Rivista di Diritto SocietarioISSN 1972-9243 / EISSN 2421-7166
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Successione dell'amministratore nelle funzioni di liquidatore e sospensione della prescrizione (nota a Trib. Napoli, 18 giugno 2012) (di Mauro Marobbio)


TRIBUNALE DI NAPOLI, 18 giugno 2012 – Tabarro, Relatore – Fallimento E. s.r.l. c. M.A.

Prescrizione – sospensione ex art. 2941, n. 7 c.c. successione amministratore liquidatore – tassatività delle cause di sospensione – profili processuali

La permanenza in carica senza soluzione di continuità della medesima persona fisica, prima in qualità di amministratore e poi di liquidatore della società, giustifica la sospensione della prescrizione fino alla cessazione dell’ultima carica. Ciò, per l’evidente motivo che, essendo il liquidatore legittimato ad agire in responsabilità nei confronti degli amministratori precedenti, la riunione in capo al medesimo soggetto della duplice qualità di attore e convenuto nell’ipotetica azione di responsabilità, rende senz’altro configurabile la ratio della sospensione della prescrizione. (1)

Sentenza n. 7226/12

Repertorio n. 8509/12

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale di Napoli, 7^ Sezione civile, composto dai seguenti magistrati:

  1. Eduardo Campese       Presidente
  2. Alessandra Tabarro      Giudice rel.
  3. Aldo Ceniccola            Giudice

ha emesso la seguente

SENTENZA

nella causa iscritta al nrg. 38878/09 avente ad oggetto: azione di responsabilità ex art. 146 l.f. e vertente

TRA

FALLIMENTO E. s.r.l., in persona del curatore, avv. A.P., rappresentato e difeso dal prof. Avv. P.P. giusta procura a margine dell’atto di citazione e decreto autorizzativo del GD del 7/10/09 presso il cui studio elett.te domicilia in ...;

ATTORE

E

M.A. rappresentato e difeso, unitamente e disgiuntamente, dagli avv.ti F.M. e G.B. giusta procura a margine della comparsa di costituzione presso il cui studio elett.te domicilia in ...;

CONVENUTO

CONCLUSIONI

All’udienza del 28 febbraio 2012 i procuratori delle parti hanno così concluso:

Il procuratore del fallimento attore: “si riporta agli atti e chiede che il Tribunale voglia integralmente accogliere le conclusioni indicate nell’atto di citazione”.

Il procuratore del convenuto:“impugna anche in questa sede la consulenza tecnica di ufficio nella parte in cui ha valutato il “ramo di azienda” ceduto alla T.D. s.a.s. senza tenere conto nella determinazione del­l’avviamento”, che la licenza commerciale era stata concessa dal Comune di ... solo alcuni giorni prima della stipula del contratto. L’avv. B. conclude riportandosi a tutte le eccezioni, deduzioni e richieste, principali e subordinate, di merito ed istruttorie, formulate nel corso del presente giudizio, che abbiansi per ripetute e trascritte in questa sede parola per parola, nessuna esclusa e/o eccettuata, sempre con rigetto di ogni avversa pretesa”.

MOTIVI IN FATTO E IN DIRITTO DELLA DECISIONE

Con atto di citazione ritualmente notificato nei confronti di M.A. la curatela del fallimento della E. s.r.l. lo conveniva in giudizio per sentir accertare e dichia­rare la sua responsabilità, quale amministratore della società fallita, per tutti i fatti indicati nella premessa del­l’atto introduttivo ai sensi dell’art. 146 l.f., artt. 2392, 2393, 2394, 2407, 2447, 2449 c.c. nel testo vigente al 31/12/03, nonché degli artt. 2392, 2393, 2394, 2394bis, 2407, 2447, 2485, 2486 c.c. nel testo introdotto dal d.lgs. n. 6/03; accertare e dichiarare il danno causato al fallimento istante dal comportamento dell’amministratore unico, M.A., nella misura di € 1.646.662,32, pari alla differenza tra il passivo e l’attivo fallimentare ovvero nella diversa somma ritenuta dal Tribunale; condannare il convenuto al pagamento dei danni in favore del fallimento nella misura predetta, oltre interessi e rivalutazione monetaria fino al soddisfo o nella diversa somma liquidata dal Tribunale, se del caso anche in via equitativa, sempre oltre interessi e rivalutazione monetaria fino al soddisfo, con vittoria di spese ed onorari di giudizio.

Premetteva in fatto che il Tribunale di ..., con sentenza del 20 ottobre 2004, aveva dichiarato il fallimento della E. s.r.l. in liquidazione, società costituita nel 1981 che aveva svolto attività commerciale in Ischia articolata in due rami di azienda, uno avente al gestione di un supermercato e l’altro avente ad oggetto la fornitura di aziende alberghiere, fino al 9 settembre 2004, allorquando la società era stata posta in liquidazione, con nomina di M.A. come liquidatore, anche precedente amministratore unico della società dalla data di costituzione fino alla messa in liquidazione.

La curatela contestava al M. di avere stipulato, negli anni 1992-1993, periodo di difficoltà economico-finan­ziarie per la società dovuta alla conclusione di due contratti di mutuo con il M.P. di S., in data 20 aprile 1993, un contratto di affitto di azienda avente ad oggetto la gestione del supermercato, la cessione della vendita al dettaglio e delle merci alimentari giacenti in magazzino, alla società I.S. s.r.l. (poi D.A. s.a.s. di F.D.S.) per un canone annuo di lire 150.000.000, società che già nel secondo semestre successivo alla stipula era rimasta inadempiente, circostanza quest’ul­tima che rivelava la errata scelta del contraente da parte dell’am­ministratore evincibile, peraltro, anche dalle anomale condizioni contrattuali fissate per il pagamento dei canoni nel contratto di affitto.

Da tale operazione, non preceduta dalle necessarie verifiche e dall’assunzione da parte dell’amministratore delle informazioni preventive, erano derivati, a dire della curatela, danni alla società per € 3.500.000,00, dovuti al mancato pagamento dei canoni di affitto, allo stravolgimento dei locali dell’azienda, alla perdita dell’avviamento commerciale ed al rischio di definitiva perdita di licenze ed autorizzazioni dell’attività aziendale.

Aggiungeva, altresì, la curatela, che l’amministratore evo­cato in giudizio aveva stipulato, in conflitto di interessi, un contratto di affitto di azienda in data 2 luglio 1993 avente ad oggetto la fornitura alle strutture alberghiere, la cessione della licenza delle vendita al dettaglio e delle merci alimentari giacenti nel magazzino con la T.D. s.a.s. la cui compagine sociale, al momento della stipula, era costituita dai figli dell’amministratore, M.F. e G., per l’esiguo canone annuo di lire 18.000.000.

