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1. Il nostro libro. - 2. L’estinzione della società consegue alla sua cancellazione: problemi e proposte. - 2.1. - 2.2. - 3. (Segue). Fra passato e presente. - 4. La questione delle sopravvivenze e delle sopravvenienze passive - 4.1. - 4.2. - 5. La questione delle sopravvivenze e delle sopravvenienze attive. - 6. Qualche ulteriore considerazione. - NOTE
La disciplina che segna l’epilogo della vicenda societaria è abitualmente catalogata fra le operazioni straordinarie delle società. Essa compare così, in omaggio a tale tradizionale collocazione, nel volume che offre l’occasione a questo incontro di studio. Il nostro libro si apre – anzi – proprio con questo tema, al quale tengono seguito le vicende cc.dd. evolutive di un ente collettivo: trasformazione, fusione e scissione (nonché leveraged buy out). E alla vicenda estintiva delle società di capitali è riservato, nell’economia dell’opera, un posto per nulla marginale, giacché occupa un buon terzo del volume. Scandito in due sezioni (rispettivamente: “le cause di scioglimento” e “la liquidazione”) affidate a penne diverse, quelle di Tilde Cavaliere e di Marco Aiello, il volume offre al lettore un’esposizione chiara e completa di un luogo, una regione, del nostro novellato codice civile non sempre agevole da descrivere e da esplorare (ché di quando in quando nasconde anzi insidie e pericoli: hic sunt leones). Così, nello studio delle cause di scioglimento trovano spazio tutti i temi che si coordinano, nell’esigenza applicativa reclamata dalla prassi e nell’istanza di organizzazione sistematica cui aspira la ricerca, all’inverarsi dell’ipotesi dissolutiva. Mi riferisco non soltanto al problema del riconoscimento – da parte degli amministratori (e dei sindaci?), dei soci, dell’autorità giudiziaria – dell’evento estintivo, ed al ruolo da annettersi ai conseguenti adempimenti pubblicitari, ma anche e soprattutto alla questione del suo riflettersi sui poteri dell’organo gestorio e al connesso regime di responsabilità «per i danni – dice ora la legge come novellata – subiti dalla società, dai soci, dai creditori sociali e dai terzi». Così ancora nelle pagine dedicate alla liquidazione: pagine che non si limitano alla descrizione del processo estintivo, ma si arricchiscono con la discussione di temi dove le scelte disciplinari del legislatore mi sembra abbiano dato adito a incertezze applicative (direi anzi: a perplessità, nella loro valutazione critica). Basti pensare all’argomento dell’estinzione dell’ente collettivo: argomento sul quale vorrei svolgere qualche considerazione.
Se è compito, cioè funzione, del patrimonio comune, destinato all’esercizio dell’impresa, di assolvere a tutte le esigenze dell’iniziativa collettiva, ossia dell’operazione economica intrapresa, prima che i partecipi ne traggano il risultato, questo compito si esalta – necessariamente – nella fase estintiva dell’ente. Da ciò il disattivarsi di regole pensate per una società in integro statu, sostituite da precetti di maggior rigore. Si pensi all’utile distribuito in base a bilancio regolarmente approvato, non ripetibile se percepito in buona fede (art. 2433, 4° comma, c.c.), del quale tiene luogo l’acconto «sul risultato della liquidazione», connotato da una ripetibilità che non si subordina alla condizione psicologica del socio percettore (art. 2491 c.c.), secondo una regola che ritroviamo a governo della quota di liquidazione (art. 2495, 2° comma, c.c.).
