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Azioni proprie e computo dei quorum assembleari
Giulia Bovenzi
Il saggio analizza la sentenza della Cassazione n. 23950/2018, la quale ha chiarito che, ai sensi dell’art. 2357-ter c.c., nelle s.p.a. chiuse le azioni proprie devono essere computate nel calcolo dei quorum costitutivi e deliberativi, al fine di evitare una concentrazione di potere in capo al gruppo di comando. Si esclude che il rischio di stallo assembleare possa indurre a correggere la norma in via interpretativa, stante la possibilità di ricorrere allo scioglimento anticipato.
The essay analyses the decision of the Supreme Court no. 23950/2018, which clarified that, pursuant to art. 2357-ter of the Italian Civil Code, in private companies limited by shares own shares must be counted in the calculation of the constitutive and deliberative quorums, in order to avoid an concentration of power in the command group. It is excluded that the risk of deadlock in the shareholders’ may lead to correct the rule in an interpretative way, given the possibility of resorting to early dissolution.
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Sommario:
1. Il caso - 2. Il quadro normativo - 3. Azioni proprie e calcolo dei quorum assembleari: la dottrina e la giurisprudenza a confronto con gli interventi legislativi - 4. Il commento. L’assenza di limiti all’acquisto di azioni proprie per le società chiuse: lo “stallo assembleare” e la “società senza soci” - NOTE
1. Il caso
La pronuncia in commento nasce dal ricorso presentato avverso la sentenza della Corte di appello di Roma che, in riforma alla decisione di primo grado, ha annullato una deliberazione dell’assemblea ordinaria di s.p.a., assunta in seconda convocazione con il voto favorevole del 47% circa del capitale sociale per approvare il bilancio d’esercizio e distribuire gli utili conseguiti. In particolare, la Corte territoriale ha disposto che nel quorum deliberativo, costituito dalla maggioranza semplice del capitale intervenuto in assemblea secondo l’art. 2369, 3° comma, c.c., dovevano «essere ricomprese le azioni proprie, detenute dalla società nella misura del 10% del capitale sociale», ai sensi del nuovo art. 2357-ter, 2° comma, c.c., in cui il termine «capitale» è stato sostituito con quello più ampio di «maggioranze»; da qui, l’annullabilità a causa del mancato raggiungimento della maggioranza necessaria, dovuta, appunto, alla presenza di azioni proprie. Avverso tale sentenza la società ha proposto ricorso per Cassazione, lamentando, fra l’altro, la violazione degli artt. 2357-ter, 2° comma e 2369, 3° comma, c.c., poiché, a detta della ricorrente, le azioni proprie non dovrebbero conteggiarsi nel quorum deliberativo qualora la base di calcolo sia il capitale rappresentato, e non quello sociale, stante il rischio di [continua ..]
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2. Il quadro normativo
La sentenza che qui si esamina interviene su di un tema, quello del computo delle azioni proprie ai fini del calcolo delle maggioranze e delle quote richieste per la costituzione e le deliberazioni dell’assemblea, oggetto di diversi interventi legislativi e di un acceso dibattito giurisprudenziale e dottrinale. Senza soluzione di continuità con il codice di commercio del 1882, l’art. 2357 c.c. – tanto nella formulazione originaria, quanto in quella vigente – consente l’acquisto di azioni proprie solo a certe condizioni, disponendo poi la contemporanea sospensione del relativo diritto di voto [1]; la finalità perseguita dal legislatore del 1942 era, evidentemente, quella di evitare operazioni di carattere speculativo, ovvero che tale acquisto potesse «rappresentare per gli amministratori un sistema per crearsi una comoda maggioranza a spese del patrimonio sociale» [2]. Da qui, dunque, la soluzione di sterilizzare le azioni proprie, sospendendo per esse l’esercizio del diritto di voto e impedendo che le stesse potessero essere rappresentate in assemblea dagli amministratori della società. La seconda Direttiva comunitaria in materia societaria (77/91/CEE), recepita con d.p.r. 10 febbraio 1986, n. 30, ha apportato alcune modifiche in tema di acquisto, finanziamento per l’acquisizione e accettazione in garanzia di azioni proprie; in particolare, l’introduzione dell’art. [continua ..]
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3. Azioni proprie e calcolo dei quorum assembleari: la dottrina e la giurisprudenza a confronto con gli interventi legislativi
Nella vigenza dell’originario art. 2357 c.c., così come formulato nel codice del 1942, il legislatore restava silente relativamente al calcolo delle azioni proprie ai fini del conteggio dei quozienti costitutivi e deliberativi in assemblea; l’orientamento maggioritario dell’epoca, sia in giurisprudenza che in dottrina, ricavava dalla norma la volontà di escludere le predette azioni dai meccanismi di computo quale correttivo dell’insussistenza di un limite quantitativo al loro acquisto [6]. In particolare, si riteneva che, se le azioni proprie avessero dovuto calcolarsi nonostante la mancanza dei predetti limiti, si sarebbe potuta determinare la paralisi dell’organo assembleare in tutti quei casi in cui la quota di capitale rappresentata dalle azioni proprie fosse stata tale da impedire, in astratto o in concreto, il raggiungimento dei quorum deliberativi richiesti dalla legge e calcolati sul complesso delle azioni aventi diritto di voto. Il fondamento alla base di questa impostazione era costituito dal richiamo al vecchio art. 2368 c.c., il quale, per determinare la regolare costituzione dell’assemblea ordinaria, estrometteva dal conteggio le azioni a voto limitato. Di conseguenza, l’esclusione delle azioni proprie era ottenuta mediante la loro deduzione dal capitale, facendo riferimento, per l’adozione di qualsivoglia delibera, «al capitale ridotto» risultante da [continua ..]
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4. Il commento. L’assenza di limiti all’acquisto di azioni proprie per le società chiuse: lo “stallo assembleare” e la “società senza soci”
A seguito dell’intervento legislativo del 2010, permane qualche voce discordante in dottrina e in giurisprudenza circa la necessità di escludere le azioni proprie dal sistema del computo ai fini deliberativi nel contesto delle assemblee ordinarie di seconda convocazione. Così, in base ad un’interpretazione strettamente letterale, si è sostenuto che il termine «richieste» di cui all’art. 2357-ter c.c., riferito sia alle maggioranze che alle quote, condurrebbe ad includere le azioni proprie nei meccanismi di calcolo soltanto nel caso in cui la legge richieda espressamente specifici quozienti costitutivi o deliberativi ai fini della formazione della volontà assembleare. [21] Viene, in tal senso, riproposta la tesi sostenuta da una parte di dottrina [22] con riferimento al precedente testo dell’art. 2357-ter c.c., introdotto nell’86: rispetto all’assemblea ordinaria di seconda convocazione, l’art. 2369, 3° comma c.c. prevede che la stessa deliberi qualunque sia la parte di capitale rappresentata dai soci partecipanti [23], mentre, ai sensi del quarto comma, lo statuto non può prevedere maggioranze più elevate di quelle indicate nei precedenti commi in occasione dell’approvazione del bilancio e della nomina e revoca degli amministratori; di conseguenza, il quorum costitutivo risulta correlato ad una [continua ..]
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