L’amministratore, inoltre, secondo la prospettazione attorea, già a partire dalla metà degli anni novanta, nonostante il patrimonio netto della società fosse divenuto negativo, non aveva proceduto alla messa in liquidazione della società né adottato i provvedimenti di cui all’art. 2447 c.c., causando l’accumulazione della pesante debitoria, alla quale andavano aggiunte le sanzioni fiscali e contributive scaturenti dall’inadempimento dei molteplici obblighi fiscali e contributivi maturati nel corso della gestione.

Tanto premesso, per le ragioni indicate e per quello meglio spiegate nell’atto introduttivo, concludeva come sopra.

Si costituiva in giudizio M.A. eccependo preliminarmente l’intervenuta prescrizione dell’azione sociale di responsabilità avendo l’amministratore, nominato nel 1993, cessato la carica il 9/9/01, quando per l’appunto la società era stata posta in liquidazione fino alla data del fallimento (ottobre 2004).

Eccepiva, altresì, la prescrizione dell’azione di responsabilità dei creditori sociali poiché l’insufficienza patrimoniale della società era conoscibile dai creditori, soprattutto le banche, già a partire dal periodo giugno-agosto 1993 avevano provveduto a bloccare i fidi, chiedendo l’immediato rientro della posizione debitoria intraprendendo azioni ese­cutive e proponendo diversi ricorsi di fallimento.

Nel merito contestava la fondatezza della domanda affermando che alcuna illegittimità fosse ravvisabile nella condotta di esso amministratore e che alcun addebito poteva essergli mosso relativamente alla stipula del contratto di affitto contestata dalla curatela, posto che la società locataria dell’azienda avente ad oggetto la gestione del supermercato era riconducibile ad un noto imprenditore dell’isola di ... nei cui confronti la società fallita aveva promosso azioni giudiziali per il recupero dei crediti e per ottenere la risoluzione del contratto ed il pagamento delle somme dovute.

Quanto, invece, al contratto di affitto asseritamene stipulato in conflitto di interessi con la T.D. s.a.s. deduceva l’assoluta mancanza di danno per la società in bonis tenuto conto del fatto che dal 1993 al 2003 i canoni di affitto erano stati corrisposti.

Tanto dedotto ed anche per le ragioni meglio spiegate nella comparsa di risposta chiedeva il rigetto della domanda con vittoria di spese.

Esaurita la trattazione con il deposito delle memorie ex art. 183 sesto comma, ammessa la c.t.u. richiesta da parte attrice, all’esito, all’udienza del 28/2/12, sulle conclusioni in epigrafe trascritte, la causa veniva riservata in decisione con la concessione del termine di gg. 60 per lo scambio delle comparse conclusionali e successivo termine di gg. 20 per il deposito delle memorie di replica.

Con il presente giudizio l’attrice ha contestato all’am­ministratore convenuto, liquidatore al momento della dichiarazione di fallimento, di avere effettuato nel corso della vita della società, due scelte gestorie in violazione delle norme di diligenza e prudenza che regolano l’agire degli amministratori di società, rivelatesi poi dannose per quest’ul­tima.

La prima concretatasi nella stipula di un contratto di affitto di azienda il 20 aprile 1993 avente ad oggetto la gestione del supermercato sito in Ischia, in virtù del quale la società fallita concedeva in affitto alla società I.S. s.r.l. (poi DE.AR. s.a.s. di F.D.S.) il ramo di azienda rappresentato dai locali destinati al supermercato verso il pagamento di un canone annuo di lire 150.000.000 e contestualmente la società E. s.r.l. cedeva all’affittuaria la licenza di vendita al dettaglio e le merci alimentari giacenti in magazzino, mentre al società affittuaria si obbligava a smaltire presso i propri negozi, le ulteriori tipologie merceologiche presenti nel supermercato al momento della cessione per i 18 mesi successivi alla stipula del contratto.

Essendosi verificata, a partire dal semestre successivo alla stipula del contratto, l’inadempienza della società affittuaria, oltre che dell’obbligo del pagamento dei canoni, anche degli ulteriori obblighi contrattuali, e stante l’anomalia delle condizioni contrattuali, laddove nel contratto di affitto veniva previsto il pagamento dei canoni a mezzo rilascio di cambiale, l’amministratore doveva ritenersi responsabile per la scelta del contraente effettuata, in quanto non preceduta, secondo l’assunto della curatela, dalle necessarie ve­rifiche ed informazioni che l’operazione avrebbe richiesto a causa delle condizioni di dissesto in cui la società E. s.r.l. già versava.

La seconda scelta gestoria rivelatasi dannosa per la società nella prospettazione attorea è la successiva stipula di un secondo contratto di affitto di ramo di azienda intervenuta il 2 luglio 1993 avente ad oggetto la fornitura alle strutture alberghiere, con la T.D. s.a.s., società la cui compagine sociale al momento dell’affitto era costituita dai figli dell’amministratore M.F. e G.G.

Con il contratto in questione, che prevedeva il versamento del corrispettivo di lire 18.000.000 annui, esiguo rispetto al valore di mercato, la società E. concedeva in affitto alla predetta società il predetto ramo aziendale e, dunque il valore di avviamento dell’azienda medesima, nonché la cessione della licenza di vendita al dettaglio per i generi merceologici in essa contenuti.

La curatela ha, quindi, chiesto l’accertamento della responsabilità dell’amministratore che, in violazione del dovere di diligenza, ed agendo in conflitto con l’interesse sociale, ha affittato ad un prezzo esiguo il ramo aziendale predetto con conseguente danno per la società che non ha mai incassato i relativi canoni di affitto.

L’amministratore convenuto, poi, a dire dell’attrice, avreb­be continuato l’attività di impresa pur in presenza di un patrimonio netto negativo a partire dalla metà degli anni novanta, in violazione degli artt. 2447 e 2486 c.c., aggravando lo stato di insolvenza della società con ingenti danni per il patrimonio sociale e per i creditori evincibili dal­l’ana­lisi delle domande di ammissione al passivo tutte relative a debiti maturati nei periodi successivi al 1993.

Infine il mancato pagamento di contributi ed imposte dovute da parte dell’amministratore concreterebbero un ul­te­riore danno per il patrimonio sociale costituito dalle sanzioni fiscali e contributive per importi notevoli.

La domanda è fondata e va accolta.

In via preliminare va osservato che, a norma dell’art. 146, comma 2°, l. fall. (nel testo in vigore fino al 16/7/2006, e cioè per l’epoca in cui i fatti contestati sono stati, in ipotesi, commessi), il curatore ha la facoltà di promuovere nei confronti degli amministratori e dei sindaci di società di capitali sia l’azione di responsabilità che compete alla società (artt. 2392-2393 e 2407, comma 2° e 3°, c.c.), sia l’azione di responsabilità che spetta ai creditori sociali (artt. 2394 e 2407, comma 2° e 3°, c.c.).

