Rivista di Diritto SocietarioISSN 1972-9243 / EISSN 2421-7166
G. Giappichelli Editore

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(1-3) La responsabilità degli amministratori e la perdita del capitale sociale in costanza di valutazioni sulle operazioni societarie: dall'automatico scioglimento della società alla prescrizione dell'azione dei creditori sociali, passando per la determinazione del danno. (di Diego Cefaro)


CASSAZIONE CIVILE, I Sezione, 22 aprile 2009, n. 9619 – Proto Presidente – Panzani Relatore – P.M. Destro – M.A. (avv. Forchitto) c. Fallimento Mareblu s.r.l. (avv. Armandola), P.C. (avv. Torino), V.A. (avv. Iannotta) e D.L.

 

 

Cassa con rinvio App. Roma, 27 maggio 2004, n. 2537

 

Società di capitali – Scioglimento – Riduzione del capitale al di sotto del minimo – Automatico scioglimento – Limiti – Reintegrazione del capitale sociale o trasformazione della società – Deliberazioni relative – Mancata adozione – Responsabilità degli amministratori – Sussistenza

 

Nell’ipotesi di riduzione del capitale sociale al di sotto del minimo legale, prevista dall’art. 2448, n. 4, c.c. (nel testo, applicabile ratione temporis, anteriore alle modifiche introdotte dal d.lgs. 17 gennaio 2003 n. 6), lo scioglimento della società si produce automaticamente ed immediatamente, salvo il verificarsi della condizione risolutiva costituita dalla reintegrazione del capitale o dalla trasformazione della società ai sensi dell’art. 2447 c.c., in quanto, con il verificarsi dell’anzidetta condizione risolutiva, viene meno ex tunc lo scioglimento della società; ne deriva che la mancata adozione da parte dell’assemblea dei provvedimenti di azzeramento e ripristino del capitale sociale o di trasformazione della società in altro tipo, compatibile con la situazione determinatasi, non esonera gli amministratori dalla responsabilità conseguente al proseguimento dell’attività d’im­presa in violazione del divieto di nuove operazioni (1).

(Artt. 2394, 2447, 2448 c.c.)

 

Società di capitali – Amministratori – Responsabilità: verso i creditori sociali – Prescrizione quinquennale – Decorrenza – Riferimento al momento di oggettiva conoscibilità dell’insufficienza del patrimonio sociale – Necessità – Insufficienza patrimoniale – Nozione – Perdita integrale del capitale sociale – Stato d’insolvenza – Differenze – Fattispecie in tema di stipulazione di concordato stragiudiziale remissorio

 

L’azione di responsabilità dei creditori sociali nei confronti degli amministratori di società è soggetta a prescrizione quinquennale, decorrente dal momento in cui i creditori sono oggettivamente in grado di venire a conoscenza dell’insufficienza del patrimonio sociale ai fini della soddisfazione dei loro crediti; tale incapienza, consistente nell’eccedenza delle passività sulle attività, non corrisponde alla perdita integrale del capitale sociale, che può verificarsi anche in presenza di un pareggio tra attivo e passivo, né allo stato d’insolvenza di cui all’art. 5 legge fall., trattandosi di una condizione di squilibrio patrimoniale più grave e definitiva, la cui emersione non coincide necessariamente con la dichiarazione di fallimento, potendo essere anteriore o posteriore (2).

 

(Artt. 2393, 2394, 2395, 2949 c.c.)

 

Società di capitali – Amministratori – Responsabilità: in genere – Riduzione del capitale al di sotto del limite legale – Scioglimento della società – Divieto di compiere nuove operazioni – Violazione – Danni – Liquidazione – Criteri

 

Con riferimento all’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori di una società che trovi fondamento nella violazione del divieto di intraprendere nuove operazioni, a seguito dello scioglimento della società derivante dalla riduzione del capitale sociale al di sotto dei limiti previsti dall’art. 2447 c.c., non è giustificata la liquidazione del danno in misura pari alla differenza tra l’attivo ed il passivo accertati in sede fallimentare, non essendo configurabile l’intero passivo come frutto delle nuove operazioni intraprese dagli amministratori, ma dovendosi ascrivere lo stesso, almeno in parte, alle perdite pregresse che avevano logorato il capitale [1] (3).

 

(Artt. 1223, 1226, 2393, 2394, 2447, 2449, 2484 c.c.)

 

 

 

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

 

Il Fallimento di Mareblu s.r.l. proponeva azione di responsabilità nei confronti di M.A., P.C., D.L., V.A. chiedendone la condanna al risarcimento dei danni conseguenti agli atti di mala gestio posti in essere nella loro qualità di amministratori (il V. quale amministratore di fatto) della fallita società, danni che quantificava in L. 5.312.639.981, pari alla differenza tra il passivo e l’attivo fallimentare, oltre interessi e rivalutazione. Precisava la curatela che il M., il P., il D. si erano succeduti quali amministratori della fallita società, rispettivamente dal (omissis) all’(omissis), dal­l’(omissis) al (omissis), dal (omissis) sino al fallimento, dichiarato il (omissis).

Il D. aveva rilasciato all’atto della sua nomina procura institoria senza limitazione di poteri al V., che grazie ad essa aveva gestito la società quale amministratore di fatto.

Si costituivano in giudizio il M., il P. ed il V., mentre rimaneva contumace il D., eccependo l’intervenuta prescrizione dell’azione, l’insussistenza della qualità di amministratore di fatto del V. e l’infondatezza della pretesa attorea.

All’esito di istruttoria documentale e di c.t.u. contabile il Tribunale di Roma condannava i convenuti tutti al risarcimento dei danni che quantificava in L. 6.899.000.000.

Proponevano appello principale il M. ed incidentale il P. ed il V., oltre che la curatela.

La Corte di appello di Roma con sentenza 27 maggio 2004 accoglieva in parte gli appelli degli amministratori, quantificando il danno risarcibile in L. 4 miliardi, pari ad Euro 2.065.800, ed interamente l’appello del Fallimento che si era doluto della mancata condanna di questi ultimi al pagamento delle spese di c.t.u.

Osservava la Corte di merito che le eccezioni di improponibilità ed improcedibilità della domanda sollevate dal P. e dal V. perché l’autorizzazione del G.D. al curatore a proporre la domanda non sarebbe stata conforme al disposto della legge fall., art. 146 e perché la stessa non sarebbe stata preceduta dal parere favorevole del comitato dei creditori non erano fondate. A seguito dell’invito del G.D. il curatore aveva infatti esaurientemente indicato gli addebiti mossi al V., poi ripresi nell’atto introduttivo del giudizio, mentre il secondo provvedimento autorizzativo del G.D. dava atto del parere favorevole del comitato dei creditori. Anche l’eccezione di nullità del giudizio sollevata dal P. perché la causa sarebbe stata trattata per un certo periodo dal Tribunale in composizione monocratica (GOA) era infondata, perché, se era vero che il fascicolo era stato rimesso per errore alla sezione stralcio, avanti a quest’ultima non era stata svolta alcuna attività istruttoria e la causa era stata immediatamente rimessa al giudice competente.

La Corte d’appello rigettava anche i motivi con cui gli ex amministratori appellanti, principale ed incidentali, avevano dedotto l’intervenuta prescrizione della domanda in ragione dell’avvenuto decorso del termine quinquennale a far tempo dalla data di compimento degli atti di mala gestio. Osservavano i giudici d’appello che il termine di prescrizione dell’unica azione in cui confluiscono legge fall., ex art. 146, le azioni di responsabilità in favore della società e dei creditori sociali previste dagli artt. 2393 e 2394 c.c. (vecchio testo) decorreva, secondo la giurisprudenza di questa Corte, a far tempo dal momento in cui si era manifestata ai terzi l’insufficienza del patrimonio sociale al soddisfacimento dei crediti. L’insufficienza patrimoniale era data dall’eccedenza delle passività sulle attività, fenomeno diverso dall’insolvenza. Essa poteva manifestarsi anche prima della dichiarazione di fallimento, legata invece alla sussistenza dell’insolvenza, ma l’onere di provare tale circostanza gravava su chi eccepiva la prescrizione e, nel caso di specie, non era stato assolto, perché sia il M. che il P. si erano limitati a dedurre che l’insufficienza patrimoniale ri­sultava già dal bilancio 1987, senza fornire elementi a sostegno di tale assunto, non essendo all’uopo sufficiente che dal bilancio in parola risultasse la perdita del capitale sociale. Anche il V. non aveva indicato in quale data si fosse manifestata l’insufficienza patrimoniale. La Corte d’ap­pel­lo affermava poi che il V. aveva operato quale amministratore di fatto a nulla rilevando le contrarie deduzioni dell’appel­lante. Ciò emergeva dalla deposizione scritta resa dal D. al curatore del Fallimento, nella quale questi aveva riferito di aver accettato la proposta del V. e del suo legale di divenire amministratore di ben sette società, tra cui la Mareblu, e di aver rilasciato al V. la procura generale institoria che era servita a quest’ultimo per amministrare la società, svolgendo attività di cui il D., amministratore di diritto era all’o­scuro.

Le dichiarazioni del D., che non erano state smentite dal V., trovavano conferma nella convenzione (omissis) stipulata tra Pafimco (di cui era amministratore il P.) ed il V. in cui con riferimento ad una proposta di concordato relativa a Mareblu, si dava atto che l’intervento di Pafimco avveniva a titolo di cortesia nei confronti del V., unico interessato alle sorti di Mareblu e delle altre società. Non costituiva ostacolo a ritenere il V. amministratore di fatto la circostan­za che gli fosse stata rilasciata una procura institoria, perché la giurisprudenza risalente considerava il rilascio della procura un requisito per rendere applicabile la disciplina della responsabilità degli amministratori all’am­mi­ni­stratore di fatto. Il V., come risultava dai documenti in atti e dalle ri­sultanze della c.t.u., aveva compiuto una serie di attività incompatibili con la figura del semplice mandatario, trattando con le banche e con i terzi proposte di concordato e offrendo garanzia personale per i debiti sociali verso le banche, al di fuori di ogni attività d’indirizzo e controllo da parte del D.