Ebbene: a me sembra che il tema della estinzione della società, delle soluzioni disciplinari più idonee a far sì che il patrimonio sociale non si disperda, parcellizzandosi e confondendosi con quello dei soci percipienti e dunque da un lato frammentandosi e dall’altro smarrendo la sua vocazione imprenditoriale, debba confrontarsi con le regole alle quali ho fatto cenno. Gli approdi disciplinari sono ben noti, e di essi non manca di dare conto il volume che oggi presentiamo. Prima della novella del 2003 la giurisprudenza era ben ferma (anzi: granitica) nell’affermare che alla cancellazione della società dal registro delle imprese non conseguiva la sua estinzione. L’ente collettivo si estingue – dicevano i giudici – solo se e quando ogni rapporto che ad esso faceva capo fosse stato definito, per modo che (passatemi la prospettiva antropomorfa e il conseguente lessico) la pubblicazione dell’atto di morte di una società a nulla rilevava: come dire che si muore – ci si estingue – solo si è davvero deceduti ovvero – direi meglio – se la funzione per realizzare la quale un ente o un patrimonio è istituito è stata completamente assolta 1. Altrettanto familiari le critiche che la dottrina muoveva a tale scelta interpretativa: critiche pressoché unanimi (per numero, le voci che si levavano in difesa della lettura dei giudici erano ben lungi dall’avvicinarsi ai 25 lettori del Manzoni) e fermamente ribadite. Orbene: si promulga la novella del 2003, e alla disciplina della cancellazione della società si aggiungono, nell’incipit, le note parole «ferma restando l’estinzione della società». Le posizioni in qualche modo si capovolgono: la giurisprudenza dice – o tende a dire – che la cancellazione 2 ha effetto costitutivo e che dunque la società si estingue a séguito e per effetto dell’adempimento pubblicitario 3; la dottrina (o meglio: una parte di essa) sembra quasi fare un dietrofront quando talvolta pare rimpiangere i bei tempi andati (ed allora criticati). Invero, è sul piano applicativo che il rigore della nuova norma ha sollecitato incertezze e perplessità, critiche e difficoltà. Le problematicità di maggiore rilievo sono emerse sul piano processuale 4. Così, se si procede per un reato a carico [continua ..]
Ci si è ingegnati di ricercare i rimedi. A) Qualcuno ha ritenuto di scorgere una soluzione nella regola dell’art. 2191 c.c., ipotizzando – come anticipavo poc’anzi – la possibilità di cancellare la cancellazione (o comunque di considerare inefficace la cancellazione, come finisce per fare l’art. 10, 2° comma, l. fallim., con una regola che peraltro si riferisce, per gli imprenditori collettivi, alla sola ipotesi della cancellazione d’ufficio22e la cui portata è comunque è ben arduo estendere oltre il caso del fallimento 23). Itinerario, questo, non solo seguìto da qualche giudice territoriale 24, sospinto dall’esigenza di trovare una via d’uscita, ma che anche il S.C. parrebbe non disdegnare (il condizionale è d’obbligo: la decisione cui mi riferisco 25 non sembra non condizionata dalla fattispecie, che riguardava una società decotta che si era cancellata per rifugiare all’estero, dove aveva proseguito ad operare, e che era stata dichiarata fallita dopo che il giudice del registro aveva, appunto, disposto la cancellazione della sua cancellazione). Una soluzione che al nostro volume è parsa alquanto ardita 26, se non (ma queste sono parole mie) eversiva del sistema, per via di quel suo risolversi in una disattivazione di un predicato normativo, per quel suo contraddire alla volunctas legis proclamata dal precetto impartito con le parole «ferma restando l’estinzione della società» con una risolutezza che non cede nemmeno nel caso della cancellazione della società inerte disposta ex officio ai sensi dell’art. 2490, 6° comma, c.c. 27. B) Altri, per le sopravvivenze (e per le sopravvenienze) attive ha fatto ricorso ad altro istituto, quello dell’eredità giacente, ed ipotizzato potersi parlare della società giacente28: della società giacente il giudice potrebbe dunque, applicando l’art. 528 c.c., nominare un curatore speciale. Certo: si potrebbe obiettare che quel curatore speciale avrebbe il compito di assegnare ai soci il bene obliato dalla liquidazione e che allora egli altro non sarebbe che un (nuovo) liquidatore. E se così fosse ci si potrebbe interrogare – a me sembra – se ragionando nel solco della proposta di cui ho detto non si finisca per aggirare una norma che pur sempre dice che la [continua ..]