Non si tratta, come è noto, di un’azione nuova, che sorge a titolo originario in capo al curatore ma, più semplicemente, della legittimazione (esclusiva) ad esercitare, seppure in forma necessariamente cumulativa ed inscindibile, le stesse azioni che, prima del fallimento, spettavano, separatamente, alla società ed ai creditori sociali (cfr. Cass. n. 3755/1981, Cass. n. 6187/1984, Cass. n. 10488/1998; per la giurisprudenza di merito, cfr. Trib. Bologna 19/1/1993; Trib. Milano 18/5/1999; Trib. Milano 7/9/1998).

Il curatore del fallimento che agisce a norma dell’art. 146, comma 2°, l. fall., cioè, propone, contemporaneamente e necessariamente, entrambe le azioni previste dagli artt. 2392-2393 e 2394 c.c.

Ciò significa che la responsabilità degli amministratori, può essere dedotta ed affermata dal curatore del fallimento:

  • in base ai presupposti dell’azione sociale prevista dagli artt. 2392-2393 c.c., che riconoscono alla società il diritto al risarcimento del pregiudizio cagionato al suo patrimonio da ogni atto, colposo o doloso, compiuto dagli amministratori in violazione del dovere generale di diligenza ovvero dei doveri specifici imposti dalla legge o dall’atto costitutivo ovvero del generale dovere di vigilanza attiva sulla gestione sociale o di intervento operoso, in solido tra di loro (art. 2392, comma 2° e 3°, c.c.);
  • in forza dei presupposti dell’azione proponibile dai creditori sociali di cui all’art. 2394 c.c., che riconosce a costoro il diritto al risarcimento dei danni subiti per effetto (e nei limiti) dell’insufficienza patrimoniale cagionata con dolo o colpa dagli amministratori della società debitrice per inosservanza degli obblighi di conservazione del patrimonio sociale, in solido tra loro (art. 2392, comma 2° e 3°, c.c.).

In particolare, la differenza normativa principale tra le due fattispecie è che mentre la responsabilità degli amministratori (e quella concorrente dei sindaci) verso la società ha natura contrattuale (cfr. Cass. n. 10488/1998 cit.; Cass. n. 5989/1989, in Giur. comm. 1989, II, 208), la responsabilità degli amministratori verso i creditori sociali ha natura extracontrattuale, pur se fatta valere nell’ambito del fallimento.

Pertanto, il curatore che, ai sensi dell’art. 146, comma 2°, l. fall., fa valere la responsabilità contrattuale verso la società ex artt. 2392-2393 e 2407, comma 2° e 3°, c.c., ha l’onere di dimostrare l’inadempimento da parte dell’ammi­nistratore ai doveri derivanti dalla legge o dall’atto costitutivo ovvero a quello generale di diligenza ovvero ai doveri di vigilanza attiva e di intervento operoso, che la società ne abbia ricevuto un danno patrimoniale e che tale pregiudizio sia la conseguenza diretta ed immediata dell’inadempi­mento degli amministratori, spettando, invece, all’ammini­stra­tore la prova che l’inadempimento è derivato da causa a lui non imputabile (art. 1218 c.c.).

Il curatore che, a norma dell’art. 146, comma 2°, l. fall., agisce in giudizio per far valere la responsabilità extracontrattuale verso i creditori sociali ex artt. 2394 e 2407, comma 2° e 3°, c.c. deve, invece, provare l’inosservanza da parte dell’amministratore degli obblighi inerenti la conservazione del patrimonio sociale, che tali inadempimenti sono dovuti a dolo o colpa (e la violazione di specifiche prescrizioni poste dalla legge a carico degli amministratori e dei sindaci funzionali alla tutela del patrimonio e della sua integrità integra di per sé sola gli estremi della colpa cd. specifica) e che essi hanno provocato l’insufficienza del patrimonio sociale al soddisfacimento dei crediti sociali.

Ciò posto, in via preliminare, va respinta l’eccezione di prescrizione dell’azione sociale.

Al riguardo va sottolineato, come efficacemente dedotto dalla difesa della curatela, che, nella specie, la continuazione dell’attività gestoria in capo al M. con funzioni e qualifica di liquidatore della società, senza soluzione di continuità tra l’attività di amministratore e quella di liquidatore, consenta di rinvenire la medesima ratio che è alla base della disciplina della sospensione della prescrizione finché l’amministratore resta in carica (art. 1941 n. 7) c.c., di guisa che il termine di prescrizione dell’azione de qua deve ritenersi sospeso fino alla cessazione da parte del M. della carica di liquidatore avvenuta all’atto della dichiarazione di fallimento (ottobre 2004).

In generale va, difatti, osservato che le cause di sospensione della prescrizione consistono in talune circostanze, specificate dal legislatore, che ostacolano o rendono difficile l’esercizio del diritto e giustificano, quindi, l’inerzia del titolare del diritto.

Esse sono poi divise in due categorie a seconda che siano costituite da una speciale relazione giuridica esistente tra il titolare del diritto ed il soggetto passivo o da una condizione particolare del titolare del diritto.

Nella prima categoria è contemplata la causa di sospensione prevista dalla norma dell’art. 2941 c.c. n. 7 che è giustificata, come evidenziato dalla Corte Cost. nella sentenza 322/98, con la quale è stata dichiarata l’inco­stitu­zio­nalità dell’art. 2941 n. 7 nella parte in cui non prevede che la prescrizione rimane sospesa tra la società in accomandita semplice ed i suoi amministratori per le azioni di responsabilità contro costoro finché sono in carica, richiamata dalla difesa di parte attrice, dalla circostanza che la permanenza in carica degli amministratori viene di fatto ad ostacolare la possibilità in capo alla persona giuridica, di acquisire una piena conoscenza del loro operato e, conseguentemente, di valutare se gli amministratori siano incorsi in violazioni dei loro obblighi rilevanti per l’esercizio dell’azione di responsabilità.

Altra ratio della norma in esame è poi quella che scaturisce dall’identità che si verrebbe a determinare nell’eser­ci­zio dell’azione di responsabilità tra attore e convenuto riunendosi in capo ad essi, se dovessero agire gli amministratori contro se stessi, la duplice qualità di attori e convenuti.

