Si annota una pronuncia della High Court of Justice inglese decisa sulla base del diritto societario italiano e sulla scorta delle legal opinion rese, rispettivamente per la parte attrice e convenuta, dai professori Luca Enriques e Mario Notari. In particolare, la sentenza prende una posizione sulla controversa questione della sorte dei diritti inerenti le azioni per le quali sia stato esercitato il diritto di recesso e, nello specifico, se queste abbiano diritto all’utile la cui distribuzione sia stata deliberata dopo l’esercizio di tale diritto. La nota presenta quindi, prima, lo stato dell’arte della dottrina in termini generali e, poi, con specifico riguardo al tema oggetto di decisione. In conclusione, si dimostra come la regola applicata dalla High Court sia non solo economicamente corretta ma anche coerente con la posizione di quiescenza delle azioni per le quali sia stata avviata la procedura di recesso.
It is commented a decision delivered by the High Court of Justice, decided under Italian company law and on the basis of two legal opinion given by professors Luca Enriques and Mario Notari (respectively in the interest of the claimant and the defendant). In particular, the decision deals with the controversial issue of the rights to which exiting shareholders are entitled and, in specific, whether such shareholders are entitled to dividends distributed after the exercise of the exit right. This paper, at first, presents the state of the art of scholars’ debate in general terms and then analyses in particular the issue decides by the Court. Eventually, the paper demonstrates why the rule applied by the Court is not only economically proper and correct but also coherent with the dormancy position of shareholders that exercised the exit right.
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1. Il caso - 2. La normativa di riferimento: la (“laconica”) disciplina del codice civile e le altre incertezze sui momenti del recesso - 3. Il contesto dottrinale e il panorama giurisprudenziale. L’impostazione alla questione fondata sul momento del recesso: la rilevanza dirimente (del momento) della perdita dello status socii. Le principali tesi sostenute ante e post riforma - 3.1. La tesi contrattualistica - 3.2. La tesi istituzionalistica - 3.3. La tesi mediana - 4. Il commento - 4.1. Critica all’impostazione contrattuale e sostegno all’approccio alla questione sulla premessa dello stato di quiescenza delle azioni per le quali sia stato esercitato il diritto di recesso - 4.2. La compatibilità con lo stato di quiescenza come tratto discretivo per l’individuazione dei diritti esercitabili: il criterio teleologico - 4.3. La data di riferimento nella valutazione del valore di liquidazione delle azioni: la sovracompensazione come argomento dirimente per negare la spettanza dell’utile delle azioni per le quali sia stato esercitato il diritto di recesso - 4.4. Critiche alla tesi della spettanza dell’utile, in particolare all’argomentazione del dividendo ricattatorio - 4.5. I precedenti: le fusioni Autostrade-Abertis Infraestructuras e Mediolanum-Banca Mediolanum; le conversioni obbligatorie delle azioni di risparmio di Italmobiliare e di UniCredit - NOTE
È raro che la sentenza di un giudice di un certo ordinamento abbia rilevanza a fini interpretativi – diretta e non solo riflessa – per un altro ordinamento. È raro ma accade. E certamente questo è il caso della sentenza che qui si annota, una pronuncia della sezione specializzata in materia commerciale della High Court of Justice di Londra, che – cosa strana (“unusual”) – “after a full trial lasting four days [has been] asked to decide only one issue of fact” (§ 1 [1]), “questione di fatto” esclusivamente fondata su una questione di diritto italiano e cioè se sia sorta, o meno, in capo a una public limited company inglese (convenuta) l’obbligazione a pagare il dividendo in favore di una société à responsabilité limitée lussemburghese (attrice). I fatti di causa sono, in sintesi, i seguenti: Gtech S.p.A. (già Lottomatica Group S.p.A.), di cui Cornwall S.à r.l. è azionista, avvia assieme a International Game Technology Inc. (una società statunitense, incorporated secondo la legge societaria del Nevada) i negoziati per un procedimento di fusione in esito al quale le società si fonderanno nella società di nuova costituzione IGT Plc., la company inglese per l’appunto. Siccome per effetto della fusione ricorre l’inderogabile causa di recesso per “trasferimento della sede sociale all’estero” a mente della lettera c dell’art. 2437 c.c., il consiglio di amministrazione di Gtech ne osserva il relativo procedimento, dando comunicazione agli azionisti del valore delle azioni – determinato nella misura della “media aritmetica dei prezzi di chiusura nei sei mesi che precedono …” ex art. 2437-ter, costituendo Gtech una società con “azioni quotate in mercati regolamentati” – in vista dell’assemblea degli azionisti che approverà il progetto di fusione. Prima della celebrazione dell’assemblea, Gtech diffonde un comunicato redatto sul modello domanda-risposta in cui, fra le varie informazioni in ordine alle ragioni della fusione, viene chiarito che, ove la società deliberasse di distribuire dividendi in seguito all’esercizio del diritto di recesso, questi non sarebbero spettati agli [continua ..]