Ad avviso della Corte di merito erano provati per tutti e tre gli appellanti gli atti di mala gestio, alla stregua dei documenti prodotti dalla curatela e della c.t.u. posto che erano state violate le norme in ordine alla tenuta della contabilità ed alla redazione dei bilanci, sì che non era possibile determinare la reale situazione della società. In particolare non trovavano riscontro nella contabilità sociale rilevanti operazioni quali la concessione d’ipoteca per oltre 6 miliardi, l’accensione di un mutuo per 900 milioni, incassi da vendite e da locazioni pluriennali per alcune centinaia di mi­lioni. In occasione del passaggio delle consegne dall’uno all’altro amministratore non era mai stato redatto un verbale che desse conto della situazione della società sia ai terzi che agli amministratori subentranti, sì che se ne poteva dedurre che anche questi ultimi intendessero proseguire l’attività con le medesime caratteristiche. Già nel corso della gestione del M. la società aveva perso il capitale sociale, ma gli amministratori avevano proseguito nella gestione, ponendo in essere operazioni imprudenti quali la concessione d’ipoteca o il ricorso a nuovi ingenti finanziamenti, che non era possibile restituire, accorgimenti diretti a ritardare la dichiarazione di fallimento, stipulando contratti di vendita e locazione che avevano dato origine ad un ingente contenzioso che aveva ulteriormente aggravato la situazione della società.

Tutti e tre gli appellanti avevano concorso con condotte autonome, ma collegate, a provocare il dissesto di Mareblu.

Il danno andava individuato nel dissesto, conseguente alla mancata assunzione dei provvedimenti ex artt. 2446 e 2447 c.c., ed all’inosservanza degli obblighi inerenti alla conservazione dell’integrità del patrimonio sociale. Era peraltro onere degli ex amministratori, in ragione del carattere contrattuale della responsabilità, provare l’as­senza di dolo o colpa. Il danno infine non poteva essere determinato in misura pari alla differenza tra passivo ed attivo accertato in sede fallimentare, ma, sulla scorta della perizia penale e della c.t.u., che avevano confermato l’inattendibilità dei bilanci e della contabilità, del passivo accertato in 9.485.538.407 quasi interamente composto da crediti vantati dalle banche, dell’attivo realizzato pari a L. 5.466.405.606, suscettibile di incremento per effetto della pendenza di 22 azioni revocatorie di altrettanti contratti di compravendita immobiliare, esso poteva essere determinato in via equitativa in 4 miliardi, pari come s’è detto, ad Euro 2.065.000.

Avverso la sentenza ricorreva per cassazione il M. articolando otto motivi. Proponevano ricorso incidentale il P., af­fidato a sette motivi, ed il V. con quattro motivi. Al ricorso principale ed a quelli incidentali resisteva con separati controricorsi il Fallimento, mentre il D. non svolgeva attività di­fensiva.

Depositavano memoria ex art. 378 c.p.c., tutte le parti ad eccezione del P.

 

MOTIVI DELLA DECISIONE

 

  1. Va anzitutto dato atto che è stata disposta all’udienza la riunione dei ricorsiexart. 335 c.p.c.

Con il primo motivo del ricorso principale e, rispettivamente, del ricorso incidentale sia il M. che il P. hanno dedotto violazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4, in relazione al­l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, e nullità della sentenza im­pugnata per l’omessa esposizione dello svolgimento del pro­cesso, che non consentirebbe a questa Corte di verificare l’iter logico seguito dal giudice d’appello in relazione alle eccezioni e difese prospettate dalle parti.

Il motivo non è fondato.

È principio costante nella giurisprudenza di questa Corte che la mancata esposizione dello svolgimento del processo e dei fatti rilevanti di causa e l’estrema concisione della motivazione in diritto danno luogo a nullità della sentenza allorquando rendono impossibile l’individuazione del “thema decidendum” e delle ragioni che stanno a fondamento del dispositivo (Cass. 3.4.1999, n. 3282; Cass. 27.7.2006, n. 3282). Nel caso in esame la sentenza in esame, pur avendo riportato in termini stringati i fatti processuali, ha poi dato conto in sede di motivazione delle domande, eccezioni e difese delle parti e dei motivi d’im­pugnazione, sì che il denunciato vizio non sussiste.

  1. Occorre ora esaminare il secondo motivo del ricorso incidentale del P. con cui questi deduce violazione dell’art. 50bisquater c.p.c., in relazione all’art. 161 c.p.c., nonché violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 2, 3 e 4.

Rileva il ricorrente che in primo grado il giudizio, originariamente trattato in sede collegiale avanti al giudice istruttore, era stato poi assegnato al GOA Dott. S. che il 13.1.1999 aveva tenuto l’udienza di precisazione delle conclusioni, pronunciando poi ordinanza con cui, rilevato che la controversia rientrava tra quelle previste dall’art. 48 ord. giud. e che non tutte le parti erano state presenti al­l’udienza, rimetteva la causa al Presidente del Tribunale per gli opportuni provvedimenti. Con provvedimento di quest’ultimo veniva fissata udienza avanti al giudice istruttore e la causa veniva successivamente trattenuta in decisione in sede collegiale.

Il motivo, con cui il ricorrente incidentale ripropone una questione già dedotta in primo grado ed in sede di appello, non è fondato.

Come risulta dall’esposizione della vicenda processuale, il GOA cui è stato assegnato il processo, non ha assunto alcun provvedimento a carattere decisorio e neppure istruttorio, tale da influire sull’esito del giudizio. Egli si è infatti limitato a rilevare che la causa doveva essere trattata dal tribunale in composizione collegiale ed a rimetterla al Presidente del Tribunale per la riassegnazione ad altra sezione che, diversamente dalla sezione stralcio, istituita presso i tribunali dalla L. 22 luglio 1997, n. 276, per la definizione delle cause che non presentino riserva di collegialità, potesse provvedere alla trattazione in forma collegiale. Il Presidente del Tribunale ha successivamente provveduto alla riassegnazione del giudizio, che è stato quindi rimesso al giudice istruttore e, precisate le conclusioni avanti a quest’ultimo, è stato successivamente deciso dal Collegio.

Nella sostanza l’iter processuale è stato conforme a quello previsto dall’abrogato art. 274 bis c.p.c., comma 2, ora art. 281 octies c.p.c., secondo il quale il giudice, che rilevi che una causa, riservata per la decisione davanti a sé in funzione di giudice monocratico, deve essere decisa dal tribunale in composizione collegiale, provvede alla rimessione della causa al collegio a mente degli artt. 187, 188 e 189 c.p.c. Nella specie la variazione dallo schema delineato dalla norma è dipesa dal fatto che presso la sezione stralcio non era possibile la trattazione in forma collegiale, sì che il giudice monocratico, rilevato che la causa doveva essere decisa dal tribunale in composizione collegiale, ha dovuto rimetterla al presidente del tribunale per la riassegnazione ad altra sezione, diversa dalla sezione stralcio, presso la quale tale forma di trattazione fosse possibile.

L’assegnazione della causa al giudice monocratico non ha dunque in sostanza comportato alcuna deroga al rito collegiale previsto dal legislatore all’art. 48, n. 7, ord. giud., nel testo vigente anteriormente al D.Lgs. 19 febbraio 1998, n. 51, sì che la lamentata nullità della sentenza impugnata non sussiste.

  1. Occorre ora esaminare il primo motivo del ricorso incidentale del V. nella parte in cui questi deduce violazione della legge fall., art. 146, e dei principi e norme che disciplinano il potere degli organi della procedura fallimentare, oltre che degli artt. 2392 e 2393 c.c., e dei principi e norme che disciplinano la responsabilità dell’amministratore di fatto, dell’art. 2697 c.c., e dei principi e norme che disciplinano l’onere della prova, dei principi e norme che disciplinano la proponibilità dell’azione, nonché difetto e contraddittorietà della motivazione. Lamenta il ricorrente che nei provvedimenti con cui il G.D. del Fallimento ha autorizzato l’esperimento dell’azione di responsabilità nei confronti degli ex amministratori di Mareblu s.r.l., provvedimenti in data (omissis) e (omissis), non vi sarebbe alcuna indicazione del parere del comitato dei creditori, che deve essere sentito a pena di improponibilità ed improcedibilità della domanda.

Deduce inoltre che l’autorizzazione del G.D. sarebbe stata concessa su un’istanza del curatore, già integrata su invito dello stesso giudice delegato, in cui non sarebbe stato indicato che il V. avrebbe svolto funzioni di amministratore di fatto ed in cui non sarebbero stati indicati i fatti posti a fondamento dell’asserita responsabilità del ricorrente e l’incidenza di tali fatti sul danno lamentato dalla curatela. Di qui l’improponibilità della domanda, dedotta anche in sede di appello, rispetto al quale la Corte di merito si sarebbe limitata a dar atto che il parere del comitato dei creditori, prescritto dalla legge fall., art. 146, risultava dal provvedimento autorizzativo del G.D., senza verificarne in concreto l’esistenza, e che i fatti addebitati al V. erano stati adeguatamente specificati nella sua istanza dal curatore, senza considerare che non erano state dedotte circostanze specifiche e che non era stato precisato che il V. veniva convenuto in giudizio quale amministratore di fatto.

Il motivo è infondato.

Questa corte ha già avuto modo di affermare, anche con riferimento all’azione di responsabilità legge fall., ex art. 146, il principio che i vizi relativi alla procedura di autorizzazione del curatore del fallimento al compimento di atti negoziali ed ad agire in giudizio, così come anche i vizi inerenti alla procedura di preventiva audizione del comitato dei creditori, non possono essere fatti valere mediante una diretta impugnativa in sede contenziosa dell’atto posto in essere dal curatore, ma sono deducibili soltanto nel­l’am­bito della procedura fallimentare, con reclamo avanti al tribunale fallimentare (Cass. 9.3.1999, n. 2730 ma, in motivazione, già Cass. 14.7.1987, n. 6121). Si è infatti affermato che in tema di azione di responsabilità nei confronti di amministratori e sindaci, per il cui esercizio da parte del curatore fallimentare la legge fall., art. 146, richiede che sia sentito il comitato dei creditori, i vizi inerenti alla procedura di preventiva audizione del comitato dei creditori non possono essere fatti valere mediante una diretta impugnativa in sede contenziosa dell’atto posto in essere dal curatore, ma sono deducibili soltanto nell’ambito della procedura fallimentare, con reclamo avanti al tribunale fallimentare (Cass. 22.10.2004, n. 20637). Conseguentemente, la questione se il provvedimento di autorizzazione sia stato preceduto dal parere del comitato dei creditori e se l’istan­za del curatore indicasse in termini sufficientemente specifici i fatti addebitati al V. non può essere esaminata in questa sede.

