie del conferimento e dei versamenti in conto capitale (ma si è detto essere una distinzione foriera degli stessi problemi che pone quella fra conferimento e finanziamento). Così, si distingue l’opinione di un Autore, per il quale “rileva tecnicamente come conferimento non ogni generico apporto patrimoniale, neppure quando la sua remunerazione e il suo valore per chi lo effettua sono esposti ai rischi dell’andamento dell’attività sociale, ma quello che per le sue forme, e in definitiva a seguito di una scelta di rilievo organizzativo, contribuisce alla formazione del capitale sociale” [[30]]; e quella di un altro Studioso, che “la qualificazione dei versamenti dei soci come finanziamenti o come conferimenti è essenzialmente una quaestio voluntatis sulla finalità sostanziale dell’operazione, desumibile soprattutto dalle sue modalità, da valutare [continua ..]
Il problema della qualificazione degli apporti dei soci si è posto, in termini analoghi, anche in relazione all’ambito oggettivo di operatività dell’art. 2467 c.c. Così, secondo una prima ricostruzione, il finanziamento del socio dovrebbe essere riqualificato in conferimento, in ragione della causa societaria che connota tale apporto e che lo differenzia dai prestiti dei terzi estranei alla società, sorretti dalla causa di credito [[36]]. Con alcune, rilevanti conseguenze sul rapporto obbligatorio: (i) il finanziamento “anomalo”, non rappresentando un debito, bensì una voce di patrimonio netto, sarebbe improduttivo di interessi; (ii) il socio finanziatore sarebbe considerato ipso facto un socio conferente, titolare dell’unica pretesa residuale. La tesi segue un ragionamento sistematico così riassumibile: la postergazione è una regola che ha l’effetto di impedire alla società – rectius, agli amministratori – di pagare i soci prima che tutti gli altri creditori sociali siano stati soddisfatti; pertanto, la postergazione obbedisce alla stessa logica sottesa alla sopportazione del rischio di impresa, secondo la quale, con la sottoscrizione di una quota del capitale sociale, eventuali perdite sono, in primis, caricate sui soci e soltanto successivamente, eroso completamente il valore delle loro partecipazioni sociali, impediscono – in tutto o in parte – la soddisfazione dei creditori sociali. La disciplina della postergazione, da tale angolo visuale, avallerebbe l’intenzione del legislatore di qualificare tali versamenti come conferimenti. A questa prima impostazione se ne contrappone una seconda, per la quale la postergazione consisterebbe in una regola di mera graduazione delle pretese di ciascuna tipologia di creditori sociali, nelle sole ipotesi di concorso tra i creditori esterni e il socio finanziatore [[37]]. Col che si sopirebbe definitivamente ogni dubbio residuo sulla possibilità che, in seno al medesimo soggetto, insistano – in pacifica coesistenza – le due qualità di socio e di creditore. Una variante di quest’ultima tesi mira a valorizzare maggiormente l’aspetto di diritto sostanziale, più che quello meramente processuale-concorsuale della graduazione delle pretese creditorie, intravedendo nella postergazione una naturale – perché legale – causa [continua ..]