Ecco: a me sembra che le regole del nostro ordinamento sulle quali sto cercando di riflettere perseguano oltre ragione quelle finalità di certezza dell’azione imprenditoriale alle quali si dichiaravano di volersi ispirare ogni qual volta – e non è raro che accada – lo strumento societario sia utilizzato in modo non corretto e ancor più in modo disinvolto e non genuino. Riesce, invero, difficile giustificare che una società possa scomparire, eclissarsi, senza che la relativa procedura, pur imposta ed in sé ineludibile 32, sia scandita nel tempo. Tuttavia, nel nostro ordinamento non vi è regola che comandi una durata minima della liquidazione, un lasso di tempo che consenta ai creditori di farsi avanti. Se una siffatta regola (che troviamo in altri sistemi giuridici) vi fosse, i creditori distratti o ritardatari non avrebbero da dolersi se non – e solo – della loro disattenzione o della loro lentezza. Di più: non vi è, nel nostro ordinamento, regola che consenta ai creditori di una società in liquidazione, di impedire, opponendovisi, ad una distribuzione dell’attivo, vuoi che si tratti di un acconto sulla quota di liquidazione, vuoi che si tratti della quota stessa: i creditori sociali – come puntualmente ricorda il nostro volume 33 – possono avvalersi soltanto dei normali rimedi civilistici: rimedi che possono rivelarsi poco efficienti o addirittura concretamente non utilizzabili (come nel caso di procedure liquidative che, approfittando del fatto che la legge non richiede una durata minima della liquidazione, siano condotte con assoluta celerità). Anni or sono, fu avanzata in dottrina la proposta di applicare l’art. 2445 c.c. 34, ma quel suggerimento non ebbe accoglienza 35: e ciò per tre ordini di ragioni: i) non soltanto perché – si osservava – era difficile coordinare all’interesse dei creditori sociali il sistema pubblicitario della vicenda estintiva della società quando alla durata del processo liquidativo non si fissano termini, ii) ma anche perché essa si poneva in conflitto con la lettura (allora dominante in giurisprudenza, come ho ricordato) che dava l’ostracismo alla tesi dell’efficacia costitutiva del provvedimento di cancellazione della società; iii) e soprattutto perché, mentre le somme [continua ..]
Queste ultime notazioni riportano al tema, dal quale ho preso esordio, della responsabilità per le obbligazioni sociali non soddisfatte. Il codice, con il 2° comma dell’art. 2495, indica una regola che è nota a tutti: «dopo la cancellazione i creditori sociali non soddisfatti possono far valere i loro crediti nei confronti dei soci, fino alla concorrenza delle somme da questi riscosse in base al bilancio finale di liquidazione, e nei confronti dei liquidatori, se il mancato pagamento è dipeso da colpa di questi». Qualche anno fa la Cassazione ha avuto occasione di enunciare – ribadendo un suo precedente dictum 36, ma tuttavia discostandosi da altro suo verdetto 37, entrambi risalenti a quasi 30 anni prima – un principio importante: il diritto azionato dal creditore sociale insoddisfatto nei confronti del socio dopo la cancellazione della società dal registro delle imprese, conservando la propria causa (estranea al rapporto sociale) e la propria originaria natura giuridica, è soggetto al medesimo termine di prescrizione cui soggiacerebbe se esso fosse stato azionato direttamente nei riguardi della medesima società, onde deve escludersi che esso ricada tra quelli per i quali l’art. 2949, 1º comma, c.c. stabilisce il termine di prescrizione quinquennale 38. Dico subito che la decisione del S.C. mi sembra pienamente condivisibile 39: il diritto che il creditore sociale fa valere verso il socio è lo stesso che avrebbe potuto far valere nei confronti della società, e sottoporlo ad un termine prescrizionale diverso, cioè a quello, quinquennale, previsto per «i diritti che derivano dai rapporti sociali», non sarebbe corretto dal punto di vista concettuale e risulterebbe ingiusto. Non v’è ragione, invero, per attribuire al creditore della società una posizione diversa – migliore o peggiore che sia – da quella che aveva nei riguardi della società. Il pieno consenso che, come ho detto, merita il verdetto dei Giudici di piazza Cavour induce a una riflessione e introduce un interrogativo.