  1. Il secondo motivo del ricorso principale, il terzo motivo del ricorso incidentale del P. ed il secondo motivo del ricorso incidentale del V. deducono violazione della leggefall., art.146, in relazione agli artt. 2393-2394, 1218, 1223, 2935 e 2949 c.c., nonché difetto e contraddittorietà del­la motivazione, denunciando il V. anche violazione del­l’art. 2043 c.c., e dei principi e norme che disciplinano la responsabilità extracontrattuale dell’amministratore di fatto e dell’art. 2697 c.c., e dei principi e norme che disciplinano l’onere probatorio.

Osserva in particolare il M. che la Corte di appello ha affermato, sulla scorta della giurisprudenza di questa Corte, che la prescrizione decorre dal momento in cui è ostensibile ai terzi lo stato d’insufficienza patrimoniale della società, situazione che può verificarsi anche prima che sia dichiarato il fallimento, fermo restando che l’onere della pro­va della decorrenza della prescrizione è a carico di chi la eccepisce.

Nel caso in esame i giudici di appello hanno ritenuto che il M. fosse responsabile per aver concesso ipoteca in favore delle banche su parte degli immobili di proprietà della società fallita in data (omissis). Secondo il ricorrente la Corte di merito avrebbe omesso di considerare che la pubblicità della garanzia ipotecaria discendente dalla sua iscrizione comportava che già nel (omissis) lo stato di squilibrio patrimoniale della società fallita (la concessione del­l’ipoteca era stata considerata dai giudici fonte di aggravio della già compromessa situazione patrimoniale) poteva ri­tenersi noto ai terzi, ed in particolare alle banche che avevano finanziato Mareblu e che erano beneficiarle del­l’i­po­teca. Aggiunge il M. che anche il bilancio 1987, approvato dall’assemblea del 15.6.1988 e recante perdite per oltre L. 755 milioni, era idoneo a dimostrare l’insufficienza patrimoniale della società fallita.

Aggiunge il P. nel suo ricorso incidentale che, oltre alla concessione d’ipoteca, occorreva guardare alla transazione Mareblu s.r.l./B.N.A. ed altri con garanzia Pa.f.im.co. Tale transazione era diretta a comporre l’insolvenza della società fallita ed era pertanto idonea ad evidenziare lo stato di insufficienza patrimoniale. Osserva ancora il ricorrente che le perdite di Mareblu nel 1987 e 1988 assommavano ad oltre L. 1,3 miliardi a fronte di un capitale di soli 90 milioni. Tale sproporzione tra capitale e perdite comportava che l’insufficienza patrimoniale fosse conclamata.

Rileva il V. che il danno, inteso come insufficienza delle passività sulle attività, doveva essere provato dalla curatela fallimentare e non dal ricorrente incidentale, anche perché egli era convenuto in responsabilità quale amministratore di fatto e dunque a titolo di responsabilità aquiliana.

I motivi non sono fondati.

Questa Corte ha affermato che l’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori e dei sindaci di una società, esperibile, ex art. 2394 c.c., dai creditori sociali (ovvero, come nella specie, dal curatore fallimentare della so­cietà poi fallita, legge fall., ex art. 146), è soggetta a prescrizione quinquennale con decorso non già dalla commissione dei fatti integrativi di tale responsabilità, bensì dal (successivo) momento dell’insufficienza del patrimonio sociale al soddisfacimento dei crediti (art. 2394 c.c., comma 2, che subordina la proponibilità dell’azione al manifestarsi dell’evento dannoso), momento che, non coincidendo con il determinarsi dello stato di insolvenza, ben può risultare anteriore o posteriore alla dichiarazione di fallimento. L’o­ne­re di provare che l’insufficienza del patrimonio sociale si è manifestata ed è divenuta conoscibile prima della dichiarazione di fallimento spetta, poi, al soggetto (amministratore o sindaco) che, convenuto in giudizio a seguito dell’e­spe­rimento della detta azione di responsabilità, ne eccepisca l’avvenuta prescrizione (Cass. 18.1.2005, n. 941; Cass. 28.5.1998, n. 5287).

La responsabilità degli amministratori e dei sindaci della società verso i creditori si ricollega a un’insufficienza del patrimonio sociale, imputabile a colpa degli stessi. Per l’ac­certamento del dies a quo del termine di prescrizione, che decorre dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere (art. 2935 c.c.), deve tenersi conto dell’art. 2394 c.c., com­ma 2, per il quale l’azione può essere proposta dai creditori quando il patrimonio sociale risulta insufficiente al soddisfacimento dei loro crediti. La nozione di insufficienza patrimoniale si desume dalla lettera dell’art. 2394 c.c., ed è comunemente individuata nella eccedenza delle passività sulle attività, ovverosia in una situazione in cui l’attivo sociale, raffrontato ai debiti della società, è insufficiente al loro soddisfacimento.

Si è sottolineato che tale situazione non coincide con la perdita integrale del capitale sociale, dal momento che que­st’ultima evenienza può verificarsi anche quando vi è un pareggio tra attivo e passivo e, quindi, tutti i creditori potrebbero trovare di che soddisfarsi nel patrimonio della società. D’altra parte l’insufficienza patrimoniale è una con­dizione più grave e definitiva della mera insolvenza, indicata dalla legge fall., art. 5, come incapacità di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni, potendosi una società trovare nell’impossibilità di far fronte ai propri debiti ancorché il patrimonio sia integro, ovvero, all’opposto, presentare un’eccedenza del passivo sull’attivo, pur permanendo nelle condizioni di liquidità e di credito richieste per continuare ad operare.

Il momento in cui si verifica l’insufficienza del patrimonio, dunque, non coincidendo con il determinarsi dello stato di insolvenza, può essere anteriore o posteriore alla dichiarazione di fallimento o all’assoggettamento dell’im­pre­sa alla liquidazione coatta amministrativa (per tutte, cfr. Cass. 7.11.1997, n. 10937).

L’orientamento da tempo affermatosi nella giurisprudenza, e largamente seguito in dottrina, ritiene che la prescrizione dell’azione ex art. 2394 c.c., debba iniziare a decorrere dal momento in cui l’insufficienza patrimoniale divenga oggettivamente conoscibile dai creditori (cfr. Cass. 6.10.1981, n. 5241; Cass. 7.11.1997, n. 10937 cit.; Cass. 28.5.1998, n. 5287; Cass. 5.7.2002, n. 9815; Cass. 18.1.2005, n. 941).

Con tale interpretazione il termine “risultare contenuto nella norma ora citata (“l’azione può essere proposta dai creditori quando il patrimonio sociale risulta insufficiente al soddisfacimento dei loro crediti”) viene letto in chiave oggettiva, come sinonimo di “manifestarsi”, e ciò essenzialmente per la ragione che, fino a quando i creditori non sono in grado di venire a conoscenza della situazione da cui potrebbe derivare loro pregiudizio, essi non sono nella condizione di esperire l’azione posta a loro tutela e non avrebbe quindi senso far decorrere la prescrizione. È, in altri termini, più appropriato, rispetto al significato proprio delle parole, ritenere che la manifestazione della insufficienza patrimoniale richieda soltanto una situazione oggettivamente conoscibile.

Nell’ambito di tale interpretazione, il nodo problematico riguarda la ricerca di criteri e parametri di riferimento che consentano l’esatta determinazione del momento in cui l’insufficienza patrimoniale può manifestarsi. A questo scopo un primo, comune punto di partenza è costituito dal costante riferimento al momento della dichiarazione di fallimento: essendo, infatti, nella pratica il fallimento la sede normale in cui l’azione contemplata dall’art. 2394 c.c., viene esercitata, torna utile servirsi di tale momento come primo possibile punto di riferimento rispetto al quale collocare nel tempo la manifestazione dell’insufficienza pa­trimoniale. Quindi, il punto di emersione della situazione di insufficienza patrimoniale può coincidere con la data di dichiarazione del fallimento: con la sentenza dichiarativa di fallimento può risultare conoscibile per la prima volta il preesistente stato di eccedenza delle passività in cui si trova la società. In questo caso, dunque, la prescrizione decorrerebbe dalla medesima data. In tale prospettiva, in alcune sentenze si è espressamente affermata una presunzione (di carattere, comunque, relativo) di coincidenza tra data di dichiarazione di fallimento e giorno di inizio della prescrizione dell’azione dei creditori, salva la possibilità di dare prova dell’emersione dello stato di insufficienza patrimoniale in un momento diverso. Come si è sopra sottolineato, infatti, la predetta coincidenza non è affatto automatica, avendo la dichiarazione del Giudice ad oggetto non lo stato di insufficienza patrimoniale, ma la diversa situazione dell’insolvenza. Altrettanto semplice è l’ipotesi in cui l’insufficienza patrimoniale si manifesti successivamente alla sentenza dichiarativa del fallimento; lo sbilancio patrimoniale negativo potrebbe essere scoperto soltanto nel corso della procedura fallimentare, o, addirittura, potrebbe verificarsi (e manifestarsi) proprio durante le operazioni di realizzo delle poste attive del patrimonio (le quali, nel corso della procedura, potrebbero perdere drasticamente di valore in virtù della mutata prospettiva dell’im­presa). Più problematica è l’individuazione del momento di esteriorizzazione dell’insufficienza patrimoniale antecedente il fallimento.

