Rivista di Diritto SocietarioISSN 1972-9243 / EISSN 2421-7166
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Il compenso degli amministratori di società pubbliche ai sensi dell´art. 6, 6° comma, d.l. 31 maggio 2010, n. 78 (di Gabriele Dell’Atti)


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SOMMARIO:

1. Il compenso degli amministratori come fattore di crisi del mercato dei capitali. – - 1.1. Le novità normative e regolamentari in ambito nazionale ed internazionale per parametrare la remunerazione degli amministratori alle performance delle società. - 1.2. L’art. 6, 6° comma, d.l. n. 78/2010: dubbi interprativi e perplessità applicative. - 2. Il valore cui va riferita la riduzione del 10% prevista all’art. 6, 6° comma, d.l. n. 78/2010: un’interpretazione costituzionalmente orientata. - 3. La portata del richiamo all’interno dell’art. 6, 6° comma, d.l. n. 78/2010 al solo art. 2389, 1° comma, c.c. e l’applicazione della norma alle società a partecipazione pubblica che adottano il sistema dualistico. - 4. L’applicazione dell’art. 6, 6° comma, d.l. n. 78/2010 al collegio sindacale. - 5. Riflessioni conclusive. - NOTE


1. Il compenso degli amministratori come fattore di crisi del mercato dei capitali. –

1.1. Le novità normative e regolamentari in ambito nazionale ed internazionale per parametrare la remunerazione degli amministratori alle performance delle società.

Il compenso e le tecniche di remunerazione degli amministratori sono generalmente riconosciuti, a volte anche con particolare enfasi [1], tra i fattori che hanno determinato la recente crisi che ha investito a livello globale il mercato dei capitali e, dunque, le economie dei singoli Stati; il tema, quindi, è particolarmente sentito con riferimento al compenso dei managers tanto di società a compagine privata [2], quanto di società a partecipazione pubblica [3]. È stato al riguardo efficacemente evidenziato come l’emersione di cattive prassi non debba comunque portare all’abbandono di soluzioni per cui le forme di remunerazione dei managers siano parametrate, secondo regole di ragionevolezza e di adeguata informazione (degli azionisti e del mercato), alle performance della società; e ciò, allo scopo, da un lato, di permettere alle imprese di sostenere i costi connessi al compenso dei gestori tramite autofinanziamento e, dall’altro, di bilanciare l’interesse dei primi con le esigenze di azionisti e stakeholders attraverso la creazione di valore aziendale nel lungo periodo [4]-[5]. Tuttavia, se gli obiettivi di fondo si allineano nell’ottica della prudente gestione del rischio, sono state ipotizzate da parte della dottrina soluzioni diverse che si fondano su una differente filosofia in merito alle modalità entro le quali dovrebbe concretarsi l’intervento legislativo; sebbene comunemente si ritenga che esso debba comunque agevolare un sistema trasparente volto a permettere l’informazione di soci ed investitori sulla remunerazione degli amministratori, non vi è uniformità di vedute circa la necessità di introdurre norme di dettaglio relative ai meccanismi retributivi ed alla struttura dei compensi a seconda che ciò si giudichi come uno strumento di compressione della competitività ovvero, al contrario, come strumento per calmierare il mercato e scongiurare una “malsana competizione nel settore finanziario” [6]. Nella prima prospettiva, dunque, basterebbero regole di corporate governance fondate sull’au­toregolamentazione e sull’ampliamento delle funzioni e dell’indipendenza dei comitati per la remunerazione o sulla maggiore partecipazione dell’organo proprietario nelle scelte in materia, mentre nella [continua ..]