Nonostante la considerevole articolazione dei commi oggi dedicati dal codice civile al procedimento di recesso dalla società per azioni – non che le previgenti formulazioni fossero maggiormente d’aiuto in tal senso [4] – la questione che qui interessa non trova una dirimente risposta nella disciplina codicistica, che nulla espressamente statuisce sul punto. Secondo una certa tesi, è allora sembrato naturale alla dottrina risolvere il problema di quali diritti fossero esercitabili da parte dei portatori delle azioni per le quali si stato esercitato il diritto di recesso guardando al “vero, insidioso, enigma” [5] del momento di efficacia del recesso, sì da collocare tale momento con esattezza lungo l’iter delineato dall’art. 2437-quater e poter quindi ritenere non più esercitabili il fascio di diritti sociali nel periodo a tale momento successivo (e, di converso, esercitabili nel periodo precedente). In verità, ad essere dubbio non è solo il momento di efficacia del recesso ma, più in generale, l’esatta individuazione dei vari tempi e momenti che ne scandiscono il procedimento e sui quali sembra utile una breve rassegna se non altro per dare conto della generale incertezza, che fa da sfondo alla questione che più specificatamente qui rileva, cui l’interprete inevitabilmente s’imbatte nel tentativo di far collimare i tanti termini – dilatori ed anticipatori, si direbbe con lessico processuale – previsti. Anzitutto, per le società per azioni chiuse è oscuro quale debba essere la data di riferimento della valutazione delle azioni, anche se sembrerebbe preferibile ancorarla ad una data il più possibile prossima al termine massimo di comunicazione della valutazione agli azionisti – almeno 15 giorni prima dell’adunanza assembleare – sì da scongiurare il pericolo che valutazioni riferite a date remote possano essere strumentalmente preferite dagli amministratori per non tenere conto di favorevoli sopravvenienze attive (o tenere conto di quelle sfavorevoli) [6]. Non sono poi chiari né i termini di decorrenza dell’obbligo di deposito presso la sede sociale delle azioni per quali si è dichiarato di recedere né quelli entro cui è possibile revocare le dichiarazioni di recesso [7]. Non è [continua ..]
Ma tornando all’enigma di fondo, quello dell’esercizio dei diritti attribuiti dalle azioni per le quali sia stato esercitato il diritto di recesso, è subito da chiarire come la tendenziale fortuna vantata dall’approccio che prende le mosse dalla prospettiva della perdita della qualità di socio – quello cioè dell’individuazione del momento di efficacia del recesso e, per l’effetto, della perdita del c.d. status socii – non abbia significato allo stesso tempo la concordia degli interpreti sull’individuazione in concreto di tale momento. Nel vasto panorama delle posizioni dottrinali formatesi sul punto, pre e post riforma del 2003, un primo orientamento che è possibile isolare ai fini della comodità espositiva, pur nella varietà delle nuances, è di matrice, per così dire, contrattualistica.
Muovendo dalla qualificazione della dichiarazione di recesso come atto a natura unilaterale e recettizia, secondo questa tesi la perdita dello status socii sarebbe da collocarsi davvero in principio del procedimento di recesso e cioè al momento in cui la dichiarazione perviene a conoscenza della società, con la conseguente perdita dei diritti da parte delle azioni per le quali sia stato esercitato il diritto di recesso nonché il loro mancato conteggio nei vari quorum assembleari. In altre parole, l’efficacia istantanea del recesso determina, secondo questa tesi, il mutamento della posizione del recedente da socio a creditore per un importo pari al valore di liquidazione [11].E nonostante le critiche alla tesi in parola – incentrate sulla considerazione per cui, così opinando, si svilirebbe la dimensione corporativa del recesso societario, relegando così il peculiare contratto associativo di società all’archetipo puramente civilistico che male ne cattura l’essenza [12] – proprio la riforma ha offerto un nuovo spunto – anche solo sul piano letterale e prescindendosi qui dagli ulteriori argomenti incentrati sulla considerazione degli interessi in gioco e sulla lettura funzionale del rimedio del recesso – nel senso dell’immediata efficacia. L’inciso «se già esercitato, è privo di efficacia», previsto dall’ultimo comma dell’art. 2437-bis a proposito della dichiarazione di recesso in caso di revocata deliberazione, va in effetti nel senso della tesi in parola, così da consentire ai sostenitori di questa di ribadire che, nel frattempo e sin da subito, il recesso produce i suoi effetti e che semmai la revoca ha una portata risolutiva degli effetti del recesso e non già sospensiva [13].