Questa Corte ha recentemente affermato (Cass. 25.7.2008, n. 20476) che un bilancio di esercizio, che segnali una situazione patrimoniale in negativo, è idoneo a rendere manifesto lo stato di incapienza patrimoniale. È noto, infatti, che il bilancio ha natura pubblica e che, a seguito del deposito, consente ai terzi di conoscere la consistenza patrimoniale della società. Altrettanto indubbia è la sua opponibilità erga omnes e la capacità di operatori, anche non particolarmente qualificati, di leggerlo adeguatamente o comunque di evincerne uno sbilancio del patrimonio netto. A tale proposito questa Corte ha rilevato che l’insuffi­cienza patrimoniale costituisce una situazione oggettivamente conoscibile, che si verifica, oltre che nel­l’i­po­tesi di infruttuosa esecuzione da parte di tutti i creditori e di proposte di concordato giudiziale e stragiudiziale remissorio, anche con riferimento alle risultanze del bilancio finale di liquidazione e del bilancio di esercizio, quando non vi siano poste suscettibili di sottovalutazione (Cass. 5.7.2002, n. 9815).

La Corte d’appello ha affermato che il M. ed il P. si erano limitati a dedurre che l’insufficienza patrimoniale si era manifestata già al momento dell’approvazione del bilancio al (omissis), avvenuta come s’è visto con l’assemblea del giugno 1988, senza con ciò assolvere l’onere probatorio su di essi gravante perché da tale bilancio emergeva soltanto la perdita del capitale sociale, circostanza questa che, come s’è detto, non implica necessariamente uno stato d’in­suf­ficienza patrimoniale.

In senso contrario obietta il M. che le perdite risultanti dai bilanci 1986 e 1987 ammontavano ad oltre 776 milioni, pari al 900% del capitale sociale (90 milioni), sì che era verosimile la sussistenza dell’insufficienza patrimoniale. La critica all’argomentazione della Corte d’appello non è però stringente. Il ricorrente infatti, così come il P. che ha svolto rilievi analoghi, non formula precise argomentazioni in ordine alle risultanze complessive del bilancio ed all’am­mon­tare del patrimonio netto da esso emergente, sì che la censura rimane generica, inidonea comunque ad evidenziare un vizio d’illogicità della sentenza impugnata.

A non diverse conclusioni deve addivenirsi per quanto concerne l’atto di concessione d’ipoteca in favore delle ban­che posto in essere dal M. e da lui menzionato come atto idoneo a manifestare ai terzi creditori lo stato d’insuf­fi­cienza patrimoniale della società fallita.

La concessione di tale garanzia è stata addebitata dalla curatela al M. quale atto di mala gestio perché era stata rilasciata per circa 6 miliardi a favore delle banche a garanzia di debiti pregressi ed era stata iscritta sugli immobili di proprietà della società, che in tal modo non avrebbe potuto attuare la sua attività di compravendita immobiliare. Ora è evidente che di per se stessa la concessione della garanzia a fronte di debiti pregressi non incideva sul patrimonio netto della società, non determinando variazioni né nel­l’ammontare dell’attivo né del passivo, posto che i debiti garantiti erano anteriori alla concessione della garanzia.

Per quanto concerne la transazione Pa.f.im.co stipulata dal P. va invece sottolineato che per questa parte il motivo di ricorso proposto da quest’ultimo è inammissibile. Se è vero, infatti, che una transazione che si traduca in un concordato stragiudiziale remissorio può essere idonea ad evidenziare lo stato d’insufficienza patrimoniale della società, tale conclusione non è automatica. Il concordato remissorio è infatti diretto a porre rimedio allo stato d’insolvenza, non allo stato d’insufficienza patrimoniale, sì che le ragioni già esposte che impediscono di ritenere che l’insolvenza sia sinonimo d’insufficienza patrimoniale, escludono anche che la semplice esistenza di una proposta di concordato remissorio sia idonea ad evidenziare l’insufficienza patrimoniale.

In tali condizioni era onere del ricorrente incidentale, in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso, riportare il contenuto della transazione evidenziandone gli effetti sul patrimonio netto della società per mettere questa Corte in condizione di valutare adeguatamente la censura formulata, il mancato assolvimento di tale onere rende il motivo inammissibile per il profilo ora indicato.

  1. Con il quarto motivo il ricorrente principale lamenta violazione degli artt. 113, 115 e 116 c.p.c., in relazione al­l’effettiva esistenza di irregolarità contabili durante la sua gestione nonché difetto e contraddittorietà di motivazione. Si duole chela Corted’appello abbia affermato che anche durante il periodo in cui egli è stato in carica vi erano state una sistematica inosservanza delle norme di legge in tema di contabilità, la violazione dei principi di chiarezza e precisione nella redazione dei bilanci, l’errata indicazione e registrazione dei fatti di gestione e la disordinata tenuta della contabilità. Osserva che la Corte di merito si è richia­mata apoditticamente alla sentenza di primo grado, che peraltro aveva riconosciuto che la contabilità era stata correttamente tenuta e non aveva tenuto conto della perizia Ca. redatta in sede penale, cui aveva fatto seguito il proscioglimento del M. da parte del GIP, che aveva dato atto, sulla scorta della perizia penale, che la contabilità era stata tenuta correttamente. Analoghi rilievi sono stati formulati dal P. nel quarto motivo del ricorso incidentale, denunciando violazione degli artt. 1223, 2056, 2697 e 1226 c.c., art. 115 c.p.c., nonché difetto e contraddittorietà di motivazione.

Il motivo non è fondato.

La Corte d’appello ha affermato che tutti gli amministratori si erano resi responsabili della sistematica inosservanza delle norme in tema di redazione dei bilanci, della violazione dei principi di chiarezza e precisione nella loro redazione, dell’errata indicazione e registrazione dei fatti di gestione e della disordinata tenuta della contabilità. in sede di determinazione del danno risarcibile ha aggiunto che la perizia redatta in sede penale dalla Dott.ssa Ca., prodotta dal Fallimento, aveva confermato le conclusioni del c.t.u. Dott. L. in ordine all’inattendibilità dei bilanci e della complessiva contabilità sociale.

Il giudice di merito ha dunque complessivamente considerato tutte le risultanze documentali, si che l’asserzione dei ricorrenti che la perizia redatta in sede penale avrebbe dimostrato che la contabilità era stata regolarmente tenuta si traduce, a tutto concedere, nella deduzione di vizio revocatorio, inammissibile in questa sede.

Né rileva che la Corte di merito non abbia espressamente motivato in ordine alle risultanze che emergevano dalla sentenza di proscioglimento per i fatti di bancarotta emessa dal GIP del Tribunale di Roma, che avrebbe dato atto che la contabilità durante la gestione del M. e del P. era stata regolarmente tenuta. Come affermano gli stessi ricorrenti, infatti, tale sentenza sarebbe stata redatta sulla base delle risultanze della perizia penale, sì che avendo la Corte considerato direttamente tale documento, non rileva che non abbia poi preso in esame le valutazioni di tale perizia effettuate dal giudice penale, non essendo stato neppure allegato che tale sentenza potesse far stato in questo giudizio.

  1. Con il quinto motivo del ricorso principale il ricorrente deduce ancora violazione degli artt. 2446, 2447 e 2697 c.c., in relazione agli obblighi gestori del M. nonché difetto e contraddittorietà della motivazione. Lamenta che i giudici del merito siano caduti nell’errore di ascrivere al M. la violazione dell’obbligo di convocazione dell’assemblea a seguito dell’avvenuta perdita del capitale sociale. Sottolinea che con riferimento al bilancio 1986 la perdita di L. 21.224.293 era inferiore al limite del terzo del capitale, sì che non sussisteva alcun obbligo di convocazione. Per quanto concerne il bilancio 1987, l’assemblea fu tenuta, in ritardo, il 15.6.1988. Le perdite erano state evidenziate ai soci, che peraltro ritennero di rinviarle all’esercizio successivo. Il M. non poteva essere ritenuto responsabile della de­cisione dell’assemblea, mentrela Corted’appello non aveva individuato i danni derivanti dal ritardo nella convocazione, tenuto anche conto che non era emerso che nelle more l’indebitamento fosse aumentato. Ancora la Corte non aveva considerato che era la curatela che doveva provare il nesso di causalità tra le irregolarità contabili ed il danno lamentato.

Analoghi rilievi sono stati formulati dal P. con riguardo al bilancio 1988, approvato dall’assemblea del 15.6.1989, cui il ricorrente incidentale si era presentato dimissionario venendo sostituito nella carica.

Le censure non sono fondate.

Gli artt. 2446 e 2447 c.c., nel testo vigente prima della riforma societaria del 2003, stabilivano, con una disciplina sostanzialmente rimasta immutata, che qualora risultasse che il capitale era diminuito di oltre un terzo in conseguenza di perdite, gli amministratori dovevano senza indugio convocare l’assemblea per gli opportuni provvedimenti. All’assemblea doveva essere sottoposta una relazio­ne sulla situazione patrimoniale della società, con le osser­vazioni del collegio sindacale. Se entro l’esercizio successivo la perdita non risultava diminuita a meno di un terzo, l’assemblea di approvazione del bilancio di tale esercizio doveva ridurre il capitale in proporzione delle perdite accertate. In mancanza gli amministratori e i sindaci dovevano chiedere al tribunale che venisse disposta la riduzione del capitale in ragione delle perdite risultanti dal bilancio. Il tribunale provvedeva, sentito il pubblico ministero, mediante decreto reclamabile alla Corte d’appello, che do­veva essere iscritto nel registro delle imprese a cura degli amministratori.

Nel caso poi in cui la perdita avesse comportato la riduzione del capitale sociale al disotto del minimo legale, l’art. 2447 c.c., prevedeva che gli amministratori dovessero senza indugio convocare l’assemblea per deliberare la riduzione del capitale ed il contemporaneo aumento del medesimo ad una cifra non inferiore a tale minimo ovvero la trasformazione della società.

