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Azioni proprie: computo nei quorum e illegittima disposizione. Questione chiusa?

NICOLA DE LUCA

ANDREA NAPOLITANO

CORTE D’APPELLO DI ROMA, 5 ottobre 2016 – Cofano, Presidente, Thellung De Courtelary, Consigliere, Cianfrocca Consigliere relatore estensore Assemblea ordinaria di approvazione del bilancio – Seconda convocazione – Azioni proprie – Maggioranze – Quorum costitutivo – Quorum deliberativo – Computo – Deroga per esigenza di facilità deliberativa – Esclusione (Artt. 2357-ter, 2369 c.c.) Nelle società per azioni che non ricorrono al mercato del capitale di rischio le azioni proprie sono sempre conteggiate nel calcolo dei quorum assembleari, sia costitutivi che deliberativi, anche quando la legge non assume il capitale sociale a denominatore per la loro verifica. Il principio di facilità deliberativa di cui all’art. 2369, comma 4, c.c. non osta a che le azioni proprie siano computate al denominatore del quorum deliberativo dell’assemblea di seconda convocazione di approvazione del bilancio. (1) SENTENZA Con atto di citazione ritualmente notificato, Salini Francesco Saverio, in proprio e quale legale rappresentante di SA.PAR. srl, entrambi soci di Salini Costruttori spa (ovvero titolari, il primo, di n. 9.440.700 e, la seconda, di n. 42.269.660 azioni ordinarie della predetta società), aveva convenuto in giudizio quest’ultima chiedendo al Tribunale di ritenere invalida ovvero di annullare la deliberazione dell’assemblea ordinaria del 23.6.2011 di [continua ..]

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COMMENTO

Sommario:

1. Il caso - 2. Il dibattito sul computo delle azioni proprie nella giurisprudenza e dottrina successiva al d.lgs. n. 224/2010. - 3. Il significato dell’espressione “maggioranze e quote richieste” - 4. Esercizio del voto, intervento e computo delle azioni proprie nei quorum - 5. Il fraintendimento del principio di “facilità deliberativa”: maggioranza assoluta e maggioranza relativa - 6. Il paradosso dell’autopartecipazione maggioritaria - 7. (segue). La disposizione di azioni pro­prie in difetto di autorizzazione assembleare - NOTE


1. Il caso

La questione è ormai nota. Una importante società per azioni non quotata, Salini Costruttori s.p.a., vede al suo interno due gruppi di soci in frequente dissidio: il primo gruppo è titolare del 47% delle azioni, il secondo del 43%; la restante parte è costituita da azioni proprie. Le due sentenze annotate riguardano una deliberazione di approvazione del bilancio e una di gratuita distribuzione di azioni proprie: dunque, in entrambi i casi deliberazioni di competenza dell’assemblea ordinaria. La deliberazione più risalente è quella di approvazione del bilancio dell’esercizio 2010, dichiarata approvata con il voto favorevole del gruppo di soci titolare del 47% delle azioni e il voto contrario del rimanente 43%. La deliberazione veniva impugnata dai soci che avevano espresso voto contrario sul principale argomento che non era stata raggiunta la maggioranza richiesta dalla legge in quanto nel quorum deliberativo, anche nell’assemblea ordinaria di seconda convocazione, devono essere computate le azioni proprie come intervenute ed astenute. Pertanto, il risultato della deliberazione doveva considerarsi di rigetto della proposta, dovendosi cumulare ai voti contrariamente espressi anche le astensioni (riferibili ai voti sospesi delle azioni proprie). Il Tribunale di Roma, investito della questione in primo grado, rigettava l’impugnazione ritenendo che la regola del computo delle azioni proprie [continua ..]

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2. Il dibattito sul computo delle azioni proprie nella giurisprudenza e dottrina successiva al d.lgs. n. 224/2010.