All’altro estremo dello spettro si pone poi l’orientamento istituzionalistica, propugnato da coloro che ritengono che lo status socii non venga meno con l’esercizio del recesso ma perduri lungo tutto l’iter e cessi solo con l’esaurimento della relativa fattispecie a formazione progressiva, e cioè allorché si verifichi una delle fattispecie traslative dell’azione receduta – in favore dei soci optanti, dei terzi o della società – o il suo annullamento in esito alla riduzione del capitale sociale [14].
Fra i due estremi vi sono poi anche i sostenitori della tesi mediana per la quale la perdita dello status socii non avverrebbe né in principio né alla fine del procedimento bensì allo spirare del termine di novanta giorni entro cui potrebbe intervenire la revoca, momento in cui verrebbe definitivamente meno l’incertezza sull’efficacia (vuoi sospensivamente, vuoi risolutivamente condizionata) delle dichiarazioni di recesso e risulterebbe allora chiara la sorte delle azioni che ne sono oggetto e cioè l’irreversibile destino del loro rimborso, pur nella pluralità di modi in cui a ciò può giungersi (ossia una delle fattispecie traslative – in favore dei soci optanti, dei terzi o della società – o l’annullamento in esito alla riduzione del capitale sociale) [15]. Volgendosi all’osservazione del variegato panorama giurisprudenziale si nota che, dovendosi statuire sulla legittimazione all’esercizio di singoli diritti, si è pervenuto ad esiti diversi e differenziati, parimenti, non sulla base della natura del diritto esercitabile, della prevalenza degli interessi in gioco bensì unicamente in base al momento della perdita dello status socii. Di là da tali pronunce, tutte inerenti a diritti amministrativi e che pertanto esulano dall’economia della presente nota [16], il caso che qui si annota è invece d’interesse in quanto – insieme ad una pronuncia del Tribunale di Roma del 2012 [17] – è la sola a riguardare, nell’orizzonte delle pronunce in punto di recesso, diritti patrimoniali e segnatamente il diritto all’utile; d’altro canto, è interessante osservare come la corte londinese e quella romana arrivino entrambe a negare la spettanza dell’utile all’azionista medio tempore receduto con percorsi argomentativi diversi: in quello della prima si scorge l’impiego di un criterio interpretativo teleologico, qui auspicato e nel proseguo analizzato, anziché dell’approccio fondato sul momento del recesso, utilizzato invece dalla seconda.
Quale che sia la declinazione della tesi cui si volge lo sguardo, l’approccio interpretativo fondato sull’automatica perdita dell’intero fascio dei diritti sociali in conseguenza della perdita dello status socii non persuade chi scrive per almeno due ordini di ragioni.
Anzitutto perché il momento in cui avverrebbe la perdita dello status socii non è desumibile da sicuri indici testuali della disciplina codicistica ad oggi vigente (ma non che in precedenza fosse possibile il contrario). Questa mancanza si riflette poi sul piano della contrapposizione fra la tesi contrattualistica e quella istituzionalistica, a favore delle quali non militano argomenti risolutivi sì da giungere a ritenere con certezza preferibile l’una o l’altra tesi e a stabilire, in definitiva e in pratica, se il recesso dell’azionista sia efficace all’inizio, nel mezzo o alla fine del procedimento, con le rispettive conseguenze in ordine all’esercizio dei diritti sociali [18]. Ma se anche fosse possibile determinare (o se convenzionalmente si individuasse) il momento della perdita dello status socii – e questa è la seconda ragione per cui la ricostruzione contrattualista non persuade – non sarebbe allora possibile ricollegarvi in modo automatico la perdita dell’intero fascio dei diritti sociali. Questo perché non è dato desumere dall’ordinamento societario una norma che specificatamente – ma neppure genericamente – preveda che l’esercizio dei diritti sociali vada di pari passo con lo status di socio, cioè che non appena si acquisiti tale qualità i diritti sociali divengano tutti e subito esercitabili, per poi venire meno tutti insieme al momento della successiva perdita. In altri termini, è ben possibile che pur nella permanenza dello status di socio non tutti i diritti siano nella sua disponibilità, risultandone alcuni limitati. Di là dai casi in cui ciò avviene per espressa previsione di legge, cui si rinvia in nota [19], sono ancora più d’interesse ai nostri fini quei casi in cui la asimmetria fra status socii e diritti esercitabili dipende non tanto da una espressa previsione di legge quanto dalla particolare situazione cui il titolare delle azioni si trova, nella quale non è possibile determinare con esattezza quali siano i diritti sociali esercitabili (o non esercitabili). È questo il caso, ad esempio, in cui versa il socio entrante – anziché uscente, come quello recedente –, cioè il sottoscrittore (precedentemente [continua ..]
