Rivista di Diritto SocietarioISSN 1972-9243 / EISSN 2421-7166
G. Giappichelli Editore

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Il computo delle azioni proprie ai fini del calcolo dei quorum assembleari (di Mario Notari)


SOMMARIO:

1. Introduzione e individuazione della questione interpretativa oggetto di analisi - 2. Breve disamina dei concetti di base del “computo delle azioni” e del “calcolo dei quorum” - 3. Le diverse regole applicabili al computo delle azioni, a seconda che la base di cal­colo sia costituita dal “capitale totale” o dal “capitale sociale rappresentato” - 4. La questione aperta (computo delle azioni proprie nel “capitale rappresentato”) e le diverse interpretazioni, prima e dopo la novella del 2010 - 5. Insufficienza della lettera della norma (e delle argomentazioni della Relazione) per risolvere la questione - 6. Le argomentazioni a favore della non computabilità delle azioni proprie (anche di società chiuse) nei casi in cui la base di calcolo è data dal “capitale rappresentato” - NOTE


1. Introduzione e individuazione della questione interpretativa oggetto di analisi

Le regole dettate per stabilire il numero di azioni necessario per iniziare una riunione assembleare (c.d. quorum costitutivo) e il numero di voti favorevoli necessario per assumere una deliberazione (c.d. quorum deliberativo) richiedono particolari “adattamenti” in talune circostanze, quali la presenza di azioni senza diritto di voto, azioni con diritto di voto sospeso, azioni a voto “quantitativamente” ridotto o maggiorato. Una particolare ipotesi di azioni a voto sospeso è quella delle azioni proprie, per le quali l’art. 2357-ter, 2° comma, c.c., stabilisce regole in parte diverse dalle altre azioni a voto sospeso. In questo scritto intendo esaminare l’aspetto più controverso di tale questione ossia il problema del computo delle azioni proprie ai fini della determinazione dei quorum deliberativi la cui base di calcolo è costituita dal capitale sociale “rappresentato in assemblea”. Si tratta di un tema risalente e dibattuto, che tuttavia ha costituito oggetto – sino alla recente novella del 2010 – di un’analisi tutto sommato superficiale, che ha visto per lo più ripetersi tralatiziamente le poche considerazioni generali presenti in quasi tutti gli interventi dottrinali successivi all’adozione della Seconda Direttiva comunitaria nel 1986. Alcune vicende giudiziarie conclusesi negli ultimi anni e la modifica dell’art. 2357-ter, 2° comma, c.c., ad opera del d.lgs. n. 224/2010, hanno invero riportato l’attenzione sul tema, pur con conclusioni che, come cercherò di dimostrare, non appaiono convincenti e rischiano di “appiattirsi” altrettanto superficialmente sulla Relazione ministeriale che ha accompagnato la novella. Sebbene il quadro normativo sia mutato a più riprese nel corso degli ultimi trent’anni 1, non mi sembra opportuno procedere in questa sede a una dettagliata ricostruzione storica e cronologica del dato normativo e delle interpretazioni che si sono via via succedute. Piuttosto, conviene, pur nella brevità imposta dalle caratteristiche del presente scritto, delineare il quadro attuale delle regole e dei principi che disciplinano il computo delle azioni e il calcolo dei quorum.


2. Breve disamina dei concetti di base del “computo delle azioni” e del “calcolo dei quorum”

Si cominci con l’individuazione dei concetti fondamentali. Occorre anzitutto distinguere due diversi passaggi logici, ai quali possiamo dare il nome di computo delle azioni, in primo luogo, e di calcolo dei quorum, in secondo luogo. (i) Il “computo delle azioni” consiste nel conteggio del numero delle azioni sulle quali si deve poi calcolare il quorum richiesto ai fini della valida costituzione dell’assem­blea (quorum costitutivo) o ai fini della valida assunzione di una deliberazione (quorum deliberativo). Con il termine quorum, in questa accezione, si individua in modo generico, nel primo caso, la “quota” delle azioni richiesta dalla legge o dallo statuto per la costituzione dell’assemblea, e nel secondo caso la “quota” dei voti favorevoli richiesta dalla legge o dallo statuto per l’assunzione della deliberazione. (ii) Il “calcolo dei quorum” consiste invece nella determinazione in concreto, di volta in volta, del numero di azioni o di voti favorevoli necessario per la costituzione dell’assemblea o per l’assunzione della deliberazione. Con il termine quorum, in questa seconda accezione, si individua in modo specifico il numero di azioni o di voti necessario, di volta in volta, per la costituzione dell’assemblea o per l’as­sun­zione della deliberazione. Il risultato del “computo delle azioni” sulla cui base si deve calcolare il quorum è anche definito quale il denominatore della frazione, mentre il numero di azioni necessario per la costituzione o la deliberazione è individuato come numeratore della medesima frazione. Così, ad esempio, là dove si stabilisce che l’assemblea straordinaria di seconda convocazione “delibera con il voto favorevole di almeno i due terzi del capitale rappresentato in assemblea”, al denominatore si pone il numero delle azioni presenti, mentre al numeratore si pone il numero di voti necessari per assumere la deliberazione. Farò comunque riferimento, nel prosieguo dello scritto, al denominatore di questa frazione ricorrendo alla locuzione “base di calcolo” per la determinazione del quorum. Nel regime legale delle deliberazioni assembleari di società per azioni, la “base di calcolo” per la determinazione dei quorum assembleari è [continua ..]