Tale essendo la ratio della sospensione del termine di prescrizione dell’azione sociale di responsabilità, nella possibile duplice accezione indicata, deve ritenersi che la per­manenza in carica senza soluzione di continuità della medesima persona fisica, prima in qualità di amministratore e poi di liquidatore della società, giustifichi la sospensione della prescrizione fino alla cessazione di quest’ultima carica per l’evidente motivo che, essendo il liquidatore legittimato ad agire in responsabilità nei confronti dei precedenti amministratori, la riunione in capo al medesimo soggetto della duplice qualità di attore e convenuto nell’ipotetica azione di responsabilità, rende senz’altro configurabile nella presente fattispecie, la ratio della sospensione della prescrizione.

E la norma codicistica che disciplina la sospensione della prescrizione trova applicazione in virtù di un’interpre­ta­zio­ne estensiva della norma medesima ricorrendo nella fattispecie per l’appunto la medesima ratio, e non in virtù di un’applicazione analogica (analogia legis) che presuppone un vuoto di normativa che con tale criterio viene colmato, essendo il ricorso all’analogia legis impedito dalla pacifica natura di disposizione di carattere eccezionale della norma in questione.

Va, altresì, disattesa l’eccezione di prescrizione dell’azio­ne dei creditori sociali parimenti proposta dal curatore ai sensi dell’art. 14 l.f. e 2394 c.c.

Ai sensi di tale ultima norma, secondo comma, “l’azione può essere proposta dai creditori quando il patrimonio sociale risulta insufficiente al soddisfacimento dei loro crediti”.

È pacifica l’affermazione della Suprema Corte secondo cui l’azione di responsabilità dei creditori sociali nei confronti degli amministratori di società è soggetta a prescrizione quinquennale decorrente dal momento in cui i creditori sono oggettivamente in grado di venire a conoscenza dell’in­sufficienza del patrimonio sociale ai fini della soddisfazione dei loro crediti; tale incapienza, consistente nel­l’ec­cedenza delle passività sulle attività non corrisponde alla perdita integrale del capitale sociale, che può verificarsi anche in presenza di un pareggio tra attivo e passivo, né allo stato di insolvenza di cui all’art. 5 l.f. trattandosi di una condizione di squilibrio patrimoniale più grave e definitiva, la cui emersione non coincide necessariamente con la dichiarazione di fallimento potendo essere anteriore o posteriore.

Tuttavia l’onere di provare che l’insufficienza del patrimonio sociale si è manifestata ed è divenuta conoscibile prima della dichiarazione di fallimento, spetta al soggetto amministratore convenuto (cfr. Cas. 9619/09).

Secondo il M. il momento in cui tale insufficienza risulta conosciuta o comunque sia conoscibile ai creditori sarebbe costituito dal deposito dei bilanci a partire dal 1990 fino al 2003 o comunque dalle procedure esecutive intraprese dai creditori nella seconda metà degli anni novanta, circostanze che avrebbero reso percepibile ai creditori sociali, l’insufficienza del patrimonio della società.

Gli istituti bancari erogatori dei mutui, quindi, secondo l’assunto del convenuto, che erano i principali creditori della società fallita rimasta inadempiente ai propri obblighi restitutori per diverse centinaia di milioni di lire, già nel periodo giugno-agosto del 1993, bloccarono i fidi concessi in precedenza alla società iniziando una serie di procedure esecutive e proponendo diversi ricorsi di fallimento; per cui, da tale momento, anteriore alla messa in liquidazione della società e alla dichiarazione di fallimento, dovrebbe ritenersi decorrente il termine di prescrizione quinquennale, con conseguente prescrizione dell’azione de qua alla data della notifica dell’atto di citazione.

A tali argomentazioni il convenuto ha aggiunto le conclusioni cui è pervenuto il CTU nominato nel corso del presente giudizio secondo cui “i creditori sociali potevano verificare dai bilanci formalmente depositati ex art. 2435 c.c., che è solo nell’esercizio chiuso al 31/12/00 che il patrimonio netto di bilancio scende al limite del valore minimo del capitale sociale”; da qui l’affermazione della oggettiva conoscibilità da tale data da parte dei creditori dell’insufficienza patrimoniale della società fallita e conseguente decorrenza del termine di prescrizione quinquennale.

L’assunto è infondato.

Sicuramente va riconosciuto che il bilancio ha natura pubblica e che, a seguito del deposito, consente ai terzi di conoscere la consistenza patrimoniale della società; indubbia è la sua opponibilità erga omnes e la capacità di operatori, anche non particolarmente qualificati, di leggerlo adeguatamente e comunque di evincerne uno sbilancio nel patrimonio netto.

Costituisce, però, opinione costante in giurisprudenza (cfr. Cass. 25/7/08 n. 20476 recentemente ribadita da Cass. n. 9619/09 cit.), quella secondo cui, per verificare il momento di esteriorizzazione dell’insufficienza patrimoniale, che è una condizione più grave e definitiva della mera insolvenza comunemente individuata nella eccedenza delle passività sulle attività, ovverosia in una situazione in cui l’attivo sociale, raffrontato ai debiti della società, è insufficiente al loro soddisfacimento, in epoca antecedente al fallimento, non è sufficiente un bilancio di esercizio che segnali una situazione patrimoniale in negativo.

Si afferma, infatti, che quest’ultima evenienza può verificarsi anche quando vi è un pareggio tra attivo e passivo e, quindi, tutti i creditori potrebbero trovare di che soddisfarsi nel patrimonio della società.

Nella specie, dal bilancio relativo al 2000, pur emergendo una perdita di esercizio tale da azzerare il capitale sociale, ai sensi dell’art. 2447 c.c., si evince un patrimonio netto positivo, benché non correttamente determinato dall’amministratore, pari a lire 9.438.370 ottenuto dalla differenza degli elementi attivi costituiti dal capitale sociale, riserve ed utili conseguiti in attesa di destinazione meno le perdite di esercizio.

Inoltre ha affermato la Corte Suprema che l’insufficienza patrimoniale costituisce una situazione oggettivamente conoscibile che si verifica, oltre che in ipotesi di infruttuosa esecuzione da parte di tutti i creditori e di proposte di concordato giudiziale e stragiudiziale remissorio, anche con riferimento alle risultanze del bilancio finale di liquidazione e del bilancio di esercizio quando non vi siano poste suscettibili di sottovalutazione (cfr. Cass. 5/7702 n. 9815), fattispecie non verificatesi, né dedotte nella specie.

Ancora, l’infruttuosa esecuzione effettuata da una parte dei creditori, le banche erogatrici dei mutui indicati, che non rappresentano l’universalità e la totalità dei creditori, non consente di ritenere configurata la conoscibilità dell’insuf­fi­cienza patrimoniale da parte di tutti i creditori come affermato dalla giurisprudenza di legittimità, proprio perché essa non assurge ad elemento noto, univoco ed oggettivo da cui poter inferire la conoscenza dell’in­suffi­cien­za patrimoniale e l’esercizio dell’azione ex art. 2394 c.c.