Per stabilire la sorte dei diritti sociali esercitabili da quei soci che si incamminano all’uscita [25] non si può quindi prescindere dalle peculiarità proprie di questa fase che impongono un contemperamento delle contrapposte ragioni della società e dell’azionista receduto: l’interesse conservativo della prima a non vedere influenzata la sua attività da chi ha ormai manifestato la volontà di estraniarsi dalla collettività dei soci, non condividendone più il progetto imprenditoriale, con quello protettivo del secondo a poter reagire a decisioni, imposte dalla maggioranza, atte a pregiudicare le aspettative patrimoniali legate alla sua uscita [26]. La compatibilità con lo stato di quiescenza dell’azionista receduto, insomma, si erige a tratto discretivo nell’attribuzione dei diritti a chi, di certo, non ha più le piene prerogative sociali ma neppure ne può essere già completamente privo. Del resto, l’approccio laconico del legislatore – giudicato saggio dalla High Court (§ 94) – suggerisce all’interprete un approccio interpretativo di carattere teleologico e casistico, che porti cioè, in assenza di previsioni esplicite, a discernere quali diritti siano di volta in volta con tale posizione compatibili e quindi esercitabili [27]. La saggezza del legislatore nel dettare una disciplina laconica – come condivisibilmente precisa la High Court, in linea (solo su questo punto) con l’expert opinion del professor Enriques (§ 94) – si evince nel “desiderio di lasciare alle corti mani libere nel giudicare le varie sfumature che i casi concreti possono presentare” (“it is likely that they wished to leave the courts a free hand, anticipating that the issue was nuanced, and that different factual situations might call for different approaches to the issue”), evitando così il rischio di prescrivere regole rigide preconcette, che mal si adatterebbero ad una fase, quella della quiescenza, che in quanto giuridicamente ibrida, eterogenea e sfuggente richiede quella flessibilità che solo una disciplina minimalista concede all’interprete.
Volgendo lo sguardo alla questione in sé, in verità, di primo acchito, non pare avvertirsi alcuna incompatibilità in astratto fra la posizione corporativa dell’azionista receduto e l’eventuale spettanza del diritto all’utile deliberato medio tempore; sembrerebbe anzi quasi giusto riconoscere all’azionista, per quanto uscente, il frutto (il dividendo) del suo investimento (il conferimento), e ciò – in teoria – fino a quando tale nesso si recide, quando cioè può dirsi perfezionato il disinvestimento al momento dell’effettiva corresponsione della quota di liquidazione. Del resto, la disciplina del procedimento (in senso stretto) di recesso non sembra offrire saldi appigli interpretativi per negare la spettanza del diritto in parola. Non di certo, in particolare, l’obbligo di deposito delle azioni ed il loro divieto di alienazione ex 2° comma dell’art. 2437-bis, indice sì dell’avviato allontanamento dell’azionista dalla società ma solo in funzione di facilitare il perfezionamento delle vicende traslative in cui il recesso può risolversi [28] non offrendo quindi argomenti sufficientemente persuasivi per negare la spettanza dell’utile durante questa area grigia. Ad essere dirimenti in senso opposto sono però gli aspetti sostanziali della disciplina del recesso: la questione infatti si risolve indirettamente dall’analisi dei criteri di valutazione del valore delle azioni per le quali sia stato esercitato il diritto di recesso dettati dall’art. 2437-ter. Tanto per le società aperte – nella loro disciplina naturale [29] – quanto per le chiuse, al termine finale del periodo di riferimento della valutazione – in ogni caso, come visto, precedente all’assemblea che legittima il recesso – si cristallizza un valore che già esprime e riflette l’eventuale ammontare di futura distribuzione dell’utile sì da renderla non di spettanza dell’azionista receduto, il quale altrimenti finirebbe per percepire quello stesso valore due volte, finirebbe cioè per essere overcompensated (§ 114 e ss.) [30]: la prima come ideale porzione della quota di liquidazione, la seconda a titolo di dividendo medio tempore distribuito e – allora [continua ..]