Come noto, l’art. 2357-ter, 2° comma, c.c. è stato innovato dal d.lgs. 29 novembre 2010, n. 224, per precisare che, benché il voto sia sospeso, «le azioni proprie sono tuttavia computate ai fini del calcolo delle maggioranze e delle quote richieste per la costituzione e per le deliberazioni dell’as­sem­blea», eliminando il riferimento al capitale. Ciò significa che, diversamente dal­l’av­­viso espresso in passato da parte della dottrina [1] e della giurisprudenza anche di legittimità [2], le stesse si computano anche quando le maggioranze prendono a riferimento come denominatore non la cifra del capitale sociale, ma il capitale rappresentato in assemblea [3]: il che vale in particolare per le assemblee ordinarie di seconda convocazione. Il chiarimento legislativo, tuttavia, non ha del tutto sopito la questione, insistendosi ancora da una parte della giurisprudenza [4] e della dottrina [5], che in tali assemblee le azioni proprie non si debbano computare ai fini della deliberazione. Sono fondamentalmente quattro gli argomenti addotti a fondamento della tesi che vorrebbe non si computassero le azioni proprie nei quorum deliberativi delle assemblee ordinarie in seconda convocazione. Innanzitutto, un argomento letterale: la legge, infatti, farebbe ancora riferimento alle quote e maggioranze richieste, tali dovendosi ritenere solo [continua ..]

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3. Il significato dell’espressione “maggioranze e quote richieste”

Il participio aggettivato “richieste”, riferibile da un punto di vista grammaticale nel testo dell’art. 2357-ter, 2° comma, c.c. a quote e maggioranze, non può essere interpretato nel senso che le azioni proprie debbano essere computate solo quando la legge richieda una maggioranza che al contempo rappresenti una certa quota di capitale sociale per essere sufficiente a determinare l’ap­provazione della deliberazione (e cioè maggioranze e quote specificamente richieste). In questo senso è più precisa, ma non diversa, l’espressione dell’art. 2368, 3° comma, c.c. la quale si riferisce «alla maggioranza e alla quota di capitale richiesta per l’approvazione della deliberazione». Il sostantivo “maggioranza”, in questo caso, attiene alla prevalenza dei voti favorevoli su quelli contrari e sugli astenuti, con la precisazione che non si considerano astenute le azioni che hanno contribuito alla formazione del quorum costitutivo, il cui voto risulta sospeso: in termini matematici, si ha maggioranza quando il rapporto tra il valore nominale delle azioni che hanno espresso voti favorevoli, posto a numeratore, e il valore nominale di tutte le azioni rappresentate in assemblea, escluse quelle che non potevano esprimerne, poste a denominatore, è maggiore di un mezzo. L’e­spressione quota di capitale richiesta attiene invece all’eventuale [continua ..]

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4. Esercizio del voto, intervento e computo delle azioni proprie nei quorum

Parte della dottrina si è chiesta, sia in passato sia, più recentemente, alla luce della riforma del 2010, se gli amministratori della società possano intervenire in assemblea con le azioni proprie, che pur non possono esprimere il voto, al fine di facilitare o com­plicare il raggiungimento dei quorum costitutivi [9]. La soluzione negativa al prospettato interrogativo potrebbe farsi provenire dal­l’osservazione che il diritto di intervento è connesso all’espressione del voto, a norma del­l’art. 2370 c.c., e che in relazione alle azioni proprie il voto è sospeso [10]. Si tratta tuttavia di un approccio fallace. Invero, l’art. 2370, 1° comma, c.c. si esprime nel senso che «possono intervenire al­l’as­semblea gli azionisti cui spetta il diritto di voto» (enfasi aggiunta). Letta in negativo la medesima disposizione afferma che non possono intervenire coloro cui il diritto di voto non spetta. Così proposta, la regola del­l’art. 2370, 1° comma, c.c. aderisce perfettamente a quella dell’art. 2368, 1° comma, c.c., a mente del quale ai fini dell’in­tervento necessario per verificare il raggiungimento del quorum costitutivo vanno escluse le azioni prive del diritto di voto nell’assemblea medesima: e cioè i possesso­ri di azioni senza diritto voto, tra cui quelle di [continua ..]