Nel merito, in linea generale, va premesso che il grado di diligenza cui l’amministratore deve attenersi è quello che spetta al buon padre di famiglia, fissato specificamente in tema di mandato dall’art. 1710 c.c., ma previsto dall’art. 1176 c.c. quale parametro di valutazione dell’adempi­men­to delle obbligazioni in genere.

Si tratta, naturalmente, dell’impegno gestorio che si può richiedere non allo specifico amministratore considerato, avendo riguardo allo sue precipue qualità personali (diligenza soggettiva), ma ad un uomo di media capacità ed avvedutezza (diligenza oggettiva).

In realtà, la dottrina, argomentando dall’art. 1176, com­ma 2° c.c. (che nell’adempimento delle obbligazioni inerenti all’esercizio di una attività professionale prevede in generale che la diligenza debba valutarsi con riguardo alla “natura dell’attività esercitata”), ha sostenuto che, a ben vedere, quando l’esecuzione della prestazione richieda particolari conoscenze tecniche, come appunto nel caso dell’amministratore di società, l’astratto ed oggettivo modello di comportamento cui il debitore deve attenersi è, più precisamente, quello identificabile alla luce della “natura del rapporto” e delle “circostanze che concorrono a determinarlo” (come indicato nella relazione ministeriale), e cioè, nel caso dell’amministratore di società, nella più gravosa e qualificata diligenza che si può pretendere da un medio accorto gestore di patrimonio altrui, avendo riguardo, naturalmente, a tutte le circostanze del singolo caso, quali, ad es., il tipo di società amministrata, le sue dimensioni, il settore di attività interessato, le possibilità finanziarie della società, l’importanza e le condizioni della singola operazione, il tempo a disposizione, il compenso previsto (arg. ex art. 1710, comma 1°, ult. parte, c.c.), ecc.

In tal senso si è posta la riforma del diritto societario che, modificando la norma dell’art. 2392, comma 1°, ha superato il riferimento alla figura del mandatario, richiedendo espressamente che l’amministratore adempia ai suoi obblighi con la diligenza richiesta dalla “natura dell’incarico” e dalle loro “specifiche competenze”.

Il legislatore ha così confermato che la diligenza richiesta all’amministratore di una società (di capitali o cooperativa) deve essere determinata in base alla natura dell’incarico, nel senso che questi deve attenersi alla diligenza tipica della persona preposta al compimento degli atti materiali e dei negozi giuridici che normalmente rientrano nella gestione di un’azienda commerciale, salva la più elevata diligenza che può richiedersi per la specifica competenza di chi ricopre la carica di amministratore, per cui il curriculum, con le relative esperienze professionali e formative, integra la misura della diligenza richiesta, ma solo nel senso di aumentarne il rigore.

Resta, invece, confermato il principio secondo cui la diligenza richiesta all’amministratore non comprende la perizia, intesa quale specifica conoscenza tecnica di tutti i campi nei quali il curatore ha l’onere di dimostrare che la violazione giuridica imputata agli amministratori (ed ai sindaci) della società fallita abbia provocato al patrimonio della società un danno, quanto meno in termini di insufficienza dello stesso a soddisfare in modo completo i creditori sociali.

Né le cose sono cambiate a seguito della riforma del diritto societario, entrata in vigore l’1/1/2004 ed, in via definitiva, e cioè prevalendo sulle norme statutarie eventualmente difformi, l’1/10/2004.

Per le società per azioni rimane, quindi,

  • confermata, nella sostanza, la disciplina previgente in ordine alle azioni di responsabilità degli amministratori (ivi compresi i doveri di vigilanza e di intervento operoso: artt. 2381, comma 3° e ss. e 2392, comma 2°, c.c.) e dei sindaci (ivi compresa la responsabilità concorrente) verso la società (art. 2392-2393 e 2407, comma 2° e 3°, c.c.) e verso i creditori sociali (artt. 2394 e 2407, comma 2° e 3°, c.c.);
  • confermato che le azioni previste dagli artt. 2392, 2393, 2394 e 2407, comma 2° c.c., in caso di fallimento della società, sono esercitate dal curatore (artt. 2394 bis e 2407, comma 3°, c.c.).

Ne consegue che è del tutto irrilevante il momento in cui i fatti che ne costituiscono il fondamento sono stati commessi, se prima o dopo l’1/1/2004, così come è irrilevante che tali fatti siano stati dedotti in giudizio prima ovvero dopo la predetta data, che ha segnato l’entrata in vigore del d.lgs. n. 6/2003: piuttosto, il momento in cui fatti sono stati commessi rileva al fine di individuare la sola disciplina sostanziale in vigore cui ricondurli, onde verificarne il rispetto ovvero, al contrario, la violazione, con i connessi diritti risarcitori.

Doveri della cui violazione l’amministratore può essere chiamato a rispondere possono poi essere previsti dalla legge o dallo statuto sociale così come affermato dall’art. 2392 c.c.

Tra i principali obblighi specificamente individuati vanno ricordati quelli di carattere fiscale e previdenziale, gli obblighi di informazione, ed eventualmente di astensione, imposti dall’art. 2391 c.c. all’amministratore che sia portatore di un interesse proprio o di terzi in operazioni della società, l’obbligo di convocare senza indugio l’assemblea in presenza di gravi perdite di capitale ipotizzate dagli artt. 2446 o 2447 c.c., l’obbligo di accertare prontamente il verificarsi di una causa di scioglimento, per procedere al­l’adempimento delle prescrizioni indicate dal terzo comma dell’art. 2484 c.c., astenendosi poi da attività non meramente conservative del patrimonio sociale come indicato dai successivi artt. 2485 e 2486 c.c. ed altri.

Accanto, poi, a tali doveri tipizzati dal legislatore, esiste una vasta gamma di doveri non predeterminati al cui rispetto l’amministratore è tenuto per il fatto stesso di essere colui al quale è affidata la gestione dell’impresa, obblighi la cui violazione può assumere un contenuto omissivo o commissivo.

Sinteticamente può affermarsi che in capo all’ammini­stratore sussiste un dovere di diligenza cui è strettamente connesso il dovere di operare nell’esclusivo interesse della società amministrata.

Ovviamente la verifica del grado di diligenza tenuto dall’amministratore nell’adempimento di propri doveri non può sconfinare in un sindacato di merito sull’opportunità delle scelte gestionali che al giudice non è consentito svolgere (cfr. per tutte Cass. 3768/78).

La responsabilità giuridica dell’amministratore può, pertanto, essere affermata solo qualora le modalità di agire evidenzino la mancata adozione delle cautele o la non osservanza di criteri di comportamento che il dovere di diligente gestione ragionevolmente impongono, secondo il metro della normale professionalità, a colui che è preposto ad un tal genere di impresa.