1.2. L’art. 6, 6° comma, d.l. n. 78/2010: dubbi interprativi e perplessità applicative.

Ebbene, nonostante al legislatore italiano fossero ormai chiari limiti, prospettive ed esigenze connesse al tema della remunerazione degli organi di gestione delle società e sebbene tali temi dovessero necessariamente riguardare anche le società pubbliche [34], l’art. 6, 6° comma, d.l. 31 maggio 2010, n. 78 [35] (convertito in legge 30 luglio 2010, n. 122) ha stabilito che: «Nelle società inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall’Istituto nazionale di statistica (ISTAT) ai sensi del comma 3 dell’articolo 1 della legge 31 dicembre 2009, n. 196 [36], nonché nelle società possedute direttamente o indirettamente in misura totalitaria, alla data di entrata in vigore del presente provvedimento dalle amministrazioni pubbliche, il compenso di cui all’articolo 2389, primo comma, del codice civile, dei componenti degli organi di amministrazione e di quelli di controllo è ridotto del 10 per cento. La disposizione di cui al primo periodo si applica a decorrere dalla prima scadenza del consiglio o del collegio successiva alla data di entrata in vigore del presente provvedimento. La disposizione di cui al presente comma non si applica alle società quotate e alle loro controllate». La norma, emessa, come si legge nella relazione di accompagnamento, «in coerenza con le riduzioni di spesa operate nell’ambito della pubblica amministrazione», certamente non brilla in chiarezza e desta numerose perplessità in ordine: (i) al valore cui va riferita la riduzione del 10%; (ii) alla valenza precettiva del richiamo al solo “compenso di cui all’articolo 2389, primo comma, del codice civile”, mentre non vi è alcun cenno né alla remunerazione del compenso degli amministratori investiti di particolari cariche ai sensi del comma 3 dell’art. 2389 c.c., né al compenso dei consiglieri di gestione di società che abbiano adottato il sistema dualistico di amministrazione e controllo ex art. 2409-terdecies, comma 1, lett. a), c.c. [37]; (iii) all’ap­plic­a­zione o meno della disposizione al collegio sindacale [38].


2. Il valore cui va riferita la riduzione del 10% prevista all’art. 6, 6° comma, d.l. n. 78/2010: un’interpretazione costituzionalmente orientata.

Come innanzi rilevato, non è immediatamente comprensibile a quale valore vada imputata la riduzione del 10% del compenso degli organi delle società pubbliche previsto all’art. 6, 6° comma, d.l. n. 78/2010. Tuttavia, dal tenore letterale della norma, sembrerebbe che la detrazione abbia un connotato di specificità molto accentuato e riguardi il compenso riconosciuto, precedentemente all’entrata in vigore del d.l. n. 78/2010, a tutti i componenti degli organi delle società a totale partecipazione pubblica. In tal senso, infatti, parrebbe militare l’inciso «il compenso di cui all’articolo 2389, primo comma, del codice civile, dei componenti degli organi di amministrazione e di quelli di controllo è ridotto del 10 per cento», visto che il richiamo espresso alla disposizione sulla competenza assembleare alla determinazione del compenso degli amministratori della s.p.a. sembra circoscrivere la riduzione del compenso a quella già deliberata in sede assembleare per ogni membro degli organi sociali. Tale interpretazione, però, non appare convincente specie alla luce del principio costituzionale, dettato all’art. 119, 2° comma, secondo cui una legge statale può fissare limiti alle spese locali nel rispetto dell’autonomia organizzativa e finanziaria degli enti pubblici. A tal fine, la Corte costituzionale ha numerose volte evidenziato che una norma statale in materia di limiti alle spese locali rispetta tale precetto costituzionale, purché: (i) ponga obiettivi generali di riequilibrio della finanza pubblica attraverso un transitorio contenimento complessivo della spesa corrente; (ii) non prescriva strumenti o modalità concrete per il perseguimento di tali obiettivi, lasciando gli enti locali liberi di individuare le misure necessarie a tal fine [39]. Peraltro, la medesima Corte si è espressa nello stesso senso anche con riferimento alla compatibilità dell’art. 1, dal 725° al 729° comma, legge 27 dicembre 2006, n. 296 (c.d. legge finanziaria del 2007) [40] – che si occupa proprio del contenimento del compenso (e del numero) degli amministratori di società a partecipazione pubblica locale – con l’art. 119 Cost., precisando che le norme statali possono dettare esclusivamente una “disciplina quadro” entro la quale deve successivamente esplicarsi l’autonomia [continua ..]