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5. Il fraintendimento del principio di “facilità deliberativa”: maggioranza assoluta e maggioranza relativa

Contro la tesi del necessario computo delle azioni proprie in ogni sede e convocazione assembleare, era stato portato l’argo­mento dell’ipotetico contrasto con il principio di facilità deliberativa, di cui all’art. 2369, 4° comma, c.c. Tale argomento era stato accolto dal Tribunale di Roma nella sentenza ora riformata dalla Corte di Appello in commento. Sul presupposto che la tesi del necessario computo delle azioni proprie in tutte le sedi e convocazioni fosse corretta in generale, si era sostenuto che la stessa dovesse cedere nelle assemblee ordinarie in seconda convocazione qualora si tratti di nominare (o revocare) le cariche sociali o di approvare il bilancio, dovendo prevalere in questi casi le esigenze di facilità deliberativa espresse dall’art. 2369, 4° comma, c.c. [11]. Neppure questo argomento può essere tuttavia condiviso, come osservato in dottri­na [12] e da entrambe le sentenze in epigrafe. Anzitutto, il disposto dell’art. 2369, 4° comma, c.c. pone un vincolo all’autonomia statutaria, non già alla potestà del legislatore, che ben potrebbe prevedere deroghe: non pare dunque necessitata un’interpre­tazione correttiva di una norma avente pari dignità e forza. Sennonché, le regole di computo delle azioni proprie non costituiscono alcuna deroga al principio di facilità deliberativa perché la maggioranza necessaria per [continua ..]

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6. Il paradosso dell’autopartecipazione maggioritaria

Un ultimo, complesso, argomento – specificamente affrontato dal Tribunale di Milano – merita di essere analizzato. Abolito il limite quantitativo per le società chiuse, qualora la società abbia acquistato oltre metà delle proprie azioni, come si osservava già prima dell’introduzione del limite quantitativo [13], l’assemblea si troverebbe in stallo giuridico, non di fatto, tanto nelle deliberazioni di assemblea straordinaria che ordinaria: addirittura si giungerebbe a non potere neppure deliberare l’aliena­zione delle azioni proprie, perché, se queste si computano in tutti i quorum, è evidente che il 50% superstite non è maggioranza assoluta (come esige l’art. 2368, 1° comma, c.c., applicabile anche alla seconda convocazione ex art. 2369, 3° comma, c.c.) rispetto al 50% costituito dalle azioni proprie in portafoglio. Tale eventualità è stata additata da una parte della dottrina come emersione di una incongruenza sistematica dell’interpreta­zio­ne che vuole computare le azioni proprie nei quorum anche deliberativi, in ogni sede e convocazione, sul presupposto – dimostrato al § 4 – che l’intervento delle azioni proprie e dunque il relativo computo non possono dipendere da una scelta discrezionale degli amministratori [14]. La stessa dottrina ne ha tratto perciò la necessità di [continua ..]

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7. (segue). La disposizione di azioni pro­prie in difetto di autorizzazione assembleare

Va ricordata al riguardo un’importante pronuncia della Cassazione, la quale ha affermato il principio secondo cui l’atto di disposizione delle azioni proprie compiuto dagli amministratori senza l’autorizzazione dell’assemblea non è nullo, ma soltanto annullabile, poiché l’interesse tutelato dalla disposizione è quello di proteggere la società dal rischio di abusi da parte degli amministratori e di garantire ai soci una eventuale preferenza ai fini del mantenimento degli equilibri interni in atto, senza che in ciò possa configurarsi una norma di ordine pubblico. Secondo la Suprema Corte il vizio dell’atto dispositivo potrebbe essere fatto valere attraverso un’azione di annullamento che, a ragione del conflitto di interessi degli amministratori, dovrebbe essere deliberata in assemblea e alla relativa votazione non potrebbero partecipare i soci acquirenti di tali azioni per il conflitto di interesse con la società [20]. La soluzione prospettata dalla Suprema Corte ha suscitato perplessità in dottrina [21] e, comunque, non potrebbe essere seguita pedissequamente dato il diverso contesto normativo nel quale è stata elaborata. Come conferma la stessa sentenza del Tribunale di Milano in commento, nel diritto societario riformato, non è più prevista l’astensione obbligatoria dei soci in conflitto di interesse, sicché sarebbe comunque agli [continua ..]

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NOTE

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