La giurisprudenza di questa Corte ha costantemente affermato, nel vigore della disciplina anteriore alla riforma del 2003, che nell’ipotesi prevista dall’art. 2448 cod. civ., n. 4 (riduzione del capitale al di sotto del minimo legale), lo scioglimento della società si produce automaticamente ed immediatamente, salvo il verificarsi della condizione risolutiva costituita dalla reintegrazione del capitale o della trasformazione della società ai sensi dell’art. 2447 cod. civ., in quanto, con il verificarsi dell’anzidetta condizione, ri­solutiva, viene meno “ex tunc” lo scioglimento della società (Cass. 5.5.1995, n. 4923; Cass. 29.10.1994, n. 8928; Cass. 28.6.1980, n. 4089). Ne deriva che la mancata adozione da parte dell’assemblea dei provvedimenti di azzeramento e ripristino del capitale sociale o di trasformazione della società in altro tipo, compatibile con la situazione determinatasi, non esonera gli amministratori da responsabilità, responsabilità che, come ha evidenziato la Corte d’appello, segue al proseguimento dell’attività d’impresa in violazione del divieto di nuove operazioni sancito dall’art. 2449 c.c. Il P. ha ancora dedotto (quinto motivo) che egli aveva concluso un accordo transattivo con le banche comportante una sopravvenienza attiva di circa 2,5 miliardi, che avrebbe sostanzialmente abbattuto le perdite, sì che se gli amministratori che gli erano succeduti avessero dato esecuzione all’accordo, provvedendo al pagamento rateale del debito verso le banche, non si sarebbe verificato alcun pregiudizio conseguente alla mancata adozione dei provvedimenti ex artt. 2446 e 2447 c.c.

Tale ultima censura è chiaramente inammissibile risolvendosi in una valutazione delle circostanze di fatto contraria alle conclusioni cui è pervenuto il giudice di appello, che non può trovare ingresso in questa sede di legittimità.

  1. Con il sesto motivo del ricorso principale il M. deduce ulteriore violazione degli artt. 2392 e 2394 c.c., in relazione all’operazione di concessione dell’ipoteca sugli immobili sociali nonché difetto e contraddittorietà della motivazione. Lamenta chela Corted’appello abbia ritenuto che l’ipoteca concessa il (omissis) a garanzia dei crediti delle banche per oltre sei miliardi fosse un’operazione imprudente, volta a ritardare illecitamente la dichiarazione di fal­li­mento. Al contrario si tratterebbe di operazione che non avrebbe accresciuto il passivo (trattandosi di garanzia concessa su crediti bancari già in essere) e non avrebbe diminuito l’attivo e quindi non avrebbe arrecato pregiudizio al patrimonio sociale.

La censura non è fondata.

Va infatti sottolineato che, come emerge dalla stessa narrativa del ricorso, l’operazione di concessione dell’ipoteca si è tradotta nella creazione di un vincolo su una parte rilevante del patrimonio immobiliare della società fallita, con diretta lesione della garanzia dei creditori sul patrimonio stesso. Va sottolineato che lo stesso ricorrente non allega che per effetto del consolidamento del debito bancario fossero state ripristinate le condizioni di liquidità della società, sì che l’affermazione dei giudici di appello che l’ope­razione in questione sia stata gravemente imprudente, posta in essere quindi con colpa grave ben oltre i limiti della discrezionalità concessa agli amministratori dalla business judgement rule, appare adeguatamente motivata. Va infatti ricordato che questa Corte ha affermato che, se all’am­mi­nistratore di una società non può essere imputato a titolo di responsabilità ex art. 2392 cod. civ., di aver compiuto scelte inopportune dal punto di vista economico, atteso che una tale valutazione attiene alla discrezionalità imprenditoriale e non può pertanto rilevare come fonte di responsabilità contrattuale nei confronti della società, rima­ne sindacabile la diligenza dell’amministratore nel­l’a­dem­pimento del proprio mandato e quindi l’omis­sione delle cautele e verifiche che il dovere di diligenza impone, prima tra tutte la tutela dei diritti dei creditori (Cass. 28.4.1997, n. 3652).

  1. Con il settimo motivo di ricorso il M. deduce ancora violazione degli artt. 2394 e 2697 c.c., in relazione alla prova della insussistenza dello squilibrio patrimoniale durante la gestione del M. stesso nonché difetto e contraddittorietà di motivazione. Si duole che la Corte abbia recepito le risultanze della c.t.u. esperita in primo grado e non abbia considerato che non sussisteva lo stato di squilibrio patrimoniale, che non sarebbe stato riscontrato né dalla c.t.u. né dalla perizia penale. Aggiunge che il valore dei beni sociali era superiore a L. 10 miliardi, sì che il valore degli immobili ipotecati era superiore al credito garantito e nel 1989 era stato possibile ai nuovi amministratori V. – D. ottenere un mutuo per 900 milioni con iscrizione ipotecaria di secondo grado. La Corte non avrebbe tenuto conto delle produzioni effettuate dal M. in appello da cui risultava che nel 1988 Mareblu era titolare di un rilevante patrimonio immobiliare.

La censura è inammissibile.

Il ricorrente propone infatti a questa Corte un nuovo esame delle risultanze processuali per pervenire ad un risultato difforme da quello raggiunto dai giudici di merito. La Corte d’appello del resto si è fondata sul fatto, in sé pacifico, che il M. aveva posto in essere operazioni gravemente imprudenti, quale la già ricordata concessione d’ipoteca, aveva posto in essere nuove operazioni nonostante l’avve­nu­ta perdita del capitale sociale, aveva convocato in ritardo l’assemblea per gli adempimenti di cui all’art. 2446 c.c.

Va poi aggiunto che la valutazione delle risultanze delle prove, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice di merito, il quale è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove che ritenga più attendibili, senza essere tenuto ad un’esplicita confutazione degli altri elementi pro­batori non accolti, anche se allegati dalle parti (cfr. ex multis Cass. 1.9.2003, n. 12747).

  1. Con il settimo motivo del ricorso incidentale il P. ha dedotto omissione di motivazione in ordine al mancato accoglimento da parte della Corte d’appello delle istanze istruttorie avanzate dal ricorrente già in primo grado e reiterate in sede di gravame. Si lamenta chela Cortenon abbia motivato in ordine alle prove testimoniali dedotte dirette a dimostrare che il libro giornale era tenuto, all’epoca del­l’amministrazione del P., presso lo studio di un professionista di fiducia del M., e che certe operazioni intervenute in data (omissis) erano state compiute e registrate su ordine di quest’ultimo.

Ancora il P. si duole che la Corte non abbia risposto in ordine alla richiesta di integrazione della c.t.u..

La censura è inammissibile non avendo il ricorrente riportato il contenuto delle istanze istruttorie proposte e, as­seritamente, non esaminate dalla Corte di merito, con ciò non soddisfacendo il requisito di autosufficienza del ricorso.

  1. Venendo ora alla posizione del V. occorre esaminare il terzo motivo del ricorso incidentale di quest’ultimo, con cui è stata dedotta la violazione dei principi e delle norme che regolano lo status di amministratore di fatto, dell’art. 2697 c.c., e dei principi e norme che disciplinano l’onere probatorio, anche con particolare riferimento all’istituto della c.t.u. che non può esonerare le parti dall’onere della prova su di esse gravante, dei principi che regolano il giudizio di appello e che impongono al giudice l’esame delle specifiche doglianze delle parti, dell’art. 112 c.p.c., degli artt. 2392 e 2393 c.c., e dei principi e norme che regolano la responsabilità degli amministratori nonché, infine omessa e contraddittoria motivazione.

Lamenta il ricorrente che la Corte d’appello nel ritenere che il V. avesse assunto la qualità di amministratore di fatto non abbia risposto alla deduzione con cui questi sosteneva che l’attività da lui svolta era giustificata dalla procura institoria rilasciatagli dall’amministratore di diritto D., non potendosi condividere la tesi dei giudici di merito secondo la quale proprio il rilascio di tale procura costituirebbe serio indizio della qualità di amministratore di fatto.

In realtà il V. avrebbe dimostrato, senza che la Corte di merito ne tenesse conto, che le attività da lui svolte rientravano appieno nelle competenze proprie del mandatario, quale egli era in forza della già ricordata procura. La Corte non avrebbe preso in esame le specifiche deduzioni in tal senso contenute nell’atto di appello ed i documenti prodotti, senza considerare, come già il Tribunale, che la c.t.u. esperita non poteva costituire mezzo di prova e non assolveva la curatela dall’onere probatorio su di essa gravante.

La censura non è fondata.

La Corte d’appello non è pervenuta a ritenere il V. amministratore di fatto della fallita Mareblu sulla base della sola circostanza dell’avvenuto rilascio da parte del D. della procura institoria, ma ha preso le mosse dalle dichiarazioni rese per iscritto da quest’ultimo al curatore. Il D. ha riferito che, già dipendente di altra società del V., aveva accettato nel (omissis) di divenire amministratore di ben sette società, tra cui la Mareblu. In attuazione di tale accordo egli aveva rilasciato la procura institoria al V., su invito di que­st’ultimo. La procura era stata utilizzata dal V. per gestire la società senza che egli venisse informato di quanto questi andava facendo. La Corte d’appello ha sottolineato che il V. non aveva smentito le affermazioni del D. e che esse tro­vavano conferma nella convenzione (omissis) tra Pa.f.im.co, di cui era amministratore il P., ed il V., con riferimento ad una proposta di concordato che doveva riguardare non soltanto la Mareblu, ma anche altre due società, convenzione in cui si dava atto che “... l’intervento della Pafimco avviene onde non creare turbative con gli istituti di credito e quindi a puro titolo di cortesia nei confronti del sig. V.A. il quale è l’unico e reale interessato alle sorti delle società sopra indicate ...”.

La Corte d’appello ha poi dato atto che le attività gestorie poste in essere dal V. (vendita e locazione di immobili, trattative con le banche creditrici e con terzi per proposte di concordato, garanzia personale per i debiti sociali) esulavano dal rapporto di mandato, anche perché non risultava alcuna attività d’indirizzo e controllo da parte dell’am­mi­nistratore di diritto D.

In sostanza l’accordo Pa.f.im.co, in cui si dava atto che la Mareblu era cosa del V., aveva trovato attuazione sia con il rilascio della procura institoria da parte del D., sia con il compimento di una complessa attività gestoria da parte del V., che non poteva rientrare nei limiti della semplice attuazione del mandato sia perché il V. aveva anche rilasciato garanzie personali per i debiti sociali sia perché mai il D. aveva esercitato alcun controllo sulla gestione del presunto mandatario.