Se il socio risponde di un debito che è della società, nell’agire verso costui il creditore insoddisfatto dovrebbe potere – e dovere – seguire tutte le regole del relativo rapporto obbligatorio, così come si afferma quando il creditore di una società di persone agisce nei confronti del socio 40. Ne deriverebbe, ad esempio: a) sul piano processuale che la deroga alla competenza territoriale che fosse stata convenuta fra la società e il terzo creditore deve ritenersi vincolante anche per il socio, così come la clausola arbitrale che fosse stata stipulata fra la società e il terzo creditore (osservo che qui non v’è circolazione del contratto, e pertanto non avrebbero ragione di prendere risalto le considerazioni che si oppongono alla automatica circolazione della clausola arbitrale in conseguenza della circolazione del contratto cui accede 41; b) che il socio potrà opporre al creditore ogni eccezione che avrebbe potuto essere opposta dalla società (alle quali non vi sarebbe a ben vedere motivo perché il socio aggredito non possa opporre al creditore sociale anche le sue personali eccezioni 42; c) che il creditore si potrà giovare delle agevolazioni probatorie di cui poteva valersi nei confronti della società (un documento a contenuto confessorio di questa dovrebbe avere uguale valore nei riguardi del socio; e che una scrittura contabile del creditore-imprenditore dovrebbe poter essere utilizzata nei confronti del socio secondo la regola dell’art. 2710 c.c. ancorché il socio imprenditore non sia); d) che se il credito verso la società fosse stato assistito da privilegio, di tale titolo di preferenza il terzo potrà giovarsi anche nei confronti del socio. Tutto ciò perché la regola – lo scopo della regola – dell’art. 2495 c.c. è tale che il rapporto fra società e creditore deve riprodursi (fermo il limite della responsabilità del socio, segnato da quanto egli ha appreso dalla liquidazione) nel rapporto fra il socio e il creditore: senza subire alterazioni in favore vuoi dell’uno vuoi dell’altro 43. Riprova di ciò nell’osservazione che il socio risponde non solo per quanto ha appreso dalla liquidazione (così la lettera della norma), ma anche per quanto manente societate avrebbe [continua ..]
Al contempo, il principio di cui ho detto pone – accennavo poc’anzi – una questione. Come ho rammentato, delle obbligazioni insoddisfatte dalla società estinta risponde non soltanto il socio, ma anche il liquidatore se il mancato pagamento è dipeso da colpa del liquidatore stesso (2495, 2° comma, c.c.) 44. Il titolo delle due responsabilità è però diverso: il liquidatore, infatti, risponde per un illecito amministrativo da lui commesso, ex lege aquilia 45; ed è regola (art. 2949 c.c.) che «l’azione di responsabilità che spetta ai creditori sociali verso gli amministratori e i liquidatori 46 nei casi stabiliti dalla legge» si prescrive in cinque anni (salvo, ex art. 2947 c.c., il maggior termine – di sei anni o, nel caso intervenga uno degli atti interruttivi della prescrizione espressamente indicati nell’art. 165 c.p., di sette anni e mezzo – che consegue al fatto che l’illecito amministrativo del liquidatore integri anche quello penale dell’art. 2633 c.c.). Se così è, non si determinerebbe una asimmetria fra la responsabilità del socio e quella del liquidatore? Quando il termine prescrizionale dell’azione verso la società, e dunque verso il socio, fosse inferiore al quinquennio dell’art. 2949 c.c., il creditore ancora potrebbe agire, ove quell’azione si fosse prescritta, verso il liquidatore, così ottenendo di più. E l’opposto si avrebbe se il termine dell’azione verso la società fosse più esteso del lustro: il liquidatore sarebbe in salvo prima del socio. È difficile – sarei incline a dire – trovare una giustificazione ad una simile asimmetria. E mi chiedo: se la si dovesse ammettere soltanto nei casi in cui il liquidatore ha agito con dolo, alla responsabilità del liquidatore non dovrebbe annettersi altra funzione che quella di porsi – così come accade per i soci – al servizio della realizzazione del programma imprenditoriale? non vi si dovrebbero ravvisare connotati prettamente sanzionatori? Sul punto, mi pare, la riflessione deve ancora maturare convincimenti e la discussione tuttora trovare modo di svilupparsi.