3. Le diverse regole applicabili al computo delle azioni, a seconda che la base di cal­colo sia costituita dal “capitale totale” o dal “capitale sociale rappresentato”

Si possono ora esaminare le regole dettate per il “computo delle azioni”, cominciando dai casi in cui la base di calcolo è data dal capitale totale per proseguire poi con quelli in cui essa è data dal capitale rappresentato. (i) Quando la base di calcolo è data dal capitale totale ed è finalizzata al calcolo del quorum costitutivo, si applicano le seguenti regole: – si computano tutte le azioni emesse, con riferimento al momento di inizio del­l’as­semblea; – non si computano tuttavia le azioni “prive di voto” (art. 2368, 1° comma, c.c., pacificamente ritenuto applicabile a tutti i casi di quorum costitutivi): per interpretazione quasi unanime, si intende che le azioni “prive di voto” siano (tutte e solo) le azioni istituzionalmente prive del voto per l’assemblea di cui trattasi, ossia quelle che non incorporano (in quel momento) il diritto di voto in virtù del loro “contenuto” (tale inteso ai sensi dell’art. 2348 c.c.) e non già quelle che, pur incorporando il diritto, non possono esercitarlo 5; – si computano, invece, tutte le azioni per le quali il diritto di voto spetta ma è sospeso, ossia le “azioni per le quali non può essere esercitato il diritto di voto” (art. 2368, 3° comma, c.c.): vi rientrano ad esempio le azioni del socio moroso (art. 2344 c.c.), le azioni sindacate in caso di violazione dei relativi obblighi (art. 2341-ter c.c. e art. 122 t.u.f.), le azioni detenute dalle società controllate (art. 2359-bis, 5° comma, c.c.), le azioni per le quali sono stati violati gli obblighi in tema di o.p.a. o in tema di assetti proprietari (artt. 110 e 120 t.u.f.); – si computano anche le azioni proprie, e ciò sia in quanto si tratta, come nei precedenti casi, di azioni cui il voto spetta ma è sospeso, sia perché lo statuisce espressamente la legge nell’art. 2357-ter, 2° comma, c.c. (ai sensi del quale “il diritto di voto è sospeso, ma le azioni proprie sono tuttavia computate ai fini del calcolo delle maggioranze e delle quote richieste per la costituzione e per le deliberazioni dell’assemblea”); il significato della norma, a questo riguardo, non è oggetto di dubbi, in quanto non è altro che la conferma [continua ..]


4. La questione aperta (computo delle azioni proprie nel “capitale rappresentato”) e le diverse interpretazioni, prima e dopo la novella del 2010

Nella dottrina e nella giurisprudenza che si sono espresse successivamente al 1986 – anno nel quale venne introdotto l’art. 2357-ter c.c. in attuazione delle Seconda Direttiva comunitaria – ma prima del 2010 – anno nel quale il legislatore ha “ritoccato” il 2° comma dello stesso art. 2357-ter c.c. – sono rappresentate in modo significativo sia la tesi favorevole al computo delle azioni proprie anche nel caso da ultimo illustrato, sia quella contraria. Da un lato, alcuni Autori ritenevano applicabile la regola del “computo delle azioni proprie”, stabilita dalla norma ora citata, in tutti i casi in cui occorra determinare la base di calcolo del quorum, ivi compresi quelli in cui essa è costituita dal “capitale rappresentato”9. Dall’altro, veniva invece sostenuta l’applicabilità della regola del “computo delle azioni proprie” nei casi in cui la base di calcolo del quorum, sia costitutivi che deliberativi, è data dal “capitale totale”, escludendola tuttavia nei casi in cui essa è ragguagliata al “capitale rappresentato”10. La tesi della non computabilità delle azioni proprie nei casi in cui la base di calcolo è data dal “capitale rappresentato” è stata poi affermata in modo assai netto dalla Corte di Cassazione11, ad avviso della quale le azioni proprie “vanno incluse nella base su cui calcolare i quorum costitutivi o deliberativi, esclusivamente allorché tali quorum si configurino come quote del capitale sociale”12. Le due sentenze, pur pronunciate dopo il 2010, si riferiscono alla norma vigente sino alla novella introdotta dal d.lgs. n. 224/2010, e non prendono posizione sul significato da attribuire alla nuova formulazione dell’art. 2357-ter, 2° comma, c.c., lasciandone espressamente impregiudicata la questione della sua interpretazione13. L’orientamento interpretativo della dottrina è nettamente mutato in seguito al­l’intervento del d.lgs. n. 224/2010, che ha modificato il 2° comma dell’art. 2357-ter c.c. Per facilità di lettura, riporto qui di seguito l’attuale formulazione della norma, con evidenza delle parole eliminate (scritte in caratteri barrati) e delle le parole aggiunte (scritte in caratteri corsivi): «Finché le azioni restano [continua ..]