Questa Corte ha ritenuto che è sufficiente, ai fini della corretta individuazione della sussistenza della figura del­l’am­ministratore di fatto, l’accertamento dell’avvenuto inserimento nella gestione dell’impresa, desumibile dalle direttive impartite e dal condizionamento delle scelte operative della società, anche in assenza di una qualsivoglia investitura, ancorché irregolare o implicita, da parte della so­cietà stessa, purché le funzioni gestorie svolte in via di fatto abbiano carattere sistematico e non si esauriscano, quindi, nel compimento di alcuni atti di natura eterogenea e ed occasionale (Cass. 12.3.2008, n. 6719; Cass. 14.9.1999, n. 9795; Cass. 6.3.1999, n. 1925).

Nel caso in esame la Corte di appello ha adeguatamente motivato l’inserimento del V. nella gestione dell’impresa, che, come risultava dall’accordo Pa.f.im.co di cui s’è detto, era in sostanza cosa sua, tanto che il D., amministratore di diritto, aveva ricevuto la nomina su proposta dello stesso V. La procura institoria rilasciata dal D. al V. rappresentava pertanto soltanto lo strumento di cui questi si avvaleva per poter gestire l’impresa con pienezza di poteri, tanto da non ricevere mai istruzioni dal preponente, che si era del tutto disinteressato della gestione, attuata a tutto campo dal presunto mandatario. E per altro verso, ha sottolineato la Corte, tanto poco l’attività del V. rientrava nello schema del mandato che questi si era addirittura risolto ad assumere obbligazioni dirette di garanzia dei debiti sociali, con ciò dimostrando che la procura era veramente soltanto un nudum nomen. È poi appena il caso di aggiungere che la Corte di appello non si è fondata sulle risultanze della c.t.u., ma sui documenti prodotti, in particolare sulla convenzione Pa.f.im.co e sulle dichiarazioni rese al curatore del Fallimento Mareblu dal D., non smentite dallo stesso V.. Quanto al rilievo che la Corted’appello non avrebbe risposto alle specifiche deduzioni formulate dal V. nell’atto di appello con riferimento agli atti gestori da lui compiuti, è sufficiente osservare che il ricorrente ha riportato tali deduzioni in termini del tutto generici, si che sotto questo profilo il motivo non soddisfa il principio di autosufficienza ed è pertanto inammissibile.

  1. Con il terzo motivo del ricorso principale il M. lamenta violazione dell’art. 2392 c.c., comma 3, perché i giudici di appello avrebbero ignorato che la responsabilità solidale degli amministratori, nel caso di amministratori succedutisi nella carica, sussiste soltanto quando il fatto che ha generato l’illecito sia continuato nel tempo. Contesta che gli siano stati addebitati il mutuo concesso alla Mareblu nel 1989, quando già era in carica il P., e le vendite immobiliari poste in essere dal V., oltre che le perdite verificatesi successivamente alla cessazione dalla carica.

La Corte d’appello ha invece ritenuto che la natura delle violazione ascritte renda difficile la separazione delle responsabilità dei singoli amministratori, con ciò trascurando che la curatela aveva dedotto specifiche violazioni, proprie di ogni amministratore e che eventuali difficoltà nella determinazione del danno non potevano derogare al principio della separata responsabilità di ogni amministratore per i soli fatti relativi al periodo in cui è stato in carica.

Analogo rilievo è formulato, sia pur in termini più generici, dal P. nel terzo motivo del ricorso incidentale, ed è poi compiutamente riproposto nel quinto motivo.

La censura non è fondata.

La Corte d’appello ha motivato la ritenuta responsabilità solidale degli amministratori sull’accertata circostanza, pacifica in causa, che già durante la gestione M., la società aveva perso il capitale sociale, come risulta documentato dal bilancio al (omissis), senza che sia il M., che il P. e successivamente il V., abbiano provveduto ad adottare i provvedimenti conseguenti al verificarsi di una causa di scioglimento, proseguendo nella gestione della società.

Com’è noto, ai sensi dell’art. 2449 c.c., nel testo in vigore prima della riforma societaria del 2003, applicabile ratione temporis, agli amministratori è fatto divieto di intraprendere nuove operazioni quando si è verificato un fatto che determina lo scioglimento della società. Precisa la norma che, “... contravvenendo a questo divieto, essi assumono responsabilità illimitata e solidale per gli affari intrapresi”. Questa Corte ha precisato che l’art. 2449 c.c., esprime sul piano normativo la coerente conseguenza del fatto che, dopo il verificarsi della causa di scioglimento, il patrimonio sociale non può più considerarsi destinato, qual era in precedenza, alla realizzazione dello scopo sociale, onde gli amministratori non possono più utilizzarlo a tal fine, ma sono abilitati a compiere soltanto quegli atti correlati strumentalmente al diverso fine della liquidazione dei beni, restando ad essi inibito il compimento di nuovi atti d’impresa suscettibili di porre a rischio il diritto dei creditori e degli stessi soci (Cass. 12.6.1997, n. 5275).

Nel caso delle nuove operazioni poste in essere dagli amministratori dopo che si è verificata la perdita del capitale sociale, la violazione dell’art. 2449 c.c., comporta anche violazione dell’obbligo di diligenza stabilito dall’art. 2392 c.c.

Sotto tale profilo la Corte d’appello ha evidenziato gli atti compiuti dai vari amministratori che si sono succeduti nel tempo (la concessione di ipoteca per oltre L. 6 miliardi, da parte del M., l’accensione di un mutuo per oltre 900 milioni da parte del P., gli incassi da vendite e da locazioni pluriennali da parte del V.) concludendo che essi costituivano nel contempo violazione del divieto stabilito dall’art. 2449 c.c., e atti di mala gestio in sé.

In proposito va sottolineato che la responsabilità solidale degli amministratori cui fanno riferimento l’art. 2392 c.c., e, per quanto concerne la particolare fattispecie in esso considerata, l’art. 2449 c.c., vecchio testo, può aver ad oggetto tanto il caso in cui si tratti di amministratori che sono stati contemporaneamente in carica, quanto l’ipotesi in cui essi si siano succeduti nella gestione della società. In tale ultimo caso peraltro occorre, come ha stabilito la giurisprudenza di questa Corte con riferimento alla più generale ipotesi di solidarietà prevista dall’art. 2055 c.c., che il fatto dannoso sia unico. L’unicità del fatto dannoso richiesta dall’art. 2055 c.c., per la legittima predicabilità di una responsabilità solidale tra gli autori dell’illecito deve essere intesa in senso non assoluto, ma relativo al danneggiato, ri­correndo, perciò, tale forma di responsabilità pur se il fatto dannoso sia derivato da più azioni o omissioni, dolose o colpose, costituenti fatti illeciti distinti, ed anche diversi, sempreché le singole azioni od omissioni abbiano concorso in maniera efficiente alla produzione del danno (cfr. ex multis Cass. 8.8.2007, n. 17397; Cass. 9.8.2007, n. 17475; Cass. 6.7.2004, n. 12329).

Nei confronti degli amministratori convenuti in responsabilità, l’unico fatto dannoso può essere identificato nella situazione d’insufficienza patrimoniale in cui è venuta a trovarsi la società fallita per effetto delle plurime condotte di mala gestio poste in essere, in tempi successivi, dai vari amministratori, facendosi riferimento non soltanto alla violazione dell’art. 2449 c.c., ma agli altri episodi individuati dalla Corte d’appello e di cui già si è detto. All’insufficienza patrimoniale si ricollega infatti l’incapacità della società fallita di far fronte alle proprie obbligazioni nei confronti dei creditori sociali e quindi il pregiudizio da essi direttamente subito.

La qualificazione dell’insufficienza patrimoniale quale evento dannoso unico su cui si fonda la comune e solidale responsabilità degli amministratori emerge anche dal disposto dell’art. 2394 c.c., comma 2 (nel testo vigente ratione temporis) che stabilisce che l’azione di responsabilità dei creditori sociali, che confluisce nell’unica azione esperibile dal curatore legge fall., ex art. 146, può essere proposta dai creditori stessi quando “il patrimonio sociale risulti insufficiente al soddisfacimento dei loro crediti”.

La sentenza impugnata ha accertato in fatto che tutti e tre gli ex-amministratori avevano concorso con condotte autonome, ma collegate, a provocare il dissesto di Mareblu. Essa ha infatti stabilito che per effetto delle condotte illegittime del M. e degli altri amministratori che a lui sono succeduti, la società fallita ha perso il capitale sociale, situazione da cui è derivato, vuoi per la mancata adozione dei provvedimenti previsti dalla legge vuoi per il compimento di singoli e specifici atti di mala gestio, lo stato d’in­sufficienza patrimoniale.

In proposito va sottolineato che gli stessi ricorrenti, nel­l’affermare, con riferimento alla decorrenza della prescrizione, che tale stato d’insufficienza patrimoniale si sarebbe determinato prima della dichiarazione di fallimento e sarebbe stato ravvisabile da parte dei terzi creditori già nei bilanci da cui risultava la perdita del capitale sociale, hanno riconosciuto che esso si era verificato.

Non rileva, ai fini della sussistenza della responsabilità solidale, il momento in cui lo stato d’insufficienza patrimoniale si è verificato, ma soltanto il fatto che tale situazione si sia verificata ed il suo carattere lesivo della garanzia patrimoniale dei creditori costituita, ai sensi dell’art. 2740 c.c., dal patrimonio della società. I diversi fatti di mala gestio posti in essere, in tempi diversi, dagli amministratori che si sono via via succeduti nella carica, hanno tutti concorso a determinare tale situazione, che costituisce, come si è detto, l’evento dannoso unico cui segue, secondo i principi generali, la responsabilità solidale di coloro che, con le loro diverse ed autonome condotte tale situazione hanno concorso a determinare.