L’eccepire – come eccepisce Cornwall in giudizio (§ 42) – che il criterio della media aritmetica dia buoni risultati solo in contesti ideali – come non è quello di specie – non sembra cogliere nel segno: a nulla rileva, infatti, la circostanza che il prezzo di borsa – frutto di una pura scelta di politica legislativa – possa non esprimere un valore fair delle azioni, giacché ai nostri fini è sufficiente che, per quanto distorto, il valore ideale del dividendo concorra a formare il valore e le prospettive patrimoniali delle società, in ultima istanza riflesse nel prezzo di borsa. E certamente così accade: riprova ne è la sistematica decurtazione del prezzo di borsa alla data di stacco della cedola, che se non altro sta a significare che, per quanto distorto, il prezzo un momento prima dello stacco incorporava l’ideale valore del dividendo e un momento dopo non l’incorporava più [31]. Non è neppure d’ostacolo l’eventualità che la delibera legittimante il recesso sia poi revocata dalla società; non è infatti difficile immaginare l’espediente pratico per scongiurare il pericolo che la riviviscenza dell’azionista prima receduto abbia l’effetto di ricondurlo fra la compagine sociale in un momento successivo a quello della distribuzione del dividendo. Anzitutto, un simile pericolo sussisterebbe solo nel caso in cui per effetto della distribuzione alla società non residuino porzioni di patrimonio netto distribuibili con la conseguenza che non vi sia la materiale possibilità di corrispondere tardivamente il dividendo all’azionista il cui recesso diviene privo di efficacia (non potendo nemmeno ripetersi quello già pagato – sempre che sopraggiunga anche il pagamento oltre che la distribuzione – agli altri azionisti ex art. 2433, 4° comma). In tale circostanza – non se quindi nel patrimonio della società residuano riserve tali da poter essere distribuite ex post a titolo di dividendo tardivo – gli amministratori dovranno accantonare la quota di utili che dovrebbe spettare all’azionista, secondo le regole disciplinanti i diritti patrimoniali di cui sono portatrici le azioni per le quali sia stato esercitato il diritto di recesso, in [continua ..]
Una conferma – ove mai servisse – sul fatto che nulla osti a simili distribuzioni è possibile averla già dopo un primo sguardo all’orientamento della prassi delle società quotate: in tutti i casi in cui la via del recesso ha incrociato quella della distribuzione di un dividendo (sempre dichiarato non spettante ai soci receduti), si è sempre dato il caso di un dividendo deliberato nel corso del procedimento di recesso non accidentalmente ma proprio intenzionalmente. Nel contesto di operazioni particolarmente delicate per gli assetti proprietari e per i diritti dei soci di minoranza – si tratta di due fusioni e di due conversioni obbligatorie di azioni di risparmio in azioni ordinarie – gli amministratori hanno appunto impiegato la distribuzione di un dividendo, straordinario o d’acconto, come pungolo per dissuadere gli azionisti dal recedere, prevedendone la distribuzione (i.e. la record date ex art. 83-terdecies del testo unico della finanza) ad un momento successivo a quello di esercizio del recesso, sicché l’azionista si è trovato dinanzi al bivio fra l’abbandono – con una quota di liquidazione che teneva conto del dividendo in distribuzioni – e la permanenza – con la percezione del dividendo – nella compagine sociale. Andando per ordine cronologico, nel bivio in questione si sono imbattuti gli azionisti di Autostrade S.p.A. nel contesto della fusione per incorporazione transfrontaliera in Abertis Infraestructuras S.A. avvenuta nel corso del 2006, ai quali era stato riconosciuto il diritto di recesso in ragione del trasferimento della sede sociale all’estero in esito al perfezionamento della fusione. Per distoglierli da tale intento, infatti, il consiglio d’amministrazione aveva previsto un dividendo straordinario ai receduti non spettante [37]. Analogamente, nel contesto della fusione per incorporazione di Mediolanum S.p.A. in Banca Mediolanum S.p.A. perfezionatasi nel 2015, si legge nel verbale d’assemblea della società incorporata, che approvava il progetto di fusione, di come il presidente abbia chiarito che “anche in considerazione del termine ultimo per l’esercizio del predetto diritto, i soci che esercitino il diritto di recesso non saranno legittimati a percepire l’acconto sui dividendi relativo all’esercizio [continua ..]