3. La portata del richiamo all’interno dell’art. 6, 6° comma, d.l. n. 78/2010 al solo art. 2389, 1° comma, c.c. e l’applicazione della norma alle società a partecipazione pubblica che adottano il sistema dualistico.

La soluzione interpretativa accolta, inoltre, permette di dare coerenza all’ulteriore dubbio emergente dalla lettura del testo dell’art. 6, 6° comma, d.l. n. 78/2010; il dettato normativo, infatti, sembrerebbe intervenire espressamente, in termini di riduzione, sui soli compensi decisi in sede assembleare ex art. 2389, 1° comma, c.c. e non invece sulla remunerazione degli amministratori esecutivi stabilita dal consiglio di amministrazione ai sensi dell’art. 2389, 3° comma, c.c. Ciononostante, una simile lettura certamente appare contraria al principio cardine di concreta e significativa contrazione della spesa pubblica perseguito dalla legge; d’altronde, è noto che di solito gli importi dei compensi deliberati in assemblea sono notevolmente inferiori rispetto a quelli decisi in consiglio di amministrazione a favore degli amministratori investiti di particolari cariche. Di conseguenza, il richiamo al solo art. 2389, 1° comma, c.c. – seguendo una via probabilmente correttiva – può essere considerato non tanto, in una prospettiva tassativa e specificamente riferita al contenuto complessivo del 1° comma, ai compensi degli amministratori stabiliti all’atto della nomina ovvero dall’assemblea, quanto piuttosto, in una prospettiva esemplificativa e con riguardo al solo incipit del comma 1, a tutti «i compensi spettanti ai membri del consiglio di amministrazione e del comitato esecutivo» [44]. In sostanza, nel momento in cui il legislatore impone al socio pubblico di ridurre del 10% la remunerazione in precedenza riconosciuta ai membri degli organi sociali, ne orienta l’agire, pur lasciandogli la scelta della modalità concreta rivolta a realizzare il contenimento della spesa; l’ente, quindi, nella qualità di socio che può indirizzare le decisioni dell’organo proprietario (detenendo in via diretta o indiretta l’intero capitale della società), dovrà comunque fare in modo che l’obiettivo indicato dalla legge sia perseguibile. Deve ritenersi, pertanto, che spetti al socio pubblico “neutralizzare” il potere del consiglio di amministrazione di decidere sul compenso degli amministratori esecutivi attraverso l’in­troduzione di una clausola statutaria che sancisca per tale materia l’esclusiva competenza dell’assemblea (ai sensi dell’art. 2389, [continua ..]