  1. Restano da esaminare l’ottavo motivo del ricorso M., il sesto del ricorso P. ed il quarto del ricorso V.

Si dolgono i ricorrenti che la Corte di appello, sulla premessa che il danno non poteva essere determinato in misura pari alla differenza tra passivo ed attivo accertato in sede fal­limentare, abbia poi ritenuto di procedere alla liquidazione in via equitativa, con ciò violando l’art. 1226 c.c., che consente tale forma di liquidazione soltanto in caso d’impossibi­lità e non di mera difficoltà dell’accertamento.

Il danno, si assume, andrebbe determinato per ciascuno degli amministratori che si sono susseguiti nella gestione sulla base dei netti patrimoniali via via susseguitisi. La Corte inoltre avrebbe omesso di indicare i criteri seguiti per la determinazione del danno, senza precisare il peso attribuito alle 22 azioni revocatorie ancora pendenti suscettibili di incrementare l’attivo fallimentare e quindi di incidere sul pregiudizio derivante dagli atti di mala gestio.

Aggiunge il V. che la Corte di merito avrebbe tenuto conto di una perizia svolta in sede penale che avrebbe con­ferma­to i risultati della c.t.u., meramente esplorativa e quindi co­me tale affetta da nullità.

Questa Corte ha affermato che nel caso di esercizio del­l’azione di responsabilità nei confronti dei sindaci (ma il discorso non muta per gli amministratori) di una società di capitali, sottoposta a procedura concorsuale (nella specie a liquidazione coatta amministrativa), il danno loro imputabile non può essere identificato nella differenza tra attivo e passivo accertato in sede concorsuale, sia in quanto lo sbilancio patrimoniale della società insolvente può avere cause molteplici, non tutte riconducibili alla condotta illegittima dell’organo di controllo, sia in quanto questo criterio si pone in contrasto con il principio civilistico che impone di accertare l’esistenza del nesso di causalità tra la condotta illegittima ed il danno. Tuttavia, il criterio ancorato alla differenza tra attivo e passivo può costituire un parametro di riferimento per la liquidazione del danno in via equitativa, qualora sia stata accertata l’impossibilità di ricostruire i dati con la analiticità necessaria per individuare le conseguenze dannose riconducibili al comportamento dei sindaci (o degli amministratori), ma, in tal caso, il giudice del merito de­ve indicare le ragioni che non hanno permesso l’ac­cer­ta­mento degli specifici effetti pregiudizievoli riconducibili alla condotta di costoro, nonché, nel caso in cui la condotta illegittima non sia temporalmente vicina alla apertura della procedura concorsuale, la plausibilità logica del ricorso a detto criterio, facendo riferimento alle circostanze del caso concreto (Cass. 8.2.2005, n. 2538).

Ancora, con riferimento ad azione di responsabilità fondata sulla violazione da parte degli amministratori del precetto di cui all’art. 2449 c.c. vecchio testo, in presenza della perdita del capitale sociale, si è detto che non è giustificata la liquidazione del danno in misura pari alla differenza tra l’attivo ed il passivo accertati in sede fallimentare, non essendo configurabile l’intero passivo come frutto delle nuove operazioni intraprese dagli amministratori, ma dovendosi ascrivere lo stesso, almeno in parte, alle perdite pre­gresse che avevano logorato il capitale (Cass. 23.7.2007, n. 16211; Cass. 23.6.2008, n. 17033).

Più in generale questa Corte ha affermato che qualora sia provata, o non contestata, l’esistenza del danno, il giudice può far ricorso alla valutazione equitativa del danno non solo quando è impossibile stimare con precisione l’en­tità dello stesso, ma anche quando, in relazione alla peculiarità del caso concreto, la precisa determinazione di esso sia difficoltosa, e nell’operare la valutazione equitativa egli non è tenuto a fornire una dimostrazione minuziosa e particolareggiata della corrispondenza tra ciascuno degli elementi esaminati e l’ammontare del danno liquidato, essendo sufficiente che il suo accertamento sia scaturito da un esame della situazione processuale globalmente considerata (Cass. 14.10.2004, n. 20283; Cass. 29.9.2005, n. 19148).

Nel caso in esame la Corte di appello ha osservato che la contabilità aziendale ed i bilanci erano inattendibili, come risultava dalla perizia espletata in sede penale confermata dalle risultanze della c.t.u. esperita in primo grado; ha aggiunto che la natura delle violazioni ascritte rendeva difficile la separazione delle responsabilità dei singoli amministratori; ha osservato che il passivo accertato in sede fallimentare era pari a circa L. 9.485 milioni e l’attivo realizzato a 5.466 milioni; che erano ancora pendenti 22 azioni revocatorie proposte dalla curatela che potevano incidere sull’entità dell’attivo; che pertanto con valutazione equitativa il danno poteva essere determinato in L. 4 miliardi, pari ad Euro 2.065.800.

Con ciò la Corte di appello è incorsa in un vizio di carattere logico. Dopo aver correttamente ritenuto che l’im­pos­sibilità di ricostruzione dell’effettiva situazione patrimoniale della società fallita derivante dall’inattendibilità della contabilità e dei bilanci impediva di procedere alla quantificazione del danno se non facendo ricorso al criterio equitativo, ha liquidato il danno in misura pari alla differenza tra passivo ed attivo accertato in sede fallimentare, senza in alcun modo considerare – ai fini della valutazione del pregiudizio derivante dagli atti di mala gestio – l’incidenza su tale differenza delle azioni revocatorie pendenti, pur avendo dato atto che se ne doveva tener conto.

La sentenza impugnata va pertanto cassata con rinvio alla Corte di appello di Roma in diversa composizione, anche per le spese.

P.Q.M.

La Corte, accoglie, nei sensi di cui in motivazione, l’ot­tavo motivo del ricorso M., il sesto del ricorso P. ed il quarto del ricorso V.; rigetta gli altri motivi; cassa la sentenza impugnata con rinvio alla Corte di appello di Roma in diversa composizione, anche per le spese.

SOMMARIO:

1. Il caso - 2. La normativa di riferimento - 3. I precedenti giurisprudenziali e la dottrina. La perdita del capitale sociale come causa di scioglimento della società - 4. (Segue) La responsabilità degli am­ministratori, la violazione dell’obbli­go di diligenza e la business judgement rule - 5. (Segue) L’azione di responsabilità contro gli amministratori: decorrenza del termine di prescrizione - 6. (Segue) La liquidazione del danno: misura equitativa o differenza tra attivo e passivo fallimentare? - 7. Il commento - NOTE


1. Il caso

La sentenza in commento risulta interessante sotto il profilo della responsabilità degli amministratori delle società di capitali per omissione degli obblighi impostigli ex lege in caso di perdita del capitale sociale ed in tema di individuazione del dies a quo del termine prescrizionale dell’azione di responsabilità ex artt. 2393 e 2394 c.c. Ed ancora, si può sottolineare subito che i giudici di legittimità, nel verificare la correttezza delle operazioni compiute dagli amministratori, richiamano il principio noto come business judjment rule [2]. Infine, il S.C. si sofferma sui criteri di liquidazione del danno in caso di azione di responsabilità fondata sulla violazione da parte degli amministratori degli obblighi di cui all’art. 2449 c.c. (vecchio testo) in presenza della perdita del capitale sociale.


2. La normativa di riferimento

Il conflitto d’interessi dell’amministratore unico di una società di capitali è regolato dall’art. 1394 c.c. [1]. A tale articolo ha fatto riferimento la sentenza in esame, poiché il caso era retto dalla normativa previgente la riforma societaria del 2003, introdotta nel c.c. dal d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6; per un’analoga fattispecie che ricadesse sotto l’impero delle norme in vigore, il legame prescrittivo, quanto alle s.r.l., cambierebbe, ma solo formalmente, posto che l’art. 2475-ter, 1° comma, c.c., inserito dal d. lgs. cit., riproduce la stessa regola recata dall’art. 1394 c.c. Questa norma è tuttora punto di riferimento per altre società di capitali, in assenza di espressa previsione, quando a versare in conflitto d’interessi sia l’am­ministratore unico o il consigliere munito del potere di rappresentanza che, delegato o no, agisca senza una preventiva deliberazione consiliare ai sensi del­l’art. 2391 c.c., ovvero dell’art. 2475-ter, 2° comma, c.c., nel caso di una s.r.l. Ai fini della dichiarazione di nullità della delibera assembleare autorizzatoria dell’atto estraneo all’og­get­to sociale, come per la dichiarazione di nullità dello stesso atto, la Corte applica l’art. 41, 2° comma, Cost. e l’art. 2384-bis, c.c., prev. La norma costituzionale dispone, come noto, che: “[L’iniziativa economica privata] non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da arrecare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana»; l’art. 2484-bis, prescriveva: «L’estraneità al­l’oggetto sociale degli atti compiuti dagli amministratori in nome della società non può essere opposta ai terzi in buona fede» [2]. Detto articolo è stato abrogato, non trovando più riscontro nella nuova formulazione numerica del Libro V, Titolo V, Capo V, c.c., adottata dall’art. 1, d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6; il nuovo art. 2384 c.c. recita: «1. Il potere di rappresentanza attribuito agli amministratori dallo statuto o dalla delibera di nomina è generale. 2. Le limitazioni che risultano dallo statuto o da una decisione degli organi competenti non sono opponibili ai terzi, anche se pubblicate, salvo che si provi che questi abbiano [continua ..]