Torno – chiedendo venia per qualche disordine espositivo – sul problema degli asset sociali obliati nella procedura di liquidazione. Il problema è stato finora studiato nella prospettiva alla quale ho fatto poc’anzi cenno, essendocisi interrogati, in particolare in caso di bene immobile, su quale itinerario tecnico sia da seguire per far sì che i soci, divenutine proprietari in regime di comunione ordinaria ai sensi degli artt. 1100 e segg. c.c. 47, conseguano la titolarità formale del bene ignorato (o sopravvenuto) o la sua quota-parte 48. Ma questa è solo una faccia della medaglia. Attribuire ai soci un bene della società al di fuori del processo di liquidazione, senza che di quel bene rechi traccia e faccia menzione il bilancio finale e l’annesso piano di riparto, in base al quale il creditore pretermesso può procedere verso i soci 49, significa consentire alla pubblicità commerciale – che nel caso del bilancio finale non è funzionale solo alla sua approvazione c.d. tacita da parte dei soci (l’approvazione potrebbe avvenire con una delibera unanime, o con la quietanza rilasciata senza riserve all’atto del pagamento dell’ultima quota di riparto come prevede l’art. 2493, 2° comma, c.c., e dunque anche prima della pubblicazione del bilancio finale), ma è imposta anche a tutela dei terzi e del mercato – di occultare ai creditori pretermessi una ricchezza che quei creditori avrebbero diritto di ottenere, seppure nei limiti dell’art. 2495, 2° comma, c.c., dai soci. La strada maestra sarebbe dunque altra che quella della nomina di un curatore speciale dei soci-comunisti ex art. 528 c.c., e altra che il ricorso all’art. 2506, 2° comma, c.c. (dove peraltro il bene della società scissa non menzionato nel progetto di scissione riemerge nei bilanci delle società beneficiarie: cosa che nel nostro caso non accade, salvo l’ipotesi di un socio-società). Per realizzare, contemperandoli fra loro, entrambi gli interessi in giuoco – quello dei soci all’attribuzione del bene sopravvissuto o sopravvenuto alla liquidazione; quello dei creditori sociali sopravvissuti o sopravvenuti alla liquidazione ad agire contro i soci (ed eventualmente contro il liquidatore) – si dovrebbe riaprire la liquidazione. Ma questo il nostro sistema – se è [continua ..]
Concludo con una postilla, che si riannoda alle considerazioni dalle quali ho preso l’esordio. Una volta che il danaro che compone il patrimonio sociale o (per chi ammette una divisione in natura anche nelle società di capitali 51) i beni che ne fanno parte sono attribuiti ai soci in base a un bilancio intermedio (come acconto di liquidazione) o al bilancio finale (come quota di liquidazione), su quelle somme, su quei beni, il creditore sociale perde il suo diritto di preferenza perché quelle somme e quei beni entrano subito e comunque a far parte del patrimonio dei soci 52. Ebbene: tale effetto si verifica – se non prendo un abbaglio – vuoi che la cancellazione determini l’estinzione della società, vuoi che ciò non accada. Nell’uno come nell’altro caso, il creditore sociale pretermesso dalla liquidazione dovrà faticare non poco per recuperare quanto gli spetta: sarà costretto ad aggredire i singoli, e in ipotesi numerosi, soci (ed eventualmente, ricorrendo il presupposto della sua colpa, il liquidatore 53, ben modesto aiuto offrendogli sia la possibilità di notificare l’atto giudiziario presso l’ultima sede della società se la domanda è proposta entro un anno dalla cancellazione (art. 2495, 2° comma, II frase, c.c.), sia – almeno se si tratta di società con soci limitatamente responsabili – la possibilità di provocarne, entro lo stesso termine e sempre che ne ricorrano i presupposti 54 (il che può rivelarsi alquanto difficile, in una società il cui patrimonio si è in gran parte disgregato 55), il fallimento ex art. 10 l. fallim. (verosimile l’assenza di attivo rilevante; difficile, dati i brevi termini di legge, un recupero di attivo attraverso azioni revocatorie 56, sia la possibilità di chiamare uno o altro dei soci a rispondere del danno subìto per avere concorso con il liquidatore nella commissione del reato di indebita ripartizione dei beni sociali di cui all’art. 2633 c.c. 57: comunque al creditore sarà imposto di subire il concorso degli altri creditori dei soci. La novella del 2003 ha dunque tutto cambiato affinché – per dirla con una frase davvero tanto cinica quanto famosa – nulla in realtà cambiasse? Non mi pare. Se la cancellazione della società non ne determina [continua ..]