4. L’applicazione dell’art. 6, 6° comma, d.l. n. 78/2010 al collegio sindacale.

La funzione e la lettera della norma fanno, inoltre, propendere per l’applicazione dell’art. 6, 6° comma, d.l. n. 78/2010 non solo ai componenti degli organi di gestione, ma anche ai componenti degli organi di controllo e, dunque, anche ai membri del collegio sindacale. Tuttavia, da ultimo, si segnala una tesi opposta [47] fondata sulla circostanza che l’art. 6, 6° comma, d.l. n. 78/2010: (i) si limita a richiamare l’art. 2389, 1° comma, c.c. sui compensi degli amministratori ed omette di rinviare alle fattispecie di cui all’art. 2402 c.c. (norma sui compensi dei membri del collegio sindacale) e all’art. 10, 9° e 10° comma del d.lgs. 27 gennaio 2010, n. 39 (norma sulla determinazione del compenso del revisore legale e della società di revisione), il che dimostrerebbe che il legislatore non ha inteso comprendere nella falcidia anche i compensi spettanti ai membri del collegio sindacale ed ai revisori; (ii) nella formulazione precedente alle modifiche apportate dalla legge di conversione disponeva espressamente che la riduzione del 10% dovesse riguardare “il compenso dei componenti del consiglio di amministrazione e del collegio sindacale”, mentre con la legge di conversione il riferimento al “collegio sindacale” è divenuto ai “componenti degli organi di controllo”; con la conseguenza che si sarebbe voluto, da un lato, espungere dalla disciplina sulla riduzione i membri del collegio sindacale e, dall’altro, “fare riferimento sempre all’organo di amministrazione, ma con le funzioni di controllo come accade nel sistema di amministrazione monistico”. La tesi richiamata non sembra, però, confutare la soluzione seguita. Si è chiarito, infatti, che il richiamo all’interno dell’art. 6, 6° comma, d.l. n. 78/2010 al solo art. 2389, 1° comma, c.c., ha un mero valore esemplificativo e non può costituire un elemento atto a delimitare l’ambito di applicazione della norma, di modo che il mancato rinvio all’art. 2402 c.c. ovvero all’art. 10 del d.lgs. n. 39/2010 non importa di per sé che il legislatore abbia voluto escludere il compenso di sindaci e revisori dalla prevista riduzione. Sotto il profilo letterale, poi, la norma è chiara nel ricondurre la compressione dei compensi dovuti dalle società a totale partecipazione pubblica tanto agli organi di [continua ..]


5. Riflessioni conclusive.

Volendo trarre delle conclusioni di sistema rispetto alle considerazioni svolte ed alle soluzioni raggiunte, si può sostenere non solo che la necessità di dare coerenza al contenuto dell’art. 6, 6° comma del d.l. n. 78/2010 si può ottenere, a causa dello scarso rigore tecnico della norma, solo grazie ad un serio sforzo interpretativo, ma anche che l’intervento normativo oggetto di indagine sembra non tenere affatto conto degli stimoli in materia di remunerazione degli amministratori provenienti dalla dottrina e dalla prassi e contenuti nella generale regolamentazione in materia. Sotto quest’ultimo profilo, infatti, valgono alcune ulteriori considerazioni. L’art. 6, 6° comma, probabilmente a causa del contesto di settore nel quale è inserito, si occupa esclusivamente della contrazione dei compensi dei managers (e degli organi di controllo) di società chiuse a totale partecipazione pubblica (diretta o indiretta), ossia quelle società che, pur esercitando un’attività idonea (sotto il profilo finanziario ovvero latu sensu sociale) ad incidere sul benessere della collettività, sarebbero soggette a regole più blande in termini informativi e prive di prescrizioni in ordine a meccanismi di remunerazione vincolanti. Ebbene, il metodo utilizzato dal legislatore, sebbene influenzi direttamente il merito delle scelte societarie imponendo la riduzione del 10% citata, non si pone nella prospettiva di agevolare strumenti di prudente gestione del rischio che rendano possibile un’efficiente allocazione delle risorse; ed infatti, né favorisce in alcun modo forme adeguate di determinazione del compenso rapportate alle performance della società, né tanto meno indica criteri di informazione più capillari. Vengono, dunque, tralasciate soluzioni che avrebbero potuto rivelarsi adatte sia per ridurre la spesa delle pubbliche amministrazioni (promuovendo magari schemi di corresponsione dei gestori tramite autofinanziamento delle società pubbliche in un’ottica, di medio-lungo periodo, volta alla trasparenza ed alla ponderata considerazione di rischi e prospettive), sia per facilitare la “convergenza informata” degli interessi dei soggetti pubblici e privati comunque coinvolti nelle vicende delle società a partecipazione pubblica (enti partecipanti, amministratori e collettività che [continua ..]


NOTE