5. Insufficienza della lettera della norma (e delle argomentazioni della Relazione) per risolvere la questione

Sebbene l’intenzione del legislatore “storico” fosse quella di affermare la computabilità delle azioni proprie nel “capitale rappresentato”, la modifica legislativa del 2010 non è a mio avviso decisiva per attribuire tale significato alla norma ora in vigore. Anzi, a ben vedere, proprio le ragioni assunte dal legislatore storico a fondamento del proprio intervento e manifestate nella relazione del d.lgs. n. 224/2010 conducono a sostenere l’interpretazione opposta. Intendo in particolare dimostrare: (i) che le modificazioni della norma, come introdotte dal d.lgs. n. 224/2010, non sono in sé univoche e risolutive, e che la lettera della norma ora in vigore, esaminata nel suo complesso, non è affatto decisiva per sostenere l’una o l’altra interpretazione; (ii) che le ragioni manifestate dalla Relazione al d.lgs. 224/2010 non sono compatibili con il significato che il legislatore storico ha attribuito alle parole dal medesimo introdotte, bensì sono coerenti con un significato diverso. Si cominci con l’esame delle modificazioni introdotte dal d.lgs. n. 224/2010 nel primo periodo del 2° comma dell’art. 2357-ter c.c. (eliminazione delle parole “nel capitale” e aggiunta delle parole “delle maggioranze”). Ebbene, esse non rappresentano altro che un “allineamento” della norma in questione alla norma più generale che disciplina il computo delle azioni ai fini del calcolo dei quorum assembleare, ossia l’art. 2368, 3° comma, c.c. Entrambe le norme, infatti, utilizzano ora la medesima terminologia per esprimere la regola del computo delle azioni ai fini del calcolo dei quorum: nell’uno e nell’altro caso, infatti, le azioni sono o non sono «computate ai fini del calcolo della maggioranza e della quota di capitale richiesta per l’approvazione della deliberazione» oltre che per la costituzione dell’assem­blea, nel solo art. 2357-ter, 2° comma, c.c.. Ed entrambe le norme sono suscettibili di essere lette con riferimento ai soli casi in cui la base di calcolo è data dal «capitale totale» oppure con riferimento sia a questi che a quelli in cui la base di calcolo è data dal «capitale rappresentato» 17. L’eliminazione del riferimento al capitale si giustifica trattandosi di un riferimento inutile e [continua ..]


6. Le argomentazioni a favore della non computabilità delle azioni proprie (anche di società chiuse) nei casi in cui la base di calcolo è data dal “capitale rappresentato”

La tesi della non computabilità delle azioni proprie nei casi in cui la base di calcolo è data dal “capitale rappresentato” merita a mio avviso di essere accolta in base alle argomentazioni che seguono. (a) In primo luogo, il computo delle azioni proprie nel “capitale rappresentato” comporterebbe una significativa forzatura nel sistema del procedimento assembleare: le azioni proprie sarebbero infatti considerate come azioni intervenute in assemblea, sebbene non vi siano soggetti che formalmente le rappresentano e sebbene sia palesemente contrario allo spirito della legge ipotizzare che gli amministratori o quelli tra loro che sono dotati della legale rappresentanza della società intervengano in assemblea come azionisti, nell’esercizio del diritto di intervento delle azioni proprie 20. Sembra frutto di equivoco, da questo punto di vista, l’affermazione secondo la quale “le azioni proprie sono per legge considerate intervenienti, come tutte le altre azioni a voto sospeso ai fini dei quorum costitutivi” 21. Non corrisponde al vero, infatti, che le azioni a voto sospeso siano considerate come intervenienti, né ai fini dei quorum costitutivi né ai fini di quelli deliberativi, né quando la base di calcolo è data dal “capitale totale” né quando essa è costituita dal “capitale rappresentato”. Dire che le azioni a voto sospeso “sono computate” ai fini del calcolo della maggioranza e della quota di capitale richiesta per la costituzione dell’assemblea (è quanto afferma a contrario l’art. 2368, 3° comma, c.c.), infatti, non vuol dire che le azioni a voto sospeso sono considerate intervenienti: significa che esse sono computate nella base di calcolo della maggioranza; significa cioè che esse sono considerate come azioni “esistenti”, al contrario delle azioni prive di voto, che invece sono considerate come azioni “inesistenti” a questo fine, ossia da non computare nella base di calcolo della maggioranza 22. Sarebbe pertanto altrettanto errato considerare le azioni proprie come azioni intervenute avvalendosi di un parallelismo con le azioni a voto sospeso, le quali non assumono mai la connotazione di azioni intervenute. La qualificazione delle azioni proprie come azioni intervenute – oltre [continua ..]


NOTE