Ed appunto la mancata adozione di quelle cautele o il mancato rispetto di quei canoni che assumono rilevanza in termini di inesatto adempimento dell’obbligazione gravante sul gestore.

Concludendo sul punto, pertanto, ai fini dell’eventuale responsabilità dell’amministratore, non rileva tanto ciò che egli fa e non assume rilevanza il grado di rischio, quanto il modo in cui lo fa assumendo una determinata iniziativa che può causare la responsabilità allorquando non sia stata preceduta dall’adozione delle verifiche preventive occorrenti per valutare il rischio connesso alla iniziativa.

Sempre in via generale va osservato che la contestazione della curatela relativa alla mancata rilevazione della causa di scioglimento da parte dell’amministratore, la mancata convocazione dell’assemblea ex art. 2447 c.c. e la continuazione dell’attività imprenditoriale con risultati dannosi per il patrimonio sociale si riferisce ad esercizi sociali anteriori al 2004 con applicazione della disciplina ante riforma.

In essa era previsto l’espresso divieto per gli amministratori di compiere nuove operazioni non appena si fosse verificata una causa di scioglimento, con l’ulteriore precisazione che, contravvenendo a tale divieto, l’amministratore avrebbe assunto una responsabilità illimitata e solidale per gli affari intrapresi (art. 2449 comma 1 previgente).

La perdita di oltre un terzo del capitale sociale, quando ne conseguiva la riduzione di questo al di sotto del minimo legale, provocando lo scioglimento ipso iure della società, a meno che non fossero tempestivamente adottati i provvedimenti di cui al citato art. 2447 c.c., determinava quindi, il sorgere del divieto suddetto ed, in caso di contravvenzione ad esso, della conseguente assunzione di responsabilità da parte dell’amministratore.

La rilevazione della causa di scioglimento, nella specie, perdita del capitale sociale al di sotto del minimo legale, ovviamente è collegato al modo della registrazione contabile e della esteriore manifestazione di detta perdita ed è quindi, non di rado, intrecciato con l’eventuale scorretta tenuta della contabilità da parte dello stesso amministratore, del ritardo con cui egli abbia eventualmente adempiuto l’obbligo di convocare senza indugio l’assemblea e della veridicità delle appostazioni del bilancio o della situazione patrimoniale presentata ai soci.

Prima della riforma la giurisprudenza era quasi univoca nel ritenere che per “nuove operazioni”, il cui compimento era vietato per gli amministratori a seguito della verificazione della causa di scioglimento, dovessero intendersi, secondo un criterio aziendalistico, non tanto quelle operazioni che esorbitassero dai limiti della mera continuazione di ciò che era stato già specificamente avviato in precedenza, quanto piuttosto nel nuovo rischio di impresa ad essa inerente.

La novità, in sostanza, consisteva nell’incompatibilità tra l’assunzione di siffatto nuovo rischio e lo stato di scioglimento in cui al società versava.

Si era finito, quindi, con il ritenere che “nuove operazioni” erano solo quelle che non potevano dirsi funzionali alla liquidazione del patrimonio sociale (cfr. ex plurimis Cass. 3694/07).

La responsabilità degli amministratori, poi, come ogni altra forma di responsabilità, postula non solo l’esistenza di un comportamento illegittimo dell’agente, ma anche che siano individuabili un danno ed un preciso nesso di causalità tra il danno stesso e quel comportamento, proprio perché danno e nesso di causalità sono elementi costitutivi della responsabilità, elementi da provare da colui che agisca in responsabilità.

Ciò premesso va osservato che dalla c.t.u. espletata nel corso del presente giudizio – alla quale è stata rimessa: 1) la determinazione del valore del ramo di azienda oggetto del contratto di affitto del 2/7/93 con la T.D. s.a.s.; 2) l’indicazione precisa del momento in cui si sono verificate le perdite di esercizio che hanno ridotto il capitale sociale al di sotto del minimo legale; 3) la determi­na­zione delle attività poste in essere dall’amministratore dal momento del verificarsi della causa di scioglimento – de­vono ritenersi fondate le contestazioni della curatela all’operato dell’amministratore convenuto.

Con riferimento alla determinazione del momento in cui si sono verificate le perdite di esercizio che hanno ridotto il capitale sociale al di sotto del minimo legale, il c.t.u., dr. S.E., ha sostanzialmente affermato che, formalmente, i bilanci relativi agli esercizi sociali 1992 e seguenti fino al 2000, sono state indicate perdite di esercizio inferiori a quelle effettive maturate e, quindi, non in grado di erodere il capitale sociale grazie alle riserve formalmente appostate in bilancio; nel corso delle assemblee nelle quali si procedeva all’approvazione dei bilanci, poi, si deliberava di riportare a nuovo le perdite riservandosi di deliberare per la sua copertura e che l’operazione di copertura poi, per tutti i bilanci, era stata effettuata in maniera non formalmente corretta in quanto non supportata da un verbale di assemblea straordinaria.

Soltanto nell’esercizio chiuso al 31/12/00, ha accertato il c.t.u., il patrimonio netto di bilancio è sceso al limite del valore minimo del capitale sociale e, quindi, in presenza di una causa di scioglimento, l’assemblea dei soci aveva deliberato di approvare il bilancio, di riportare la perdita al nuovo esercizio e di convocare l’assemblea straordinaria al fine di provvedere ai sensi dell’art. 2447 c.c.; tali provvedimenti tuttavia non erano stati mai adottati.

Il c.t.u. ha quindi, proceduto ad un esame delle domande di ammissione al passivo e dei titoli giustificativi dei crediti, e ad effettuare un riscontro in contabilità e, quindi, a verificare la correttezza delle appostazioni in bilancio, pervenendo alla conclusione che a partire dal 1993, risulta di fatto un patrimonio netto ben diverso da quello formalmente comunicato ai creditori con i bilanci depositati e che la società aveva subito una perdita che aveva azzerato il capitale sociale.

In particolare ha accertato il consulente che i debiti scaduti e non iscritti in contabilità venivano riportati nel bilancio al 1993 sotto la voce “debito per finanziamento”, che nel bilancio al 1994 sarà incrementato fino a lire 750.229.000.

Tale debito, del quale il c.t.u. non ha rinvenuto alcun riscontro in contabilità né nei documenti contabili della società, veniva poi ridotto con gli incassi dei debiti della D. s.a.s., riscossi in seguito ad ordinanze di assegnazione del GE; la rilevazione poi dell’operazione, dal punto di vista economico, come ricavo di esercizio, aveva consentito l’emersione di una minore perdita.