3. I precedenti giurisprudenziali e la dottrina. La perdita del capitale sociale come causa di scioglimento della società

Nel testo anteriore la riforma societaria del 2003, con una disciplina sostanzialmente rimasta immutata, l’art. 2447 c.c. disponeva che, in caso di perdita del capitale sociale al di sotto del limite legale, gli amministratori dovevano senza indugio convocare l’assemblea per deliberare la riduzione del capitale ed il contemporaneo aumento del medesimo ad una cifra non inferiore al minimo, oppure la trasformazione. Tale riduzione è dunque da considerarsi quale fattispecie dissolutiva se la si legge in combinato disposto con l’art. 2448, 1° comma, n. 4, c.c. (oggi art. 2484 c.c.). L’indirizzo maggioritario [3] ha infatti costantemente ritenuto che la perdita del capitale sociale produce automaticamente ed immediatamente lo scioglimento della società, salvo il verificarsi della condizione risolutiva costituita dalla reintegrazione del capitale o della trasformazione ai sensi dell’art. 2447 c.c., dato che con il verificarsi della citata condizione, verrebbe meno “ex tunc” lo scioglimento della società [4]. La mancata adozione da parte dell’assemblea dei provvedimenti di azzeramento e ripristino del capitale sociale, però, non esonera gli amministratori da responsabilità che seguono al proseguimento del­l’attività d’impresa in violazione del divieto di nuove operazioni ex art. 2449 c.c. [5]. In tal senso, dopo il verificarsi della causa di scioglimento, il patrimonio sociale non può più considerasi destinato alla realizzazione dello scopo sociale ma, al contrario, gli am­ministratori sono abilitati a compiere soltanto quegli atti finalizzati alla liquidazione dei beni sociali, non potendo essi compiere nuovi atti d’impresa suscettibili di recare pregiudizio al diritto del ceto creditorio e degli stessi soci [6]. Il fatto dannoso, quindi, è identificato nello stato di insufficienza patrimoniale [7] in cui si è trovata la società fallita per effetto delle condotte di mala gestio degli amministratori: all’insufficienza patrimoniale si ricollega infatti l’incapacità della società fallita di far fronte alle proprie obbligazioni nei confronti dei creditori sociali.


4. (Segue) La responsabilità degli am­ministratori, la violazione dell’obbli­go di diligenza e la business judgement rule

In giurisprudenza è stato rilevato che non sempre appare agevole distinguere tra valutazioni di mera opportunità – come tali non censurabili in sede giudiziaria – e violazioni dell’obbligo di agire con diligenza [8]. Il discrimine tra queste due figure, tuttavia, sussiste, e va individuato in ciò: che la scelta tra il compiere o meno un certo atto di gestione, oppure di compierlo in un certo modo o in determinate circostanze, non è mai di per sé sola (salvo che non denoti addirittura la deliberata intenzione dell’am­mi­nistratore di nuocere all’interesse della società) suscettibile di essere apprezzata in termini di responsabilità giuridica, stante l’impossibilità di operare una simile valutazione con un metro che non sia quello dell’opportunità, sconfinando perciò nel campo della discrezionalità imprenditoriale. Viceversa, è solo l’eventuale omissione di quelle cautele, di quelle verifiche o di quelle informazioni preventive normalmente richieste che configurerebbe la violazione dell’obbligo di adempiere con diligenza il mandato di amministrazione [9]. La giurisprudenza di più recente espressione [10], infatti, pur ribadendo che il giudizio sulla diligenza dell’amministratore nell’adempimento del proprio mandato non può investire le scelte di gestione o le modalità e circostanze di tali scelte, ha mostrato una chiara tendenza a rendere più incisivo il controllo facendo ricorso agli elementi della razionalità e della prevedibilità dei risultati delle singole operazioni, alla loro ragionevolezza e al rispetto dei canoni di prudenza [11]. Parimenti, nel tentativo di fornire una classificazione esaustiva degli obblighi di legge imposti agli amministratori [12], diversi sono stati i criteri elaborati nel tempo: così, per esempio, c’è chi ha ritenuto di classificarli a seconda dell’impresa o al funzionamento degli organi sociali [13]; altri hanno distinto a seconda che gli obblighi consistano nel­l’a­dempimento di un’attività materiale ovvero di un’at­tività giuridica [14]; altri ancora hanno elaborato criteri ulteriori [15]. In pratica, secondo il S.C., la business judgment rule [16] – richiamata nelle motivazioni in commento [continua ..]


5. (Segue) L’azione di responsabilità contro gli amministratori: decorrenza del termine di prescrizione

Una particolare conferma in tema di decorrenza del termine di prescrizione dell’azione di responsabilità degli amministratori in caso di perdita del capitale sociale, anche alla luce delle modifiche apportate dal d.lgs. 6/2003, è data dalla precisa individuazione del dies a quo. Nel caso di azione ex art. 2394 c.c., l’azione può essere proposta dai creditori quando il patrimonio sociale risulta insufficiente [19] al soddisfacimento dei loro crediti e, pertanto, se ne desume che la prescrizione inizi a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere [20]. In termini di dies a quo, infatti, la Suprema Corte a sezioni unite, con la sentenza 6 ottobre 1981, n. 5241, già aveva statuito che “l’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori di una società, da parte dei creditori ovvero del curatore del fallimento della società medesima, è soggetta a prescrizione quinquennale con decorso non dal momento della commissione dei fatti integrativi di tale responsabilità, bensì da quello successivo del verificarsi dell’insufficienza del patrimonio sociale al sod­disfacimento dei crediti, il quale, non coincidendo con il determinarsi dello stato d’insolvenza, può essere anteriore o posteriore alla dichiarazione di fallimento”. Secondo tale interpretazione, il dies a quo coinciderebbe con il momento in cui “risulti oggettivamente conoscibile dal ceto creditorio l’insufficien­za del patrimonio sociale, id est lo squilibrio tra attività e passività” [21]. Quanto al concetto di insufficienza patrimoniale, la giurisprudenza [22] ha rilevato che essa non coincide con lo stato di insolvenza ma, al contrario, ben può risultare anteriore o posteriore alla dichiarazione di fallimento. Pertanto, l’onere di provare che l’insuf­ficienza si sia manifestata e sia divenuta conoscibile prima del fallimento spetta al soggetto che convenuto in giudizio ne eccepisca l’avvenuta prescrizione. La nozione stessa di insufficienza, infatti, deve essere individuata nell’eccedenza delle passività sulle attività, cioè in una situazione in cui l’attivo sociale, raffrontato ai debiti della società, risulti insufficiente al loro soddisfacimento. Ne consegue che [continua ..]


6. (Segue) La liquidazione del danno: misura equitativa o differenza tra attivo e passivo fallimentare?

Secondo i giudici di legittimità, la liquidazione del danno in caso di azione di responsabilità basata sulla violazione degli obblighi di cui all’art. 2449 c.c. (testo previgente), ed in presenza della perdita del capitale sociale della società poi fallita, deve avvenire in base al combinato disposto degli artt. 1223 e 1226 c.c. In altri termini, la liquidazione del danno in misura equitativa ex art. 1226 c.c. andrebbe disposta solo nel caso in cui vi sia un’impossibilità assoluta, e non una mera difficoltà, di accertamento quantitativo del pregiudizio patito. Di conseguenza, in base al citato principio, anche quando vi siano stati differenti “attori” che si sono susseguiti nella produzione degli eventi dannosi, il danno andrebbe comunque determinato in riferimento alle rispettive inadempienze sulla base dei netti patrimoniali via via susseguitisi e non nella differenza tra attivo e passivo fallimentare. Il suddetto procedimento, però, risulterebbe di difficile attuazione laddove, causa la possibile inattendibilità delle scritture contabili e dei bilanci della società fallita, non fosse possibile ricostruire l’an­da­mento patrimoniale: in questo senso la differenza tra attivo e passivo accertato in sede fallimentare risulterebbe un utile punto di riferimento. Il criterio fissato dalla differenza tra i due valori, infatti, può costituire un parametro di riferimento per la liquidazione del danno in via equitativa [29] soltanto qualora sia stata accertata l’impossibilità di ricostruire i dati con l’analiticità necessaria per individuare le conseguenze dannose riconducibili al comportamento dell’or­ga­no gestorio. Nel caso in esame, però, il passivo fallimentare non potrebbe comunque rappresentare la conseguenza delle nuove operazioni intraprese dagli amministratori ma, al contrario, questo dovrebbe piuttosto essere ascritto, almeno in parte, alle perdite pregresse che avevano ridotto il capitale sociale [30]. In tal senso, il danno causato dalle operazioni compiute dagli amministratori sarebbe soltanto quello imputabile “temporalmente alle passività sopravvenute” in seguito al verificarsi della causa di scioglimento di cui all’art. 2448 c.c., e non quindi all’intera situazione debitoria riferibile alla società [31].


7. Il commento

In primo luogo va rilevato che appare condivisibile la deduzione secondo cui la perdita definitiva del capitale sociale ha effetto dissolutivo: la successiva delibera assembleare di messa in liquidazione della società – ovviamente sempre ché non si preferisca procedere a ricostituzione del capitale o a trasformazione della società – ha un carattere meramente ricognitivo, così come la successiva iscrizione della decisione assunta presso il registro delle imprese ha un effetto pubblicitario. La norma in esame, ora art. 2484 c.c., è quindi chiara del definire quale causa immediata di scioglimento della società la perdita del capitale sociale in virtù della riduzione dello stesso al di sotto del minimo legale. Dalla sentenza in commento, poi, si desumono ulteriori ed importanti conclusioni: la perdita integrale del capitale sociale non corrisponde al concetto di insufficienza patrimoniale, così come quest’ultimo non è sinonimo di insolvenza. Data, poi, un’“audace proprietà transitiva”, si potrebbe dedurre che una società che abbia perso il capitale sociale non necessariamente debba essere considerata insolvente. Si tratta di tre concetti differenti l’uno dall’altro. L’insufficienza patrimoniale è qualificabile come un attivo patrimoniale che non è sufficiente al soddisfacimento dei debiti societari. Parimenti, la conoscenza da parte dei creditori di tale insufficienza ben potrebbe essere conosciuta antecedentemente rispetto alla dichiarazione di insolvenza ed in riferimento alle risultanze del bilancio finale di liquidazione e del bilancio di esercizio quando non vi sono poste suscettibili di sottovalutazione, quando il divario tra il valore dei beni e l’importo globale dei debiti appare incolmabile o quando si valuta che il ricavo dalla liquidazione dei beni costituenti il patrimonio sociale non possa soddisfare integralmente le ragioni dei creditori. Il concetto di insolvenza, invece, così come definito dall’art. 5 l. fall., rappresenta una “situazione irreversibile” da cui discende l’impossibilità assoluta della società di far fronte regolarmente alle proprie obbligazioni o, comunque, di soddisfarle con mezzi normali: non è dunque assimilabile al concetto di in­sufficienza patrimoniale in quanto, oltre che potrebbe manifestarsi successivamente [continua ..]


NOTE
Fascicolo 1 - 2011