Da qui la formale rappresentazione nei bilanci dal 1993 al 2000 di perdite di esercizio inferiori a quelle effettive e la conclusione che a partire dall’esercizio 1993 si era verificata una perdita che aveva azzerato il capitale sociale, pari a lire 284.010.755, mentre, invece, nel bilancio al 1993, era stato indicato il valore positivo di lire 9.438.370.

Pertanto pur dovendosi ritenere condivisibile l’assunto del convenuto secondo cui alcun rilievo poteva essergli mosso per la scelta del contraente I.S. s.r.l., poi D. s.r.l., perché noto imprenditore dell’isola di Ischia e per avere agito prontamente sia in sede di cognizione che di esecuzione per il recupero dei crediti, i relativi incassi non sono stati utilizzati per il pagamento dei debiti sociali ma o incassati “per cassa” senza prova della loro effettiva destinazione, o a deconto di un meglio precisato “debito finanziamento terzo”, con conseguente ulteriore depauperamento del patrimonio sociale.

Le operazioni successive alla perdita del capitale sociale accertate dal c.t.u. sono state: 1) la stipula dei due contratti di affitto di rami di azienda più volte citati; 2) la iscrizione in contabilità di un debito per finanziamento per lire 482.273.000 in data 19/11/93 e per lire 403.125.00 in data 31/12/194, rivelatosi poi corrispondente alla somma di debiti verso i creditori sociali che avevano intrapreso iniziative giudiziarie; 3) ricorso al finanziamento soci e di terzi finanziatori non precisati né individuabili provvedendo alla restituzione in presenza di debiti verso fornitori e di debiti verso il ceto bancario rimasti insoddisfatti; 4) acquisto attrezzature per lire 15.000.000.

Più in particolare il c.t.u. ha evidenziato che, nonostante l’incasso degli affitti, l’esposizione debitoria della società fallita è aumentata, con il mancato pagamento di tutti i carichi erariali, previdenziali, assistenziali e contributivi iscritti a ruolo ed ammessi al passivo, nonché i crediti verso il ceto bancario, aumentati nel corso degli anni per effetto dell’ad­debito trimestrale degli interessi, oneri bancari e CMS.

Risultano invece restituiti parte dei finanziamenti verso terzi e delle anticipazioni soci a cui la fallita aveva fatto ricorso con gli incassi dei fitti di azienda e con le somme coattivamente riscosse.

Quanto alla vicenda relativa alla stipula del contratto di affitto con la T.D. s.a.s. è emerso dalla c.t.u. che al fitto non seguiva la voltura delle utenze idriche, telefoniche e tarsu e che la società fallita non ribaltava il relativo costo alla conduttrice, né avveniva il trasferimento dei dipendenti ex art. 2112 c.c. il cui costo veniva sostenuto, anche dopo l’affitto, dalla società fallita.

I proventi dei rapporti contrattuali di fitto, ha continuato il c.t.u., come già si è detto, laddove non incassati per cassa venivano incassati o ad estinzione di un conto “clienti conto anticipi” o al conto di un “debito per “finanziamento terzo” del quale non sono emersi documenti giustificativi contabili o di altra natura tali da poter fornire contezza del rapporto sottostante.

Sempre dal 1993 in poi, allorquando la società già versava in una situazione di eccessivo squilibrio dell’indebita­mento rispetto al patrimonio netto è emerso che la società ha fatto ricorso al prestito dei soci e di un terzo finanziatore, come detto non identificato, la cui restituzione è avvenuta in violazione dell’art. 2467 stante la presenza di debiti verso creditori sociali insoddisfatti e successivamente ammessi al passivo.

Il c.t.u., rispondendo allo specifico quesito richiestogli, ha poi determinato il valore locativo del ramo aziendale affittato alla T.D. s.a.s. determinandolo in lire 65.326.174 a fronte di lire 18.000.000 stabiliti.

Peraltro, al minor valore dei canoni riscossi, va aggiunto il rilievo che essi non sono stati utilizzati per il pagamento dei debiti sociali ed, inoltre, l’operazione si è rivelata una scelta gestoria pregiudizievole agli interessi della società laddove essa ha continuato a sostenere alcuni rilevanti costi di esercizio del ramo aziendale benché fittato (utenze idriche, tarsu ecc.) in violazione non solo delle norme contrattuali codicistiche, ma anche delle più elementari norme di diligenza che connotano l’attività dell’amministratore.

Scelta gestoria che appare essere, quindi, improntata dal­l’evidente finalità di arrecare danno alla società fallita a vantaggio della società costituita dai figli dell’ammini­stra­tore.

Il c.t.u. ha, quindi, determinato il danno scaturito dalle operazioni indicate e commisurato all’aggravamento delle perdite sociali dal 1993 al fallimento in misura di € 1.190.354,84, pari al valore dei debiti ammessi al passivo di Equitalia, degli istituti bancari, MPS ed I. s.p.a. tutti risalenti ad epoca successiva al 1993, a cui va aggiunta la somma di € 464.396,65 pari alla differenza tra il canone locativo pattuito e versato dalla T.D. s.a.s. e quello equiparato al valore di mercato.

Quanto al danno ritiene il Tribunale che in presenza di una prova rigorosa delle nuove operazioni dannose per il patrimonio sociale, confermate dall’intervenuta ammissione al passivo di crediti sorti dal 1993 in poi, il danno possa essere quantificato nella misura accertata dal c.t.u. pari ad € 1.654.751,49 collegata alla commissione delle condotte suddette ed alai differenza del valore locativo pattuito e riscosso dalla T.D. s.a.s. e quello di mercato accertato dal c.t.u., in assenza di prova contraria da parte del convenuto.

Il convenuto va, quindi, condannato al risarcimento in favore della curatela della somma di € 1.654.751,49, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria fino al saldo trattandosi di debito di valore derivante da fatto illecito anche se il pregiudizio arrecato alla società sia costituito da perdite pecuniarie (cfr. Cass. 3483/98).

Per rigore di soccombenza esso va, altresì, condannato alla rifusione delle spese processuali sostenute dalla curatela che si liquidano in dispositivo, ivi comprese le spese di c.t.u., già liquidate nel corso del giudizio.

PQM

Il Tribunale, definitivamente pronunciando sulla domanda proposta dalla curatela del fallimento della E. s.r.l. nei confronti di M.A., così provvede:

  • accoglie la domanda e per l’effetto condanna il convenuto al pagamento, a titolo risarcitorio, in favore della curatela della somma di € 1.654.751,49 oltre interessi legali e rivalutazione monetaria sulle somme via via rivalutate;
  • condanna il convenuto al pagamento delle spese processuali sostenute dalla curatela che liquida in complessivi € 1.332,81 per spese, € 6.723.00 per diritti ed € 28.000,00 per onorario, oltre IVA e CPA come per legge e rimborso spese generali;
  • pone definitivamente a carico del convenuto le spese di c.t.u. come liquidate nel corso del giudizio.

Così deciso in Napoli il 29-5-12

SOMMARIO:

1. Il caso - 2. Brevi cenni sulla sospensione della prescrizione. La normativa di riferimento, la dottrina e la giurisprudenza - 3. Il commento - NOTE


1. Il caso

La sentenza in esame offre un interessante spunto di discussione in ordine alla possibilità di estendere l’operatività della causa di sospensione della prescrizione disciplinata dal numero 7) dell’art. 2941 c.c. all’ipotesi di permanenza in carica, senza soluzione di continuità, della medesima persona fisica, prima in qualità di amministratore e poi di liquidatore di una S.r.l. Nella vicenda sottoposta al tribunale partenopeo, il liquidatore, convenuto in giudizio ai sensi dell’art. 146 legge fall., aveva eccepito l’in­tervenuta prescrizione dell’azione sociale di responsabilità avendo l’amministratore esercitato le funzioni gestorie dal 1993 al 2001, anno in cui la società era poi stata posta in liquidazione fino alla data di fallimento del 2004. Sul presupposto della accertata continuata attività gestoria da parte del medesimo soggetto, prima come amministratore, ed immediatamente dopo come liquidatore della società, il tribunale di Napoli, rifuggendo da tentativi di applicazione analogica (analogia legis) della norma, inconciliabili con la natura eccezionale della stessa e, facendo leva su una interpretazione estensiva della ratio sottesa al numero 7 dell’art. 2941 c.c., è correttamente pervenuto ad escludere l’intervenuta prescrizione dell’azione ex art. 146 legge fall. A tale conclusione l’organo giudicante è giunto muovendo dalla decisiva constatazione secondo cui, essendo il liquidatore legittimato ad agire in responsabilità nei confronti dei precedenti amministratori, la riunione in capo al medesimo soggetto della duplice qualità di attore e convenuto nell’ipotetica azione di responsabilità, rende senz’altro configurabile la ratio della sospensione della prescrizione [1]. Per meglio comprendere il percorso logico ed argomentativo seguito dal Tribunale di Napoli, pare opportuna una breve disamina dell’istituto della sospensione della prescrizione, anche alla luce delle posizioni dottrinarie e giurisprudenziali maturate sul punto.


2. Brevi cenni sulla sospensione della prescrizione. La normativa di riferimento, la dottrina e la giurisprudenza

Come è noto la prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere ossia dal giorno in cui il diritto, pur essendo perfetto e suscettibile di essere esercitato, non è di fatto utilizzato dal suo titolare. L’effetto estintivo del diritto si ricollega, così, all’inerzia protratta per il tempo determinato dalla legge. Il decorso del tempo, tuttavia, può essere interrotto o sospeso. Le cause di interruzione si concretizzano in atti di esercizio del diritto che, annullando l’inerzia sino a quel momento verificatasi, producono l’effetto del decorso di un nuovo termine prescrizionale [2]. La sospensione, invece, realizza una pausa, una soluzione di continuità nel decorso del termine prescrizionale alla cessazione della quale il termine riprende a correre dal punto di progressione che aveva raggiunto al verificarsi della causa sospensiva [3]. La sospensione del corso del termine di prescrizione, tuttavia, non opera solo quando questo è già iniziato – operando come una parentesi di modo che il decorso del termine ad essa precedente venga a sommarsi con quello successivo – poiché essa può anche determinare un differimento della decorrenza del termine, tutte le volte in cui la sua causa sorga insieme con la possibilità di esercitare il diritto [4]. In altri termini, nell’ipotesi in cui la causa di sospensione sopraggiunga durante il decorso del termine, essa opera una soluzione di continuità nella decorrenza del periodo prescrizionale. Di conseguenza, per il computo del termine utile a prescrivere occorrerà congiungere, col periodo già decorso prima del sopraggiungere della causa sospensiva, l’altro, riprendente il corso dopo che la causa sospensiva sia cessata. Viceversa, nell’ipotesi in cui la causa di sospensione sussista già nel momento iniziale del decorso del termine, non si realizza quella soluzione di continuità, ma l’inizio della decorrenza della prescrizione risulta spostato al momento in cui viene a cessare la causa sospensiva [5]. In dottrina si tende a distinguere tra cause di sospensione che operano sin dal momento iniziale di decorrenza del termine prescrizionale, e cause semplicemente impeditive della prescrizione. La distinzione è possibile coglierla soprattutto sotto il profilo del fondamento e dei presupposti [continua ..]


3. Il commento

Tra le cause di sospensione che presuppongono una circostanza di fatto che pone il titolare del diritto in uno stato materiale o morale di impossibilità o comunque di grave difficoltà in ordine all’esercizio del diritto, rientra l’ipotesi prevista dal numero 7 dell’art. 2941 c.c. ove, per l’appunto, l’inerzia del titolare è da ritenersi tamquam non esset poiché giustificata da un impedimento riconosciuto valido dalla legge. Alla luce di tale segmento normativo, la prescrizione rimane sospesa «tra le persone giuridiche ed i loro amministratori, finché sono in carica, per le azioni di responsabilità contro di esse». Trattasi di una causa di sospensione a carattere unilaterale che opera esclusivamente a favore della persona giuridica e con riferimento all’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori. La fattispecie si distingue così da quella indicata al precedente numero 6 del medesimo articolo che regola il caso dell’amministrazione legale o giudiziale di beni altrui e che agisce, all’opposto, in senso bidirezionale, operando sia a favore dell’amministrante che del­l’amministrato. Inoltre, il numero 7 dell’articolo in commento presuppone un rapporto di natura volontaria tra amministratore ed ente personificato, laddove l’ipotesi contemplata nel numero 6 si fonda su una amministrazione rinveniente la propria genesi in una fonte legale o giudiziale [22]. La disposizione indicata al numero 7 dell’art. 2941 c.c. mira ad evitare che la permanenza in carica degli amministratori finisca col rappresentare un ostacolo alla possibilità in capo alla persona giuridica di essere edotta dell’operato degli amministratori con conseguente deficit cognitivo in ordine alla valutazione dei profili di responsabilità dei gestori. Si pone così l’esigenza di non pregiudicare il diritto della società ad agire nei confronti dei suoi gestori che, proprio in virtù della carica ricoperta, ben potrebbero occultare i fatti generatori della propria responsabilità, con conseguente successiva impossibilità di esercizio della relativa azione sociale in virtù del decorso del termine prescrizionale quinquennale [23]. Sotto altro profilo, la ratio della causa di sospensione ben può essere rintracciata nell’identità che si verrebbe a [continua ..]


NOTE